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"Il debito pubblico è il prodotto di secoli, ma il malefico “spread” di appena nove anni: la somma dei malgoverni berlusconiani", di Guido Carandini

Spesso per capire l’attualità occorre guardare parecchio indietro nella storia. E scoprire, per esempio, che risale al 1694 la nascita della Banca d’Inghilterra e, con essa, del primo sistema del “debito pubblico” che poneva il finanziamento dello Stato su una base più solida di quella precedente dei banchieri privati. La fiducia su cui si poté costruire allora il debito pubblico inglese era essenziale per i banchieri olandesi che lo finanziavano anche per approfittare dei più alti tassi di interesse pagati dalla Banca centrale inglese. Come vedete c’è poco di nuovo sotto il sole: gli Stati si sono indebitati da quando la spesa pubblica ha cominciato a superare gli introiti fiscali.
Ma per un paradosso dell’economia capitalista, studiato da pochi economisti (da noi, a mia conoscenza, solo da Paolo Leon) il passivo dei conti pubblici può accrescere il reddito nazionale (il Prodotto interno lordo) e, per questa via, trasformarsi in un attivo nei conti privati, per esempio aumentando simultaneamente i profitti delle imprese e i consumi dei loro dipendenti. E poiché dunque nel PIL, al contrario che nei bilanci delle imprese, profitti e salari si sommano ne consegue che se ( e soltanto se) il debito dello Stato aumenta ma di pari passo contribuisce ad accrescere con la spesa pubblica il PIL, la percentuale del primo sul secondo può rimanere contenuta. Ma se invece, a causa di una cattiva politica economica, il debito aumenta ma non il PIL, allora il rapporto debito/PIL può crescere a dismisura e con esso la sfiducia dei creditori nella solvibilità dello Stato. Cosicché tendono a disfarsi dei titoli che ha emesso o a pretendere, per acquistarli, tassi che possiamo chiamare usurari.
Il rapporto debito/PIL italiano, adesso del 120%, è uno dei più alti del mondo e quindi i “banchieri olandesi” del nostro tempo pretendono tassi di interesse molto elevati rispetto a quelli di altri Stati meno indebitati (lo “spread”) facendoci rischiare il fallimento. E siccome questo avviene a dispetto delle drastiche misure assunte dal nuovo governo Monti, la sua legittimità diventa dubbia per questa semplice domanda: ma allora che senso ha avuto disfarci di quello vecchio per quanto orribile fosse? La risposta è anch’essa semplice: perché sono i governi Berlusconi i principali responsabili di quel 120% . Questa volta basta andare indietro di soli venti anni e non di oltre tre secoli.
Quando nel 1991 Andreotti varò il suo ultimo governo il rapporto debito/PIL (d/P) era ancora al 98%. Con i successivi governi Amato e Ciampi il d/p cominciò a salire fino al 115% ma fu con il primo governo Berlusconi (1994-95) che raggiunse il livello patologico del 122%. Dal 1995 al 2001 con i governi Dini, Prodi, D’Alema e Amato vi fu un forte impegno che lo ridusse di ben sedici punti fino al 106 %. Il secondo governo Berlusconi 2001-2005 non proseguì quella politica di rigore e il d/P non scese ulteriormente. Anche col governo Prodi 2006-2008 si rimase a quel livello ma col terzo governo Berlusconi 2009-2011 si è fatto il salto decisivo di quattordici punti che ci ha portato alla situazione attuale: dal 106 % il d/P è salito al 120% soprattutto perché il tasso di variazione del PIL nel 2009 è precipitato al -5% (dati della Banca Mondiale). E la fiducia dei mercati è calata non solo registrando quel disastro, ma anche lo scandaloso comportamento privato del Premier e l’infimo livello del suo governo.
Ora è del tutto lecito dissentire dalla linea recessiva adottata finora dal governo Monti e dubitare che, di fronte a essa, i soliti “banchieri olandesi” si accontentino di tassi di interesse più moderati abbassando il maledetto spread. Gli economisti come Paul Krugman e Paolo Leon suggerirebbero una politica opposta a quella “austera” che piace alla grande finanza. Ma ci mancherà nel 2012 una “Banca d’Europa” che, come la “Banca d’Inghilterra” del 1694, abbia i poteri e goda della fiducia necessaria per farci superare la crisi iniettando nel sistema economico tutto il denaro necessario per ridargli fiato.

guidocarandini.blogspot.it

"Quattro su dieci vedono il 2012 più nero del 2011", di Ilvo Diamanti

Sull´orlo del 2012, gli italiani vorrebbero ritrarsi. Fermarsi sulla soglia. Ma l´anno lasciato alle spalle, carico di problemi insoluti, li spinge oltre. Il sondaggio di Demos li rappresenta così. Insoddisfatti e depressi per quel che è successo nel 2011. Inquieti e, anzi, impauriti da quel che li (ci) attende nell´anno che sta per iniziare. Le cifre, per quanto aride, a volte, parlano più delle parole. Nove persone su dieci (tra quelle intervistate) ritengono che nel 2011 l´economia italiana sia peggiorata. E quattro su dieci pensano che nel 2012 peggiorerà ancora. Quasi metà degli italiani valuta negativamente la situazione del proprio reddito nel 2011. Un terzo teme che, nel corso dell´anno prossimo, sia destinata a degradarsi ancora.
Appare generalizzata (quasi l´80%) anche l´insoddisfazione verso la politica italiana, infetta dalla mala pianta della corruzione. Che, secondo il 37% del campione, è destinata ad aggravarsi ulteriormente. Solo l´atteggiamento verso la sicurezza “personale” sembra più disteso. Soprattutto in prospettiva futura. Ma si tratta di una visione distorta, in quanto l´insicurezza economica oggi sovrasta la “paura” degli altri: immigrati e criminali, che, nella rappresentazione sociale, spesso, coincidono. Non si tratta di un sentimento nuovo. È da qualche anno, infatti, che il lavoro, il mercato, l´economia oscurano l´orizzonte emotivo degli italiani, mettendo in secondo piano gli altri problemi. Tuttavia, quest´anno il pessimismo ha superato, per intensità, ogni livello raggiunto in precedenza. Basti considerare la differenza tra le attese positive e negative nei confronti del 2012. Il segno meno prevale in tutti i campi, ad esclusione – di nuovo – della sicurezza personale e, inoltre della lotta all´evasione fiscale (un segno di fiducia nel nuovo quadro politico). Anche la qualità della televisione, secondo gli italiani intervistati da Demos, migliorerà, seppur di poco. D´altra parte, peggio di quel che si è visto negli ultimi anni…
Il pessimismo risulta, invece, particolarmente elevato riguardo all´economia nazionale e al reddito personale. E, inoltre, alla politica. Nel complesso, solo un quarto degli italiani “immagina” un 2012 migliore dell´anno – orribile – ormai finito. E´ un segno che ormai resta poco spazio anche per l´”immaginazione”.
La distribuzione di questi orientamenti nella popolazione non presenta particolari differenze. Il pessimismo contamina un po´ tutti gli strati sociali, senza distinzioni di età, ceto, professione, territorio. In qualche misura, si tratta di un riflesso della svolta politica del 2011. Segnato dalle dimissioni di Silvio Berlusconi. L´Uomo dell´Ottimismo-a-ogni-costo. Colui che aveva negato, fino all´estate scorsa, la crisi. Al tempo di Berlusconi, il Pessimismo era considerato un´ideologia eversiva, sinonimo – e anche peggio – del Comunismo. Perché le attese non contribuiscono solo ad accelerare il corso degli eventi, a tradurre le aspettative in fatti. Ma, nella visione del Cavaliere, le immagini coincidono con la realtà. Si sovrappongono ad essa. Tanto più se fra i due piani c´è coerenza. Se, cioè, le paure sono giustificate e provocate dalla realtà. Dalla crisi.
L´irruzione del Pessimismo ha, quindi, delegittimato Silvio Berlusconi e il suo governo, sottraendo loro spazio e credibilità. Assai più dell´azione esercitata dalle forze politiche di opposizione. Ma anche più della pressione dei mercati. Gli indici di borsa (per primo il famigerato Spread) e le stime delle agenzie di rating, semmai, hanno fornito alle nostre paure una simbologia – oscura la sua parte, come ogni rituale. Hanno, quindi, contribuito ad alimentare un´inquietudine tanto più acuta perché scandita da “misure” in-comprensibili. Ma si sa: quel che è misurabile esiste. “È”. Per cui venire declassati, perdere la tripla o la doppia A, anche se non si capisce cosa significhi, sconcerta e disorienta. E, quindi, opprime di più.
Anche per questo, nonostante tutto, in mezzo a tanto pessimismo, Mario Monti mantiene uno spazio di “fiducia”, altrimenti poco comprensibile. È difficile, infatti, far coesistere nella stessa popolazione due opinioni tanto distanti fra loro. Da un lato, la convinzione che l´economia nazionale e il reddito delle famiglie peggioreranno. Dall´altro, la fiducia il governo Monti ci condurrà oltre la crisi. È ciò che pensano i due terzi degli italiani. Certi che il governo tecnico ci guiderà al di là delle nebbie, fino a un porto sicuro. Proprio perché è un “tecnico”. Sa parlare ai mercati, in tempi di dominio dei mercati. Sa parlare ai tedeschi, in un´Europa governata dai tedeschi. Gli italiani si fidano di Monti perché non finge di essere “uno di noi”. “Come noi”. D´altronde, non lo è neppure Berlusconi, autonominatosi narratore di “una storia italiana” esemplare. Figurarsi: con tutti quei soldi, quegli interessi, quelle ville. Con tutte quelle donne e donnine. Semmai, poteva raffigurare gli istinti e i desideri più o meno confessati da molti italiani nell´era dell´opulenza. Prima che il Pessimismo si abbattesse sul Paese. Mario Monti e i suoi ministri “tecnici”, invece, non somigliano all´italiano “medio”. Non tentano di imitarlo. E gli italiani non chiedono loro di trasformare i sogni in realtà. Ma più semplicemente: di “parlare ai mercati”. Di costringerci a fare ciò che i politici – troppo simili a noi, troppo dipendenti dal nostro “consenso” – non sono in grado di imporci. Monti e i governo tecnico: sono popolari proprio perché im-popolari. Rappresentano un´èlite diversa e distante dal “popolo”. D´altronde, nel 2012 ci attende un percorso difficile, attraverso la crisi economica e politica, senza mappe e senza bussole in grado di orientarci. Senza stazioni e senza destinazioni certe. D´altronde, è finita l´epoca della fiducia nel futuro. Nello sviluppo senza limiti trascinato dal mercato. Ed è finita l´epoca del Grande Imprenditore, ma anche del Politico. Neppure i Magistrati, i Garanti della Virtù – Pubblica e Privata – emozionano più. Per sfidare il pessimismo che avvolge il 2012 ci si affida, invece, ai Tecnici. Con poco entusiasmo. Con un sentimento di fiducia “obbligata”. Per necessità più che per scelta. Lo spirito con cui si va dal medico quando si sta male.
Ai Tecnici che parlano il linguaggio dei fatti, tuttavia, gli italiani chiederanno i fatti. Fra un po´. Perché, in tempi di emergenza, l´Ottimismo-a-prescindere può attendere. E, anzi, va messo da parte, insieme ai suoi ideologi. Ma se perdurasse il Pessimismo “realista” (e del suo reciproco: il “Realismo” pessimista), allora neppure i Tecnici potrebbero sopravvivere a lungo.

La Repubblica 31.21.11

"L’autunno d’oro della fisica italiana", di Pietro Greco

Le scoperte sulla velocità dei neutrini e la particella di Dio hanno visto i nostri studiosi in prima fila. I neutrini corrono più veloci della luce. Preceduta dal lancio di agenzia della Reuters che ha rotto l’embargo, la notizia appare sul sito arXiv.org, della Cornell University Library, in piena notte, nelle primissime ore del 23 settembre scorso. Ed è poi illustrata l’indomani in un seminario aperto al pubblico presso il Cern di Ginevra. È una notizia del tutto inattesa. Fosse confermata, sarebbe probabilmente la scoperta più importante in fisica dell’ultimo secolo e forse più.
Passano meno di due mesi e il 13 dicembre, sempre al Cern di Ginevra, viene annunciata il rilevamento di una serie importante di indizi che lasciano pensare che Lhc, la macchina più grande e potente mai realizzata dall’uomo, abbia scovato «il bosone di Higgs», la cossidetta particella di Dio, quella mancante che fa tornare i conti del Modello Standard delle alte energie, ovvero del modello con cui i fisici descrivono l’universo nella sua dimensione più piccola. Fosse confermata, sarebbe una scoperta da premio Nobel.
Quello del 2011 è stato, senza dubbio, l’autunno d’oro della fisica. Sono queste le due notizie scientifiche infatti che, nel corso del 2011, hanno titillato di più il nostro immaginario e che hanno avuto maggiore riflesso sui media di tutto il mondo. In termini tecnici si tratta di «quasi notizie», perché vanno entrambe confermate (lo saranno, probabilmente, nel corso del 2012). Ma, attenzione, non si tratta di «fattoidi», ovvero di invenzioni mediatiche, perché la sostanza c’è. Eccome.
La collaborazione Opera ha raccolto dati per tre anni prima di dare l’annuncio. I dati dicono che nel percorrere il tragitto di 730 chilometri tra il Cern di Ginevra e i Laboratori Nazionali del Gran Sasso (Lngs), attraversando la roccia senza essere fermati e neppure rallentati, i neutrini impiegano 60 nanosecondi meno di quanto impiega la luce a percorrere nel vuoto la medesima distanza. Nessuno, dal 23 settembre a oggi, ha trovato un difetto nell’elaborazione di questi dati. Anzi, il gruppo Opera li ha confermati con misure di tipo diverso. Ma, prima di dare per certa la novità, è giusto attendere almeno una verifica indipendente.
Allo stesso modo, i responsabili degli esperimenti Atlas e Cms hanno ottenuto dati che dicono che al 99,7% gli indizi rilevati in un intervallo di energia compreso tra 116 e 130 GeV indicano la presenza del «bosone di Higgs». Ma i fisici vogliono una probabilità non inferiore al 99.99994% prima di parlare di relativa certezza sperimentale. Per cui occorrerà attendere qualche mese e la raccolta di nuovi dati.
Dunque siamo in presenza di dati molto seri, anche se non definitivi, che hanno dimostrato – dopo anni di relativa calma – che qualcosa si muove nel mare della fisica. Nel caso del bosone, questo qualcosa che stabilizza un quadro, quello del Modello Standard delle alte energie. Nel caso dei neutrini superluminali, invece, genera «nuova fisica», ovvero spalanca la finestra su mondo imprevisto. Nel primo caso si conferma la potenza delle previsioni della teoria. Nel secondo caso si conferma la necessità di andare oltre le teorie consolidate.
Tuttavia queste due «quasi notizie» ci danno una certezza. Gli italiani sono al top della fisica mondiale. Gareggiano (in realtà, collaborano) da pari a pari con i migliori colleghi di tutto il mondo. E spesso primeggiano. E, infatti, leader dell’esperimento Opera, che coinvolge oltre 160 scienziati di tutto il mondo, è un italiano, Antonio Ereditato. Leader dell’esperimento Atlas e dell’esperimento Cms, ciascuno dei quali raduna centinaia di fisici di tutto il mondo, sono due italiani: rispettivamente Fabiola Gianotti e Guido Tonelli. Non sono i soli, per la verità: su sei esperimenti principali condotti su Lhc, ben cinque sono realizzati da gruppi guidati da italiani. D’altra parte pur essendo l’Italia al dodicesimo posto nel mondo per investimenti in ricerca, i fisici italiani delle alte energie sono terzi (dopo i colleghi di Usa e Germania) per produzione di articoli e per numero di citazioni.
Non c’è dubbio, dunque, non solo quello del 2011 è stato l’autunno d’oro della fisica. Ma è stato anche e soprattutto l’autunno della fisica italiana. Pochi se ne sono accorti. Ma in questi ultimi tre mesi i fisici italiani hanno dimostrato, con i fatti, di essere tra i più bravi del pianeta e hanno restituito al mondo un’immagine positiva del nostro Paese proprio mentre il mondo o rideva dell’Italia (letteralmente, ricordate il siparietto tra la Merkel e Sarkozy?) o tremava (causa collasso finanziario) a causa dell’Italia.
In questo autunno, dunque, la fisica è stata una sorta di ricostituente per il nostro Paese. Ha dimostrato al mondo che il nostro Paese può lavorare, con serietà ed efficienza, con gli altri e spesso meglio degli altri alla frontiera della conoscenza. E ha dimostrato a noi stessi che, se lavoriamo con serietà ed efficienza, ce la possiamo fare. Già a partire dall’anno che verrà, il 2012.

L’Unità 31.12.11

"Un giorno davanti alla scuola", di Francesco Piccolo

Per l’Istat entro 50 anni gli stranieri saranno un quarto della popolazione.
In classe è già tutto chiaro. Sono una fortuna che arriva dal mare e noi respingiamo. Nel 2065 gli immigrati saranno il 25% così ci dice lo studio demografico dell’Istat. Ogni lettore che ha incamerato questa notizia, sembra si debba chiedere: È una notizia buona? È una notizia cattiva? Sembra che in sintonia con il suo grado di civiltà, ognuno sappia darsi una risposta. E invece sono le domande che non funzionano, a prescindere dalla risposta. Siamo dovremmo essere più avanti. Anzi: siamo più avanti, senza saperlo ancora bene (o averlo accettato). Non sto parlando della politica dell’immigrazione: in quella siamo indietro anni luce ma non c’è da scandalizzarsi troppo: la politica dell’immigrazione è immobile e vetusta come la quasi totalità delle scelte politiche italiane. Ma guardiamo un po’ alla realtà: le nostre scuole sono il luogo giusto per guardare al futuro che è già presente, per comprendere che ciò che costituisce una delle grandi questioni in Europa negli ultimi decenni, in realtà è già un dato di fatto. Basta mettersi davanti all’uscita, e si assiste all’integrazione già avvenuta. Se poi l’integrazione è fatta anche di insulti, prese in giro, e razzismi sotterranei, questo fa parte del cammino. Pian piano, diminuiranno. Gli insulti tra compagni di scuola, se sei basso o hai l’accento diverso o hai i brufoli o la pella nera o vestiti fuori moda, ci stanno. Sono errori, ma ci stanno. Fanno parte della spietatezza dei bambini e degli adolescenti che però attraverso quella spietatezza imparano ad accettare il mondo. Imparano la diversità individuale attraverso il conformismo, imparano ad accettare gli altri (e se stessi) attraverso un pregiudizio facile ma il pregiudizio facile è facile anche da disinnescare. Quindi, il risultato concreto della realtà italiana è quello solito: la politica dell’immigrazione deve inseguire un avvenimento già costitutivo e la speranza è che non sia ancora così nel 2065, quando un cittadino su quattro sarà straniero, e le leggi lo penalizzeranno ancora. La politica dell’immigrazione tenterà ancora di respingere il dato acquisito, la convivenza già in atto, la partecipazione economica e sociale di chi non è nato qui? In più, c’è la questione ancora più evidente di chi è nato qui ma non è considerato italiano: perfino il Presidente della Repubblica è dovuto intervenire per esasperazione, contro l’illogicità dei fatti. Ma l’illogicità dei fatti racconta allo stesso tempo la distanza tra la teoria e la realtà dell’immigrazione in questo paese.
Da una parte, quindi, l’immigrazione è un avvenimento in fase di continua evoluzione, certo, ma nella sostanza già digerito dal sistema, grazie alle seconde e alle terze generazioni. Da un’altra parte, la storia insegna che ciò che sta avvenendo in Europa in questi anni è sempre avvenuto, riguarda gli italiani direttamente sia quando accolgono sia quando sono accolti. Le migrazioni nelle Americhe, le migrazioni in cerca di lavoro dal Sud tutte cose che ripetiamo come una cantilena, perché le sappiamo. E allora perché le ripetiamo?
Perché accanto a un sistema che è già in atto, e che porterà tra cinquant’anni a una proporzione tra italiani e stranieri (diciamo così) impossibile da dipanare (finalmente), i freni che si vedono sono più violenti, insensati, evidenti. Questo paese non è razzista. Ma all’interno di questo paese, i razzisti sono sempre più feroci, perché sentono che stanno perdendo. L’Italia non è quella che vuole far credere la Lega, e non lo è soprattutto nei luoghi dove la Lega prospera. Ma proprio per questo motivo, cresce la violenza teorica contro l’immigrazione.
Tutto questo ha un fatto di cronaca esemplare. Se ci si ferma davanti a una scuola, all’uscita degli alunni, si vede un paese. Se però si guarda ai fatti di cronaca, il paese è un altro. Ed è quello che, per forza di cose, bisogna ancora usare come fermo immagine esemplare anche se non lo è più, non può esserlo più.
“Due morti, Samb Modou e Diop Mor, tre feriti gravi, tutti senegalesi: è questo il bilancio del pomeriggio di sangue a Firenze scatenato da Gianluca Casseri”

L’Unità 31.12.11

"Quando Bossi «candidava» Monti", di Gian Antonio Stella

«Con un Parlamento delegittimato occorre un governo di tecnici affidato a Mario Monti». Indovinello: chi l’ha detto? Bersani? Nooo! Casini? Nooo! Fini? Nooo! Sono parole di Umberto Bossi. Dette in una situazione non così dissimile da quella di oggi. Ma abissalmente distanti dalle pernacchie e dagli insulti di questi giorni.
È il 23 aprile 1993. Il mondo politico è scosso dall’inchiesta Mani pulite, Bettino Craxi è stato costretto a lasciare dopo molti anni la segreteria del Psi, Giorgio La Malfa quella del Pri, Renato Altissimo quella del Pli. Il 18 aprile una schiacciante maggioranza di italiani ha appena spazzato via la quota proporzionale al Senato e il finanziamento pubblico dei partiti. Non passa giorno senza un arresto per tangenti o un allarme sulla gravità del momento economico.
La maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni del 1992 con 206 seggi democristiani, 92 socialisti, 17 liberali, 16 socialdemocratici, sarebbe teoricamente ancora salda. Per capirci: una svolta potrebbe esser dipinta, esattamente come oggi, come un tradimento della volontà espressa 11 mesi prima dagli elettori che avevano dato al quadripartito una larga maggioranza iniziale con 33 voti in più al Senato e 50 alla Camera. Ma la politica, come è ovvio, non è fatta solo di numeri. E il 22 aprile Giuliano Amato è salito al Quirinale per dare le dimissioni. Mentre da una parte e dall’altra dibattono sulle diverse soluzioni possibili, Umberto Bossi non ha dubbi. E in una intervista al Corriere della Sera spiega che dopo quanto è accaduto, al di là degli aspetti formali, «questo Parlamento è finito, completamente delegittimato». Dunque? «Ci vuole un governo istituzionale o di tecnici. Vanno bene sia Spadolini che Napolitano, ma andrebbe meglio il governo di tecnici senza mascherature, con Mario Monti, l’economista, presidente del Consiglio». Un vecchio pallino. Pochi mesi prima, da membro della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, il Senatur voleva commissariare la tv di Stato e chi aveva proposto come commissario? Monti.
Quando il leader della Lega abbia cambiato idea non è chiarissimo. Forse nell’aprile del 2001, quando rinfacciò al professore di essere troppo europeo e poco «italiano»: «Abbiamo un Commissario di Governo che mi chiedo cosa ci stia a fare là in Europa: fa gli interessi dell’Italia oppure no? Un Commissario italiano in Europa deve lavorare per l’Italia. O no?». La diffidenza fu rafforzata nel giugno del 2005. Quando Monti, rispondendo alla Lega che aveva annunciato un referendum contro l’euro per tornare alla lira, ricordò divertito sul Corriere che «nell’agosto 1996 in vista della dichiarazione di indipendenza della Padania e della formazione del governo padano», Umberto Bossi aveva scritto «al presidente della commissione europea, Jacques Santer, chiedendo indicazioni su come far aderire la Padania all’Unione Economica e Monetaria fin dall’inizio, previsto per il 1 gennaio 1999».
Certo è che da allora i rapporti tra il varesotto (della provincia) e il varesino (di città) sono precipitati. Al punto che il primo commento del Senatur all’ipotesi di un governo tecnico guidato da Monti, un tempo invocato, fu due mesi fa il gesto che nell’«Oro di Napoli» Eduardo dedica al duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornari: «Prrrrrr!». Un esordio proseguito, nella scia della scelta fatta ( «Se sono così fessi da mandarci all’opposizione ci rifacciamo la verginità») con toni sempre più aspri. Prima le accuse al premier di avere allestito un governo «contro la volontà del popolo». Poi la denuncia di un golpe antidemocratico. Poi il commento ai primi passi del conterraneo: «Fa schifo». Poi i fischietti in Aula e lo striscione «governo ladro». Fino alle battute dell’altra sera alla «Berghem Frecc», la festa invernale del Carroccio: «Ieri mattina in un bar uno mi fa: “ches chi l’è matt”. No, l’è no matt. L’è minga bon. Non è capace. Anche un cretino capirebbe…». Un’accelerazione polemica conclusa (per ora) con la «britannica» risposta alla folla che urlava: «Monti, Monti vaffanculo! Monti, Monti vaffanculo!». E lui: «Magari gli piace…».
Un capovolgimento totale, per motivi di bottega, rispetto al Bossi che nei panni del sobrio e pensoso statista, l’11 maggio scorso, mentre destra e sinistra si scazzottavano, dichiarava severo all’Ansa: «Tenere bassi i toni è difficile in campagna elettorale, ma io sto con Napolitano, è meglio non esagerare troppo». Lo stesso rapporto con il presidente della Repubblica, del resto, è uscito stravolto dalla sterzata tattica del leader del Carroccio. Il quale, in questi anni, aveva coperto fino a un mese fa l’inquilino del Colle di mille elogi: «È un uomo di grande buon senso». «È un buon presidente e lo dimostra con queste cose». «È una figura di garanzia». «Con lui quando ho avuto bisogno ho trovato la quadra. Sta bene dove sta». «Il capo dello Stato è stato molto equilibrato. Napolitano ogni giorno che passa, vicenda dopo vicenda, si dimostra un ottimo presidente della Repubblica».
L’altra sera, tutto rovesciato: «Abbiamo subito anche il presidente che è venuto a riempirci di tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Altro che democrazia!». Poi l’invito alla folla: «Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica!». E giù fischi. «D’altra parte nomen omen, si chiama Napolitano». Insomma: «un terùn». Peccato che, anche in questo campo, esistano gli archivi. Come un’Ansa del 17 marzo: «Anche Umberto Bossi e i ministri leghisti hanno battuto le mani al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al termine del suo discorso nell’Aula di Montecitorio per i 150 anni dell’Unità d’Italia…». Aaaaalt! Contrordine, padani!

Il Corriere della Sera 31.12.11

Per una nuova legge elettorale

Pubblichiamo l’appello dei cattedratici di Diritto costituzionale e Diritto pubblico, promosso da Andrea Morrone, presidente del comitato referendario. Tra i firmatari: Adele Anzon, Augusto Barbera, Franco Bassanini, Enzo Cheli, Giuseppe de Vergottini, Giovanni Guzzetta, Valerio Onida, Alessandro Pizzorusso, Gustavo Zagrebelsky e altri 82 costituzionalisti.
All’inizio della campagna referendaria, molti di noi lanciarono un appello ai cittadini, perché appoggiassero una iniziativa che costituiva una «occasione imperdibile per ridare base e senso al nostro sistema politico, stimolando il Parlamento a compiere il suo dovere di dotare l’Italia di una legge elettorale all’altezza della Costituzione e della dignità del popolo italiano». Adesso che la raccolta delle firme ha avuto un così ampio successo, ci rivolgiamo ai gruppi parlamentari e ai partiti perché affrontino immediatamente il problema, utilizzando al massimo l’ultima parte della legislatura.
L’iniziativa referendaria ha già svolto un compito importante, riaprendo un tema che sembrava chiuso e riproponendo alla coscienza popolare il rischio di votare, per la terza volta, con un sistema che calpesta fondamentali principi della Costituzione. Il referendum — se ammesso, come auspichiamo, dalla Corte costituzionale — non solo non interferirà con la attività di governo ma, anzi, potrà aiutare i gruppi parlamentari nello sforzo per fronteggiare la grave crisi economica e finanziaria. Il referendum, infatti, potrà diventare nei prossimi mesi non solo uno stimolo, sempre più forte, per affrontare le tematiche istituzionali auspicate dal presidente della Repubblica accompagnando le misure di risanamento e di rilancio dello sviluppo, ma potrà, altresì, evitare lacerazioni fra i gruppi parlamentari impegnati in una così importante e delicata missione per il Paese.
Al di là di aspetti che il Parlamento potrà sempre correggere, il ritorno alle «leggi Mattarella» potrebbe contribuire a ricostituire, attraverso i collegi uninominali, un rapporto più diretto fra parlamentari ed elettori e potrà evitare, pur in un quadro tendenzialmente maggioritario, la formazione di coalizioni rissose, fragili ed eterogenee, artificiosamente tenute insieme dalla conquista di un premio di maggioranza a livello nazionale. Sarebbe una sciagura se — nonostante la condanna, ormai generale, dell’attuale sistema elettorale — l’inerzia e gli interessi di parte impedissero nuovamente al Parlamento di intervenire. Ma poiché questo pericolo esiste realmente, e lo sarebbe ancora di più senza lo stimolo referendario, invitiamo i partiti ad assumersi tutte le responsabilità e a lavorare immediatamente attorno a questo problema alla ripresa dei lavori parlamentari.

Il Corriere della Sera 31.12.11

"Come si può crescere davvero", di Tito Boeri

Nella sua lunga conferenza stampa di fine anno, Mario Monti ha più volte ribadito che non può esserci risanamento senza crescita. Le cifre gli danno ragione: ogni punto in meno di crescita comporta circa mezzo punto di pil di deficit in più, sette miliardi e mezzo aggiuntivi da reperire se si vuole rispettare l´obiettivo del bilancio in pareggio. Ed è vero anche il contrario: la riduzione dell´incertezza sul futuro dell´economia italiana stimolerebbe la crescita dando un grande impulso agli investimenti. Proprio per questo non ha senso alcuno parlare di una fase due nell´azione di governo. Le misure per lo sviluppo, che vengono ora annunciate per metà gennaio, avrebbero dovuto essere varate contestualmente alla manovra per venire approvate prima di Natale. Era quanto previsto, tra l´altro, dagli impegni sottoscritti dal nostro paese in sede europea. A questo punto non possiamo permetterci ulteriori ritardi.
Non c´è fase due anche perché continuiamo ad essere in piena emergenza e dobbiamo dare forti segnali ai mercati prima delle aste di febbraio. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un forte calo dei rendimenti alle aste del Tesoro sui titoli a breve scadenza, accompagnato però da un ampliamento dello spread sul mercato secondario, nonostante i continui interventi della Bce. L´impressione è che molti investitori istituzionali vendano i nostri titoli di Stato prima delle aste per poi riacquistarli alle nuove emissioni soprattutto sulle scadenze più brevi, anche perché non troppo velatamente invitati a farlo. Queste operazioni possono contribuire a contenere la crescita del costo medio del nostro debito pubblico (che paga i rendimenti delle aste), ma peggiorano la posizione patrimoniale delle banche che sono giustamente costrette a valutare i titoli in portafoglio alle condizioni del mercato secondario.
L´indice degli interventi prospettati dal presidente del Consiglio due giorni fa è condivisibile. Le liberalizzazioni e le riforme che riducono il dualismo del mercato del lavoro stimolando gli investimenti in formazione sul posto di lavoro servono per fare aumentare la produttività. Inducono perciò crescita a parità di risorse utilizzate, senza attingere alle dissestate casse dello Stato. Se accompagnate, ad esempio mediante l´introduzione di un salario minimo e al varo della legge sulle rappresentanze sindacali, a misure che rafforzino quel legame più stretto fra salari e produttività che viene esplicitamente auspicato nell´accordo tra sindacati e Confindustria del 21 settembre scorso, le liberalizzazioni e le riforme del mercato del lavoro porterebbero anche a una significativa creazione di nuovi posti di lavoro.
Ma è giunto il momento di andare ben oltre i titoli dei singoli interventi. Se il Consiglio dei ministri ha raggiunto, com´è auspicabile, un accordo al suo interno sulle misure per la crescita, bene che le comunichi al più presto nella loro interezza al Paese. L´indecisionismo del governo Berlusconi ha creato una crescente insofferenza per gli annunci generici di piani prossimi venturi e la crisi ha portato con sé una fatica per le riforme ventilate solo per saggiare le reazioni dell´opinione pubblica, per la politica dei ballon d´essai. C´è oggi tra i cittadini una forte e comprensibile avversione per l´incertezza normativa. Bene perciò definire riforme che tengano già in partenza conto del profilo, della forza e della legittimità dell´opposizione che incontreranno sul loro cammino. Servirà per essere equi e al contempo spezzare il fronte degli interessi corporativi. Ad esempio, la feroce opposizione dei tassisti ad ogni significativo incremento delle licenze si spiega non solo con le perdite che potrebbero soffrire nei loro redditi mensili, ma anche e soprattutto con le pesanti perdite in conto capitale legate alla svalutazione della licenza che pensano di vendere una volta cessata la loro vita lavorativa, come se fosse la loro liquidazione. Per questo sarebbe opportuno assegnare ai taxisti una quota delle licenze di nuova emissione, che potranno così rivendere assieme alla licenza già in loro possesso in modo tale da contenere le perdite in conto capitale. Nel caso del mercato del lavoro non si vede perché mettere in discussione l´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quando si può ridurre fortemente il costo dell´incertezza per il datore di lavoro che sta riempiendo un posto vacante permettendogli di assumere con un contratto a tempo indeterminato a tutele progressive.
Infine, più ampio sarà lo spettro delle liberalizzazioni, più convincente potrà essere agli occhi dell´opinione pubblica. Non è solo una questione di equità. Il fatto è che queste riforme tipicamente hanno costi concentrati su platee relativamente ristrette e benefici dispersi su milioni di cittadini. Per rendere maggiormente evidenti i benefici bisogna perciò che ci siano riforme significative su tanti settori di attività. A quel punto il contrasto fra gli interessi corporativi e il bene del Paese risulterà ancora più evidente.

La Repubblica 31.12.11