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"Quello che oggi ci manca di Enrico", di Ettore Scola

Nella storia dell’umanità alcune epoche sono state particolarmente segnate dal passaggio di un innovatore – profeta, poeta, scienziato, politico – il cui nome, preceduto da un avverbio, prima e dopo, definisce l’epoca nella quale è vissuto: prima e dopo Cristo, prima di Giotto, dopo Colombo, prima di Galilei. Fino ai nostri contemporanei, che sono più vicini a noi, ma spesso restano lontani nella memoria.

Il flm Quando c’era Berlinguer – bello per la commozione che suscita e per la discrezione che lo distingue – si apre con una domanda che il regista pone a una decina di studenti scelti in varie città italiane: «Chi era Berlinguer?».

Nella storia dell’umanità alcune epoche sono state particolarmente segnate dal passaggio di un innovatore – profeta, poeta, scienziato, politico – il cui nome, preceduto da un avverbio, prima e dopo, definisce l’epoca nella quale è vissuto: prima e dopo Cristo, prima di Giotto, dopo Colombo, prima di Galilei. Fino ai nostri contemporanei, che sono più vicini a noi, ma spesso restano lontani nella memoria.

Il flm Quando c’era Berlinguer – bello per la commozione che suscita e per la discrezione che lo distingue – si apre con una domanda che il regista pone a una decina di studenti scelti in varie città italiane: «Chi era Berlinguer?».

Il nome sicuramente evoca qualcosa nell’inconscio di quei ragazzi, poco o nulla nella loro conoscenza: era uno scrittore, un uomo politico coreano, uno di destra, uno dell’antimafia… ma la maggior parte si rifugia nella parti- cella nazionale del «boh». Walter Veltroni, il regista, non li sollecita più di tanto, lascia al suo film il compito di parlare dell’eurocomunismo, dello strappo dall’Unione Sovietica, della questione morale come centro dell’intera concezione politica.

Il film mostra anche i milioni di comunisti e di non comunisti che piansero la morte di Berlinguer come la morte di un fratello. E torna in mente quell’oceano di giovani – della stessa età di quelli intervistati oggi da Veltroni – che quel giorno, io e tanti altri registi, interrogammo da via Botteghe Oscure a piazza San Giovanni: tra le migliaia di volti in lacrime ricordo quello di una ragazza che singhiozzando mi disse: «Enrico era uno preciso».

Ecco, la precisione. Quella ragazza piangeva perché sentiva che nel mondo appannato e vago che la aspettava, veniva a mancarle un riferimento preciso, netto e raro.

In quale inceneritore, in quale discarica, in quale mercatino dell’usato finiscono i nostri ideali dismessi, i nostri pensieri smarriti?

Quando Orlando perde la ragione per Angelica, Ludovico Ariosto immagina che tutto ciò che l’uomo va perdendo sulla Terra finisca sulla Luna. In attesa che qualche poeta più recente, o uno scienziato più attrezzato, lo scopra e ce lo comunichi, potremmo provvedere personalmente ad apparecchiare una piccola luna di cose buone perdute, da consegnare alla ge- nerazione che si trova più sguarnita di altre ad affrontare il futuro.
Ma anche questo andrebbe fatto con precisione.

L’Unità 28.05.14

"La famiglia 1 + 1", di Maria Novella De Luca

Vivono one- to- one. Spesso figli unici di sola madre. In casa nessun altro. Uno a uno. Maria con Davide, Gisella con Sofia Sole, Valia con Alice, Antonio con Giorgia, che ha cinque anni e una valanga di lentiggini. Nuclei minuscoli, ogni giorno più piccoli. Specchio e racconto di famiglie “atomizzate” dopo separazioni e divorzi, ma anche di maternità sempre più single. È la nuova frontiera delle “smallfamilies” il cui numero cresce di anno in anno, eppure dei monogenitori si parla poco. Erano il 10% negli anni Novanta, adesso superano il 16% nelle statistiche ufficiali, ma la realtà è assai più ampia, un quinto forse di tutte le famiglie italiane. Che oggi chiedono di uscire dall’ombra, di fare rete, di trovare sostegni.
Racconta Gisella Canali, mamma di Sofia Sole, 11 anni, e una vita a due a Milano: «Il mio compagno mi ha lasciato non appena ha saputo che ero incinta. Diceva che per lui non era il momento di diventare padre. Eppure erano mesi che ne parlavamo. Ma io Sofia l’ho voluta con tutte le mie forze, anche se è stato durissimo allevarla senza aiuto, senza parenti vicini, e con un lavoro che mi faceva correre tutto il giorno… La fatica più grande è non poter condividere le responsabilità, sapere che se ti accade qualcosa non c’è un paracadute. E la difficoltà di essere una donna single in un mondo a coppie. Ma rifarei tutto: Sofia è una bambina equilibrata e serena e questo mi ripaga ogni sforzo».
Sofia è un sole, come il suo nome, nella vita di Gisella, che oggi fa parte di una nuova rete di monogenitori che hanno dato vita a “Smallfamilies”, associazione nata proprio per sostenere le micro famiglie “one-toone”. La fondatrice si chiama anche lei Gisella, Gisella Bassanini, architetto e madre di Matilde,
che ha 13 anni. «Il padre di Matilde se n’è andato ancora prima che nascesse, e di lui non abbiamo avuto più notizie. Ho vissuto tutta la fatica di crescere una figlia da sola, ma anche la gioia immensa di essere mamma, e la fortuna di poter contare su una forte rete familiare. Ma un genitore “unico” vive una condizione di perenne fragilità, per questo ho deciso di fondare “Smallfamilies”, per accendere i riflettori su un fenomeno di cui si parla troppo poco, nonostante l’enorme aumento delle separazioni e dei divorzi, da cui tutto questo discende ».
Fragilità, isolamento. Le famiglie one-to-one in Italia sono formate quasi nel 90% dei casi da nuclei dove il monogenitore è una madre rimasta sola dopo un divorzio, un abbandono, o da donne che hanno scelto liberamente di essere mamme-single. «Quando il capofamiglia è una madre single, la famiglia è ad alto rischio di povertà», aggiunge Gisella Bassanini. «Da noi non esiste alcun sostegno, né sul fronte degli alloggi, né sul fronte del lavoro come avviene invece in Germania o in Spagna. In Italia c’è poi una doppia discriminazione. In Lombardia ad esempio sono previsti aiuti per le madri sole, ma soltanto se sono state sposate e non se provengono da coppie di fatto… ».
E così l’associazione “Smallfamilies” offre consulenze legali,
economiche e psicologiche ai monogenitori. «Perché conoscere la legge aiuta a difendersi », spiega Maria Garofalo, mamma single di Davide e avvocato dell’associazione. «Mio figlio è frutto di un grande amore con un uomo sbagliato, che ha preferito tornare a vivere in Spagna piuttosto che fare il padre. Ho allevato Davide da sola, aiutandolo a vivere il dolore di quell’assenza, e oggi è un adolescente sereno. Ma proprio perché so quanto è difficile, ho deciso di mettere la mia esperienza di avvocato e di madre al servizio delle altre».
Perché rispecchiarsi nelle vite altrui fa sentire meno diversi. E per fortuna non sempre si tratta di abbandoni traumatici o di padri che scompaiono. Eppure è stato proprio per far crescere sua figlia Alice in un una rete di relazioni ampie e solidali che Valia Galdi, urbanista, ha cambiato vita dopo una separazione “civile”. Abbandonato l’appartamento al centro di Genova, Valia e Alice si sono trasferite tra i boschi di Borzonasca, nel centro “Anidra”, una sorta di cohousing all’interno di un parco rurale poco lontano da Chiavari. «Se fossimo rimaste a Genova ci saremmo sentite molto meno sostenute. Qui invece Alice ed io abbiamo il nostro appartamento, ma condividiamo con le altre famiglie un progetto di vita ecologica e naturale. La cosa più bella è che ad Anidra si sono trasferiti anche i miei anziani genitori, e dunque Alice è al centro di una salda rete affettiva. Con il padre si vedono regolarmente, anche se di fatto l’unico punto di riferimento sono io e non è facile». Alice però, dice ancora Valia, «è stato il regalo inaspettato della mia vita, dopo un gravissimo incidente da cui sono uscita con un handicap che oggi mi costringe a zoppicare. Ma questo non mi ha impedito di emigrare sui monti e rivoluzionare la mia vita». Valia comunica entusiasmo e passione. Forse perché ha saputo spezzare “l’isola” delle famiglie monogenitoriali. Un senso di claustrofobia, che può anche diventare patologico, avverte Maria Rita Parsi, nota e attenta psicoterapeuta. «Il rischio è che non si spezzi mai la simbiosi madre-figlio. Accade che i bambini continuino a dormire nel lettone, occupando simbolicamente quel posto che dovrebbe essere del partner della mamma. Un altro grave pericolo di questi nuclei troppo piccoli, dove spesso le madri lavorano, è che i figli vivano un doppio isolamento: quello parentale e quello che ricreano davanti ad Internet. L’unica terapia è l’apertura, e soprattutto dare ai bambini altre figure maschili di riferimento».
Un problema opposto a quello di Antonio Neri, fotografo di Trieste, che da due anni si è ritrovato padre single di Giorgia, cinque anni, e una incredibile somiglianza con Pippi Calzelunghe. «Ma a lei Pippi non interessa affatto, preferisce Peppa Pig», scherza Antonio, monogenitore dopo la separazione dalla moglie tornata a vivere in America. «Il tribunale me l’ha affidata dopo un processo doloroso, la mia ex aveva manifestato dei veri problemi psichici… Oggi la mia giornata è scandita dagli orari di Giorgia, faccio il fotografo fino alle quattro del pomeriggio e il padre per tutto il resto della giornata. L’allegria di Giorgia e il notevole aiuto dei nonni compensano tutto. Ma quando si sveglia la notte e cerca la madre mi sento fragile e perso. Perché so che così siamo soltanto una famiglia a metà».

La Repubblica 28.05.15

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“QUELLE MAMME ACROBATE CHE TIRANO AVANTI DA SOLE”, di CHIARA SARACENO
LE FAMIGLIE in cui è presente un solo genitore sono oggi il 15, 3 per cento di tutte le famiglie, con una tendenza all’aumento. In particolare sono aumentate quelle in cui l’unico genitore presente non è vedovo; quindi il genitore mancante è tale non per morte, ma per interruzione, o mancata attivazione, della convivenza. Per lo più ciò avviene a seguito di una separazione coniugale, ma sempre piú spesso anche per interruzione di una convivenza senza matrimonio, nella misura in cui tra le coppie che convivono senza sposarsi, un fenomeno in crescita, sono in aumento quelle che hanno figli. Nel 90 per cento dei casi, l’unico genitore presente nella famiglia anagrafica è la madre. In realtà, occorrerebbe distinguere, soprattutto dal punto di vista dei figli, tra famiglie effettivamente monogenitore perché l’altro non c’è, è morto o solo sparito, assente per scelta, indifferenza, incapacità di gestire una genitorialità distinta dal rapporto di coppia, e famiglie che sono tali anagraficamente, ma l’altro genitore è presente attivamente nella vita dei figli, corresponsabile del loro benessere in vari modi e intensità.
Dal 2006 in Italia il modello normativo prevalente di affido dei figli minori prevede anche formalmente il mantenimento della cogenitorialitá tramite l’istituto dell’affido condiviso, che distingue tra univocitá della residenza e, appunto, condivisione tendenzialmente paritetica di responsabilità, presenza, tempo. Oggi oltre l’80 per cento degli affidi è formalmente condiviso.
È un modello di cogenitorialitá che richiede senza dubbio maturità, fiducia, rispetto reciproco, flessibilità organizzativa tra gli ex partner ed anche un minimo di disponibilità economiche per far fronte alla necessità di due abitazioni capaci di accogliere i figli che transitano da una all’altra. La pratica non sempre vi corrisponde, non solo per mancanza di risorse economiche, lasciando un solo genitore, per lo più la madre, con il carico maggiore di responsabilitá. Inoltre la norma può essere utilizzata dai genitori separati come strumento non per cooperare, ma per continuare il conflitto tra loro. Così come può avvenire ancora oggi che una minoranza di padri separati (si stima attorno al 15-20 per cento) si estranei progressivamente dai figli sia dal punto di vista della responsabilità economica sia da quello relazionale e affettivo.
Sono queste le situazioni più difficili, per i figli ed anche per le madri. Lo svantaggio che sperimentano, come tutte le donne con figli, a conciliare famiglia e lavoro mentre, a parità di competenze, sono spesso pagate meno ed hanno meno opportunità di carriera degli uomini, sono aggravate dal fatto che il loro reddito è spesso l’unico, o principale, per loro e i loro figli, mentre non possono condividere neppure in piccola parte i compiti di cura con l’altro genitore. Per questo, in Italia come in altri paesi, le famiglie in cui l’unico genitore presente è la madre sono più a rischio di povertà sia delle famiglie bigenitore, sia delle famiglie in cui è presente solo il padre. A differenza che in altri paesi, tuttavia, c’è poca attenzione per questa particolare vulnerabilità, anche perché c’è poca attenzione in generale alla questione della conciliazione tra responsabilità famigliari e lavorative. Anzi, le poche misure esistenti sia sul piano dei servizi pubblici (servizi per l’infanzia, tempo pieno scolastico), sia sul piano del welfare aziendale, sono le prime ad essere state tagliate in tempi di crisi. Rimane il welfare famigliare procurato dai nonni, che offrono a queste famiglie cura, ospitalità, sostegno economico in misura ancora maggiore di quanto non facciano nei confronti delle famiglie bigenitore. Per altro, i nonni sono anche la risorsa di ultima istanza per quei padri separati che non possono permettersi un’abitazione in cui poter accogliere i figli quando è il loro turno, fare loro spazio, perché si sentano a casa. Ma non tutti possono, o desiderano, contare esclusivamente su un welfare famigliare che li riconduce ad uno status di figlie/i dipendenti quando dovrebbero imparare a fare i genitori, se non da soli, senza il sostegno affettivo del rapporto di coppia con l’altro genitore.

La Repubblica 28.05.14

"Fattore Renzi: alta fedeltà Pd e nuovi voti", di Roberto D'Alimonte

Due fattori hanno contribuito in maniera decisiva al successo del Pd di Renzi. Il primo è stato la sua capacità di portare a votare i suoi elettori, quelli che avevano votato Pd nel 2013. Un altro Pd. Il secondo è stato la sua capacità di allargare la base di consensi del suo partito, nonostante questo sia difficile per un partito di governo in tempo di crisi. Il primo fattore ha pesato più del secondo.

A mano a mano che diventano disponibili i voti ai partiti a livello di singole sezioni elettorali si riesce a capire meglio come sono andate effettivamente le cose. Sono cinque per ora le città in cui grazie a questi dati si sono potuti calcolare i flussi tra i partiti e dai partiti verso l’astensione. La base di riferimento sono le elezioni politiche dell’anno scorso. Si tratta di una consultazione molto diversa da quella delle europee ma per quello che ci interessa questo non è molto rilevante. È ben noto che alle europee si è sempre votato meno che alle politiche ed è stato così anche questa volta. Ma questo non altera le conclusioni della analisi sui flussi perché questa comprende per l’appunto anche i movimenti dal voto al non voto e viceversa.
In fondo non è molto complicato spiegare come Renzi ha vinto. In un contesto in cui i votanti in queste elezioni sono stati circa 6,5 milioni in meno rispetto al 2013 il Pd ha conquistato 2,5 milioni in più. L’affluenza è andata giù e Renzi è andato su. Semplice. È più complicato spiegare perché questo è successo. Perché gli altri partiti hanno perso voti – a eccezione della Lega che ne ha guadagnati circa 300mila – e Renzi ne ha presi di più? Cosa dicono i flussi di voto nelle nostre cinque città? Da dove vengono i voti del Pd?
Il dato più chiaro è che vengono in primo luogo dal Pd stesso. Il tasso di fedeltà del suo elettorato in queste elezioni è stato straordinario. Quelli che lo avevano votato nel 2013 sono tornati quasi tutti a votarlo nel 2014. Una mobilitazione molto efficace. Questo è stato il primo merito di Renzi e la base principale del suo successo. Infatti, la prima – e più importante – regola per vincere è quella di portare a votare i propri elettori. Renzi c’è riuscito. Gli altri no. A Firenze hanno votato Pd oggi addirittura il 95% dei suoi vecchi elettori. E questo spiega anche lo straordinario successo di Dario Nardella, neo sindaco. Il tasso di fedeltà più basso si è registrato a Palermo – e non è una sorpresa – ma siamo sempre al 71%. Il confronto con gli altri partiti è impietoso. A Venezia il Pdl ha perso il 58% del suo elettorato verso l’astensione, a Palermo il 61%. Va meglio – si fa per dire – a Torino con il 35% e a Firenze con il 20%, ma perché qui la base di consensi era inferiore. Più o meno la stessa cosa è successa al M5S. A Venezia non sono tornati a votarlo il 25% di quelli che lo avevano scelto nel 2013, a Firenze il 38%, a Palermo il 45% e così via.
Questo fenomeno va sotto il nome di astensionismo asimmetrico. Renzi avrebbe vinto anche solo grazie a questo fattore. Ma ha vinto ancora meglio perché è scattato un altro meccanismo. Per vincere si devono conquistare nuovi elettori e non solo tenersi i vecchi. E qui si vedono i frutti della capacità di attrazione del premier. Come avevamo anticipato ieri, e come si vede nei dati nelle cinque città, il Pd ha pescato in misura variabile nell’elettorato di quasi tutti i partiti rivali. Ma, tra tutti, c’è un flusso che è particolarmente significativo, ed è quello che proviene da Scelta civica. La formazione di Monti praticamente non esiste più. Una buona parte dei suoi elettori sono andati verso il Pd, molti non si sono recati alle urne. A Torino ha ceduto al partito di Renzi il 60% del suo elettorato del 2013 mentre un 15% è andato al partito di Alfano. In questa città il flusso verso l’astensione è minimo. Stessa cosa più o meno a Firenze. Ma non è così a Palermo. Qui oltre alle defezioni verso il Pd e il Ncd, si nota anche un flusso verso Forza Italia (11%) e verso l’astensione (14%). E così grazie a Scelta civica una quota di elettori moderati sono stati traghettati gradualmente verso il centro-sinistra, destinazione prima Monti e poi Pd. Ma senza Renzi non sarebbe successo.
I flussi verso il Pd non si fermano qui. Agli elettori di Scelta civica vanno aggiunti quelli del M5S e di Fi. Sono passaggi di voto di entità più modesta, pare. Ma tutto fa brodo. Nel complesso sembra che il movimento di Grillo sia stato relativamente più “generoso” nei confronti del partito di Renzi. A Firenze il 17% dei suoi vecchi elettori ha scelto il Pd, mentre ha fatto la stessa cosa il 12% degli elettori Pdl. A Torino i dati sono rispettivamente 12% e 9%. Da ultimo anche una parte degli elettori della Lega ha “tradito” contribuendo a ingrossare le fila del Pd. A Torino il 12%, a Venezia addirittura il 36%, a Parma il 14%. Sono tutti questi rivoli che hanno portato Renzi a uno storico 40,8%.
Queste elezioni erano per Renzi un passaggio difficile e delicato che ha voluto affrontare senza mettere il suo nome sulla scheda. Le europee sono elezioni rischiose per i grandi partiti e soprattutto per quelli di governo. Si è visto quello che è successo in quasi tutti i paesi della Unione, a eccezione della Germania dove in realtà anche la Merkel ha preso meno voti rispetto alle scorse politiche. Adesso la sfida per Renzi è quella di consolidare questo successo. Se ci riesce, ci ricorderemo di queste elezioni come di una tappa importante verso la costruzione, intorno al Pd, di un nuovo blocco sociale ed elettorale, tendenzialmente maggioritario. In questo Renzi è, tra l’altro, facilitato dal fattore tempo. Da qui al 2018 non ci sarà più un turno di elezioni a carattere nazionale. Una volta c’erano le elezioni regionali. Chi non ricorda le dimissioni di D’Alema dopo il cattivo risultato per il centrosinistra delle regionali del 2000? Ma allora la gran parte delle regioni andava al voto nello stesso giorno. Il prossimo anno non sarà così. A causa di vari scioglimenti anticipati ci sono 9 regioni in cui non si voterà il prossimo anno. Una grande occasione per portare avanti un programma di governo di medio termine senza distrazioni elettorali. In un paese dove governare è molto difficile anche questo aiuta.

Il Sole 24 ore 28.05.14

"Angela e Matteo contro Le Pen e Putin", di Gianni Riotta

Le due Europe, l’Europa dei populisti intenti a disfare l’Ue, e l’Europa che dovrà contrastarli, guidata dalla strana coppia Merkel-Renzi, non fanno in tempo a chiudere con i commenti tv e twitter che da Est si alza, acre, il fumo dei combattimenti. Si muore a Donetsk, in Ucraina, dove durante la II Guerra Mondiale – si chiamava allora Stalino – si batterono divisione Celere, Lancieri di Novara e Savoia Cavalleria.
Si parla di oltre 50 morti tra i separatisti filorussi, ma Alexandr Borodai, premier della secessionista Repubblica Popolare del Donetsk rilancia: «Le nostre perdite sono gravi, ma i lealisti han più morti».

La Storia non concede tregue. Chi si illudeva che il nuovo Parlamento – dove gli ostili alla vecchia Europa, Farange, Le Pen, Grillo, hanno un quinto dei seggi – avesse tempo per show contro il patto commerciale Usa-Ue, rilancio dei dazi e stucchevoli manfrine per eleggere il solito Juncker, sbatte subito nella guerra ai confini dell’Unione, terra di Gogol, Bulgakov, Grossman, autori europei.

A colloquio con il premier Renzi, il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin ha fatto il primo commento sulla battaglia di Donetsk, intimando al neo presidente ucraino, Petro Poroshenko, di fermare l’offensiva contro i ribelli. Putin arma, organizza, gestisce le rivolte nell’Est ucraino, persuaso fossero una passeggiata, bande, divise da parà, retorica «antinazista», come l’annessione della Crimea. Ma ha sbagliato i conti. Le sue milizie son restie a combattere se si spara davvero e la repressione di Kiev, vicino casa, meno inefficace. L’incapacità americana, europea e Onu di dire no a Putin, spacciata dai profeti dello status quo per «realismo davanti agli interessi russi e ai bisogni energetici europei», spesso in cambio, vedi l’ex cancelliere tedesco Schroeder, di pingui sovvenzioni Gazprom, si rivela per quel che è sempre stata, disfattismo inerte, che rinfocola la guerra in Europa, semina la zizzania del terrorismo, mettendo a rischio l’approvvigionamento del gas.

La Cina ha ben colto la fragilità di Putin, il cui fronte di attacco è troppo esteso, e gli ha imposto un contratto capestro sul gas, sancendo che Pechino conta più di Mosca. Solo, ahinoi, in Italia, la lettura del patto è opposta, vuoi per interessi o subalternità al Cremlino. La battaglia di Donetsk cancella ogni ipocrisia. Putin ha nel nuovo parlamento europeo amici, alleati, manutengoli. Il trattato commerciale Europa-America, che Mosca detesta, è avversato dai populisti, soprattutto francesi e italiani. I toni xenofobi, anti emigrazione ed Islam diffusi dal governo in Russia, sono comuni agli estremisti Ue. Marine Le Pen del Fronte Nazionale francese, Nigel Farage dell’Ukip britannico e Heinz-Christian Strache del Partito della Libertà austriaco hanno difeso l’invasione russa in Crimea. Il «Patto Le Pen-Putin» sogna un continente chiuso all’innovazione; Asia, America, Africa e globalizzazione nemici; il passato come trincea nostalgica, l’ex impero sovietico e un’Europa Strapaese, «sangue e zolla» si diceva un tempo.

Con il premier inglese Cameron e il presidente francese Hollande azzoppati alle urne, tocca inaspettatamente alla Cancelliera Angela Merkel e al Presidente Matteo Renzi difendere la libertà economica, la pace sociale e l’indipendenza in Europa. La Germania è filorussa al midollo, la Confindustria tedesca lancia proclami pro Putin, l’ex cancelliere socialdemocratico Schmidt slogan di antiamericanismo duro. Ma la Merkel, memore della gioventù in Germania Est, ha tenuto una dignitosa linea autonoma, senza cadere in grotteschi bellicismi, senza seguire il presidente Obama ciecamente, ma senza svendere la dignità europea per un metro cubo di gas. I Paesi critici con Putin, Polonia, i Baltici, la Gran Bretagna, guardano preoccupati alla mediazione con Berlino, cui, da sempre, l’Italia fa da contrappeso negativo ponendo il veto alle misure contro Mosca.

Renzi ha ribadito che l’Italia è un Paese fondatore dell’Unione, cui il risultato elettorale assegna il compito di leader alla vigilia del semestre di guida Ue. Vero. Un leader però non guarda solo all’interesse meschino di parte, uggiolando con la coda tra le gambe in attesa della ciotola. Un leader guida. Matteo Renzi può guidare l’Ue d’intesa con la signora Merkel, senza mettere a rischio gli interessi nazionali italiani – dopo il diktat cinese, l’Europa è il solo cliente per il gas russo, Putin ha perso l’arma delle sanzioni – ma eliminando la dialettica negativa «Filorussi-Antirussi». Può spingere, tarati bene i dettagli, la firma del patto economico Usa-Ue, può forzare Poroshenko a chiudere l’escalation e fronteggiare corruzione e neonazisti, ma al tempo stesso chiarire a Putin che non può insinuarsi nelle divisioni dell’Europa democratica e deve fermarsi. Poi si possono trattare neutralità, convivenza e sussidi per l’Ucraina, rassicurando i popoli confinanti.

L’audacia nelle primarie Pd, nella staffetta di governo, in Parlamento e alle elezioni europee, ha dato a Renzi un 40% che la Dc ottenne solo nel 1948 e 1958, costruendo su quei successi due generazioni di governo. Un’Italia non più «filorussa ad ogni costo», un’Italia «europea», capace di dar forza e consiglio alla Germania, farebbe di Renzi qualcosa di più di un brillante leader di partito e promettente premier, gli indicherebbe la strada verso una condotta da statista europeo.

La Stampa 28.05.14

"Quel bonus Irpef che sa di sinistra", di Gad Lerner

Con le buste paga di maggio è arrivato il bonus fiscale di cui beneficiano circa dieci milioni di lavoratori dipendenti, più i cassintegrati e i disoccupati. Figura come sgravio Irpef automatico, per un ammontare medio di 80 euro al mese.
E NE usufruisce chi ha un reddito annuo lordo che non superi i 26 mila euro. Il varo di questo provvedimento ha segnato una svolta decisiva nel rapporto fra il governo Renzi e il popolo del lavoro dipendente, cioè l’elettorato storico della sinistra. Per la prima volta dall’inizio della lunga recessione economica, un governo si è assunto la responsabilità di effettuare una sia pur parziale ridistribuzione per fronteggiare le ingiustizie sociali rese più acute dalla crisi. Difatti lo sgravio Irpef è stato accompagnato da ulteriori riforme ispirate alla medesima filosofia di perequazione dei redditi: l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e sugli utili delle banche; il tetto di 240 mila euro agli stipendi dei manager pubblici.
Si è trattato, quindi, di una precisa scelta politica, non a caso operata da un esecutivo guidato dal segretario del Pd; intenzionato a prendere di petto la questione salariale resa ancor più spinosa dalla distorsione di un sistema economico che, nel mentre brucia ricchezza, avvantaggia la rendita
a scapito del lavoro.
Gli avversari del governo, da Grillo a Brunetta, hanno sottovalutato il carattere di sinistra e popolare impresso così al Def 2014. Chi tuttora ironizza sugli 80 euro in busta paga, liquidandoli come mossa elettoralistica o peggio come una “mancia”, rivela con ciò la sua grave ignoranza in materia di redditi da lavoro. Non solo perché l’entità dello sgravio è davvero avvertibile a vantaggio di chi lo percepisce, per quanto sia limitata. Ma soprattutto perché concretizza una spinta a agire in controtendenza, sia pure parziale, rispetto al processo di generalizzata decurtazione dei salari che si sta abbattendo sul lavoro dipendente. Sappiamo che in molti casi lo sgravio Irpef rappresenta solo una compensazione insufficiente rispetto a perdite della più svariata natura già subìte: i redditi da lavoro calano attraverso la diffusione dei contratti di solidarietà, perfino con trattenute non dichiarate, col taglio dei premi di produzione e con la rinuncia alla contrattazione integrativa aziendale. Dunque sono milioni i lavoratori dipendenti che non solo vivono un futuro incerto e un carico fiscale eccessivo, ma per di più guadagnano meno di prima.
Ebbene: la politica se ne è a lungo colpevolmente disinteressata. Quasi che non rientrasse nelle sue prerogative occuparsi di come si distribuiscono, in tempi di scarsità, le risorse disponibili. L’ingannevole senso comune per cui il mercato saprebbe autoregolarsi anche in materia salariale, aveva poi giustificato la sostanziale dichiarazione d’impotenza della politica su questa materia.
Il cambio di rotta avviato con lo sgravio Irpef ha giocato un ruolo determinante nella vittoria elettorale del Pd di domenica scorsa. Non certo perché si trattasse di una “mancia”, come sostenuto dai paladini dell’antipolitica. Talmente spaesati e retrogradi, quando si tratta di affrontare i problemi concreti degli italiani, da sostenere che gli 80 euro sarebbero un tentativo di corruzione dell’elettorato.
Non se n’erano accorti, ma con il bonus fiscale entrato ieri nelle buste paga la sinistra ha ricominciato a fare cose di sinistra. Altro che furbizia. Rastrellando fortunosamente in tutta fretta i 10 miliardi per le coperture necessarie, Renzi si è rivolto a quella che storicamente rimane la base sociale del suo partito nuovo, nel tentativo di ripristinare un rapporto di fiducia fra mondo del lavoro e politica riformista che si era logorato fino a lacerarsi.
Si tratta di una scommessa dall’esito incerto, per la modestia dei fondi disponibili e anche perché negli anni si è aggravata l’impermeabilità della classe dirigente di sinistra alle ragioni del suo mondo di origine. A ricomporre la perduta sintonia non basta un provvedimento in favore dei lavoratori. Ma è indubbio che senza questa prima azione decisa per gli aumenti salariali, il Pd non avrebbe riscosso un consenso così vasto. Due milioni e mezzo di voti in più rispetto alle elezioni politiche 2013 (mentre la lista Tsipras raccoglie solo la metà dei consensi ottenuti un anno fa dalla sinistra
radicale) autorizzano a ipotizzare un’apertura di credito del mondo del lavoro nei confronti del “suo” partito. Altrimenti non si sarebbe oltrepassata la barriera degli undici milioni di voti mentre diminuisce il numero degli elettori.
Certo ha ragione Ilvo Diamanti a segnalare lo sconfinamento del Pd di Renzi a nord-est e l’inedito successo riscosso fra artigiani e piccoli imprenditori, da sempre diffidenti nei confronti della sinistra. È probabile che questi ultimi abbiano apprezzato il decreto-lavoro del ministro Poletti proprio nei punti che dispiacciono ai sindacati, cioè nella sostanziale cronicizzazione dei contratti “a termine”. Ma la vittoria elettorale non sarebbe giunta, almeno in queste proporzioni, se il Pd non avesse contemporaneamente “fatto il pieno” recuperando sulla questione salariale.
Mi auguro che la moderazione esibita ieri da Renzi di fronte agli avversari politici sconfitti, nel non voler stravincere con arroganza, venga riproposta dal segretario del Pd anche nei confronti della Cgil e degli altri corpi sociali intermedi con cui spesso è entrato in rotta di collisione. È infatti chiaro che gli 80 euro in busta paga sono solo un primo, piccolo passo. Attuare una efficace politica di contrasto alla decurtazione salariale, per un’equa ridistribuzione delle risorse disponibili, è tragitto disseminato di ostacoli. Richiede ulteriore coraggio. Ma si è dimostrata anche l’unica via percorribile per recuperare il legame fra popolo di sinistra e partito del lavoro.

La Repubblica 28.05.14

"Pd primo partito tra gli under 40", da L'Unità 28.05.14

Giovane chiama giovane? Avrà contato «l’entusiasmo giovanile di Renzi», per dirla con il sociologo Piergiorgio Corbetta, sta di fatto che il voto degli under 45 nel 2014 cambia verso. E regala al Pd un primato che gli sfuggiva «da qualche lustro», in due fasce elettorali determinanti per un Paese che guardi al futuro. Un fronte su cui, ancora una volta, la sfida diretta era quella con i 5 stelle.

I provvedimenti del governo, un nuovo modo di comunicare a colpi di tweet, i toni informali del segretario Pd: è presto per dire cosa abbia fatto più presa nell’elettorato under 40 e dintorni. Intanto ci sono numeri. Quelli di Ipsos, secondo cui il partito scalato da Matteo Renzi oltre a sfondare il muro del 40% conquista anche la vetta delle preferenze tra i 18 e i 24 anni: lo ha scelto il 35,5% dei giovanissimi, contro il 25,4% che si affida a Grillo e il 15,2% che punta su Forza Italia. Tecné analizza un segmento differente, tra i 18 e i 29 anni: il Pd raccoglie il 31% dei consensi, M5s il 34%, Fi il 12% «ma i Democratici hanno recuperato moltissimo – spiega il presidente Carlo Buttaroni – in questa fascia anagrafica l’anno scorso Grillo dilagava». «Il maggior successo» si registra però nella fa- scia 30-44 anni: il Pd è al 39%, contro il 26% del M5s e il 15% di Fi: fermo restando che in numeri assoluti il Pd raccoglie risultati «molto di sopra alla media» nelle fasce «over 45 e over 65», sono appunto i 30-40enni a regalare «l’incremento più significativo rispetto alle politiche 2013 quando invece la risposta era stata molto negativa. E in questo i dati Ipsos sono coerenti con i nostri». Quanto al consenso per Fi, «è interessante come sia più trasversale: la maggior parte dei voti li raccoglie ancora nelle fasce anagrafiche più alte, ma perde di meno tra i giovani».

Un altro sorpasso del Pd sul M5s, insomma, oltre a quello complessivo: «Il dato forte – riassume Buttaroni – è che il consenso del M5s in queste due fasce sia andato prevalentemente verso il Pd». C’è poi una considerazione sull’astensione, altra protagonista di queste Europee: «Una peculiarità di questo voto è che il calo della partecipazione si è fatto sentire in tutte le fasce di età, ma meno tra gli under 44». Il non voto insomma non seduce più come prima i più giovani. Un’indicazione che si ritrova nell’analisi dei flussi dell’Istituto Cattaneo di Bologna. «Ci sono due componenti fonda- mentali del successo del Pd – nota il professor Corbetta -: guadagna dal crollo di Scelta civica, i cui elettori per 3/4 si sono reindirizzati sui Democratici; e non per- de verso l’astensione, opzione scelta solitamente in larga parte dai giovani: un indizio indiretto che una parte dell’elettorato giovanile ha messo una scheda nell’urna perché c’era il Pd di Renzi».

RAGIONI E FRAGILITÀ DEL CONSENSO

Quanto alle ragioni di questa rinnovata sintonia tra il principale partito della sinistra italiana e gli under 45, il docente del Cattaneo precisa di non avere dati specifici ma riflette: «Renzi ha dato una sua impronta, nel governo e nel partito, con un forte rinnovamento anagrafico. In generale, in un contesto che penalizza i giovani qualsiasi richiamo allo status quo li avrebbe danneggiati, è evidente che chi parla di rottamazione e cambiamento dà loro speranza». Roberto D’Alimonte, politologo professore alla Luiss e direttore del Centro Italiano Studi Elettorali, a partire da questi e altri dati (di Ipr e Ghisleri, commentati ieri sera nel salotto di Vespa), sintetizza: «Il successo Pd in queste fasce di età è plausibile, Renzi parla il loro linguaggio, si è circondato di ministri e candidati giovani, ha dimostrato attenzione nei loro confronti. Gli 80 euro? Non credo siano stati determinanti per questo segmento elettorale». Ha pesato la forma o la sostanza? «Direi entrambe, i giovani si sono riconosciuti in lui, gli danno credito». «Renzi gode di quel fattore di novità, che solo un anno fa era rappresentato da Grillo – rimarca il professor Corbetta – e questo gioca a favore di un atteggiamento positivo dei giovani nei suoi con- fronti. Poi – avverte – può subentrare la delusione, Grillo ne è già stato colpito». Che la rinnovata luna di miele tra giovani e Pd sia tutta da coltivare lo suggerisce anche Buttaroni, sulla base di un’al- tra caratteristica di queste elezioni europee: «Il legame tra elettori e politica è debole e questo comporta un consenso provvisorio – avverte -: se cioè in passato era determinante l’ultimo mese della campagna elettorale, poi l’ultima settimana, oggi lo è l’ultimo miglio, tra la ca- sa e il seggio. Si decide insomma negli ultimi cinque minuti, tutte le previsioni sono destinate a essere smentite». «Il dato saliente della politica italiana oggi è la volatilità – concorda D’Alimonte – Renzi può costruire un nuovo blocco sociale maggioritario come sgretolare questo risultato. Ma nella conferenza stampa post voto si è mostrato consapevole del- la fragilità del consenso, credo che lavorerà per consolidarlo».

L’Unità 28.05.14

"I leader processano l’Europa", Alberto D'Argenio

Sotto una pioggerella autunnale i leader dell’Unione si ritrovano a Bruxelles per fare il punto dopo il voto europeo, drammatico in molti paesi per la vittoria dei populisti e della destra. Non in Italia, dove Matteo Renzi ha portato il Pd ad essere il primo partito dell’Unione.
E ora traccia la strategia per andare all’incasso, per portare a casa una poltrona di peso per l’Italia: a partire dalla carica di ministro degli Esteri dell’Unione.
Matteo Renzi arriva intorno alle cinque del pomeriggio, diserta il pre-vertice dei leader socialisti e insieme a Elio Di Rupo e a Francois Hollande sotto un cielo plumbeo va a rendere omaggio al museo ebraico, teatro della strage della scorsa settimana. Quindi corre al Justus Lipsius, sede dei vertici Ue, per tracciare con il suo staff la strategia con la quale condurre il negoziato che nelle prossime settimane occuperà la politica europea, quello per l’assegnazione delle presidenze delle istitutioni Ue: Commissione, Consiglio, Parlamento ed Eurogruppo. Riunione interrotta giusto da una telefona di Barack Obama, che si complimenta per la vittoria elettorale e poi discute con il premier italiano – come ha fatto con la Merkel e Cameron – del ritiro delle truppe alleate dall’Afganistan. Ma a Bruxelles si parla di poltrone e tutto ruoterà intorno a quella di maggior peso, la guida della Commissione dopo il decennio di Barroso.
Le famiglie politiche di Strasburgo prima delle elezioni avevano stretto un accordo, accettato senza entusiasmo dai capi di Stato e di governo, che chi fosse uscito vincitore dal voto avrebbe portato il suo candidato di punta a Bruxelles: per i popolari il lussemburghese Juncker, per i socialisti il tedesco Schulz. Il Ppe ha vinto di misura e ora tocca a Juncker, che per ottenere la maggioranza all’Europarlamento ha bisogno
dei socialisti. I quali al momento mantengono il patto. Ma se i laburisti britannici si sfileranno, la maggioranza dell’ex premier del Granducato sarebbe risicata, ci vorrebbe un accordo anche con i liberali. Alla cena di ieri sera i leader hanno dato mandato all’uscente Van Rompuy di sondare se Juncker avrà i voti necessari. Ma le cose per lui si complicano, visto che diversi premier non vogliono lasciare che la scelta sia presa da Strasburgo. E ieri sono usciti allo scoperto. David Cameron, contrario a cedere poteri all’Europa, ha bocciato Juncker: «No a nomi del passato». Lo svedese Reinfeldt, l’olandese Rutte e l’ungherese Orban sono stati ancora più espliciti. La Merkel in pubblico sostiene tiepidamente Juncker, ma nemmeno lei vuole farsi sfilare dal Parlamento la prerogativa di scegliere l’uomo forte di Bruxelles. Partita che potrebbe durare settimane, e la strada per Juncker potrebbe rivelarsi in salita.
E qui si apre la partita di Renzi. Il premier entra nella stanza del summit e riceve i complimenti dei colleghi per avere portato il Pd sul tetto d’Europa. La Merkel allarga le
braccia ed esclama: «Ecco il Matador!». C’è chi scherza, «dobbiamo brindare a prosecco, non a champagne». Hollande incassa. Nel suo intervento Renzi spinge perché l’Unione guardi a crescita e occupazione. Sulle poltrone non si sbilancia, fa capire che «nomina sunt consequentia rerum, prima mettiamoci d’accordo sul programma poi decidiamo i nomi». Ma il premier prende le misure, parlotta con gli altri leader per dare forma al piano che ha preparato nelle 48 ore successive al voto. La sensazione è che né Juncker né Schulz riusciranno ad ottenere la Commissione. In questo caso, spiegano a Palazzo Chigi, se si dovesse riaprire il negoziato, forte della vittoria del Pd, partito con più voti in Europa, l’Italia la giocherebbe da protagonista, sfidando i candidati che più o meno velatamente si sono già proposti: il polacco Tusk, il finlandese Katainen e l’irlandese Kenny. Se il negoziato davvero andrà in stallo non si esclude di poter giocare la carta di Enrico Letta per la presidenza della Commissione europea. Ma sarà dura, così come sembra difficile ottenere la guida dell’Eurogruppo con Pier Carlo Padoan. Dunque il secondo bersaglio di Renzi – così detta la strategia, pronta a cambiare all’aprirsi di nuovi spiragli – è la carica di Alto rappresentante della politica estera dell’Unione, oggi in mano a Catherine Ashton. Un posto di prestigio al quale il premier vede bene sempre Letta, ma che è ambito anche da Massimo D’Alema, che potrebbe però andare all’Onu come inviato per la Libia. Se all’Italia andasse invece un portafoglio “comune” all’interno della Commissione, il premier sceglierebbe l’Agricoltura, materia di esclusiva competenza europea che gestisce miliardi di euro di fondi. Il candidato ideale sarebbe l’ex ministro del governo Prodi, Paolo De Castro. Ma a quel punto l’Italia reclamerebbe la presidenza dell’Europarlamento con Gianni Pittella. C’è un’altra partita che Renzi segue con attenzione, quella interna al Partito socialista europeo. Un match del tutto slegato da quello delle nomine, ma che a Palazzo Chigi viene considerato comunque strategico. I socialdemocratici del Nord Europa imputano ai socialisti francesi di avere condannato il Pse all’immobilismo e ora guardano a Renzi per svecchiarlo. Musica per le orecchie del premier, che vuole sfruttare l’occasione anche per ottenere la prestigiosa carica di capogruppo del Pse all’Europarlamento, mai andata all’Italia. Scontata la candidatura di Roberto Gualtieri, che nell’ultima legislatura ha lavorato ad alti livelli, anche se Renzi alla fine potrebbe optare su Simona Bonafè: oltre a essere donna, è stato il candidato che ha preso più voti alle europee.

La Repubblica 28.05.14