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«La mossa decisiva a favore dei deboli», di Jean-Paul Fitoussi

«Quella conseguita da Matteo Renzi è una doppia, straordinaria, vittoria: perché è una vittoria italiana e al tempo stesso perché è una vittoria europea, in quanto aumenta fortemente il peso obiettivo dell’Italia in Europa e il suo peso negoziale nel vertice europeo». A sostenerlo è Jean-Paul Fitoussi, Professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma. È attualmente direttore di ricerca all’Observatoire Francais del Conjonctures Economiques, istitu- to di ricerca economica e previsione, autore di numerosi saggi, tra i quali l’ultimo è «Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale» (Einaudi, 2013). Quanto al successo, sia pur diversificato da Paese a Paese, del variegato fronte antieuropeista, Fitoussi annota: «I partiti antieuropeisti hanno intercettato il malessere della gente che dice no all’Europa dei sacrifici. Questo non significa, però, che la gente dice all’Europa. Vorrebbe vedere una Europa con un “viso più gradevole”».
Professor Fitoussi, quale Europa emerge dal voto?
«Un’Europa un po’ malata, ammaccata da sciagurate politiche iper liberi- ste che non solo hanno frenato la crescita ma hanno incrementato le diseguaglianze sociali. Il problema è che quando si fanno delle politiche sbagliate, la gente finisce per non credere più alla politica “normale”. La gente si è accorta, reagendo, che il voto può cambiare il governo ma il governo spesso non cambia la politica. E allora ci si chiede “a che serve cambiare governo se non si cambia politica…”. La gente, sempre di più, non è più motivata a dare il proprio sostegno a partiti di governo e quindi si indirizza verso qualsiasi partito o movimento che abbia un programma radicale, anche se non ci crede fino in fondo. La gente è per definizione “delusa” e lo è spesso a ragion veduta. Non è un atteggia- mento psicologico, questa delusione nasce da una sofferenza materiale, perché milioni di persone fanno fatica ad avere un’occupazione e un reddito».
E così rivolge il suo malessere contro l’Europa.
«Questo malessere va capito e non demonizzato. Va invece orientato verso nuove politiche che rompano final- mente con il fallimentare ciclo neoconservatore. Siamo ancora all’interno di una fase dove l’Europa continua ad essere ostaggio di trattati e di vincoli che invece di costruire un futuro di crescita hanno riportato l’Europa indietro nel tempo. Quei vincoli hanno contribuito in misura notevole a riportare il tasso di disoccupazione a quello degli anni Trenta, e ovunque siamo in una fase di diminuzione sostanziale del reddito. Con il voto di protesta, la gente ha detto no all’Europa dei sacrifici, ma questo non significa che il suo è un no all’Europa tout court. La gente vorrebbe vedere una Europa con un “viso più gradevole”. Il che significa agire sulla leva degli investimenti, strumento essenziale per dare un futuro alle giovani generazioni e rilanciare la crescita. Un passaggio ineludibile per raggiungere questo obiettivo è modifica- re profondamente il Patto fiscale». Per motivi di lavoro e impegni accade- mici, lei è spesso in Italia. Come si spiega il clamoroso successo del Pd di Matteo Renzi?
«Una lettura minimalista farebbe dire che Renzi è presidente del Consiglio da pochi mesi e dunque non ha avuto ancora il tempo di deludere la gente. Ma i suoi meriti sono ben altri. Renzi ha fatto una mossa poco comune in Europa: quella di favorire la gente con reddito basso. Ottanta euro al mese, significano mille euro all’anno e di questi tempi non è davvero poca cosa. Renzi ha dato un po’ di speranza alla gente. E lo ha fatto dando concretezza alle parole. Qualcosa sta cambiando, hanno pensato molti italiani, dopo tanti anni di restrizioni. E poi Renzi ha dato prova di un dinamismo che lo porta ad agire. Ha un programma chiaro e agisce per realizzarlo. Questo ha dato speranza e la speranza ha dato corpo ad una vittoria storica. In chiave interna e per il peso che l’Italia in Europa».
Dal trionfo di Renzi al tracollo di Hollan- de. Come spiegarlo?
«Perché Hollande non è stato all’altezza di quella speranza di cambiamento che lo aveva spinto all’Eliseo. La gente aveva puntato sui di lui perché sperava in un cambiamento politico e di avere politiche a sostegno di quelli che aveva- no più sofferto la crisi. Invece non è stato così. La politica di Hollande è stata quasi identica a quella di Sarkozy, e per certi versi addirittura più restrittiva, facendo pagare gli effetti della crisi a tutti i francesi, soprattutto alle classi più deboli e al ceto medio. E lo ha fatto disorientando l’opinione pubblica, che è stata raggiunta da messaggi ambigui, non capendo come un leader che si definisce di sinistra avesse potuto condurre politiche che di sinistra avevano poco o nulla. Il risultato è sconsolante. In poco temo, il Partito socialista ha preso due batoste elettorali mortificanti: prima alle amministrative, ed ora alle europee. Facendo vergognare la Francia agli occhi del mondo: uno dei Paesi fondatori dell’Europa ha come primo partito il Fronte Nazionale!».
Il voto seppellisce l’asse franco-tedesco?
«Non direi. Questo voto va spiegato con un’altra chiave di lettura. La Germania è in una situazione di crescita normale, mentre la Francia è in una situazione di stagnazione da almeno 5 anni. Se la Germania fosse in una situazione simile a quella francese, il risultato dei partiti oggi al governo, Cdu e Spd, non sarebbero stati così buoni. In Germania i partiti di governo hanno fatto il loro mestiere, cosa che non è avvenuta in Francia».
L’ondata antieuropeista…
«È stata quella che ci si aspettava. Spero almeno che sia servita da lezione ai vertici europei e alla Germania. Se non cambiano politica, allora sarebbero responsabili di una distruzione dell’Europa. Se non cambiano verso, le prossime elezioni europee saranno molto peggiori».

L’Unità 27.05.14

"La Ue e la sindrome del Re di Francia", di Timothy Garton Ash

Il giorno della presa della Bastiglia nel 1789, re Luigi XVI scrisse sul suo diario rien. Pochi leader europei avranno digitato la parola “niente” sui loro iPad ieri.Ma esiste il pericolo che in risposta al grido rivoluzionario risuonato nel continente effettivamente non facciano nulla. Il rien di oggi ha un volto e un nome. Si chiama Juncker. Jean-Claude Juncker.
Sarebbe un disastro se i leader europei rispondessero scegliendo come presidente della Commissione Europea Juncker, lo Spitzenkandidat del maggior gruppo politico del nuovo parlamento europeo, il Partito Popolare Europeo, di centrodestra. L’astuto lussemburghese è stato a capo di un governo nazionale Ue più a lungo di qualsiasi altro nonché presidente dell’Eurogruppo nel periodo peggiore dell’eurocrisi. Benché possieda notevoli doti di politico e sia abile nel concludere accordi incarna però tutto ciò che di infido il voto di protesta, da destra a sinistra, associa alle remote élite europee. Possiamo dire che Juncker è il Luigi XVI dell’Ue.
Il pericolo sta anche nei verosimili sviluppi nel Parlamento europeo. L’evoluzione più probabile è una sorta di grande coalizione implicita dei maggiori gruppi politici, centrodestra, centrosinistra, liberali e (almeno su alcune tematiche) i Verdi, allo scopo di tenere a bada tutti gli anti-partiti. Se altri sei dei partiti più xenofobi e nazionalisti
accetteranno la guida della trionfatrice Marine Le Pen del Fronte Nazionale francese occultando le differenze per dar vita ad un gruppo riconosciuto in seno al parlamento, otterranno finanziamenti (dalle tasche dei contribuenti europei) e una posizione più forte nel processo parlamentare, ma non ancora voti sufficienti a sopraffare una grande coalizione centrista.
Siamo sicuri che sia un bene? Nel breve periodo sì. Ma solo se la grande coalizione poi sosterrà una decisa riforma dell’Unione Europea. Si dovrebbe partire, simbolicamente, da uno stop al consueto pendolarismo tra la spaziosa sede di Bruxelles e quella lussuosa di Strasburgo — la Versailles dell’Ue — al costo stimato di 180 milioni di euro l’anno. Se però la grande coalizione implicita non produrrà risultati più fedeli ai desideri di tanti europei nell’arco dei prossimi cinque anni, non farà che rafforzare il voto anti Ue alla prossima tornata elettorale. Perché dell’insuccesso saranno ritenuti responsabili tutti i partiti tradizionali.
L’unico lato positivo di questo guaio di dimensioni continentali è che per la prima volta dalla elezione diretta del parlamento, nel 1979, nel complesso l’affluenza alle urne non è apparentemente diminuita. Il dato varia in misura notevole da paese a paese — in Slovacchia è stato stimato al 13 per cento ma in Francia, ad esempio, sono andati a
votare molti più elettori rispetto all’ultimo scrutinio. Si è finalmente visto quello che i filo europei predicano da tanto tempo: i cittadini europei attivamente impegnati nel processo democratico europeo. Ma, per somma ironia, lo fanno per votare contro l’Unione.
Qual è il messaggio lanciato dagli europei ai loro leader quindi? Lo ha riassunto in maniera perfetta il disegnatore satirico Chappatte, in una vignetta che rappresenta un gruppo di dimostranti che reggono un cartello con su scritto “Scontenti” — e uno di loro urla col megafono nell’urna elettorale. Gli Stati membri sono 28 ed esistono 28 varianti di scontento. Alcuni dei partiti di protesta vittoriosi sono realmente di estrema destra: in Ungheria, ad esempio, Jobbik ha ottenuto tre seggi e più del 14% dei voti. La maggior parte, come l’Ukip vincente in Gran Bretagna, attingono elettori a destra e a sinistra, puntando su sentimenti nazionalisti e xenofobi, tipo “riprendiamoci il mostro paese” e “troppi stranieri, pochi posti di lavoro”. Ma in Grecia il grosso del voto di protesta è andato a Syriza, partito di sinistra e antiausterity.
Simon Hicks, dall’alto della sua competenza riguardo al Parlamento europeo ha individuato tre principali scuole di scontento: i nordeuropei estranei all’Eurozona (britannici, danesi); i nordeuropei interni all’Eurozona (quei tedeschi che
hanno procurato parecchi seggi al partito anti euro Alternative für Deutschland); gli europei del Sud interni all’Eurozona (greci, portoghesi). Restano fuori gli europei dell’Est, molti dei quali sono scontenti a modo loro. Il fatto che lo scontento giunga al problema da angolazioni diverse rende più arduo affrontarlo. La politica dell’eurozona che sognano gli elettori di Syriza è l’incubo di chi ha votato Alternative für Deutschland.
Ma c’è una cosa che accomuna tutti: la paura per le opportunità dei loro figli. Fino a circa dieci anni fa generalmente si presumeva che per la generazione successiva le cose sarebbero andate meglio. L’“Europa” rientrava in una storia più ampia di progresso. Ma un sondaggio Eurobarometro degli inizi dell’anno ha rivelato che più della metà degli intervistati è convinto che i bambini di oggi avranno maggiori difficoltà nell’Europa di domani rispetto al presente. C’è già una generazione di laureati europei che si sente derubata del futuro che secondo le previsioni li attendeva. Sono gli appartenenti alla nuova classe sociale dei precari.
In un momento così drammatico per l’intero progetto europeo vale la pena di ritornare agli esordi al Congresso d’Europa del 1948, in cui il veterano paladino della Pan-Europa, Richard Coudenhove-Kalergi, così ammonì i cofondatori: «Non dimentichiamoci mai, cari amici, che l’Unione Europea è un mezzo, non un fine». Vale oggi come ieri. L’Unione Europea non è fine a se stessa. È un mezzo al fine di garantire al suo popolo una vita migliore — più prospera, più libera, più sicura.
Ora bisogna quindi concentrarsi fortemente sui risultati. Basta con gli interminabili dibattiti istituzionali. L’interrogativo non è “più o meno Europa?” ma “più o meno cosa?”. Ad esempio, serve più mercato unico nel settore dell’energia, delle telecomunicazioni, di Internet e dei servizi, ma forse meno politica determinata da Bruxelles per la pesca e la cultura. Bisogna assumere qualunque iniziativa produca anche solo un posto di lavoro per un disoccupato europeo. La burocrazia che fa perdere il lavoro va eliminata. Non è il momento di gente come Juncker. È il momento di chiamare in Commissione europea tutti i talenti, sotto la guida di un presidente di provata capacità, come Pascal Lamy o Christine Lagarde, totalmente dedito al compito di convincere le legioni degli scontenti che esiste un futuro migliore per i loro figli e che quel futuro è in Europa.
Ecco cosa dovrebbe accadere. Ma accadrà? Ho la terribile sensazione che in futuro gli storici possano dire delle elezioni del maggio 2014 “furono il campanello d’allarme cui l’Europa non seppe reagire”.
( Traduzione di Emilia Benghi)

La Repubblica 27.05.14

"Il riformismo diventa maggioranza", di Ezio Mauro

Dunque è “un’Italia di pensionati”, si suppone vecchia, impaurita e stanca, che ha sbarrato la strada alla trionfale avanzata di Beppe Grillo e al suo forcone già pronto ad infilzare in un colpo solo Napolitano e Renzi, aprendo così il primo processo del popolo decretato da un comico contro tutta la classe dirigente del Paese, in nome dell’unica rivoluzione al mondo proclamata sui divani bianchi di Vespa: solo che gli italiani, finito lo spettacolo e spaventati dal programma, hanno cambiato canale e la ghigliottina è rimandata.
È tipico del populismo autoipnotico dare la colpa agli altri dei propri errori e non saper leggere le ragioni della propria sconfitta. E infatti Silvio Berlusconi nasconde il suo declino dietro una campagna «dolorosa e sofferta per la condizione di uomo non libero», dimenticando che questa riduzione della libertà di movimento (non politica) è causa dei reati che ha commesso, accertati e sanzionati da tre Corti della Repubblica, dunque deriva interamente dalla sua responsabilità, non da una congiura.
L’identica reazione spaesata e fuori dalla realtà indica il parallelo declino dei due populismi (uno di destra, l’altro anche) che si contendevano la guida del grande malessere italiano sotto la pressione di una crisi senza fine, della rabbia dei cittadini per una politica inconcludente e perennemente inceppata, del disamore per una democrazia sempre più fondata sulle disuguaglianze e sui privilegi, dov’è saltato il tavolo di compensazione dei conflitti che ha tenuto insieme per anni — attraverso il lavoro, e i diritti che ne conseguono — i vincenti e i perdenti della globalizzazione.
Precipitato Berlusconi nel loop terminale di una parabola ormai asfittica, il rischio concreto era che i due populismi si passassero la staffetta, nella scorciatoia urlata e mimata nei palchi di tutt’Italia da chi promette soluzioni semplici a problemi complessi, in nome di un rifiuto non solo dell’Europa e dell’euro ma della politica tout court e di tutti i suoi rappresentanti. In una falsificazione che li vuole tutti uguali e tutti ugualmente colpevoli in attesa dell’angelo vendicatore grillino, smarrendo così la percezione politica dell’anomalia berlusconiana del ventennio e della prova che questo Paese ha attraversato, trasformata in avventura goliardica trasgressiva.
E invece gli elettori hanno rifiutato questo scambio al ribasso tra il voto e l’antipolitica che scommetteva sull’inferno quotidiano in nome dell’aldilà grillino. Invece di prendere a calci il sistema, come suggerivano gli imprenditori della rabbia, hanno preferito provare a cambiarlo. E il cambiamento, ecco la scommessa del voto, passa attraverso il governo, e quella parola antica che sembrava travolta dall’ondata montante del risentimento nazionale, il riformismo. Non solo: per la prima volta nel dopoguerra il progetto riformista supera il 40 per cento, doppia il livore grillino, riduce ai minimi termini Berlusconi e il partito che dominò il Paese umiliandolo. Improvvisamente, acquista un significato quella vocazione maggioritaria con cui era nato il Partito Democratico. E anche quella costruzione politica che traghettava oltre la stagione del Muro le due tradizioni dei cattolici democratici e dei comunisti (questi ultimi con il loro rendiconto tardivo e incompiuto) prende finalmente corpo come spina dorsale del sistema e si affaccia all’Europa come protagonista.
Renzi è l’attore di questa svolta. Ha probabilmente combinato metodi da opposizione e cultura di governo, ha sicuramente unito la pancia e la ragione degli elettori, ha certamente esagerato negli annunci e nelle promesse. Ma ha indicato un approdo di cambiamento governato ad un Paese eternamente in transito, nevrotizzato dagli estremismi berlusconiani e grillini, e dalle loro pulsioni diversamente unite in una radicalità di destra, con una “feroce gioia” comune contro le istituzioni repubblicane. È sorprendente che gli elettori abbiano accettato questa proposta politica nel mezzo di una crisi infinita e pesante, che ormai penalizza l’Italia più degli altri Paesi proprio per i ritardi e le ambiguità dei governi che si sono succeduti.
In tutto il continente l’antieuropeismo dilaga, triplicando le sue forze, con un testacoda spettacolare in Francia dove il socialismo del presidente Hollande scende sotto la legge di gravità e la nuova-vecchia destra lepeniana diventa primo partito. L’euroscetticismo ha ragioni fondate, con la divaricazione tra il potere (la potestà di fare le cose) e la politica (la capacità di scegliere le cose giuste da fare), le istituzioni lontane e meccaniche, l’Unione percepita soprattutto come un vincolo, senza che venga più percepita la legittimità di quel vincolo. Anche qui l’Italia poteva scegliere la scorciatoia cieca del gran rifiuto, per finire a galleggiare libera ma disancorata in mezzo al Mediterraneo. Ha scelto invece di provare a cambiare l’Europa. Cioè, nella stagione trionfante dell’antipolitica, ha scelto la politica.
Incredibilmente, l’Italia può provare ad essere agente del cambiamento europeo usando due strumenti che fino a ieri non aveva: la leva comunitaria della presidenza di turno dell’Unione, nel secondo semestre dell’anno, e la leva politica del Pse, di cui il Pd è oggi il primo partito. E qui diventa decisivo l’approdo al Pse di un Partito Democratico che per tre segreterie aveva galleggiato nell’indistinto europeo, bloccato dai vari Fioroni democristiani e da vecchi complessi comunisti, come se non fosse ben chiaro qual era la famiglia delle forze riformiste e di progresso europee. Invece bastava volerlo, bastava farlo. Adesso il Pse va usato per cambiare il codice europeo della crisi, aggiungendo le priorità assolute della crescita e del lavoro all’austerità, sotto la minaccia
della deflazione.
Renzi ha dunque l’Europa come prima partita, la più ambiziosa. Le riforme sono la seconda, e dovrà strappare sulla legge elettorale, per chiudere al più presto, e trovare invece un compromesso ragionevole sul futuro del Senato, salvandolo ma superando definitivamente il bicameralismo perfetto. La
terza sfida, è il suo partito. Nato come costruzione a tavolino, ora può diventare una comunità, un’agenzia culturale di cambiamento, un luogo di forte mobilità politica e di selezione di nuove classi dirigenti, sbarrando per sempre la strada ai troppi Greganti e agli eterni Penati, promettendo di ripulire le liste alle prossime elezioni, di cambiare la legge sulla corruzione, di fare la guerra alle mafie. Da qui, e non solo dalla riduzione delle auto blu, passa la modernizzazione del Paese.
Questa infatti è la vera posta in gioco. Chi — come dice la vignetta di Altan — mastica amaro a sinistra per la vittoria di Renzi e parla di ritorno della Dc, non legge la nuova geografia politica italiana che oggi Ilvo Diamanti illustra: la vittoria al Nord dopo la chiusura difensiva nella dorsale apenninica, la riconquista del Piemonte dopo la Sardegna e insieme all’Abruzzo, il boom di Milano, Verona, Varese, Como non sono solo segnali territoriali ma dislocazioni di ceti e soggetti sociali che vogliono un cambiamento perché l’arretratezza del Paese è una palla al piede per le loro attività. La sinistra può dunque parlare ad un centro non politico o ideologico, ma di interessi, che dopo l’illusione del laissez faire berlusconiano e l’inutile ruggito grillino può essere per la prima volta coinvolto in un progetto di cambiamento.
Guai se il cannibalismo professionale, l’aridità storica e l’albagia abituale del gruppo dirigente democratico disperdessero questa occasione nazionale. Guai se Renzi non capisse, proprio oggi, che per cambiare un partito bisogna rappresentarlo e rispettarlo. Guai se Grillo continuasse a sotterrare i talenti del consenso elettorale (ridotto) invece di spenderli in una sfida aperta e trasparente per le riforme, passando dalla politica recitata e minacciata alla politica reale. Resta Berlusconi, al bivio della successione tra la democrazia (un congresso, un vero confronto interno, le primarie) e la dinastia, un familiare cui trasmettere uno scettro spezzato e il conflitto d’interessi intatto. Sceglierà questa strada, semplicemente perché è quella che più garantisce la sua persona: e avvererà la profezia secondo cui tutto ciò che ha creato, lo distruggerà.

La Repubblica 27.05.14

"Eventi storici, ma Renzi non ha tempo", di Stefano Menichini

Dal voto di domenica un’incredibile sequenza di novità clamorose per la sinistra. Eppure il premier non festeggia. Perché sa quanto sia volatile e quanto sarà esigente quel 40,8 per cento. E perché a Bruxelles lo aspetta una responsabilità enorme. In una sola domenica si concentrano più fatti storici che in sette anni di vita del Partito democratico. Ma colui che l’ha resi possibili non ci si ferma su, se non per una breve frase di circostanza, per dichiarare una commozione che non trapela da nessuna parte.
È la prima volta nella storia della repubblica che un partito di sinistra sfonda la mitica quota 40. È il più ampio distacco mai registrato fra il primo partito e chi lo segue. È la prima volta che la sinistra è maggioranza in tutte le regioni. Un partito di sinistra torna dopo decenni a insediarsi nel Nord, con cifre da capogiro in una delle aree più industrializzate d’Europa, ritrovando contatto con pezzi di società che parevano irrangiungibili. Appena entrato nel Pse, il Pd ne prende già la guida, col maggior numero di eletti. Il governo è l’unico nell’Unione che avanza nelle urne.
Renzi ottiene questi risultati sei mesi dopo essere diventato segretario del Pd, dopo neanche tre mesi a palazzo Chigi. Solo due anni fa nel suo stesso partito lo definivano un infiltrato, un estraneo, un alieno: evidentemente lo era davvero rispetto a quella sinistra lì.
Lui però, almeno in pubblico, non solo non festeggia ma è già altrove, si occupa d’altro. E fa bene. Sapevamo che il difficile sarebbe arrivato dopo il voto. Non pensavamo però che sarebbe stato così difficile. Nonostante la vittoria. Anzi, proprio in ragione di essa.
Proviamo a mettere in fila le grane che aspettano il trionfatore delle europee, togliendo però subito di mezzo l’unica sulla quale ci siamo concentrati nelle scorse settimane contribuendo tra l’altro a confondere le idee ai malcapitati militanti del movimento Cinquestelle.
Infatti, il meno grave dei problemi del premier pare essere la tenuta del quadro politico nazionale. Un po’ tutti vedevamo il grande innovatore rallentato nella sua azione, frenato da avversari dichiarati e occulti, costretto nella palude di un parlamento che non lo amava, convincente solo in parte sulle misure economiche sulle quali aveva puntato e che tanti – dai famosi tecnici del senato agli impazienti commentatori liberal – consideravano o esagerate o insufficienti, a scelta.
Concentrati sul rapporto tra Renzi e il Palazzo, abbiamo pensato che per tutti questa sarebbe stata la pietra sulla quale valutarlo. Per Grillo, la pietra alla quale inchiodarlo. Così abbiamo perso di vista l’essenza del renzismo, che è altrove. Alcuni milioni di italiani infatti hanno incontrato Matteo Renzi per la prima volta solo domenica, e la reazione di affidamento che nel dicembre scorso era stata degli elettori delle primarie si è estesa a una grande parte del corpo elettorale.
Proprio questo affidamento consegna al Pd e al suo segretario il primo problema. Quel 40,8 per cento, appunto perché contiene persone che per la prima volta pensano di potersi fidare di un leader di sinistra, sarà terribilmente esigente. E volatile: la fluidità elettorale (almeno di questo, merito va dato a Grillo) è tale che il Pd non può dare per acquisito un risultato così eccezionale. Di qui l’urgenza che Renzi avverte e che ha restituito a chi aspettava da lui feste e sorrisi. Un’urgenza che il premier ribalterà sugli altri partiti: tutti malconci e sofferenti per l’alleanza o per l’ostilità col Pd, ma egualmente obbligati a guardare in faccia la domanda di riforme che sale potente dal paese.
Poi, anzi prima, c’è l’Europa. Abbiamo la risposta alla domanda di questi mesi: chi può difendere gli interessi italiani contro l’euroburocrazia e politiche sbagliate. Ma non sappiamo se all’attenzione conquistata da Renzi nel Pse e fra i suoi colleghi capi di governo corrisponderanno un’adeguata capacità e la forza politica necessaria a invertire la rotta. Imprevedibilmente, sulle spalle di questo uomo di neanche quarant’anni pesa oggi una responsabilità che travalica i confini. Lui, il presunto sbarazzino, la sente tutta. Ecco perché non ha tempo per festeggiare.

da Europa Quotidiano 27.05.14

"La grande occasione", da L'Unità

Nessuno si aspettava un successo del Pd di queste dimensioni. In nessuno dei grandi Paesi europei il responso elettorale è stato così netto. Si dovrà riflettere ancora su quanto è avvenuto (anche perché i sondaggi sbagliano sempre, e sempre di più). Di certo, è un risultato di portata storica. Basti pensare che nessun partito italiano, dopo la Dc nel 1958, ha più superato la soglia del 40% in un’elezione generale. Il Pd è stato percepito – nel pieno di questa crisi sociale, morale, istituzionale – come il «partito della nazione», il solo in grado di difendere le istituzioni dal rischio di un’azione distruttrice e al tempo stesso di guidare il Paese verso il rinnovamento necessario. ̀ certamente merito di Matteo Renzi aver creato un feeling con settori della società che guardavano alla sinistra con diffidenza. Ma ora sulla sua leadership, e sull’intero partito, c’è il carico di una grandissima responsabilità verso il Paese e verso l’Europa.
Suscitare aspettative è un merito di chi fa politica. L’aspettativa contiene dosi di speranza e di fiducia che non hanno solo un valore etico, ma anche economico e di coesione sociale. Però occorre darvi un seguito coerente: altrimenti è solo demagogia. Domenica sono stati i cittadini a voler stipulare un patto con il Pd, proprio mentre Grillo esibiva tutto il suo nichilismo, il suo desiderio di ridurre ogni cosa a macerie. Adesso quel patto va onorato. Con rigore e con apertura. Il voto di domenica – alle europee, ma anche alle regionali di Piemonte e Abruzzo e alle tante elezioni comunali, concluse con un vero e proprio «cappotto» del centrosinistra – ha dato al governo Renzi quella legittimazione piena, che qualcuno ancora contestava dopo il tormentato passaggio di testimone con Enrico Letta. Non ci sono elezioni politiche all’orizzonte. Semmai le elezioni a breve sono il retropensiero di chi vuole intrappolare Renzi. Nei prossimi due anni c’è solo quel patto da rispettare e rafforzare. L’obiettivo è far uscire l’Italia dal pantano, innovare recuperando tanto tempo perduto, riformare per aumentare l’inclusione sociale, non certo per favorire nuove fratture.
Quando nacque il Pd furono Alfredo Reichlin e Pietro Scoppola, due padri fondatori, a parlare di un nuovo «partito della nazione». Un partito che doveva portare il Paese fuori dalla crisi del berlusconismo e rilanciare, su basi nuove, la prospettiva europea. Questo non è avvenuto alla caduta di Berlusconi, anche perché il Pd ha sacrificato se stesso e la propria politica all’altare di una drammatica emergenza finanziaria. Il paradosso è che questo profilo sia emerso con tanta nettezza proprio oggi, di fronte al Grillo che gridava «tanto peggio tanto meglio», che puntava sulla paura e che faceva paura. Ovviamente, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la svolta personale impressa da Renzi, a partire dal rinnovamento generazionale e dalla sua comunicazione politica. Ma il Pd non avrebbe raggiunto quota 40, se nel Paese non fosse scattato un autentico allarme per la prospettiva meramente demolitrice dei Cinque stelle.
Di fronte a quella proposta sfascista, e di fronte a una destra divisa e disarticolata, il Pd è diventata la sola bussola. Lo è diventato anche per aree moderate e per ceti sociali che mai avevano votato a sinistra. Nei picchi storici del Pci, così come nelle prime elezioni del Pd, mai era stato toccato il 37% in Veneto o il 36 in Calabria. Domenica invece il Pd è stato ovunque sopra il 35%. Un partito anche sociologicamente «nazionale». Non più un partito a prevalente trazione delle Regioni rosse. E questo rafforza i termini della sfida, oltre che le responsabilità sulle spalle del Pd.
Fa molto discutere in queste ore il paragone «democristiano». L’idea del Pd come nuova Dc è spesso il pretesto per una polemica di carattere ideologico. È come dire che il Pd ha ormai compiuto una mutazione genetica, una trasformazione di segno moderato e centrista, e per questo è oggi il partito più votato dagli artigiani del Nordest o nelle città del Sud. Ma in questa polemica c’è un pregiudizio che impedisce di cogliere la sfida cruciale per la sinistra e per il Paese. Tutta l’Europa è chiamata a un cambio di paradigma: per questo sono in crisi anche le famiglie politiche più tradizionali e consolidate. Per ragioni storiche, legate alle nostre vicende interne, la sinistra (o se si vuole il centrosinistra) viene chiamata ad assumere un ruolo centrale, di cerniera tra le istituzioni esistenti e l’innovazione inevitabile. La sinistra è la sola possibilità del Paese. E cosa dovrebbe fare? Mettersi all’opposizione di se stessa? Oppure giocare le proprie carte, tentando di rinnovare se stessa, di ricucire gli strappi del Paese e di svolgere consapevolmente un ruolo di guida, come toccò alla Dc nel dopoguerra? Il problema semmai è come svolgere questo ruolo, con quale visione, con quale capacità di aiutare anche i competitori a un cambiamento e a una ricostruzione delle regole comuni. Il dna della sinistra italiana ha impresso i tratti e lo spirito della Costituente. Sono i valori radicali da non rottamare. Non è detto che capiterà ancora alla sinistra un’occasione così grande per servire questo Paese. Non capiterà neppure di avere una forza negoziale come quella che Renzi, dall’alto del suo straordinario risultato, avrà nel consiglio europeo di domani e poi nel semestre di presidenza italiana dell’Ue.

L’Unità 27.05.14

"Foto di gruppo con sorrisi e vittoria è la Renzi-generation", di Filippo Ceccarelli

Gente allegra, il ciel l’aiuta. La frustrazione non fa prendere voti, e chi mette su il muso o fa l’isterico sembra condannato a perderli — o almeno così sembra.
E quindi la vittoria del Pd si rispecchia come meglio non si potrebbe nella foto qui sopra, realizzata in super grandangolo alle ore 1,25 della notte. Boschi, Guerini e Serracchiani hanno appena finito di parlare: «Fino a quel momento — ricorda Giuseppe Lami, dell’Ansa — stavano come delle mummie». Lami è inginocchiato dinanzi al tavolo della sala stampa, inquadratura frontale, obiettivo 17 mm, dietro di lui una rumorosa ed eccitata moltitudine di giornalisti, fotografi e cameramen reclama una foto di gruppo, «come una squadra che ha vinto la Coppa Italia».
Altri dirigenti e ministri presenti in sede prendono allora ad accalcarsi sul fondale, che proietta bandiere europee e del Pd. C’è euforia, qualcuno dal mucchio fa notare gridando: «Ohi, manca quello più importante! ». «Sì, però noi ci siamo! — rispondono — e siamo tutti importanti», e sorridono, ridono, battono le mani, e Lami scatta, clic-clic-clic.
Foto di gruppo, gioia collettiva, successo condiviso, microfoni finalmente abbandonati sul lungo tavolo comune. A pensarci bene, è proprio la mancanza di Renzi a rendere emblematica quest’immagine. Perché i 18 «nuovi» dirigenti democratici trasmettono per una volta l’idea di un gruppo non solo allegro e in fondo ringiovanito, ma omogeneo e compatto.
Piccolo grande miracolo al Nazareno, già tempio funesto di magoni elettorali, ma anche e normalmente rinomato deposito di ombre, delusioni, sospetti, rancori, servilismi, ipocrisie, fissazioni, paure e bugie. Tutta roba che guasta i rapporti tra gli individui alimentando le più annose rivalità, ma lascia una inopinata traccia visiva, perché le foto delle consuete occhiatacce e delle finte indifferenze tradiscono i reciproci sentimenti e risentimenti.
E’ raro in politica, specie sotto la dittatura delle apparenze, degli annunci, degli spot, dello zapping e delle strategie comunicative, imbattersi in qualche momento di vera e gratuita spontaneità. Sempre più le atmosfere si costruiscono, sempre più bravi specialisti accendono e mettono in moto le macchine emotive, così come i leader- protagonisti recitano a più non posso; se non lo fanno rischiano di essere penalizzati perché nella loro normalità il pubblico cambierebbe canale. Ecco, nel caso di questa istantanea pare invece di cogliere qualcosa di non fasullo, un attimo di realtà.
Ora, con il dovuto azzardo questo scatto si presta a due letture e in qualche modo anche a due esiti. La prima è che sull’onda della vittoria il generale ed evidente tripudio
dei giovani democratici si possa interpretare come il compimento di una concezione messianica. Cioè finalmente, dopo tante amarezze e tanti misfatti, dopo tanto essersi illusi (Prodi, D’Alema, Rutelli, D’Alema, Veltroni, Bersani), il popolo del Pd ha trovato la sua guida vincente, il suo liberatore, il suo rottamatore, il suo vendicatore, il suo redentore, il suo «tutto» — con evidenti rischi di de-responsabilizzazione.
L’altra lettura, complementare, ma per certi versi anche opposta, è che questo partito, nato male e cresciuto peggio, può oggi felicemente disporre di un’entità che in passato, nella Dc come nel Pci, gloriosi antenati, aveva un suo umile prestigio e anche una sua efficacia pratica: il cosiddetto «gruppo dirigente», che in qualche misura rifletteva la vita democratica dell’organismo e del modo in cui organizzava il potere.
In tempi di leadership carismatiche, chiusure oligarchiche e contaminazioni burocratiche e/o notabilari, di questo comparto, di questo apparato direttivo e collettivo si erano proprio perse le tracce. O meglio: nessun altro partito come il Pd è rimasto lacerato, incastrato e paralizzato nelle zuffe, negli appetiti e nelle paturnie dei suoi stessi dirigenti (ex presidenti e ministri compresi).
Questi che si vedono esultare nella foto hanno volti ancora abbastanza sconosciuti; e seppure faranno in tempo a rovinarsi, nel frattempo chissà che la gioia non li renda migliori, e l’autenticità non torni a premiare non solo in termini elettorali, ma pure di soluzioni e risultati.

La repubblica 27.05.14

"Riforme prima dell’estate. Si parte da lavoro e burocrazia", di Fabio Martini

Era stata una battuta molto lusinghiera, quella che Barack Obama aveva usato con Matteo Renzi in un colloquio a tu per tu due mesi fa e, per la verità, il ciarliero presidente del Consiglio non l’ha mai propalata. Disse il presidente degli Stati Uniti, sui divani di Villa Madama: «Matteo, tu puoi diventare un modello in Europa». Quella frase impegnativa deve essere tornata alla mente di Renzi in queste ore, adesso che il premier – forte di un mandato popolare impetuoso – vede aprirsi davanti a sé un orizzonte arioso. Come spendere questo bonus, questo surrogato europeo che lo ha finalmente legittimato a palazzo Chigi? In queste ore, chiacchierando con i suoi collaboratori più stretti – Graziano Delrio, Luca Lotti, Maria Elena Boschi – ha messo a fuoco e deciso il ruolino di marcia da qui alla pausa estiva di inizio agosto. Tre missioni ben scandite e che si possono riassumere in una espressione che Renzi non ha usato, ma che le racchiude: diventare il presidente di tutti.

Un profilo che, ieri durante la conferenza stampa a palazzo Chigi, per la prima volta Renzi ha assecondato: nel suo completo grigio ferro e con le sue parole di comprensione per tutti, per Berlusconi, per i parlamentari cinquestelle e persino per Beppe Grillo. E rimuovendo qualsiasi trionfalismo, ha sublimato questo aplomb ecumenico con una battuta: «Basta con quell’atteggiamento di superiorità della sinistra verso chi la pensa diversamente». Una battuta che, senza citarlo, ha alluso all’intoccabile Enrico Berlinguer che, a suo tempo, teorizzò la superiore diversità dei comunisti.

Nella stagione che si è aperta ieri la prima mission decisa da Matteo Renzi è quella di provare a stringere un asse dentro il partito, con una pacificazione con la minoranza e la nomina di un presidente di quella area. Seconda missione, le riforme: «il cambiamento che abbiamo promesso deve arrivare in tempi ancora più veloci di quelli che avevamo immaginato» e dunque «accelerazione» su tre riforme chiave (Pubblica amministrazione, lavoro, Senato), aperte al contributo di tutti, «anche dei parlamentari del Cinque Stelle». Con una possibile pausa di riflessione (ma non sine die e comunque non dichiarata esplicitamente), sulla legge elettorale.

Terza missione: un ruolo protagonista della «nuova» Italia in Europa. Nella partita delle nomine in vista per i vertici europei, Matteo Renzi non intende rivendicare poltrone per l’Italia e per il Pd primo partito del Pse, ma comunque vuole far valere la «golden share» all’interno del Partito socialista europeo, facendo valere nella trattativa con i capi di governo una realtà fino a pochi mesi fa inimmaginabile: il Pd, assieme alla potente Cdu tedesca, è diventato il partito-leader all’interno della Ue. Tre missioni che spostano al 2018 l’«orizzonte» del governo, in questo modo soffocando (almeno per ora) ogni tentazione del premier verso le elezioni anticipate.

Il «nuovo» Renzi ha cominciato a vedersi in azione due notti fa. Appena è diventato chiaro il trionfo elettorale, il presidente del Consiglio è entrato nel suo ufficio nella sede del Pd, ha lasciato le porte aperte, consentendo a tutti, anche a quelli della minoranza, di entrare, mischiandosi in un’unica squadra. E infatti Renzi, più tardi, ha detto in conferenza stampa: «Mi ha fatto piacere vedere al Nazareno un gruppo dirigente, c’era una foto di gruppo». Gesto simbolico che prelude all’offerta della presidenza a Gianni Cuperlo? O si glisserà su soluzioni, la parlamentare Valentina Paris, meno impegnative? Una cosa è certa: alla minoranza non saranno offerti incarichi pesanti, come l’organizzazione o gli enti locali.

A Renzi stanno a cuore tutte le riforme, una in particolare. Quella del lavoro «va accelerata» con l’approvazione del ddl delega perché «su questo punto giochiamo larga parte della nostra credibilità internazionale». In compenso, sapendo che il terremoto del 25 maggio è destinato a rallentare il passo della legge elettorale, Renzi ha intenzione di rialzare l’asticella su tutte le altre riforme, a cominciare da quella del Senato. Perché come ha confidato lui stesso, il boom elettorale ha messo nelle sue mani, una pistola spenta che può diventare fumante in qualsiasi momento: basta minacciare i riottosi con la prospettiva delle elezioni anticipate. Uno scenario che per gli avversari del Pd, da due giorni, è diventato uno spettro.

La Stampa 27.05.14