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"Martin Schulz se vince il PPE l'Europa vivrà altri 5 anni di tagli e ingiustizie", di Andrea Bonanni

È stata la destra a ridurre le istituzioni europee in questo stato: hanno 21 commissari su 28. Poi, al momento della campagna elettorale, si scoprono una coscienza sociale e fanno bei discorsi. Ma la verità è che se vincerà il Ppe ci toccheranno altri cinque anni di austerità e ingiustizie sociali». Martin Schulz è il candidato dei socialisti e democratici alla presidenza della Commissione di Bruxelles. E in questa intervista a “Repubblica” dice la sua su tutti i grandi temi sul tappeto: dall’avanzata dei movimenti populisti all’immigrazione, al lavoro giovanile. «Io capisco gli elettori di Grillo: sono pieni di disperazione. Ma gli eurodeputati 5 Stelle saranno isolati e non conteranno nulla». Infine il caso Geithner: «Non c’è bisogno di un segretario al Tesoro Usa per risolvere il problema Berlusconi. Comunque, è meglio stare zitti se non si hanno le prove.

Presidente Schulz, ha letto le dichiarazioni dell’ex ministro del Tesoro americano, Geithner, su un complotto di esponenti europei per far cadere il suo arci-nemico Berlusconi nell’autunno 2011? Che ne pensa?
«Mah… Tutto quello che posso dire è che non sono stato io. Non ho mai incontrato Geithner in vita mia. Comunque, a parte gli scherzi, non c’è bisogno del segretario al Tesoro Usa per risolvere il problema Berlusconi. Quello è un nodo che devono risolvere gli italiani con il voto».
Appunto. E invece Geithner denuncia un complotto degli europei. Dice che volevano che Washington bloccasse i finanziamenti del Fmi all’Italia, finanziamenti che peraltro non ci sono mai stati…
«Questa storia è veramente troppo bizzarra per meritare un commento. Invece di innescare delle speculazioni, Geithner avrebbe dovuto fare dei nomi. Forse dice il vero, forse no. Ma è meglio stare zitti se non si hanno prove di quello che si dice».
Lei da presidente del Parlamento europeo si è candidato per i socialisti e democratici alla guida della Commissione di Bruxelles. Come cambierà l’Europa se verrà eletto?
«Per cambiare l’Europa non basta avere la maggioranza in Parlamento. Il potere di iniziativa, cioè di proporre leggi e regolamenti, resta appannaggio della Commissione. Se si vuole davvero cambiare bisogna partire da lì: dal motore delle istituzioni europee. Sono tre le nostre priorità. La prima è la lotta
all’evasione e alla frode fiscale. È una questione essenziale. Sono qui a Verona, nel cuore del Nord-Est, e ho incontrato molte piccole e medie imprese che sono la spina dorsale della regione. Perché loro pagano le tasse e le grandi multinazionali che guadagnano miliardi riescono invece a eludere impunemente il pagamento delle imposte? È una profonda ingiustizia. La seconda priorità è dare un lavoro ai giovani. Nella mia visione, il senso vero della politica è quello di garantire i nostri figli migliori possibilità di quelle che abbiamo avuto noi. Invece qui ci stiamo perdendo un’intera generazione. La terza priorità è quella di non decidere a Bruxelles cose che sarebbero meglio regolate a livello nazionale o locale. L’eccessivo accentramento è una delle cause del risentimento verso le istituzioni Ue».
Tra le emergenze non ha citato l’immigrazione. Eppure l’ennesima tragedia nel mare libico è al centro di un contenzioso tra Roma e Bruxelles…
«In Germania i democristiani mi hanno appena attaccato perché ho detto che non si possono lasciare sole Spagna, Italia e Grecia ad affrontare l’emergenza rifugiati. Le regole di Dublino sul diritto di asilo non risolvono tutto. Per prima cosa dobbiamo dotarci di un sistema comune che regoli l’immigrazione legale, stabilendo quote per ciascun Paese. Solo così si mettono le basi per combattere l’immigrazione illegale ».
E i controlli comuni alle frontiere?
«Siamo realisti: non credo che gli Stati nazionali accetterebbero di rinunciare alla sovranità sulle loro frontiere»
Presidente, i sondaggi dicono che in Italia Grillo sarà il secondo partito. Perché la gente che vuole cambiare non dovrebbe votarlo?
«Perché chi vota Grillo non cambia nulla, né in Italia né in Europa. Gli eurodeputati del Movimento 5 stelle resteranno da soli e isolati nel Parlamento europeo, non conteranno nulla. E magari Grillo gli proibirà anche di votare, come ha già fatto nel Parlamento italiano minacciando multe per chi disobbedisce: un comportamento stalinista e antiparlamentare. E poi non riesco neppure a capire che cosa vuole: propone allo stesso tempo gli eurobond e l’uscita dall’euro. Forse non lo sa neppure lui».
Grillo intercetta un malcontento diffuso in tutta Europa…
«Capisco le ragioni di questo stato d’animo. Non condanno certo gli elettori di Grillo, e neppure quelli di Berlusconi. Sono pieni di disperazione e hanno perso la fiducia nelle istituzioni. Se ascoltano i nostri discorsi, sentono gente che parla solo di miliardi, quando per il 95 per cento dei cittadini mille euro sono una cifra importante. In una notte i capi di governo hanno stanziato 700 miliardi per salvare le banche. Ma quando si tratta di varare una tassa sulle transazioni finanziarie occorrono anni per mettersi d’accordo. Juncker, il candidato del Ppe, mi accusa di non avere esperienza di governo. Ma io ho fatto il sindaco di una piccola città in Germania e conosco le preoccupazioni della gente».
Parliamo di Juncker. Perché la gente non dovrebbe votare per il Ppe?
«Juncker è candidato del Ppe grazie all’appoggio della Merkel e di Berlusconi, che pure fa campagna contro la Merkel stando nello stesso partito. Adesso Juncker prende le distanze da Berlusconi e dice di detestarlo. Ma i suoi voti li accetta, eccome. Il Ppe è responsabile dello stato attuale dell’Europa. Ha controllato la maggior parte dei governi dell’Ue e la Commissione europea. La destra ha espresso 21 commissari su 28, da Tajani a Olli Rehn. Sono loro che hanno ridotto l’Europa in questo stato. Poi, al momento delle elezioni, si scoprono una coscienza sociale e fanno bei discorsi. Ma, se saranno eletti, ci toccheranno altri cinque anni di austerità e ingiustizia sociale».
E però i sondaggi dicono che il Ppe vi batterà, sia pure di poco. Allora chi farà il presidente della Commissione?
«L’ultimo sondaggio che ho visto ci dà in testa. E io ci credo fermamente. Quanto al presidente, sarà quello che riuscirà a raccogliere una maggioranza in Parlamento. Chi uscirà primo dalle elezioni sarà il primo a fare le consultazioni. Ma non è detto che trovi una maggioranza».
Sta dicendo che, dopo il voto, farete una grande coalizione con il Ppe?
«Capisco la domanda. Ma prima del voto non è il tempo per parlare di accordi. Adesso quel che conta è vincere le elezioni. E noi le vinceremo».

La Repubblica 15.05.14

"Migranti, le foto mai viste dei morti in fondo al mare", di Attilio Bolzoni

Guardate cosa c’è oltre le nostre parole, i nostri articoli, le storie che raccontiamo ogni volta che s’inabissa un barcone. Guardate questi corpi che si abbracciano, in fondo al mare. È tutto quello che resta di loro. Corpi.
I corpi abbracciati dei migranti vittime della strage del 3 ottobre in Sicilia
SUUNOs fondo azzurro, bello, dove intorno sembrano nuotare anche i pesci o forse sono solo piccole boe trascinate giù dalle correnti.
Guardate e poi ripensate alle parole: naufragio, migranti, Mediterraneo. Scivolano così velocemente che neanche ce ne accorgiamo, le ripetiamo o le scriviamo sempre il giorno dopo, un reportage, un titolo, un numero — 120, 285, 366 — che riferisce la portata della «tragedia». È un’altra di quelle parole: tragedia, tragedia del mare. Ci siamo abituati, siamo addestrati a riportare con dovizia di particolari le dinamiche degli affondamenti, ogni dettaglio curioso, ci siamo specializzati nel ricostruire le vite degli altri che non ci sono più.
Khaled del Marocco che ha perso il figlio al largo di Zarzis, Samir che si è salvato fra Cala Creta e Cala Croce, la ragazza somala senza nome che ha partorito mentre moriva a poche miglia da Porto Empedocle. È diventata la nostra normalità, siamo noi l’Italia che ha imparato tutto sui migranti che affogano e su come affogano, sappiamo da dove vengono e dove vogliono arrivare, quali sono i loro sogni, cosa hanno lasciato. Sappiamo tutto di loro. In molti proviamo pietà, alcuni provano o dicono di provare fastidio. In molti soffriamo, altri s’incazzano perché sono morti qui, proprio qui da noi, in quell’Italia che non li vorrebbe mai né vivi e né morti. Politicamente corretti e politicamente scorretti, pregiudizi, ideologie, razzismi, stupidità che diventa malvagità. E c’è chi prega, chi dichiara, c’è chi promette e chi minaccia.
Ma li avete visti, li avete visti davvero questi corpi?
Guardateli da vicino per favore, guardateli e diteci se abbiamo visto bene anche noi, diteci se c’è un uomo che stringe con le sue braccia una donna, se ci sono due neri stesi sulla sabbia — chissà a quale profondità — che sembrano dormire, se c’è un ragazzo a testa in giù e a piedi in su che cerca disperatamente un appiglio per resistere un altro secondo, se c’è una ragazza che non ha volto ma una cintura che luccica anche in fondo al mare. Sembra in posa, come una modella. Una modella morta.
Non avrei mai immaginato di ritrovarli così, quelli di cui tanto ho scritto in questi ultimi quindici anni senza sapere nulla e tutto di loro, dei loro viaggi, delle loro paure. Non avrei mai immaginato di ritrovarmeli davanti agli occhi incastrati a prua o a poppa, immobili come manichini, come se stessero ostentando la loro naturale morte. Sì, si può ostentare anche la morte per coloro che sanno di morire, che stanno morendo senza una patria che li ricordi o una famiglia che li pianga, senza una tomba dove riposare e con le scarpe ai piedi.
È quello che gridano nel loro silenzio gli uomini e le donne di queste foto, è quello che gridano questi corpi.
Non l’avrei mai immaginato. Nemmeno quando la domenica del 15 settembre del 2002 stavo su un gommone di fronte alla spiaggia di Realmonte e i sommozzatori sollevavano i cadaveri degli etiopi rimasti intrappolati sul loro barcone, a mezzo miglio dalla costa, davanti allo scoglio degli “ziti”, gli innamorati. I cadaveri — erano decine — li vedevo issare a bordo eppure mi sembrava “logico”, normale anche quello: erano annegati, morti per asfissia. Un vigile
gridava: «Tira, Rosario tira». L’altro tirava e una volta risaliva una ragazzina nuda, un’altra volta un vecchio o un bambino riccio. Più di loro, inanimati, già rigidi, più della loro morte mi aveva colpito cosa custodivano nelle tasche dei giubbotti: bacche. Si nutrivano solo di bacche mentre attraversano il grande mare. Ma non riuscivo a vederli, a immaginarli giù, quando erano ancora sotto.
Dove erano morti. Non riuscivo a capire come erano morti e come avevano scelto di morire, in quale posizione, da soli, vicini a qualcuno o lontano da tutti.
Non l’ho immaginato neanche il 4 ottobre scorso, la mattina dopo che avevano trasportato questi stessi corpi che vediamo adesso nelle foto nel grande hangar dell’aeroporto di Lampedusa, una morgue sterminata dove mi sono aggirato come in trance fra bare ancora vuote, teloni rigonfi di cadaveri, necrofori. I morti sembravano manichini che imploravano, che maledivano noi che eravamo ancora vivi. Ogni tanto scorgevo un seno che spuntava da un telone, un gomito, un ginocchio, un piede, una scarpa. Ma non avevo capito nemmeno quella volta. Non avevo capito come si muore in mare. Prima, quando si muore davvero. Quando finisce la vita. Quell’istante.
Delle tragedie, dei naufragi nel “cimitero Mediterraneo” ecco cosa ci consegnano queste fotografie crude della Guardia Costiera: loro, solo loro. Con gli ultimi gesti d’amore o di terrore, con quei fogli che spuntano dai jeans — quanti ne abbiamo visti, pieni di numeri di telefono, di nomi, di indirizzi in Germania o in Francia, amici, parenti, passeurs e trafficanti di uomini — con le loro magliette a righe o a torso nudo, con le braccia strette sotto la pancia o allargate a più non posso e le unghie che scavano nella sabbia.
È tutto quello che ci rimane dei migranti che arrivano. Forse intuiamo come hanno voluto morire quando sapevano che sarebbero sicuramente morti,
scegliendo un legno al quale aggrapparsi o abbandonandosi sul fondo, tutti in qualche modo composti, dignitosi nell’offrirci la loro fine.
Cosa dovremo allora scrivere la prossima volta? Quali parole e quali aggettivi dovremo usare per rappresentare la loro morte? Cosa dovremmo dirci più di quanto questi corpi ci stanno dicendo?

La Repubblica 15.05.14

#AVA: il Pd interroga il ministro Giannini

Ho sottoscritto l’interrogazione dei colleghi Nicoletti e Galli (che pongo in calce), presentata per dare voce al disagio della comunità universitaria nell’applicazione del sistema AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento), che pare aver perso per strada gli standards e le guidelines delle direttive europee per inseguire aspetti formali e amministrativi. La valutazione è un principio irrinunciabile al quale vanno date le gambe del rigore, della trasparente e della semplicità e che non può soffrire di inutile burocrazia.
INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE

NICOLETTI, GALLI CARLO, GHIZZONI – Al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Per Sapere – Premesso che:

negli ultimi anni nel nostro Paese si sono moltiplicati gli interventi legislativi e amministrativi volti a riformare le università e gli enti di ricerca. La finalità dichiarata di questi interventi sta nella volontà di rendere più efficiente il sistema dell’alta formazione e della ricerca, migliorando la qualità della didattica e della produzione scientifica, attraverso appropriate procedure di valutazione e di incentivazione. Sulla base di queste finalità è stata creata una specifica Agenzia di valutazione (ANVUR) con il compito di coordinare le attività di valutazione dei prodotti scientifici (VQR), dei profili scientifici di commissari e candidati nei concorsi di abilitazione (ASN), dei requisiti relativi alla qualità della didattica (AVA);

se da un lato non si può che apprezzare il fatto che il sistema universitario e della ricerca italiano sia stato sottoposto a una procedura sistematica di valutazione sulla base di parametri internazionalmente riconosciuti e che, più in generale, si sia sviluppata una “cultura della valutazione” che ha superato l’idea che vi possano essere settori istituzioni pubbliche o finanziate da denaro pubblico sottratte a una verifica puntuale della loro qualità, d’altro lato non si può non rilevare come il modo in cui tale procedura è stata applicata abbia prodotto risultati contraddittori, come lo stesso Ministro on. Giannini ha riconosciuto il 1 aprile scorso nel corso dell’audizione presso la Commissione VII del Senato: «Invece di semplificare, in alcuni casi abbiamo complicato. Invece di chiarire, in alcuni casi abbiamo creato nuove ambiguità. Mi limito a due soli esempi. Il primo riguarda le procedure dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN). […] Il secondo esempio riguarda la formulazione dei criteri per l’ANVUR. L’effettiva operatività dell’Agenzia, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento (D.P.R. 1 febbraio 2010 n. 76) ha infatti portato a un delicato equilibrio fra potere di indirizzo del Ministero e poteri di accreditamento e valutazione dell’Agenzia. L’ho già detto qualche giorno fa, partecipando proprio alla presentazione dell’importante Relazione 2013 di ANVUR: bisogna scongiurare il rischio che l’Agenzia diventi un controllore ex ante e bisogna rafforzarne sempre di più il ruolo di valutatore ex post»;

negli ultimi tempi è cresciuto il disagio della comunità universitaria relativo all’applicazione del sistema AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento). Per esprimere questo disagio si sono levate negli ultimi giorni numerosissime voci di docenti e responsabili di strutture universitarie. Non si tratta di persone che non svolgono con coscienziosità la loro delicata funzione di formatori e ricercatori, al contrario si tratta di coloro che, nonostante la drammatica scarsità di risorse economiche e lo scarso riconoscimento della loro funzione sociale, continuano a garantire a moltissime università e istituti di ricerca italiani un eccellente livello di insegnamento e di produzione scientifica (come attestato dallo stesso rapporto ANVUR http://www.anvur.org/attachments/article/644/Rapporto%20ANVUR%202013_UNIVERSITA%20e%20RICERCA_integrale.pdf);

da ultimo di tale disagio si è fatto autorevole interprete il Presidente della CRUI, prof. Stefano Paleari, in una lettera dell’8 maggio al Presidente dell’ANVUR, prof. Stefano Fantoni, in cui si chiede di «riflettere radicalmente sull’aggravio burocratico» a cui sono soggette le strutture universitarie, ribadendo al tempo stesso la piena disponibilità a collaborare al processo di valutazione;

a tale richiesta il Presidente dell’ANVUR ha risposto il giorno 9 maggio 2014 richiamando il fatto che il sistema AVA è il prodotto di «procedure e direttive europee» e che, per «modificare l’impostazione di una assicurazione di qualità forse troppo attenta agli aspetti formali e amministrativi, bisognerebbe – dopo un’accurata riflessione – porre il problema a livello europeo»;

le direttive europee richiamate dal Presidente dell’ANVUR non impongono un determinato sistema di valutazione – tanto meno di tipo ottusamente burocratico – ma indicano standards e guidelines che spetta ai diversi Paesi tradurre in un concreto sistema;

le stesse direttive europee esplicitamente raccomandano che il processo di assicurazione della qualità si avvalga di una valutazione preliminare di impatto per garantire che le procedure adottate siano appropriate e non interferiscano più del necessario con il normale lavoro che le università sono chiamate a svolgere («As external quality assurance makes demands on the institutions involved, a preliminary impact assessment should be undertaken to ensure that the procedures to be adopted are appropriate and do not interfere more than necessary with the normal work of higher education institutions» (http://www.enqa.eu/wp-content/uploads/2013/06/ESG_3edition-2.pdf);

il sistema AVA nella sua articolazione specifica dipende da disposizioni ministeriali (da ultimo il DM 47/2013) e da iniziative dell’ANVUR che per essere modificate non necessitano di alcun intervento “a livello europeo”;

il sistema AVA appare andare in direzione contraria rispetto a quella auspicata non solo dall’intera comunità universitaria ma dallo stesso Governo, posto che, anziché semplificare, rendono inutilmente complesso e macchinoso il procedimento di valutazione dell’offerta didattica

se il Ministro interrogato non ritenga opportuno:

– sospendere immediatamente le procedure legate al sistema AVA nella sua attuale formulazione;
– individuare di concerto con gli organi di rappresentanza del sistema universitario e in modo sintetico gli essenziali requisiti quantitativi e qualitativi che i corsi di studio devono possedere, evitando di appesantire le strutture universitarie con la richiesta di compilazione di moduli e documenti che non forniscono né agli studenti né alle strutture di valutazione elementi reali di conoscenza;
– promuovere una radicale revisione delle procedure dell’ANVUR per dotare l’università italiana di un sistema rigoroso, trasparente e semplice di valutazione della qualità della didattica.

"L'occasione per ripartire", di Paolo Bricco

Nell’aria fredda e tesa della camera operatoria, intorno al corpo ferito dell’Expo, i medici hanno constatato che il battito cardiaco non si è spento e che il respiro persiste. La politica nazionale, le imprese e la magistratura non si sono tolte il camice né hanno annunciato il decesso del paziente. Il premier Renzi, con la sua visione del mondo basata sulla prevalenza del futuro e del nuovo su tutto e su tutti, sa (o intuisce) che l’Expo è una occasione per ripensare l’identità e la specializzazione produttiva del Paese: dal fordismo classico a un profilo più terziarizzato. Un profilo fatto di turismo e servizi alla persona, stili di vita e un’economia manifatturiera sempre di trasformazione, ma nella versione più soft dell’agroalimentare. Francesco Greco, figura storica della magistratura milanese impegnata contro i reati economici, ha dato il suo “placet” alla scelta di Raffaele Cantone all’Autorità anticorruzione: «Va bene l’incarico a Cantone. L’importante è che ci sia una sinergia con la Procura. Ma questo è nei fatti, perché noi lo conosciamo bene e lo stimiamo». Il presidente di Confindustria Squinzi ha ricordato che «l’Expo 2015 è il primo grande evento che possa dare qualcosa dopo la crisi sanguinosa di questi anni». Dunque, nella complessa meccanica dei poteri italiani, sembrano esserci una coerenza interna e un funzionamento non distonico di un ingranaggio rispetto all’altro. Se l’Expo – in mesi che assomiglieranno a un misto fra un percorso di guerra e una lungodegenza ospedaliera – dovesse subire una ricaduta, verrebbe meno il suo effetto potenziale sull’economia del Paese.
Nel cupio dissolvi e nel desiderio di gogna che oggi pervadono molti italiani, l’Expo è nella migliore delle ipotesi una baracconata senza senso, nella peggiore il presupposto logico per rubare. Nel giorno in cui la casella operativa del direttore generale per le costruzioni – lasciata vuota dall’arrestato Angelo Paris – viene riempita da Marco Rettighieri, a costoro andrebbero fatti leggere due documenti. Il primo è la ricerca della Sda-Bocconi che stima in 15,8 miliardi di euro la produzione aggiuntiva generata dall’Expo entro il 2020. Una stima che è sottoposta all’ipotesi (confermata peraltro ieri dall’amministratore delegato Giuseppe Sala) che i visitatori possano essere 20 milioni. Questo, nonostante i gravi ritardi dell’Expo abbiano portato alla realizzazione della metà delle infrastrutture previste. Il secondo documento da sottoporre «a quelli che la manifestazione non serve a niente-sono tutti ladri-chissenefrega dell’Expo», è uno studio della Banca d’Italia. Che, come nel film “Aprile” di Nanni Moretti, «non c’entra, ma c’entra». Il paper di Matteo Bugamelli, Riccardo Cristadoro e Giordano Zevi, intitolato “La crisi internazionale e il sistema produttivo italiano”, mostra l’eccezionalità della crisi iniziata nel 2008 rispetto a quelle del 1974 (shock petrolifero) e del 1992 (squilibri monetari internazionali). Nel 1974 servirono sei trimestri al Pil e undici trimestri alla produzione industriale per tornare al livello ante crisi; nel 1992, ne furono rispettivamente necessari nove e otto; ora siamo abbondantemente sopra i venti trimestri. E la luce non si intravede. Fate voi. L’economia di un Paese si sviluppa o a prato basso, nell’autonomia creativa delle imprese, o per effetti indotti dall’alto, concentrando risorse ed energie. Come nel caso dell’Expo. Piccolo esercizio di ottimismo: il paziente Expo si ristabilisce. Sedici miliardi di euro di produzione aggiuntiva vi sembran pochi?

Il Sole 24 Ore 14.04.14

"Troppi giovani disoccupati servizio civile per 100mila", di Luisa Grion

Dalla garanzia giovani al servizio civile: per arginare il dilagante fenomeno della disoccupazione under 30 e dare una scossa ai “neet” (un paio di milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano) il governo punta alla versione riveduta e corretta della vecchia “obiezione di coscienza”. I tempi dell’opposizione alla leva obbligatoria sono finiti da un pezzo e il servizio civile, da anni, è un’occasione data ai giovani, maschi e femmine, che nel volontariato vedono sì, un’occasione formativa, ma anche la possibilità di trasformare quell’esperienza in lavoro.
Ogni anno i bilanci dello Stato dedicano al servizio civile un budget che va a finanziare i bandi e i programmi degli enti che partecipano all’operazione. Oggi i volontari in servizio sono poco più di 14 mila, lavorano in 3.293 enti accreditati e incassano ogni mese (il servizio civile dura un anno e la domanda per entrarne a far parte si fa direttamente all’associazione che propone il piano) un rimborso spese di 433 euro netti. Se le condizioni economiche resteranno invariate, l’obiettivo di Renzi di impegnare con questa formula centomila giovani l’anno richiederà quindi un investimento fra i 400 e i 600 milioni di euro. Il costo annuo per persona è valutato infatti in 6 mila euro circa, ma il nuovo servizio civile dovrebbe durare 8 mesi eventualmente allungabile di altri 4, non più direttamente
12.
Ad occuparsi della partita che sfocerà in un disegno di legge delega varato dal Consiglio dei ministri il prossimo 27 giugno (anche in questo caso Palazzo Chigi non incontra le parti sociali, ma invita chi vuole a dire la sua online mandando, entro il 13 giugno, una mail a terzosettorelavoltabuona@ lavoro.gov.it) è il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba, deputato Pd ed ex obiettore di coscienza.
«Rispetto al modello attuale di servizio civile – precisa – noi vogliamo passare dai 14 mila al 100 giovani coinvolti, ma intendiamo ridurre la durata dell’esperienza e coinvolgere in maggior modo le Regioni, le province autonome e probabilmente anche gli enti che offriranno la possibilità di effettualo ». Una maggiore partecipazione, spiega Bobba, che potrebbe tradursi in un contributo alla spesa alleviando, anche se in piccola misura, il peso degli investimenti a carico dello Stato. Un altro abbattimento della spesa potrebbe derivare dalla possibilità – già riconosciuta dal Consiglio di Stato – di rinunciare all’Irpef del 10 per cento oggi versata
sul rimborso spesa. «Parte dei fondi necessari a impegnare il tetto dei 100 mila giovani potrà essere recuperata dal miliardo e mezzo di euro investiti sul progetto Garanzia giovani, visto che il servizio civile è appunto una delle nove possibilità indicate per l’impiego». Certo è che comunque sia l’entità dello sforzo richiesto è enorme rispetto agli attuali investimenti. Al servizio civile, negli ultimi anni, sono state dedicate risorse decrescenti: nel 2013 ai bandi sono stati riservati 70 milioni scarsi, ma va pur detto che a volte , nel passato, i contributi sono rimasti inutilizzati per mancanza di progetti idonei. I tanti soggetti interessati alla partita, dalle coopertive sociale alle Acli, plaudono all’idea di Renzi. Giuseppe Guerini, portavoce di Alleanza Cooperative Sociali, fa notare che «uno su tre dei giovani impegnati da noi nel servizio civile viene poi assunto». Secondo Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, sarà però fondamentale esercitare una attenta attività di controllo: «Quando le risorse si moltiplicano bisogna vigilare affinché nessuno ne approfitti: gli enti ammessi al servizio civile dovranno essere accreditati e di provata esperienza, non lasciamo spazi ai soggetti dell’ultima ora». In realtà il governo Renzi, guardando al semestre di presidenza europea, già svolge lo sguardo altrove: ha in mente un servizio civile allargato a tutta l’area Ue.

La Repubblica 14.05.14

“Le riforme di Renzi l’ultima occasione per la svolta italiana”, di Federico Fubini

George Soros ripete spesso che la seconda guerra mondiale gli ha cambiato la vita. «Ma per chi è giovane ora il grande trauma è la crisi dell’euro – aggiunge -. Se fossi giovane, mi considererei una vittima e vedrei nell’Unione europea il colpevole». In questi giorni Soros presenta il suo ultimo libro, che ha voluto ottimista nel titolo («Salviamo l’Europa. Scommettere sull’euro per creare il futuro», Hoepli). Ma sa che alle prossime elezioni i populisti possono incassare un risultato senza precedenti. Anche il governo di Matteo Renzi è sotto esame: i mercati scommettono sulle sue riforme, dice. «Ma se fallisce il vento potrebbe
cambiare».
Una vittoria dei partiti antieuropei la preoccupa?
«Sono sempre più forti. Siamo di fronte a una politica nuova, basata su un’ideologia nazionalista sfruttata da figure carismatiche per garantirsi sostegno. Questi leader hanno in mente un sistema formalmente democratico ma nei fatti autoritario e capace di manipolare l’opinione pubblica. Ciò che è populista per noi, per loro è semplicemente popolare».
È il modello Putin, che in effetti non dispiace a Silvio Berlusconi, Marine Le Pen o all’ungherese Viktor Orban.
«È così. Putin sta diventando popolare in certi ambienti come sfida all’Unione europea. Attrae perché ha caratteristiche che piacciono ai populisti».
Come spiega che in Italia o in Francia i partiti anti-euro sono più forti che in Germania?
«La situazione economica è diversa. L’Italia e la Francia sono fra i Paesi più deboli, mentre in confronto al resto d’Europa la Germania sta prosperando».
Non crede alla ripresa?
«L’Europa sta entrando nello stesso tipo di stagnazione prolungata da cui il Giappone cerca disperatamente di uscire. Per questo i titoli di Stato italiani vengono comprati anche se rendono meno del 3%: gli investitori prevedono deflazione. È una situazione che continuerà finché l’euro resta integro e il mercato si è convinto che in effetti sarà così».
Il debito però continua a salire in molti Paesi, Italia inclusa. È un problema?
«Il debito è impossibile da ridurre in deflazione. Il forte surplus esterno della Germania contribuisce a rafforzare l’euro e ciò a sua volta deprime i prezzi al consumo. Finché l’Europa resta un sistema così asimmetrico, con la Germania che chiede agli altri di rispettare il Fiscal Compact ma si disinteressa delle regole sul proprio surplus eccessivo, sarà squilibrata. È questo che mette la gente contro l’Europa. Così l’euro rischia di
distruggere l’Unione europea e alla fine anche se stesso».
Ma se il debito in Europa del Sud continua a salire e aumentano i tassi, si inizierà a pensare a una ristrutturazione o a una parziale insolvenza pilotata?
«È possibile. Ma anche se la Federal Reserve abbandonerà le politiche che tengono bassi i tassi, la Banca centrale europea dovrà trovare modi di agire contro la deflazione. Potrebbe comprare titoli di Stato e ciò terrebbe bassi i rendimenti. O potrebbe comprare dollari, svalutando l’euro e aiutando gli esportatori. Finché la Germania sostiene la Bce e la Bce fa qualcosa, questa situazione può continuare all’infinito. Intanto i problemi alla base dell’euro non vengono risolti. Nessuno osa sfidare la Germania e così la zona euro resta una democrazia asimmetrica: i creditori disegnano le regole per i debitori».
Non tutti i Paesi in crisi sono uguali: Spagna, Portogallo e Irlanda ora vanno meglio dell’Italia. Perché?
«L’economia più debole è la Francia, ma subito dopo viene l’Italia. C’è bisogno di riforme nei singoli Paesi, non solo nella zona euro. Renzi sembra interessato a riformare il mercato del lavoro: vedremo se riuscirà a trovare sufficiente sostegno nel suo partito. Renzi ha bisogno di consolidare il controllo sul partito e ciò potrebbe motivarlo ad andare avanti con le riforme del lavoro. I mercati stanno scommettendo che Renzi riesca; se fallisce, il che è possibile, questa tendenza potrebbe invertirsi. In Europa c’è una battaglia fra generazioni: i più anziani proteggono i loro privilegi contro i giovani e, vista l’età media elevata, sono più numerosi alle urne. Uno può leggere la politica in Italia in questo modo».

La Repubblica 14.05.14

"Expo, trasparenza senza alibi", di Stefano Folli

Bene ha fatto il premier Renzi ad avviare un’offensiva anti corruzione sull’Expo di Milano. Ci sono due aspetti che il capo del governo non può tollerare. Il primo è che l’Italia comprometta la sua immagine su un terreno, l’esposizione internazionale del prossimo anno, su cui avrà gli occhi di tutto il mondo addosso. Il secondo è che passi nell’opinione pubblica l’idea che è esplosa la nuova Tangentopoli e che le autorità sono complici o, nel migliore dei casi, deboli e indifferenti. Ecco perchè adesso arriva in soccorso il magistrato Cantone, in apparenza accolto con soddisfazione da tutti. Perchè siamo, si potrebbe dire, all’ultima spiaggia. Le elezioni si svolgono fra meno di due settimane e dunque è ora, cioè in questi giorni, che l’elettorato sta scegliendo come votare. E le ragioni della scelta toccheranno l’Europa, in parte, ma soprattutto riguarderanno la credibilità della nostra classe politica, credibilità che continua a essere precaria. È il tema di sempre, ma stavolta non ci sono più alibi per nessuno.

Il Sole 24 Ore 13.05.14

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“NERVI SALDI PER UN MIRACOLO”, di Guido Gentili

Non convince né la tesi che siamo al secondo tempo del kolossal già proiettato negli anni ruggenti di Tangentopoli né l’idea che traffici e tangenti fioriti attorno a Expo 2015, presentandosi al momento come non canalizzati verso il sistema dei partiti, siano un incidente di percorso.
Di sicuro siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, ma non per questo meno grave in potenza, sul quale ci si augura che la magistratura si muova con velocità, chiarezza e determinazione. Troppo alta è la posta in gioco, per Milano e per l’Italia, in termini di credibilità e di crescita. Non possiamo permetterci buchi nell’acqua, siano questi economici o giudiziari.

L’Expo milanese, 20 milioni di visitatori previsti e 10 miliardi di indotto economico, è un’esposizione universale, non una fiera di quartiere, ed è già in ritardo sul ruolino di marcia. Alle casse pubbliche la scommessa costa 1,350 miliardi euro (di cui circa 800 a carico del Governo) ma sul piatto della bilancia, come specificato dal Commissario unico Giuseppe Sala, ci sono 400 milioni delle aziende partner e circa un miliardo che verrà dai Paesi partecipanti. Cifre importanti, che non possono essere addentate o smangiucchiate da vecchi o nuovi squali, locali o della nomenklatura romana.
Si deve lavorare, nei cantieri come nelle stanze della giustizia, in fretta ma bene (a ieri la Procura milanese non aveva chiesto il fermo o la revisione di alcuna gara tra quelle fin qui assegnate), assicurando la necessaria trasparenza e il rispetto delle regole. Tutte. Il che, a ben vedere, sarebbe una banalità per un paese industrializzato presente con successo sui mercati del mondo. Ma non lo è per l’Italia, che su questo terreno si porta dietro, a cavallo tra sfera pubblica (il cui perimetro resta comunque troppo esteso) e privata, una deformazione storica, una ruggine che corrode gli ingranaggi del suo sviluppo. Le nuove inchieste lo dimostrano, confermando molti limiti della classe dirigente e indicando questa volta un’area grigia sottratta alla concorrenza che sugli appalti fissa prezzi, oppurtunità di carriera, regole del gioco.
Il premier Renzi sarà oggi a Milano per «metterci la faccia» assieme alla nuova task force (per assicurare la regolarità dei lavori) che sarà guidata da Raffaele Cantone, il magistrato già chiamato dal Governo al timone dell’Autorità nazionale anticorruzione. Siamo ad un passaggio decisivo per Expo 2015, dove conta ora anche il modo con cui viene affrontata questa nuova emergenza. Servono nervi saldi, un lavoro duro e selettivo, la massima trasparenza e rapidità. Quasi un miracolo.

Il SOle 24 Ore 13.05.14