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"Il capitale bambino", di Chiara Saraceno

Crescere in povertà economica condiziona moltissimo le opportunità lungo tutto il corso della vita: sul tipo di formazione, sulla salute, sul capitale umano e sociale. È in questa situazione in Italia un milione circa di bambini e ragazzi, il doppio di cinque anni fa, nella pressoché totale indifferenza della politica e assenza di politiche. Compensare lo svantaggio di nascere e crescere poveri è difficile. Lo è ancora di più se, non solo il reddito, ma anche le risorse essenziali perché i bambini e ragazzi possano sviluppare le proprie capacità cognitive, emotive, relazionali, non sono distribuite in modo da compensare gli svantaggi ma li rafforzano, come succede in Italia.
È quanto emerge dal rapporto appena presentato da Save The Children, “La lampada di Aladino”, sulla base di un indice chiamato di povertà educativa: appunto di povertà di risorse per la crescita e lo sviluppo delle capacità individuali. Gli indicatori che lo compongono riguardano sia le caratteristiche dell’offerta scolastica pubblica, sia dati di comportamento quali la dispersione scolastica, la pratica sportiva, la partecipazione ad attività culturali. Come tutti gli indici è parziale e imperfetto.
Anche in questo primo parziale abbozzo, tuttavia, due fenomeni appaiono con grande evidenza. Il primo è, appunto, la disuguaglianza territoriale. Fin dalla prima infanzia, ai bambini e ragazzi vengono offerte meno risorse proprio là dove sarebbe necessario offrirne di più: meno nidi, meno scuola primaria a tempo pieno, meno mense scolastiche, proprio là dove, in particolare al Sud, maggiore è non solo la povertà minorile, ma anche la dispersione scolastica, più ridotta la partecipazione ad attività sportive e culturali di vario genere, così come la lettura di libri al di fuori di quelli scolastici. In altri termini, là dove le istituzioni educative, a partire dal nido, avrebbero una maggiore responsabilità di offrire opportunità ed esperienze che le famiglie non sono in grado di fornire, è invece più povera e scarsa. Il che non significa che invece nelle regioni più ricche non ci siano problemi.
Nessuna regione italiana, ad esempio, ha ancora raggiunto l’obiettivo europeo di un 30% di copertura per gli asili nido e nessuna regione italiana offre il tempo pieno scolastico neppure al 50% degli scolari. Ed i dati sulla lettura, la pratica sportiva e la partecipazione culturale non sono molto confortanti. Ma i divari inter-regionali sono enormi (con la positiva eccezione della Basilicata al Sud e, invece, quella negativa della Valle d’Aosta al Nord).
Il secondo dato è la scarsa considerazione in cui politici e amministratori sembrano tenere i bisogni e diritti dei bambini e minori, testimoniata non solo dai divari sopra richiamati e dalle carenze riscontrate anche nelle situazioni più felici, ma anche dalla scarsa preoccupazione per la sicurezza fisica dei minori. La spia più drammatica di questo disinteresse è il fatto che quasi la metà (47%) degli istituti scolastici italiani manca del certificato di agibilità, ovvero non ha fatto effettuare nessun controllo sulla sicurezza degli ambienti in cui i nostri figli e nipoti passano tante ore della giornata. Anche qui i divari inter-regionali sono enormi: si va dal 73% delle scuole del Friuli Venezia Giulia (che guida la graduatoria complessiva) al 27% della Sardegna. Solo Campania (per altro ultima nella graduatoria complessiva) e Basilicata, tra le regioni del Sud, superano il 50%, mentre Abruzzo e Lazio arrivano solo, rispettivamente, al 42% e 33%.
Pur con limiti e parzialità, il quadro delineato dal rapporto è sufficientemente drammatico per imporre la questione della povertà non solo economica, ma anche educativa dei minori come una emergenza non più ignorabile.

La Repubblica 13.05.14

"Da Sandokan alla Carogna i soprannomi come bandiera", di Roberto Saviano

Se Genny’a carogna fosse stato soltanto Gennaro De Tommaso, quanti titoli avrebbero fatto i giornali su di lui? Privo del suo truce soprannome avrebbe suscitato lo stesso clamore? Certo, i giornali avrebbero scritto quel tanto che bastava a riportare la notizia. Si sarebbero senza dubbio descritte nel dettaglio la sua funzione e le sue parentele, ma è quell’epiteto portato come una bandiera ad aver moltiplicato la sua sinistra fama.
I soprannomi accorciano le distanze: raccogliendo una biografia in una parola, in un attimo fanno sembrare vicine persone mai conosciute. Si nasce con il proprio nome e cognome dal ventre materno. All’anagrafe sei iscritto con il nome scelto dalla famiglia e che determina il santo che ti proteggerà.
Ma in società nasci davvero quando un soprannome ti battezza. È un’usanza antica ancora fondamentale in paesi e quartieri dove i nipoti prendono il nome dei nonni. Quando tutti hanno gli stessi nomi e cognomi, solo i soprannomi rendono unici. La modernità non ha affatto distrutto questa abitudine, anzi, i soprannomi hanno anticipato i nickname usati sul web, con la differenza che il nick te lo scegli e può garantirti l’anonimato. Un soprannome invece lo subisci e ti assicura il massimo dell’identificazione. Se non ti piace raramente riesci a modificarlo.
Senza, nel mondo criminale non esisti. Ed è incredibile come si accettino i soprannomi più ridicoli, feroci e offensivi. Un soprannome è in qualche modo un destino. Dai grandi capi di camorra ai piccoli gregari, tutti hanno soprannomi, o meglio, tutti hanno “contro-nomi”. Possono nascere nel modo più casuale, come accadde al piccolo boss Antonio Di Vicino che una volta chiese al bar una “lemon”. Una che? Una lemon. E da allora divenne Antonio ’ o lemon. Luigi Guida, invece di chiedere un Fernet Branca, un giorno chiese “un drink”, e fu per sempre Giggino ’ o drink . Altri soprannomi arrivano per abitudini singolari: prima delle esecuzioni Antonio Di Biasi non consumava un pasto completo, per evitare il rischio di setticemia in caso fosse stato colpito all’addome a stomaco pieno. Ma siccome poi il nervosismo gli faceva venire crampi allo stomaco, portava con sé biscotti per bambini, e per questo era detto Pavesino. Ogni ragione di soprannome è leggenda e racconto, è storiografia e casellario giudiziario. Un dettaglio è sufficiente e se suona bene e passa la selezione naturale dei soprannomi, si attacca per sempre a chi lo porta.
Raffaele Cutolo era fiero di essere chiamato ’ o prufessore perché quell’immagine combaciava esattamente con la narrazione che gli piaceva si facesse di lui. Carmine Alfieri, suo rivale, era meno soddisfatto del suo soprannome. ’ O ‘ ntufat’, ovvero l’arrabbiato, descriveva una rabbia covata vicina alla frustrazione. Antonio Bardellino — uno degli uomini più potenti d’Italia negli anni ‘70 e ‘80, fondatore del clan dei casalesi, trasferitosi in Sud America dove fu ucciso nel 1988, anche se il suo corpo non è stato mai trovato prova, per alcuni, che è ancora vivo — riuscì a cancellare per sempre
il suo soprannome. Era detto pucchiacchiello ,
termine intraducibile in italiano: pucchiacca in napoletano è la vagina. Soprannome datogli perché da piccolo immergeva nella brillantina il pettine con cui si leccava i capelli e questo lo rendeva sempre umido ed elegante. Diventato capo, nessuno ha mai più osato usare quel nome che ha lasciato il posto al classico Don Antonio. Anche Vincenzo Di Maio, affiliato al clan Misso, ha un soprannome che non ama: Enzuccio ‘ a fighetta, perché sempre attento all’eleganza, troppo, come — nella logica criminale — solo una donna dovrebbe fare. Provò a mutare il soprannome in Enzuccio ‘ a camorr’ , ma non funzionò.
Paolo Di Lauro, capo del clan Di Lauro attivo a Secondigliano e Scampia, ora in carcere, è conosciuto come Ciruzzo ‘ o milionario . Fu ribattezzato così dal boss Luigi Giuliano che lo vide una sera presentarsi al tavolo da poker mentre lasciava cadere dalle tasche decine di biglietti da 100mila lire. Giuliano esclamò: «E chi è venuto, Ciruzzo ‘ o milionario ? ». La battuta di una sera crea un soprannome nato per sopravvivere al soprannominato.
L’indole è un altro elemento da cui derivano i soprannomi: il nervosismo, i comportamenti psicotici. Gennaro Di Chiara era detto fil’scupierto, filo scoperto, perché scattava violentemente ogni qual volta gli si toccasse il viso come fosse un cavo elettrico. Il soprannome ’ o pazz è molto comune e tende a descrivere una personalità volitiva, caparbia, che non ragiona con calma. Come Vincenzo Mazzarella ’ o pazz, boss di San Giovanni a Teduccio, o come Michele Senese ’ o pazz, boss romano, pilastro della camorra nella capitale e chiamato così in gioventù per la sua violenza militare. Poi c’è Giuseppe Gallo ’ o pazz, perché grazie alle perizie psichiatriche riusciva a evitare il carcere. Ma ‘ o pazz più celebre è Michele Zaza, capo vero, boss di camorra negli anni ‘80, vertice del contrabbando di sigarette. Si trasferì negli Stati Uniti e andò a vivere in una delle più eleganti ville di Beverly Hills. Era detto Michel ‘ o pazz perché andava contro ogni prudenza. Ma ci sono anche altri soprannomi che descrivono squilibri psichiatrici. Nando Emolo ’ o schizzat, Nunzio Di Lauro ‘ o nevrastenic, per il cambio continuo di umore.
Infiniti i soprannomi che nascono dal corpo (da Ciro Mazzarella ‘ o scellone, da “scelle”, cioè ali, per via delle scapole visibili a Nicola Pianese ‘ o mussuto, ovvero baccalà, per la sua pelle bianchissima). Quelli che fanno paragoni con gli animali (da Nunzio De Falco, detto ‘ o lupo per il suo aspetto selvatico e il viso triangolare a Salvatore Lo Russo ’ o capitone forse chiamato così perché in grado, come il viscido animale, di sottrarsi a ogni situazione difficile).
I più bizzarri, quasi futuristi, sono i soprannomi intraducibili, che richiamano espressioni onomatopeiche. Agostino Tardi detto picc pocc. Domenico di Ronza detto scipp scipp perché aveva iniziato la sua carriera con gli scippi. La famiglia Aversano detta zig zag. Raffaele Giuliano ’ o zuì.
Antonio Bifone zuzù. Angelo Merola detto gomma gomma . Gianni Melluso, uno dei criminali più ambigui e corrotti, che inventò le accuse contro Enzo Tortora, era detto cha cha cha per la sua passione per le feste. Giuseppe Mignano, invece, che aveva come intercalare l’espressione scè, ossia scemo — Si tutt’ scè oppure Ja scè o Finiscila scè — è diventato Peppe scé scé.
I capiclan, naturalmente, amano effigiarsi di nomi che amplificano il loro potere: Pietro Licciardi detto l’imperatore romano; Mario Schiavone Menelik come il famoso imperatore etiope che si oppose alle truppe italiane; Francesco Verde ’ o negus come l’imperatore di Etiopia, per la sua ieraticità; Raffaele Barbato di Mondragone detto Rockefeller per la mole di liquidità che possiede. Michele Fontana detto ’ o sceriff per il suo atteggiamento guascone e il suo cappello a falde larghe; Vincenzo Carobene detto Gheddafi. Antonio Ranieri, invece, è Polifemo perché durante una rapina gli fu chiesto: “ Se tien’‘ e pall’dimmi il tuo nome ” e lui, credendo di imitare Ulisse, invece di rispondere “Nessuno”, si sbagliò e disse: “Polifemo”. Se poi il contro-nome canta anche la potenza sessuale del capo è ancora meglio: il boss di Portici Luigi Vollaro, era detto ’ o califfo perché ha avuto varie mogli e decine di amanti con cui pare abbia ha generato ventisette figli. Il soprannome è dovuto soprattutto al fatto che queste vivessero nello stesso stabile. Nelle sue ville a San Sebastiano, quando gli è stata sequestrata la proprietà, vivevano sedici donne (non tutte sue amanti o ex amanti, ma anche parenti e figlie). Durante un’intervista Vollaro disse: “Ho lavorato sodo. E nella mia vita ci sono poche soddisfazioni. Tra queste le donne, per l’appunto. Loro mi piacciono. E io, modestamente, piaccio tantissimo a loro. Hanno la passione per me”. Luigi Giuliano detto anche Lovigino, perché amava da giovane accompagnarsi con amanti americane: a Forcella bastò sentire una di loro pronunciare “ I love Luigino” perché fosse ribattezzato Lovigino.
Il soprannome del capo ultras, Genny ‘ a carogna, non è quindi né un caso né un’eccezione bizzarra. I soprannomi esistono ovunque e l’Italia ne conserva in ogni regione l’uso. Ma per gli affiliati è una cifra essenziale. Dietro nomi ridicoli e feroci ci sono poteri e capacità tutt’altro che risibili e abilità comunicative che sfruttano l’estro e la fantasia popolare. Dietro questi nomi ci sono imperi e guerre: decifrarli è una strada maestra per conoscere la realtà del nostro paese. Il soprannome esprime in un mondo complesso la propria unica e irredimibile singolarità: tutti possono chiamarsi Francesco Schiavone, ma uno solo può chiamarsi Sandokan.

La Repubblica 13.05.14

"Università, se la disinformazione è di moda", di Fabio Sabatini

Uno dei luoghi comuni più apprezzati dalla stampa nazionale è che l’università italiana siadominata dai baroni e occupata militarmente da un esercito di fannulloni che percepiscono stipendi altissimi, pagati dai contribuenti, per dedicarsi ad attività poco edificanti come la manipolazione dei concorsi e la compravendita di esami. La passione per la denigrazione dell’università italiana è frutto di una pericolosa mistura di analfabetismo scientifico, difficoltà di approfondire temi complessi, scandalismo e caccia al facile consenso di un pubblico sempre più tarato sulla televisione, che non vede di buon occhio la categoria degli studiosi e ammira tutt’altro tipo di personaggi.
Ma anche di una buona dose di verità: i baroni e i concorsi truccati esistono, e spesso – in misura diversa nelle diverse discipline – i professori universitari usano la cattedra come strumento per perseguire interessi molto particolari, che poco hanno a che fare con le ragioni per cui percepiscono uno stipendio pubblico.

Ciò nonostante, i ricercatori che lavorano nelle università italiane continuano a produrre – con un lavoro per certi versi eroico, in condizioni difficilissime tra mancanza di finanziamenti e infrastrutture, stipendi tra i più bassi nel mondo, fiumi di didattica e ingerenze baronali – una ricerca scientifica di alto livello e ancora molto competitiva nel mondo.

A scanso di equivoci, i lettori che non mi conoscono sappiano che una parte della mia modesta attività pubblicistica è dedicata proprio alla promozione della trasparenza nei concorsi, come si può vedere scorrendo i miei blog sul Fatto Quotidiano e su MicroMega e come testimoniato inquesto servizio di Report. Per questo spero di essere sopra ogni sospetto se affermo che molti articoli che dipingono l’università italiana esclusivamente come un ufficio di prostituzione intellettuale e di collocamento di parenti, amici e amanti non sono affidabili e servono soltanto a fornire comode giustificazioni politiche al taglio dei finanziamenti pubblici alla ricerca.

L’ultima testata a cadere nella trappola del luogo comune è l’Espresso, che ha pubblicato la settimana scorsa un’ inchiesta sull’abilitazione scientifica nazionale (ASN). Nel leggerla, molti baroni universitari sono saltati sulla sedia. Per la gioia.

L’inchiesta contiene infatti una sfilza di notizie, aneddoti e interviste a senso unico, che servono a dipingere l’ASN come un concorso, anzi “il Concorsone”, truccato. Peccato che l’abilitazione sia tutto fuorché un concorso, e che oltre agli episodi di malaffare la procedura sia anche portatrice di molti aspetti positivi che meritano di essere raccontati.

Il non-concorso su cui si è scatenato il fuoco di sbarramento dei baroni, degli avversari della valutazione e, per ultimo, dell’inconsapevole Espresso, costituisce infatti il primo serio tentativo di mettere i bastoni tra le ruote proprio a quei baroni che vogliono truccare i concorsi (quelli veri), attraverso una valutazione pubblica, trasparente, quanto più possibile oggettiva della qualità del lavoro di ricerca di coloro che aspirano a una posizione da professore nelle università italiane. Sembra abbastanza ovvio che chi non vuole rendere conto a nessuno del proprio lavoro veda l’abilitazione (e più in generale la valutazione) come il nemico pubblico numero uno.

Intendiamoci, è un tentativo fallace sporcato da tante storture – in parte e non a caso messe in atto proprio dai denigratori dell’ASN – che necessità miglioramenti. Ma è un primo passo nella direzione giusta.
Diversamente dai concorsi, l’abilitazione scientifica non attribuisce alcun posto. Semplicemente, stabilisce se i potenziali candidati dei futuri concorsi hanno raggiunto un certo grado di maturità scientifica, definita attraverso il possesso di “requisiti minimi”. Tali requisiti sono condizione necessaria e non sufficiente, e il loro accertamento è integrato da una valutazione discrezionale da parte di una commissione nazionale, che si forma mediante un sorteggio. I candidati che hanno ottenuto l’abilitazione potranno poi partecipare ai concorsi da professore.

È facile comprendere che, con la “soglia di sbarramento” oggi stabilita dall’ASN, tanti concorsi scandalosi che in passato hanno macchiato la reputazione dell’università italiana non avrebbero potuto verificarsi, visto che i “predestinati” non avrebbero nemmeno potuto partecipare. L’alternativa all’abilitazione, o alle eventuali procedure “centralizzate” che probabilmente la sostituiranno in futuro, è il ritorno alla totale discrezionalità (leggi “arbitrio”) delle commissioni giudicatrici, cioè a un modo storicamente inefficiente di gestire i concorsi nel quale localismo e nepotismo hanno prosperato indisturbati per decenni.

Rispetto al passato, siamo in presenza di un miglioramento netto. Significa che possiamo rilassarci? Certamente no. Perché alcune delle storture raccontate da l’Espresso esistono – anche se, ribadisco, sono solo una parte della storia e coesistono con tanti aspetti innovativi e molto positivi – e bisogna continuare a contrastarle. Perché bisogna migliorare i criteri di valutazione, soprattutto al fine di tutelare adeguatamente il pluralismo degli approcci scientifici, gli studi interdisciplinari e quelli che, per gli argomenti trattati e i metodi utilizzati, si prestano meno ad avere un riconoscimento immediato da parte della comunità scientifica.

Perché c’è sempre il rischio che i concorsi locali non si svolgano in modo trasparente. Alcuni atenei, infatti, hanno imparato a manipolarli con destrezza: basta preparare dei bandi che richiedono ai candidati dei requisiti talmente specifici, perché ritagliati sul profilo di un “predestinato”, da rendere impossibile la competizione. Oppure attribuire, ancora una volta, totale discrezionalità alle commissioni giudicatrici, stabilendo che nella valutazione non si debba tener conto di alcun criterio di valutazione (lo so, è una contraddizione in termini). E perché i continui tagli all’università impediscono l’assunzione di nuovi ricercatori, senza i quali ricerca e didattica sono destinate al collasso.

Finché non avremo debellato il nepotismo accademico e finché i dipartimenti non saranno pienamente responsabili delle loro scelte – nel senso di pagare con minori finanziamenti e minore reputazione il reclutamento di persone che non fanno ricerca scientifica – l’ASN, e più in generale la valutazione della ricerca, saranno utili.

Ps. ho sostenuto queste tesi anche anche a margine di un recente articolo su La Voce, che il giornalista de l’Espresso cita impropriamente a sostegno delle sue tesi, fraintendendone completamente lo spirito e trascurandone i passaggi più significativi. Per inciso, nell’inchiesta de l’Espresso i miei coautori e io veniamo etichettati come “studiosi de La Voce”, come se gli economisti che scrivono su La Voce “lavorassero” per quella testata: niente di male, ci mancherebbe, ma sembra un altro segno della scarsa capacità di comprendere ciò di cui si vorrebbe scrivere.

Pps. Ho presentato più di una domanda di abilitazione: alcune valutazioni le ho superate, altre no e ne ho patito la delusione, come è accaduto a tanti colleghi, quindi non ho alcun interesse personale a difendere l’Asn.

da Il Fatto quotidiano 13.05.14

"La povertà educativa è al Sud, ma non solo", da La Tecnica della scuola

Lo sostiene Save the Children, che il 12 maggio ha presentato il primo rapporto “La Lampada di Aladino”: maglia nera alla Campania. Perfino Friuli Venezia Giulia e Lombardia non reggono il confronto con l’Europa: nessuna regione è in linea con alcuni obiettivi europei quali ad esempio, la copertura degli asili nido che dovrebbe essere del 33%, ma arriva a stento al 26,5% in Emilia Romagna. Tante richieste, tra cui fare investimenti mirati nelle aree con più povertà educativa e alti tassi di dispersione, garantire il tempo pieno e servizio mensa per tutti. Ma anche istituire aree ad alta densità educativa sul modello francese

Quelle del Meridione si confermano le regioni d’Italia dove l’offerta formativa per bambini e adolescenti risulta più “scarsa e inadeguata”: largamente insufficienti gli asili nido, solo per il 2,5% dei bambini in Calabria, e le scuole a tempo pieno (garantito solo nel 6,5% delle scuole primarie della Campania). Meno di un terzo dei minori fa sport. I libri e l’arte occupano il tempo libero di pochi: appena il 16% dei minori campani ha visitato un monumento nell’ultimo anno, e ancora meno i ragazzi in Calabria, il 12%. Alto e allarmante è il tasso di dispersione scolastica.

Il quadro è stato tracciato il 12 maggio da Save the Children, attraverso il primo rapporto “La Lampada di Aladino – L’Indice per misurare le povertà educative e illuminare il futuro dei bambini in Italia”, definisce di “povertà educativa”. Una mancanza di opportunità che si somma e alimenta la povertà economica che colpisce già un 1 milione di minori in tutta Italia.

La situazione è più grave e diffusa al Sud, ma perfino Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Emilia Romagna, le regioni italiane più “ricche” di servizi e opportunità educative per bambini e adolescenti, non reggono il confronto con l’Europa: nessuna regione italiana è in linea con alcuni obiettivi europei quali, per esempio, la copertura degli asili nido che dovrebbe essere del 33% (nella fascia di età 0-2 anni), ma arriva a stento al 26,5% in Emilia Romagna. E, per dire, la dispersione scolastica, che ha numeri altissimi in Campania e Sicilia (22 e 25,8%), arriva anche in Valle d’Aosta al 19% (l’Ue ha posto obiettivo del 10% al 2020).

In Campania, regione maglia nera nella classifica di Save The Children, risulta grave “la penuria dei servizi per la prima infanzia”. Sono appena 2,8 i bambini su 100 (nella fascia di età 0-2 anni) quelli presi in carico dagli asili pubblici campani, fa peggio la Calabria con 2,5, e si registrano valori bassi anche in Puglia (4,5%), Sicilia (5,3%), Basilicata (7,3%), Abruzzo (9,5%). Il tempo pieno a scuola è garantito solo nel 6,5% delle scuole primarie della Campania e nel 15,3% di quelle secondarie di primo grado; in Puglia rispettivamente nell’11,7% e 12,3%, in Sicilia 7,1% e 22% e in Molise, fanalino di coda (5,4% e 5,1%). Ma non raggiunge in nessuna regione italiana la soglia del 50%; la Lombardia la sfiora con il 47% e la Basilicata ha “performance” migliori rispetto al resto del Sud col 43,4% e 40,5% di tempo pieno alle elementari e medie. Ma la deprivazione educativa non si limita solo alla scuola e riguarda anche gli altri ambiti di vita dei minori: meno di 1/4 i bambini e gli adolescenti in Campania che fa sport continuativamente, il 31,2% in Puglia, il 32% circa in Calabria e Sicilia, a fronte del 61,6% in Valle d’Aosta. Dal lato opposto della classifica il Friuli Venezia Giulia – che secondo l’Indice di povertà educativa di Save the Children è la regione con la più “ricca” per i minori – spicca per numero di bambini che legge (il 75,7% ha letto almeno un libro nell’ultimo anno), che fa sport (il 56%), per livelli di dispersione scolastica (11,4%) vicini alla soglia della media Ue, edifici scolastici mediamente in buone condizioni (il 73,2% delle scuole ha certificato di agibilità). Una buona diffusione del servizio di mensa si registra in Lombardia (il 73% dei principali istituti garantisce il servizio, anche se si rilevano gravi criticità in alcuni comuni) insieme al tempo pieno che viene assicurato nel 47% delle scuole primarie. L’Emilia Romagna è prima per copertura di nidi pubblici (26,5%) e tra le prime per partecipazione al teatro dei ragazzi (ci sono stati nell’ultimo anno il 38,7%) e pratica sportiva (57,8%).

“Finora ci si è occupati soprattutto della povertà economica dei bambini e adolescenti, partendo dal dato eclatante di un milione di minori che vivono in povertà assoluta. Ma esiste una povertà altrettanto insidiosa e sottovalutata che è la povertà educativa, su cui Save the Children vuole portare l’attenzione di tutti con la campagna Illuminiamo il Futuro”, dice Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia, che si rivolge al governo per provvedimenti specifici contro la crisi dell’istruzione e dell’educazione.

“Intendiamo – continua Valerio Neri – appellarci al governo affinché siano messe in atto alcune misure cruciali per contrastare la povertà educativa”, come l’Anagrafe scolastica con informazioni sull’iter educativo e familiare del minore; fare investimenti mirati nelle aree in maggiore povertà educativa e con i più alti tassi di dispersione scolastica, garantire il tempo pieno e servizio mensa per tutti. Sull’edilizia scolastica e la sicurezza, “il governo prosegua nell’impegno intrapreso definendo con chiarezza un piano efficiente di riordino dell’edilizia scolastica”, infine, “nelle zone caratterizzate da criticità e forti marginalità Save the Children propone di istituire aree ad alta densità educativa sul modello delle zones d’éducation prioritaires francesi, che permettano di armonizzare, in un quadro unico, le iniziative già esistenti”.

L’organizzazione lancia la campagna “Illuminiamo il Futuro”: 3 settimane di sensibilizzazione e raccolta fondi per i primi ‘Punti Luce’ in aree caratterizzate dalla scarsità di servizi. Si tratta di centri “ad alta densità educativa” in quartieri disagiati, dove studiare, giocare, avere accesso ad attività sportive, culturali e creative. Bambini e adolescenti in condizioni accertate di povertà, saranno sostenuti da una ‘Dote Educativa’, un piano formativo personalizzato per l’acquisto di libri e materiale scolastico, l’iscrizione a un corso di musica o sportivo, la partecipazione ad un campo estivo. Save the Children ha inaugurato già i primi Punti Luce a Bari, Gioiosa Ionica, Catania, Palermo e Genova, ed entro fine 2014 Save the Children prevede di arrivare a 10 centri, con aperture a Napoli, Roma, Torino, Milano, e di assegnare 1.500 doti educative.

LA Tecnica della Scuola 13.05.14

“Dovremo combattere un reticolo di lobby il bubbone è antico”, di Liana Milella

Raffaele Cantone. L’uomo del momento. Il “salvatore” di Expo. L’ex pm anti-camorra e oggi commissario anti- corruzione dice: «Il bubbone era lì. Lo abbiamo ignorato». Dice Renzi “non fermiamo i lavori, ma i delinquenti”. Non è tardivo?
«Certo, alcune cose dovevano essere fatte prima. Ma non possiamo dimenticare la forte instabilità politica e tre governi durati poco tempo. E poi adesso guardare indietro non serve, toccherà agli storici individuare le responsabilità».
Conoscendo l’Italia criminale non era meglio assicurare severi meccanismi di vigilanza sugli appalti?
«Probabilmente sì, se siamo arrivati al punto di oggi. A Milano c’è stata grande attenzione ad evitare le infiltrazioni mafiose. Si è generato una sorta di strabismo, si è guardato molto a questo pericolo, ma non si è alzata la guardia sulla corruzione con la stessa forza e puntigliosità».
In concreto, lei che può fare?
«Dipende da cosa ci chiedono. Per ora il premier ha parlato di una disponibilità del nostro ufficio a lavorare su Expo, che non poteva che essere data. Per la semplice ragione che stiamo parlando degli appalti più importanti in Italia e che la mia struttura si chiama Anti-corruzione. È altrettanto evidente che non abbiamo interesse a una vigilanza formale e inutile».
La legge Severino, dicembre 2012, metteva dei paletti.
Evidentemente violati. Si può raddrizzare la situazione?
«Non so se la legge è stata rispettata. La maggior parte degli appalti è stata data da una società privata, Infrastrutture, che non aveva obblighi di rispettare quella legge».
Già, proprio Infrastrutture. È stato un errore seguire la via
di una società privata?
«Dalla metà degli anni ‘90, proprio per Tangentopoli, s’è affermato l’uso di società private che in alcuni casi hanno garantito più efficienza, ma in altri più prebende e poltrone, con un evidente arretramento della situazione. Enti pubblici, anche piccoli, hanno ritenuto conveniente esternalizzare i servizi. È un mito fallace perché queste società moltiplicano i centri di spesa ed è sotto gli occhi di tutti che aver ripreso schemi del privato calandoli nel pubblico non si è rivelata una scelta vincente, ma ha portato ad opacità».
Lei ha scritto in buona parte la legge anti-corruzione. Esiste un sistema per bloccare i furfanti?
«Quelle regole possono essere meri adempimenti burocratici o disposizioni concrete. Poi ci vogliono i tempi fisiologici e la mentalità giusta. La trasparenza può essere finta, non di qualità, oppure l’opposto, per cui il cittadino va sul sito e capisce se c’è qualcosa che non va e se c’è stato un imbroglio ».
Per Expo questi controlli sono possibili?
«Si può far conoscere ciò che è stato fatto e che si farà».
Lei potrà farlo?
«Io e l’Anac, l’Autorità nazionale anti-corruzione, non lavoreremo nell’interesse di qualcuno, di un partito o di un gruppo, ma di tutti. Lavoreremo per conto delle istituzioni».
Ha poteri sufficienti?
«Oggi l’Anac non si può occupare di singoli appalti, per lavorare su Expo avrà bisogno di personale, tecnici e investigatori, di strutture, di poteri specifici e speciali di controllo. Non a caso Renzi parla di una futura task force».
Le carte di Milano: da ex pm che impressione le fanno?
«Vedo un reticolo di interessi e una lobby di potere che lavorava per impossessarsi degli appalti. Proprio le lobby rappresentano la novità, mentre la politica ha un ruolo servente e non di primo attore. Un gruppo usa la politica o pezzi della politica e dei partiti per interessi personali».
La politica in questi anni è stata complice?
«Non ha fatto nulla sulla prevenzione. Ma ha trovato terreno fertile in un opinione pubblica per la stragrande maggioranza distratta. La corruzione non usciva sui giornali, non faceva cassetta. Parliamoci chiaro, interventi come quello sul falso in bilancio sono stati chiesti da una parte della classe dirigente che non aveva voglia di farsi controllare. E gli imprenditori di certo non amano i reati fiscali o tributari. Quando Frigerio è stato rieletto deputato c’è stata indifferenza».
Tangentopoli è tornata?
«Abbiamo creato le condizioni perché accadesse, non generando anticorpi. Mi stupisco che le persone si stupiscano. Oggi non è scoppiato il bubbone, è sempre stato lì, e non l’abbiamo visto. O peggio, lo abbiamo ignorato».

La Repubblica 13.05.14

"Quella paura negli occhi delle ragazze rapite", di Adriano Sofri

Ieri, grazie all’impudenza dei loro persecutori, le abbiamo viste “le nostre ragazze” rapite, rivestite e velate al gusto di quelli, con gli occhi sbarrati dallo spavento, addestrate a pregare con le palme aperte ma non abbastanza da simulare un solo sorriso. Il mondo è ubriaco di petrolio, acqua, traffici di droga e armi, minerali rari, giochi della finanza.
CHE si combatta una guerra planetaria la cui vera posta è il controllo e la riconquista delle donne può sembrare una boutade, o un’iperbole. I signori di Boko Haram si sono premurati di renderlo evidente, come in un Manifesto. Centinaia di ragazze rapite dal dormitorio della loro scuola, una delle poche ancora aperte nello stato di Borno, subito dopo aver sostenuto gli esami di fine anno; e poi il capobanda che annuncia che le venderà a quattro soldi per farle schiave o mogli forzate (è la stessa cosa) fuori dai confini; e poi ancora il capobanda – vanesio, come tutti questi epici farabutti – che si dichiara magnanimamente disposto a scambiarle con i suoi adepti detenuti dal governo federale nigeriano, quelle che non si sono convertite, e mostra le altre, quelle «che si sono sottomesse». «Anzi, le abbiamo liberate», dice.
C’è una difficoltà, abbiamo imparato, a tradurre adeguatamente il titolo mezzo hausa mezzo arabo della banda, Boko Haram –vuol dire, più o meno, che ciò che è occidentale è peccaminoso, e vietato. Qualche etimologista inclina a pensare che il Boko storpi l’inglese book , libro – l’inglese è lingua ufficiale in Nigeria: così, questi fanatici del libro sacro da prendere alla lettera, sarebbero i vietatori del libro. L’occidente che aborrono – il loro fondatore, Mohammed Yusuf, guidava una Mercedes e negava sdegnato che la terra fosse rotonda – era arrivato in Nigeria con il colonialismo e ci è rimasto con le multinazionali del petrolio, ma anche col cristianesimo delle scuole e la bella storia sulla lapidazione mancata dell’adultera.
Il governo corrotto e inetto di Abuja ha trattato per anni le stragi di Boko Haram come affare di musulmani che si ammazzavano fra loro: un po’ come facevano i nostri governi con le guerre di mafia. Quando, ogni tanto, decidevano di esibire la propria repressione, emulavano la ferocia dei terroristi. Anche questa volta, ad Abuja per un po’ hanno fatto finta di niente, e anzi denunciato l’allarme sulle ragazze come un diversivo al loro balletto elettorale, come ha scritto Wole Soyinka, che avete letto qui ieri. Poi hanno chiesto aiuto agli occidenti, quello che trepida e prega per le ra-
gazze violate, e quello che prega, Cina compresa, per il colossale serbatoio di petrolio e gas che la Nigeria possiede, ma molto lontano dal nordest. Per i Taliban di Boko Haram le bambine non devono andare a scuola, come per i loro colleghi afgani. Devono tornare a chiudersi dentro una galera domestica, o dentro la galera portatile del burka o del velo imposto. Comunque lo si traduca, l’occidente che Boko Haram vieta, maledice e condanna ha la sua essenza nella libertà civile e sessuale della donna, cui tutte le altre li-
bertà sono debitrici: anche la Conchita Wurst che scandalizza i governanti russi.
Il ratto delle ragazze nel nordest della Nigeria è così vistoso ed esemplare che ha scosso il mondo, e ha suscitato una reazione commossa. Americani, inglesi, francesi, hanno offerto collaborazione. Israele ha proposto di partecipare alle ricerche delle ragazza sequestrate, e il presidente Goodluck Jonathan ha accettato. Ma ancora una volta ci si chiede, di fronte a questa volonterosa impotenza, per così chiamarla, come possa il mondo fare a meno di una polizia capace di prevenire o punire la malavita, quando la malavita lavori all’ingrosso. Negli stessi giorni in cui dura il sequestro, i suoi autori vanno avanti con gli attentati suicidi e le aggressioni armate, ben armate, distruggendo chiese, moschee, scuole, villaggi interi, ammazzando centinaia di persone alla volta, come a Gamboru Ngala lo scorso 5 maggio. In questi giorni, alla gara di persone comuni e personaggi famosi fotografati con l’appello “ Bring Back Our Girls ”, hanno fatto da contrappunto voci di malcontenti: per l’esibizionismo o l’ipocrisia supposta della campagna, perché “ben altro”, perché la guerra di Boko Haram ha fatto più di 12mila vittime, per il silenzio sulla devastazione del delta del Niger, per il
silenzio o le complicità con la spietata tratta di ragazze prostitute dalla Nigeria del sud, quella cristiana e voodoo, che riempie i campi della Campania o i marciapiedi di Genova. E’ vero, tutto vero, e però inutile e fatuamente anticonformista.
Fra i milioni che si commuovono per le ragazze del villaggio di Chibok, molti si saranno informati e interrogati per la prima volta su una quantità di cose. Sulla Nigeria, così grande da contenere un quarto di tutti gli africani, così ricca da eccitare gli appetiti di occidente e oriente e così povera da regalare a una banda di fanatici i pretesti per proclamarsi paladini della gente. E sul mondo, in cui si combatte una guerra di liberazione delle donne, con le armi più diverse, come il Facebook delle donne iraniane che si fotografano con il vento fra i capelli. Boko Haram ha avuto tempo sufficiente a trasformarsi da una banda efferata di cialtroni in una banda di cialtroni che spadroneggia a cavallo dei confini di Nigeria, Ciad, Camerun, Niger. L’islamismo jihadista africano si associa già, e più si associerà, con quello maghrebino, e la loro alleanza si salderà sull’odio per l’occidente, parola sempre più difficile da tradurre, se non per quel nocciolo duro, quella quintessenza, la libertà delle donne.

La Repubblica 13.05.14

"Il mito di Marcello uomo di mafia con la reputazione del manager colto", di Enrico Deaglio

MI guardò in cagnesco. Poi si alzò, inforcò i Rayban neri, si abbottonò il doppiopetto rigato marrone e, giunto davanti al mio tavolo, si tolse gli occhiali con un ampio gesto e fece, a voce alta: “Eccomi, sono la sua vittima. Ma se mi conoscesse meglio, non scriverebbe quello che scrive”. Mise gli occhiali nel taschino, con una stanghetta fuori: “Comunque, complimenti; lei scrive molto bene” e se ne uscì, teatralmente. II brusio del locale era improvvisamente cessato, il cameriere era sbiancato, come quando nel saloon entra lo Straniero e mormora: “Dite al Condor che lo sto cercando”.
Non c’è dubbio che avesse una reputazione, Marcello; e non solo di raffinato bibliofilo. Era una caricatura, ma nello stesso tempo faceva un po’ paura. E infatti, non aveva avversari politici: io perlomeno non ne ricordo nessuno. Ora che è stato definitivamente condannato (“fin dagli anni Settanta fu l’ambasciatore di Cosa Nostra a Milano”) gli italiani saranno costretti probabilmente a farsi delle domande scomode. Tipo: ma come è stato possibile? La mafia nel consiglio di amministrazione della Fininvest? La mafia
dietro la costruzione di Forza Italia?
In effetti la sua storia, anzi la sua doppia storia, fa paura. Giovane palermitano al servizio della mafia, viene assegnato nel 1972 a curarne gli affari sulla piazza milanese. Cosa Nostra si attacca al palazzinaro più importante dell’epoca, lo minaccia di morte, ma Dell’Utri si offre di risolvergli il problema. Diventa il suo braccio destro, trasforma la villa di Arcore in una foresteria di latitanti (non c’è boss che, all’arrivo a Milano, non vada ad omaggiarlo), è molto attivo nelle pubbliche relazioni. Secondo la Criminalpol, che nel 1981 stila un famoso rapporto, i Dell’Utri (Marcello e il fratello gemello Alberto) sono all’apice delle operazioni mafiose sotto la Madonnina. Riciclano, investono, sono coinvolti in bancarotte colossali come quella della Bresciano costruzioni o della Venchi Unica, in spericolate operazioni immobiliari, addirittura in contatto con una banda di sequestratori sardi. Secondo Falcone, il livello di investimento della mafia siciliana sulla piazza di Milano è di proporzioni imponenti e Vittorio Mangano è uno dei personaggi di spicco. Secondo Borsellino, che ci tiene a farlo sapere a due giornalisti francesi (gli unici che appaiono molto informati) Dell’Utri e Mangano sono i terminali milanesi della filiera finanziaria mafiosa palermitana. Ma tutte queste cose, non si capisce perché, non diventano pubbliche. Eravamo disattenti.
Dell’Utri Marcello compare pubblicamente sulla scena all’inizio degli anni Novanta come l’amministratore delegato di Publitalia (“il carismatico manager capace di infondere motivazione ed energia ad una falange di venditori di spot”). Ma evidentemente non è un buon manager; tra corruzione, falsi in bilancio e malversazioni, Publitalia nel 1993 è sull’orlo della bancarotta e deve essere messa in amministrazione controllata. Berlusconi, che pure ha fama di imprenditore attento e capace, non solo non lo manda via, ma anzi gli affida la sua carriera politica. E Dell’Utri vince le elezioni! Con un particolare inquietante. Dieci giorni prima del voto del 1994, quando ancora Dell’Utri non era un personaggio pubblico, ma Berlusconi andava dicendo che i magistrati volevano fare un “golpe bianco” e impedirgli la vittoria, il presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante si lasciò scappare che Dell’Utri sarebbe stato arrestato, dalla procura di Catania, per traffico di armi e droga. Ma non successe, e Violante dovette dimettersi. Dell’indagine di cui parlava Violante, non si seppe più niente. Così come delle altre, sulla mafia a Milano, anche perché i due magistrati che le seguivano, erano saltati in aria.
E così cominciò la leggenda di Marcello. Mafioso? Addirittura coinvolto nelle stragi? Ma quando mai, è un intellettuale che ama i libri. È un cattolico praticante. Certo, ha conosciuto dei ragazzi poveri a Palermo, ma solo perché faceva l’allenatore di una squadra di calcio. È buono, non sa dire di no, e non si pente di aver aiutato Vittorio Mangano. Diventa senatore, poi deputato europeo, promuove la Biblioteca di via Senato, scicchissimo luogo di mostre, teatro ed eventi. Conferenzieri ed attori fanno la fila per esibirsi di fronte a lui. Viene nominato direttore artistico del Teatro Lirico. Fonda i “circoli del buon governo”, per educare i giovani a diventare classe dirigente, anima giornali raffinati, controlla saggiamente il mercato della pubblicità, viene intervistato come uno statista, si propone come mediatore di affari, controlla scrupolosamente che i candidati alle elezioni del suo partito siano persone intelligenti e oneste, scopre dei diari che dimostrano che Mussolini era un buono e vero patriota (“ebbene sì”, dichiarò a Bruno Vespa, “la storia andrà riscritta”; “sono falsi ma pubblichiamoli,” disse la Bompiani), scopre un capitolo inedito del Petrolio di Pasolini, accetta con la pazienza di Giobbe il calvario cui i giudici comunisti lo sottopongono, si paragona a Socrate incarcerato e condannato e quando qualcuno, timidamente, gli chiede che cos’è, secondo lui, la mafia, risponde secco, permettendosi il gergo triviale: “Tutte minchiate, la mafia non esiste”. E se lo dice un intellettuale raffinato, come non credergli?
E come si poteva davvero pensare che la mafia siciliana prendesse il potere a Milano, la capitale morale, con la sua borghesia illuminata, il suo mondo finanziario di antica data, il controllo di un’opinione pubblica agguerrita? La vicenda di Marcello Dell’Utri ha davvero dei risvolti grotteschi. Nel film A qualcuno piace caldo , il boss “Ghette” convoca il clan a Miami sotto le insegne di un convegno degli “Amici dell’opera italiana”, qui abbiamo il martire della giustizia in un letto d’ospedale a Beirut che tiene sul comodino La divina commedia e I promessi sposi, e si affida al potere falangista perché allevi le sue pene. Manca solo Scajola ministro degli interni.
È lui che è un genio o siamo noi che siamo fessi? Quando un giorno il nipotino ci chiederà: “Nonno, ma com’è che l’Italia per vent’anni venne governata dalla mafia?”, ci toccherà rispondere: “Beh, non esageriamo. Le cose furono molto più complesse”.

La Repubblica 13.05.14