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"Matteo e la politica di ascolto", di Federico Geremicca

Per valutare gli effetti che la manovra annunciata ieri da Matteo Renzi avrà sul rilancio dell’economia del Paese, occorrerà – naturalmente – aspettare mesi, forse molti mesi; per conoscerne, invece, l’impatto politico – e persino psicologico – basterà attendere i sondaggi elettorali della prossima settimana e poi, soprattutto, il voto europeo del 25 maggio. Che il più giovane premier della storia repubblicana abbia guardato più al secondo (le elezioni) che ai primi (gli effetti economici), è l’obiezione fondamentale che le opposizioni stanno muovendo alla sua manovra in queste ore. È possibile che abbiano ragione: ma è assai riduttivo – e perfino fuorviante – chiudere la faccenda così.

Gli avversari del premier-segretario (e non solo loro, in verità) sono soliti definire Renzi un «prodotto politico» a mezza via tra Berlusconi e Grillo, per sottolineare i tratti un po’ populisti e un po’ demagogici che – a loro giudizio – ne contraddistinguono il modo di far politica. A parte l’ovvia considerazione – che pure dovrebbe far riflettere – che il paragone guarda a due dei tre leader più votati nel Paese (il terzo è appunto Renzi), quel che convince
sempre meno – in una società profondamente in crisi – è quella sorta di snobismo, quando non addirittura di sprezzo, che sembra esser riservata a chi pone orecchio alle richieste, al malessere e a ciò che si muove nel ventre molle di quella che viene solitamente definita, appunto, società civile.

Naturalmente c’è modo e modo di interpretare quel malessere e quelle richieste: ed è appunto questa la prova alla quale è atteso, nei prossimi mesi, Matteo Renzi. Eppure, non cogliere il fatto che proprio la distanza da quelle aspettative e da quella rabbia sia uno degli elementi che ha prima determinato il distacco di milioni di cittadini dalla politica e poi offerto propellente per il boom di Beppe Grillo e del suo movimento, è prova di superficialità: quando non, addirittura, di irresponsabilità.

Molte delle misure annunciate dal premier nelle settimane passate (e confermate ieri) vanno precisamente in quella direzione. Si tratta di scelte che sono – nella maggior parte dei casi – economicamente poco incidenti, ma che possono avere un salutare effetto psicologico (e non solo) presso quanti – e si tratta di fasce assai ampie della società – avevano del tutto perso la speranza, la fiducia circa il fatto che una classe politica chiusa nella sua cittadella fosse in grado (e avesse voglia) di prestare ascolto alle loro richieste.

Lasciamo perdere gli 80 euro in busta paga, iniziativa che non ha bisogno di grandi commenti e che era la vera – perché più difficile e costosa – scommessa del premier. Parliamo del resto. La vendita delle auto blu (diventate negli anni il simbolo della casta): «Solo cinque per ministero – ha spiegato Renzi – e i sottosegretari andranno a piedi». Il tetto agli stipendi dei manager pubblici (i detestati «papaveri di Stato»). La riduzione dei compensi alle sfere più alte della magistratura. Il colpo alle banche, e in qualche misura ai giornali. Le spese di tutti i ministeri consultabili on line. La revisione del programma per gli F35. La riduzione da 8 mila a mille delle aziende pubbliche locali. E, prima ancora, un Senato non elettivo e non costoso; l’avvio dell’abolizione delle Province e la cancellazione del Cnel.

A guardare tali decisioni da un certo punto di vista – un punto di vista che non è solo delle opposizioni politiche – le si potrebbero definire senza ombra di dubbio demagogiche e populiste; ad osservarle da un altro, invece, le si possono considerare non solo una mannaia su sprechi e privilegi non più sostenibili, ma il risultato – il prodotto – di una «politica di ascolto»: di ascolto – appunto – di un distacco e di un malessere capaci, a lungo andare, di minare le basi, la sostanza e la credibilità di qualunque democrazia.

Tutto ciò, naturalmente, potrebbe portare nuovi consensi a Matteo Renzi, al suo governo ed al partito che dirige – il Pd – in vista delle ormai vicine elezioni di maggio. Che ciò accada è possibile. Ma la domanda è: la politica non è anche questo? Non è forse aspetto fondamentale del lavoro di un qualunque amministratore – a qualunque livello – esaminare i problemi, ascoltare le richieste che salgono dalla società e poi scegliere e decidere? Se le scelte sono sbagliate, quell’amministratore sarà punito; se si riveleranno giuste, ne riceverà popolarità e consenso. È quel che Renzi spera, naturalmente, guardando alle europee di maggio. Tra un mese o poco più saprà – e sapremo – cos’è rimasto di quella speranza…

La Stampa 19.04.14

"Se il governo parla a sinistra", di Claudio Sardo

Ha dato la stura a varie congetture il voto favorevole di Sel alla proposta Renzi-Padoan di rinviare il pareggio strutturale di bilancio dal 2015 al 2016. Si è parlato della nascita di una terza maggioranza. Una terza maggioranza dopo quella di governo con il Nuovo centrodestra e quella sulle riforme con Forza Italia e si è persino almanaccato sull’uso possibile da parte del premier di queste geometrie variabili. Ma è sempre bene partire dai fatti concreti. Al pareggio strutturale l’Italia si è vincolata modificando addirittura l’articolo 81 della Costituzione. Una scelta contestabile e con- testata, benché sostenuta a suo tempo da un larghissimo consenso. Proprio la lettera della nuova norma costituzionale impone- va una maggioranza qualificata per consentire quel rinvio, senza il quale sarebbe saltata la manovra economica del governo e, ovviamente, il governo stesso. Il voto dei sette senatori di Sel (e di due ex grillini) non è risultato alla fine determinante per pochissime unità: ma, politicamente, è come se lo fosse stato. Sel ha deciso di contribuire al raggiungimento della maggioranza assoluta di Palazzo Madama proprio per marcare il segno anti-austerity della scelta governativa. Del resto, a sinistra sta crescendo la riflessione critica su quella modifica dell’art. 81. Ci siamo chiusi in una cella – ha scritto Giulio Sapelli – e abbiamo gettato la chiave: ora per aprire la cella siamo costretti a fabbricarci una nuova chiave. Sarebbe stata una follia per una forza di sinistra non assecondare un atto del governo, volto a interpretare in modo flessibile il canone europeo (e dunque a lanciare una sfida di cambiamento delle politiche europee). Semmai, in contraddizione sono caduti coloro i quali ieri inneggiavano alle virtù salvifiche del nuovo articolo 81 e oggi inneggiano al coraggio del governo di derogarvi già alla prima applicazione.

Ma torniamo al valore politico di quel voto. Non si tratta di un cambio di maggioranza. Non è possibile in questa legislatura sostituire il Nuovo centrodestra con una forza di sinistra radicale (neppure se questa dovesse scaturire dalla confluenza di Sel con tutti i grillini dissidenti). È prima di tutto l’aritmetica a negare questa possibilità. Tuttavia, ciò non vuol dire che il Pd non debba aprire un dialogo anche alla sua sinistra, e realizzare utili convergenze. La legislatura poggia su un terreno instabile. E il carattere pienamente politico del governo Renzi non cancella l’eccezionalità e al tempo stesso l’inevitabilità della coalizione che lo sostiene. Questa è una legislatura che nonvpuò non vedere alleati, per una fase, chi sarà avversario alle prossime elezioni. E non può neppure permettersi un altro fallimento sulle riforme: quando i cittadini saranno chiamati al voto per le politiche, dovranno avere un quadro chiaro e possibilmente stabile. La confusione e l’indeterminatezza stavolta possono far crollare l’intero sistema.

Il problema però sta nelle asimmetrie, sempre più numerose. Il Nuovo centrodestra è al governo, ma Renzi sembra favorire il dialogo con Forza Italia sulla legge elettorale e le materie istituzionali. Il partito di Alfano è insofferente, si lamenta in privato, ma in pubblico fa buon viso a cattivo gioco. Secondo lo schema (pessimo) dell’Italicum – che ricalca quello del Porcellum – il Nuovo centrodestra sarà obbligato ad allearsi con Berlusconi, e dunque deve trattenersi nella polemica. Il paradosso è che il Nuovo centrodestra tenta di rifarsi, esercitando il suo potere di interdizione non appena il Pd trova convergenze a sinistra, oppure quando corregge da sinistra le proposte del governo (come è accaduto con l’approvazione degli emendamenti al decreto Poletti sui con- tratti a termine).

Alfano e i suoi si sono assunti, insieme al Pd, il compito di guidare il Paese in questo frangente difficile, e ciò non può essere di- sconosciuto. Hanno rotto a destra e inferto a Berlusconi una sconfitta cocente. Ma neppure loro possono sopportare lo schema del- la doppia maggioranza, con Berlusconi che di fatto assume un potere di veto sulle riforme. Che Forza Italia sia al tavolo è bene. Ma che tocchi ad essa pronunciare il sì e il no definitivo non va bene per niente. Peraltro, stando al merito, Forza Italia continua a spingere la legge elettorale verso un’inaccettabile riproposizione del Porcellum.

Per questo l’emergere a sinistra di una nuova interlocuzione, benché esterna all’area di governo, rappresenta un fatto po- sitivo. Viviamo in un tripolarismo ormai sta- bile. Si illude chi pensa che una legge elettorale basti a riportare indietro l’orologio. Ma nell’asimmetria, la cosa più pericolosa è che Grillo – il terzo polo, o forse il secondo – rifiuti ogni responsabilità, e anzi lavori tenacemente affinché l’Italia vada sempre peggio. Proprio il voto dei Cinque stelle sul rinvio del pareggio di bilancio è la plastica conferma di una linea sfascista che vale per il governo come per le istituzioni. Come può giustificare un voto contro il rinvio chi osteggia l’austerità europea? Il punto è che Grillo vuole solo macerie. Anche per que- sto il Pd, e l’intero governo, dovrebbero valorizzare il dialogo con Sel (e con gli ex grillini che a Sel potrebbe legarsi). Dialogo a partire proprio dai temi istituzionali: aiuterebbe a migliorare l’impianto e a ridurre le pretese di Berlusconi. Per Renzi è un’opportunità. Non si tratta di cambiare caval- lo. Si tratta di guidare un Paese che non è più bipolare. È per questo, non per un pre- giudizio, che Berlusconi non può essere trattato come se fosse l’opposizione di Sua Maestà.

L’Unità 19.04.14

“Cocò? Dimenticatelo”. La legge delle cosche è più forte del dolore", di Niccolò Zancan

«Cocò, chi?». In piazza alzano il mento al cielo. Il tabaccaio si rintana in negozio. Le mamme scappano via, trascinandosi dietro figli e sacchetti. Non è cosa. Non sono domande. Non ci sono segni di lutto. Niente. Neppure in contrada Fiego, a due chilometri dal centro storico, dove si è compiuto il massacro. C’è soltanto una grande macchia scura di asfalto carbonizzato e un fiore giallo di plastica, appoggiato sul moncherino del radiatore di una Punto liquefatta. Tutto quello che resta.

Tre mesi dopo, ancora non conosciamo gli assassini di Nicolas Campolongo detto Cocò. Era un bambino di tre anni, viveva in questo paese in mezzo ai grandi. Però adesso sappiamo con certezza perché è stato ucciso. L’hanno ammazzato per farci «spagnare», come dicono qui. Per farci avere paura. A Cocò hanno sparato in testa. Come a suo nonno Giuseppe Iannicelli, come alla fidanzata di suo nonno Ibissa Tous. Giustiziati e bruciati dentro una macchina, come i mafiosi fanno con i loro peggiori nemici. «Lo stupore sarebbe una reazione ingenua», dice il pm Vincenzo Luberto, uno dei tre magistrati titolari dell’inchiesta. «Le violenze non sono mai inspiegabili. Non c’è niente di casuale. La ’ndrangheta, quando è giovane, ha bisogno di terrore per guadagnare credibilità, la carica di intimidazione è centrale. Lavora come un’azienda: se l’idraulico usa la chiave inglese, il mafioso si serve della paura. L’omicidio di un bambino è un moltiplicatore di paura». Ecco perché hanno ammazzato Cocò. Un ottimo lavoro, bisogna ammetterlo.

Cassano allo Ionio è un posto spaventoso. Perché la paura è un contagio. E se tu entri dentro un ristorante armato di una domanda e il ristoratore corre in cucina imprecando e supplicando, per favore, di non nominare il suo locale e neppure il nome di quel bambino, è ovvio che alla fine ti spagni. Tutti ci spagniamo qui. È una parola che deriva dall’epoca degli aragonesi, che usavano la sciabola come strumento di persuasione. «Voi giornalisti avete sempre fretta – dice ancora il pm Luberto -, ma per capire Cassano dovreste piantare le tende in piazza per un mese. Dovreste ricordarvi che qui è già stato ammazzato un altro bambino. Ammesso che a qualcuno importi qualcosa di questo pezzo di Italia».

La scuola elementare di Cassano è chiusa per rischio crolli. L’unico ospedale della zona è una clinica convenzionata. Arriva a fatica il segnale Rai. Tutto avviene lontano dal mondo. Spesso badanti marocchine si trasformano in fidanzate a suon di botte. Può capitare di fare figli sia con la moglie sia con la nuora all’interno dello stesso nucleo famigliare, e tutti restano insieme, sotto lo stesso tetto, in piccole case con televisioni giganti e poltrone per massaggi a sette velocità. Persino il parroco don Silvio Renne non si fa problemi a mostrare la sua insofferenza: «Ancora Cocò? È una storia chiusa. Abbiamo fatto il funerale. Io non sono un investigatore. Non spetta a me dire chi è stato. E poi è ancora tutto da dimostrare se c’entra la droga o la ‘ndrangheta…». Che è un po’ come negare che adesso è notte fonda.

La madre di Cocò si chiama Antonia Iannicelli, è agli arresti domiciliari per spaccio, in un convento lontano da qui. Il padre di Cocò si chiama Nicola Campolongo ed è in carcere per aver ammazzato il tabaccaio di Lauropoli, Giuseppe Cirigliano, durante una rapina a mano armata. Il nonno di Cocò era, appunto, Giuseppe Iannicelli detto Peppe, 52 anni, già arrestato per traffico di sostanze stupefacenti. Lo zio Tommaso Iannicelli detto «il calciatore», ritenuto anello di collegamento fra le cosche locali e il clan degli zingari, è noto per aver pronunciato questa frase in un’intercettazione: «Portami l’arma, fra tre giorni ammazziamo Luberto». Intenzioni confermate, anche in successive, conversazioni: «Non abbiamo potuto agire perché pioveva, lui era sotto casa come un coglione». Riferito al magistrato. Che in effetti, quel giorno, era sotto casa in attesa della scorta.

Questo è il contesto. Qui a giugno verrà in visita Papa Francesco. Entriamo a casa dei parenti di Cocò, nella parte vecchia e umida del paese. Stanno preparando il pranzo domenicale: agnolotti al sugo, bistecche e patatine. «Questi carabinieri sempre con noi ce l’hanno», dicono. «Sempre droga, sempre perquisizioni. Questa non è giustizia». Il capofamiglia si chiama anche lui Tommaso Iannicelli, ha una grossa catena d’oro al collo e sul braccio tatuata una frase in dialetto calabrese: «Chi sbaglia, non merita perdono». Tommaso Iannicelli, dice: «Quelli che hanno sparato a Cocò non sono cristiani, sono talebani». La ’ndrangheta? «Non c’entra. Dovremmo farla noi», dicono scoppiando in una risata fragorosa. La madre di Cocò ci ha scritto una lettera dal convento: «Non ho la minima idea di chi possa essere stato. Se la giustizia esistesse, riuscirebbe a trovare gli esseri che hanno commesso quel gesto. Ma io nella giustizia non credo». Qui si crede solo alla paura.

Su quella macchina carbonizzata in borgata Fiego, c’era anche la baby-sitter di Cocò con tatuato sul braccio «Peppe Iannicelli è il mio uomo». L’avevano fatta sposare con un prestanome, in modo che potesse avere il permesso di soggiorno. Era incinta al quinto mese. E quindi, ora si può dire, anche il conto dei morti bambini va aggiornato. I resti di Ibissa Tous sono chiusi in una cella frigorifera. Nessun parente ha ancora fornito il Dna per l’identificazione.

Cassano allo Ionio, visto da lontano, potrebbe sembrare un vecchio paese incastonato sotto la montagna, nella Calabria interna, fra Cosenza e Sibari. Placido. Senti abbaiare i cani, ti commuovi per quanto sono dolci le colline. Pensi a Cocò qui davanti, con la lattina di Fanta in mano e il suo cane maculato alla catena. Ma è uno dei posti a più alta concentrazione criminale d’Italia. Per questo nessuno piange un bambino di tre anni. Perché succede di morire ammazzati. Come era successo al sedicenne Carmine Pepe, freddato a colpi di kalashnikov il 3 ottobre 2002. Sbagliando, lo avevano ritenuto coinvolto – in qualità di vedetta – in un agguato con altri due morti ammazzati. Faide. Affari. Paura da incutere. Paura da riscuotere. E questa massima, quasi come un epitaffio: morto il cane, morta la rabbia. Ha ragione il pm Luberto: abbiamo sempre dimenticato questo pezzo di Italia. Come per l’operazione «Harem»: 90 donne fatte arrivare qui dall’Albania, violentate, massacrate, schiavizzate e mandate a prostituirsi. Neanche una riga. Neanche un Tg. Come per Cocò. Saluti, baci e sentite condoglianze.

La Stampa 19.04.14

"Dello scambio e delle pene", di Giovanni Pellegrino

Non può meravigliare che la riforma della norma punitiva dello scambio politico-mafioso sia stata accolta con favore dall’Associazione nazionale magistrati e da molti dei magistrati impegnati in prima linea nel contrasto alle cosche; e tra questi dal Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Era una riforma attesa da trent’anni.

Era attesa da così tanto perché sin dalla sua emanazione il testo dell’art. 416 ter del codice penale è stato oggetto di critiche di principio, poiché individuava e puniva una condotta assai poco ricorrente nella realtà degli intrecci tra politica e mafia.

Si sa che le cosche hanno forti disponibilità di denaro, frutto dei traffici illeciti in cui sono impegnate, sicché è più logico che scambino la promessa dell’appoggio elettorale non già con denaro, di cui non hanno bisogno, ma con concessioni, autorizzazioni e appalti, che consentono loro di acquisire anche in modo indiretto il controllo di ulteriori attività economiche, in cui riciclare le liquidità, di cui sono già abbondantemente in possesso.

I difetti di stesura della norma hanno trovato preciso riscontro nella trentennale vicenda della sua applicazione. In questa, mentre l’ipotesi tipica (scambio di denaro contro promessa di voto) è stata di rado individuata, da un lato i tentativi di una sua applicazione estensiva non hanno avuto successo, dall’altro ad esiti problematici hanno condotto quelli di utilizzare il concorso esterno all’associazione mafiosa quale rimedio alle lacune della previsione dell’art. 416 ter. Ovviamente anche il nuovo testo della norma, come ogni prodotto dell’umano intelletto, è perfettibile, come su queste colonne ha giustamente osservato Claudia Fusani. È ben dubbio però che un affinamento della norma possa utilmente consistere in un ulteriore ampliamento della sua previsione, come avveniva nel testo anteriormente approvato dal Senato, strenuamente difeso dai senatori pentastellati con i toni consueti di una sgradevole gazzarra elettoralistica.

Come sottolineato tra gli altri dal gip di Palermo Morosini, il testo anteriore conteneva formule abbastanza sfuggenti, contrarie al principio di tassatività e che ne avrebbero reso ancora una volta incerta e problematica l’applicazione concreta. Più articolate, ma comunque non del tutto condivisibili, le critiche che sono venute da voci autorevoli come quelle di Gratteri e Emiliano, che hanno ritenuto non opportuna la innovativa previsione per lo scambio elettorale politico-mafioso di una pena edittale più mite di quella prevista per i partecipi all’associazione mafiosa e per coloro che alle fortune di questa concorrono all’esterno.
Si tratta però di ipotesi differenti, in cui la diversità della sanzione obbedisce al criterio di gradualità della pena.

Il quadro ordinamentale complessivo determinato dalla riforma consente, infatti, citando ancora Morosini, di individuare una piramide di reati caratterizzati da una diversa intensità del rapporto illecito tra il politico e i clan e che vede al suo vertice il 416 bis e poi a scalare il concorso esterno e il voto di scambio con pene edittali, che rispettano una razionale gradualità. E tuttavia si tratta pur sempre di ipotesi contigue, di cui ognuna costituisce il confine dell’altra; sicché è in tale contiguità la fonte di un agevole rimedio alla possibilità che comportamenti più gravi non ricevano una sanzione adeguata Penso in particolare alla patologia cui ha fatto acutamente riferimento Michele Emiliano, e cioè quella di un sindaco che, fattosi eleggere con i voti mafiosi, compromette la libertà di una intera comunità cittadina, impegnandosi nel governarla a perseguire non più il bene comune, ma gli interessi dei clan. A chi scrive però sembra chiaro che un fenomeno di questa intensità esorbita dallo scambio elettorale politico-mafioso, perché nel momento in cui una intera amministrazione cittadina si pone al servizio di una cosca, la ipotesi del concorso esterno alla associazione mafiosa risulta pienamente verificata e sarà quindi suscettibile di essere sanzionata con pene adeguate alla sua gravità.

L’Unità 19.04.14

"La ricerca dell’uguaglianza", di Federico Fubini

Fra le classifiche che vedono l’Italia indietro rispetto a Paesi che riteniamo meno civili del nostro, c’è quella dell’uguaglianza. Misura l’uniformità con cui è distribuito il reddito fra le famiglie. Quanto a questo — a credere al Libro dei fatti della Cia — andiamo peggio dell’Egitto, dell’Armenia o del Kazakhstan. Siamo una società diseguale. Non solo da anni in decrescita infelice, ma sempre più divisa fra chi ha e chi non ha, dunque sempre più colma di livore e di una diffidenza fra i diversi gruppi che finisce per paralizzare ogni riforma e alla fine l’economia stessa.
È questo il problema che il governo di Matteo Renzi ieri ha cercato di affrontare, se per un attimo si immagina che le elezioni non sono tra un mese. Il premier ha preso la stessa torta di sempre, ma ha ritagliato le fette in modo diverso. Le ha fatte un po’ più larghe per chi di solito veniva penultimo nella distribuzione: non i giovani disoccupati senza rete né i pensionati sotto i 500 euro, ma i molti lavoratori da mille o 1.200 euro netti al mese. E ha gettato le basi per concedere fette meno vaste a certi italiani che prima se le ritagliavano fuori scala. Fra questi non solo i grand commis di Stato sopra i 240 mila euro lordi l’anno ma, in termini d’impatto sui conti, soprattutto gli imprenditori legati in modo feudale ai politici. Quelli che affittano una palazzina all’assessorato a prezzi pantagruelici o fanno pagare una siringa a un ospedale regionale quattro volte più del necessario.
Questa di Renzi è una classica operazione di (parziale) riequilibrio di una barca con molti portoghesi sul ponte e troppi che remano nella stiva. Però solleva due domande. La prima è se funzionerà. L’altra è se davvero è questo il tipo di manovra che alla lunga porterà ossigeno ai venti milioni di italiani che se lo sentono mancare, minacciati da una povertà di altri tempi.
Perché riesca, questa manovra non può essere fatta aumentando il deficit rispetto ai programmi per il 2014. Non c’è più spazio. Nelle stime del governo il debito pubblico quest’anno arriva di fatto al 135% del Pil e sono otto anni che non fa che salire e salire. Per Grecia e Cipro, i due grandi casi di default dell’area
euro, a Bruxelles si è deciso che il 140% del Pil era la soglia oltre la quale un debito pubblico non è più tenibile. Se tornassero i dubbi sulla capacità del Tesoro di finanziare e ripagare i propri titoli, come si è visto nel 2011 e 2012, quel bonus da 80 euro a testa finirebbe per costare dieci volte tanto a ogni italiano. Anche a chi lo riceve.
Il problema è che quanto a questo le zone d’ombra restano. Ieri il ministro Pier Carlo Padoan ha ammesso che i timori espressi dalla Banca d’Italia sono fondati: una quota (misteriosamente) imprecisata di risparmi da tagli di spesa è già assorbita da scelte compiute dal governo precedente. La visibilità sulla tenuta dei conti non era così bassa da anni. Le spese della Difesa non sono state tagliate, solo rinviate. La stessa tassazione supplementare delle banche sulle plusvalenze per la rivalutazione delle quote in Bankitalia appare incostituzionale: chi accetterebbe di farsi cambiare l’aliquota ex post su un’imposta dell’anno prima? E il grosso dei tagli, quei 2,1 miliardi sulle forniture dello Stato, resta da definire da parte degli enti locali (sotto minaccia, è vero, di una “ghigliottina” del governo se non si metteranno d’accordo).
Malgrado queste partite ancora aperte, Renzi redistribuisce la torta. Se quei dieci miliardi in più all’anno saranno tutti spesi, almeno un quinto finirà in Cina o in Germania perché servirà per comprare beni importati. Un’altra quota di quei soldi andrà ad arricchire ancora di più “imprenditori” e professionisti italiani che forniscono beni e servizi a caro prezzo da ben protette posizioni di rendita: il farmacista che fa pagare l’aspirina il doppio rispetto al resto d’Europa, il notaio, la società municipalizzata dell’acqua. Perché una distribuzione più equa della stessa torta è sì necessaria, ma da sola non basta. Non se il governo, osando scontentare un numero più vasto di elettori, non si muove anche per debellare le rendite e creare condizioni di lavoro nelle aziende più moderne e più produttive. In una parola, se non si decide anche finalmente a far crescere la torta.

La Repubblica 19.04.14

"Dalla Rai agli F35 la scure sullo Stato", di Valentina Conte

Taglio alle spese, dunque. Che tradotto significherà anche tetto agli stipendi pubblici, riduzioni di auto blu, spazi compressi per gli uffici, sacrifici per la Rai e la Difesa, F35 inclusi. E ancora riduzione (drastica nel triennio) della municipalizzate, da ottomila a mille. Rinuncia alle tariffe postali agevolate per i candidati alle elezioni. Dimagrimento dei bilanci degli organi costituzionali.
ACQUISTI
Razionalizzare la spesa per acquisti di beni e servizi. Questa la prima voce tecnica della dieta imposta alla Pubblica amministrazione dal governo. Tradotta in cifre: 2,1 miliardi, divisi tra Stato, Comuni e Regioni (incluse quelle a statuto speciale) in modo paritario, ovvero 700 milioni a testa. «In totale questa voce vale 100 miliardi. Sfoltirne 2,1 miliardi significa toccarne
il 2%, un’inezia», sottolinea il premier. Dei 700 milioni a carico dello Stato, la Difesa ha il compito di setacciarne 400, al cui interno 150 milioni emergeranno «rimodulando il programma di spesa per gli F35», ha precisato Renzi. Si tratta di uno «spostamento» dunque, non meglio precisato, ma non di un azzeramento tout court della discussa commessa militare. Come detto, gli enti locali hanno 60 giorni per tagliare i restanti 1,4 miliardi in modo selettivo. Altrimenti procederà il governo in via lineare. Vengono poi ridotti i centri di costo laddove le amministrazioni comprano beni e servizi – da 32mila a 35. I “soggetti aggregatori di riferimento” saranno Consip e una centrale di committenza per Regione.
SOBRIETÀ
Il secondo capitolo di spending review , ribattezzato “ sobrietà”, pesa per 900 milioni. Vediamo come si ripartisce. Riducendo i costi di gestione della Tesoreria dello Stato, Renzi pensa di ricavare 250 milioni. Ai ministeri si richiede di recuperare 200 milioni, agli organi costituzionali 60 milioni (presidenza della Repubblica, Camera, Senato, Corte Costituzionale, Cnel per 5 milioni). Alla Rai 150 milioni (viene autorizzata
a vendere RaiWay e riorganizzare le sedi regionali, «ma deciderà l’azienda»), ai candidati alle elezioni 10 milioni di francobolli. Lo svuotamento delle Province viene cifrato per 100 milioni di risparmi. Altri 100 verranno dalla rinegoziazione dei contratti di affitto delle sedi pubbliche. Qualche risparmio anche dalla riduzione delle auto blu (non cifrato ieri). Ancora 100 milioni da un primo sfoltimento delle società partecipate dai Comuni. E altri 100 milioni da un «ulteriore incremento della digitalizzazione della macchina pubblica, con l’anticipazione dell’obbligo per la fatturazione elettronica e la pubblicazione telematica di avvisi e bandi di gara» (dunque cade l’obbligo di uscire sui giornali). Non vengono toccati i Caf, nonostante i rumors della vigilia.
TETTO STIPENDI
Il punto più controverso dell’operazione è però il taglio agli stipendi pubblici. Controverso per l’evidente retromarcia, dopo le polemiche dei giorni scorsi. Nelle bozze del decreto di mercoledì e giovedì si prevedevano difatti quattro tetti, per tutti. Dai super vertici ai dirigenti di prima e seconda fascia, sino al dipendente. Queste fasce ora spariscono. Rimane un unico tetto che però – altra sorpresa – non è più riferibile da un punto di vista normativo allo stipendio del presidente della Repubblica (pare che Napolitano abbia chiesto di toglierlo), ma viene quantificato in 240 mila euro lordi annui. La sostanza non cambia, ma se il nuovo inquilino del Colle si alzasse in futuro la busta paga, questo tetto rimarrebbe lì a 240 mila euro. Vale per tutte le figure apicali, escluse società pubbliche quotate o non quotate che emettono bond (Ferrovie, Poste, Cdp), ma incluse le partecipate. Dunque anche capo delle Forze Armate e della Polizia, presidente di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, direttori generali di Inps, Inail e Rai (dunque anche Gubitosi), professori e chirurghi che sommano gli incarichi. Non vale però per gli artisti e presentatori ingaggiati dalla Rai, ha specificato ieri Renzi. In pratica, tutti coloro che oggi guadagnano 311 mila euro (lo stipendio del primo presidente di Cassazione, vincolo valido fin qui) rinunceranno a 70 mila euro dal prossimo primo maggio, dunque sui contratti in essere.

La Repubblica 19.04.14

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Renzi batte i burocrati “Manovra di sinistra volevano affondarla”, di FRANCESCO BEI e GOFFREDO DE MARCHIS
«E IO sarei quello di destra… Se ero di sinistra, che facevo?». Adesso il premier galleggia in una bolla di eccitazione, «per aver compiuto una vera rivoluzione», per aver mantenuto la parola data sulla riduzione dell’Irpef senza costi sociali. «La manovra è passata anche grazie alla tenuta di Padoan e del suo staff», riconosce con i suoi. Perché da Via XX settembre sono arrivati mille ostacoli. Tutti i mandarini del Tesoro «hanno cercato di cambiare il decreto fino all’ultimo», racconta Renzi. «Molti di loro, adesso, prenderanno uno stipendio inferiore» (Il capo di Gabinetto Garofoli – sottolineano a via XX Settembre – lo ha tagliato appena insediato due mesi fa). La resistenza era messa nel conto. Alla fine, però, il pacchetto è stato deciso e varato «a Palazzo Chigi», come spiega il sottosegretario Delrio. Da nessun’altra parte. «Quando la Lorenzin mi ha chiamato allarmata per le voci sui tagli alla salute le ho risposto: “Sono incavolato anch’io, è roba che non esce da qui”. Ogni volta toglievo la Sanità dal testo e quelli del Mef la rimettevano. Molte bozze apparse sui giornali non le avevo neanche mai viste».
Ci sono stati alcuni momenti decisivi in questa lunga partita. Una riunione con Vasco Errani, due giorni fa. «Un patto blindato» con il governatore emiliano e grande capo delle Regioni: «Noi non tocchiamo la Sanità ma tu mi aiuti con la riforma del Senato e del Titolo V, ok?». Errani ha risposto di sì e una posta importante delle coperture si è finalmente sbloccata. Le regioni dovranno tagliare circa 700 milioni di euro. «Lo faranno rivedendo i costi standard, ma senza toccare l’assistenza, gli ospedali, le cure ai malati». Se falliscono, ci penserà il governo a intervenire. Stavolta con la scure del commissario alla spending Cottarelli. Ma Renzi è sicuro che tutto filerà liscio, che gli enti locali capiranno, che l’idea di mettere in tasca 80 euro ai cittadini sarà un vantaggio anche per gli amministratori. «Con Padoan abbiamo fatto un accordo. Teniamo basse le coperture per avere sempre un margine di sicurezza ». Così dove si poteva scrivere 1,2 miliardi di recupero dell’evasione fiscale si è scritto “solo” 300 milioni. «Siamo stati seri, prudenti. Molto prudenti. Comunque abbiamo dato una manifestazione di potenza. Anche il Def è nato in cinque giorni ed è stato approvato con una maggioranza più risicata di prima».
Non riesce a tenersi alcune particolari e personali soddisfazioni commentando il decreto con i suoi fedelissimi. «Cinque macchine per ogni ministero. Sapete cosa significa? Mandiamo i sottosegretari a piedi, gli togliamo l’auto blu da sotto il sedere. È una cosa che mi fa godere». Smentiti anche i “gufi e i rosiconi” «e non mi riferisco ai giornali. Io parlo dei politici… «. Poi il godimento è aver battuto la burocrazia ministeriale. E aver ridotto gli stipendi di tanti dirigenti, soprattutto a via XX settembre. Con l’eccezione del capo di gabinetto Roberto Garofoli che si è autoridotto gli emolumenti già qualche settimana fa. Certo, per tirare fuori il grosso dei soldi il premier ha dovuto anche fare muro con la sua “squadra”. Diversi ministri avrebbero volentieri approfittato della corsia preferenziale assicurata dal decreto per infilarci norme di settore e nomine. Con loro Renzi ha fatto «una bella litigata », anche perché l’impegno preso con Napolitano e i presidenti delle Camere «era quello di non snaturare il provvedimento». Ma adesso la partita è finita. E l’obiettivo è rendere visibile la “restituzione”, come la chiama il premier, nelle buste paga di 10 milioni di italiani. «Con la scritta bonus magari. Sarebbe il massimo».
Festeggiano in tanti, nel governo. Chi ha ridotti i danni. Chi ha salvato i propri budget ministeriali. Alfano e Lorenzin hanno evitato i tagli alla sicurezza e alla salute. «Ma Beatrice — dice scherzando Renzi — sapeva già
che la salute non avrebbe subito i tagli. Ha fatto un po’ di sceneggiata… «. I ministri dell’Ncd hanno protestato per l’abolizione delle agevolazioni postali ai partiti. «Non abbiamo neanche il finanziamento pubblico noi», si è lamentato Maurizio Lupi. Ma il «treno» (altra definizione renziana) non si è fermato per così poco. Un ministro si è meritato anche il “grazie” pubblico in consiglio. «Con Roberta Pinotti la collaborazione ha funzionato benissimo», ha detto Renzi. La titolare della Difesa ha ridotto la sforbiciata da 700 a 400 milioni. E si è imposta contro i tecnici del Mef e contro Cottarelli. «Farò i tagli ma li decidiamo noi al ministero». Ha portato risparmi sugli investimenti e anche lo stop al progetto degli F35 per 153 milioni. Un’altra mossa che il Pd e l’esecutivo potranno usare durante la campagna elettorale per le Europee. Per rispondere a Beppe Grillo e per confermare la trazione a sinistra del partito e del suo segretario-premier.

La Repubblica 19.04.14

Alluvione, parlamentari “Una risposta concreta per i danneggiati”

I parlamentari modenesi Baruffi, Ghizzoni e Vaccari sul dl Modena varato dal Governo. Il Consiglio dei ministri, nel pomeriggio di oggi, ha adottato l’atteso decreto legge recante misure urgenti in favore delle popolazioni dell’Emilia-Romagna colpite dall’alluvione del 19 gennaio scorso. Nel provvedimento è previsto l’indennizzo al dei danni subiti per una somma di 210 milioni, 160 nel 2014 e 50 nel 2015 . “Si tratta di una risposta concreta al disagio che famiglie e imprese stanno tuttora vivendo – spiegano i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari – che riconosce la specificità dell’emergenza modenese. Manca l’istituzione di una zona franca urbana per la quale il Governo si era impegnato in Parlamento. Bene dunque il decreto ma noi non desisteremo e ci faremo trovare pronti quando il provvedimento approderà in Parlamento”. Ecco la dichiarazione di Baruffi, Ghizzoni e Vaccari:

“Siamo soddisfatti anzitutto perché si tratta di un provvedimento specifico che riconosce nei fatti la peculiarità dell’emergenza modenese: un territorio colpito in venti mesi da due calamità necessita di un provvedimento ad hoc che ora c’è. Nel decreto è contenuta la risposta più importante e più attesa, quella dell’indennizzo per i danni subiti da famiglie e imprese. Per quanto ci riguarda si tratta di una risposta essenziale, che consentirà a tutti i cittadini danneggiati di vedersi riconosciuti e risarciti i danni provocati dall’alluvione. Riteniamo tuttavia che si tratti ancora di un risultato parziale rispetto alle nostre richieste: manca infatti l’intervento fiscale per le zone terremotate. L’Esecutivo si era preso questo impegno, lo aveva dichiarato in Aula, aveva accolto l’ordine del giorno sottoscritto da Manuela Ghizzoni e il Parlamento aveva approvato la mozione presentata da Davide Baruffi. L’istituzione di una zona franca urbana è una risposta coerente ed adeguata alle pesanti difficoltà con cui combattono le piccolissime imprese del cratere sismico. Bene dunque il decreto, benissimo il risarcimento dei danni ma noi non desisteremo anche sul nodo fiscale. Ci faremo trovare pronti quando il provvedimento (o un altro possibile) approderà in Parlamento per chiedere quanto il Governo si è impegnato a riconoscere alla nostra comunità, sia al territorio terremotato che quello colpito dall’alluvione”.