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"Bene comune e interessi privati", di Michele Ciliberto

Il problema più grave dell’Italia sono le diseguaglianze che l’affliggono fin dalla costituzione dello Stato unitario. Ma a quelle classiche – tra Nord e Sud, tra «padroni» e «operai» – se ne sono aggiunte altre, non meno gravi e profonde: ad esempio quella tra nativi e immigrati.
Tutte sono state poi accentuate e incancrenite ulteriormente dalla crisi che ci travaglia ormai da anni, lacerando gli equilibri sociali e spingendo gli individui a rinserrarsi ciascuno nel proprio «particulare» per cercare di difendersi di fronte all’incrinarsi delle forme tradizionali della solidarietà. Ma con risultati assai diversi, a seconda del ceto – o della «corporazione» – alla quale si appartiene. Nella crisi ci sono, infatti, ceti e classi sociali che precipitano in una condizione di indigenza sempre più grave, mentre altri non solo riescono a difendersi ma, chiudendosi in logiche strettamente corporative, tentano di conservare l’esistente e riescono a incrementare il proprio potere e ad aumentare la propria ricchezza. Del resto, non è una novità: è sempre accaduto così – e continua ad accadere – quando viene meno un principio di direzione generale della società e gli «istinti animali» possono espandersi senza alcun controllo. Accade così, in altre parole, quando viene meno la capacità della politica di riuscire ad individuare, nelle differenze, gli interessi generali. In questa condizione le singole corporazioni affermano il proprio dominio, generando un processo di feudalizzazione della società nella quale, secondo dinamiche darwiniane, i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi o i protetti sempre più ricchi e più garantiti. È la situazione in cui ci troviamo oggi.

Reagire e cambiare prospettiva non è semplice, come vediamo giorno dopo giorno: significa, infatti, scontrarsi con interessi costituiti, fortemente incrostati e pronti a diventare perfino minacciosi se i loro privilegi sono toccati o anche solamente sfiorati. In Italia vuol dire scontrarsi con la eredità più grave del berlusconismo, che ha demolito ogni spirito di solidarietà sociale ed ha eccitato gli «spiriti animali», individuati come il motore principale del progresso umano. In questa situazione ci vogliono tempo, forza e visione per riuscire a imboccare una nuova strada.

Ma le battaglie, per essere combattute, hanno bisogno di essere iniziate, nei modi possibili e con i mezzi disponibili. Ora, qualunque sia il giudizio sull’attuale presidente del Consiglio, con i provvedimenti di ieri questa lotta è stata avviata in modo positivo. Certo, sono evidenti i limiti e le contraddizioni di alcune decisioni: non si capisce bene quale peso ricada sugli enti locali, si tratta poi, almeno per ora, di un riformismo «dall’alto», e non è mai positivo «governare in nome del popolo ma senza il popolo». Alcuni inoltre hanno detto che sono iniziative elettorali, come se facessero una grande scoperta. Certo, in campo ci sono anche interessi elettorali, tanto più evidenti ed urgenti, se si tiene conto del modo con cui questo governo è nato, e della sua stessa composizione. In democrazia gli interessi elettorali sono un fatto normale. Il punto discriminante è che mentre altri, per motivi elettorali, hanno varato l’Ici, con tutte le conseguenze che si sanno, il premier attuale ha guardato dalla parte opposta, mettendo soldi nella busta paga di chi guadagna meno. Non capirlo o sottovalutarlo, sarebbe sciocco, così come sarebbe assai miope non capire il valore di una scelta come questa che, al di là delle chiacchiere, ribadisce il valore dell’eguaglianza come principio essenziale per una società democratica moderna. Si è cercato cioè di guardare all’interesse generale del paese, mettendosi dalla parte degli «ultimi». Colpiscono perciò le reazioni dell’Associazione dei magistrati – i quali secondo il premier devono restare nel «limite» dei 240 mila euro lordi di stipendio annuo, 20 mila al mese – e delle banche per i «sacrifici» che sono chiamati a fare. Eppure stanno sotto gli occhi di tutti le condizioni di indigenza e di tendenziale o effettiva povertà di larghe fasce del paese. Sono clamorose le diseguaglianze che le enormi differenze di stipendio accentuano fino alla intollerabilità. E non è un caso se su di esse si è soffermato ieri il predicatore della Casa apostolica, padre Raniero Cantalamessa, con parole che andrebbero severamente meditate. E del resto, anche Papa Francesco è già intervenuto a più riprese su questo punto decisivo.

Ma il problema è delicato e vorrei perciò essere chiaro: qui non è in questione l’autonomia dei magistrati che è un bene supremo per tutti in una democrazia rappresentativa, almeno dai tempi di Montesquieu. Né si tratta di una persecuzione contro le banche. Il problema è un altro, e consiste nella necessità di ricostituire nel nostro paese forme elementari di solidarietà sociale, di comune appartenenza, di identità nazionale collettiva. Dobbiamo avviare la ricostruzione della Nazione e della nostra democrazia. Ma questo non è possibile senza affrontare il nodo delle diseguaglianze e senza confrontarsi con i problemi quotidiani degli «ultimi», cercando di chiudere finalmente la stagione del berlusconismo . Se vogliamo rimetterci in cammino occorre guardare «dal basso». E per questo ognuno deve fare la propria parte, senza accampare pretesti ideologici per coprire antichi privilegi.

Occorre perciò demolire la forza, e il potere di interdizione, delle corporazioni che hanno intralciato lo sviluppo del nostro paese estendendo ulteriormente la sfera del loro dominio negli ultimi venti anni. È una battaglia che si deve accompagnare a quella contro la burocrazia, ma con una differenza di fondo: la burocrazia costituisce una struttura dello stato moderno e proprio per questo è capace addirittura di attraversare regimi politici diversi, restando se stessa: l’amministrazione propriamente detta dello Stato – scrive Tocqueville – è in qualche modo al di sopra del sovrano, un corpo particolare che ha le sue abitudini speciali, le sue regole, i suoi funzionari che non appartengono che all’amministrazione stessa. È quindi una forza importante, da regolare e contenere quando, come accade oggi, invade campi non suoi pretendendo di sostituirsi alla politica in nome di un sapere tecnico, oggettivo, che come tale non esiste. L’idea corporativa è invece espressione di interessi particolari, «privati», estranei alla dimensione «pubblica», anche se viene difesa in nome dell’interesse della Nazione. Per questo va combattuta in modo intransigente. Naturalmente se si vuole ricostituire, su nuove basi, un nuovo «vincolo» sociale e civile, una nuova identità della Nazione.

L’Unità 20.04.14

"L’investimento sul ceto medio", di Paolo Baroni

I gufi almeno per un po’ smetteranno certo di gufare, i rosiconi invece probabilmente continueranno a tormentarsi sostenendo, magari, che la manovra di Renzi non funzionerà. Il taglio del cuneo fiscale però è varato, e a partire da fine maggio regalerà a 10 milioni di italiani 640 euro netti in sette mesi. Sono 80 euro in più al mese e per chi guadagna 1200-1500 euro è come se gli entrasse in busta paga l’equivalente di un rinnovo contrattuale. Non poco di questi tempi.

Certo gli incapienti, tutti quelli che stanno sotto la soglia degli 8 mila euro e che non pagando tasse il bonus non lo possono ricevere, sono rimasti a bocca asciutta. Ma per soddisfare anche loro sarebbero serviti almeno altri 2 miliardi e mezzo di euro. Renzi e Padoan, lo si è capito dal tira e molla degli ultimi giorni e dal menù finale delle coperture squadernato venerdì al termine del Consiglio dei ministri, hanno fatto fatica a trovarne 6,9, immaginiamoci dover arrivare a 9,5.

Se Renzi avesse seguito le logiche che in passato hanno ispirato le mosse di altri governi molto probabilmente non avrebbe fatto nulla. Condannando il paese a restare inchiodato, fermo a boccheggiare sulla soglia di una crescita dello zero virgola.

Inaccettabile per uno come il nostro presidente del Consiglio, un tipo che certo ha già dimostrato di non conoscere le mezze misure e che pertanto, anche in questa occasione, ha deciso di scartare mettendo in campo il massimo delle risorse possibili pur di dare una spinta alla crescita. Sul fronte delle entrate il governo è così andato a colpo sicuro spremendo nuovamente le banche e aumentando le tasse sulle rendite finanziarie (per iniziare a sforbiciare l’Irap pagata dalle imprese), operazione che garantisce cassa e pure consenso popolare. Quindi ha frantumato la revisione della spesa in cento capitoli: un po’ dallo Stato, un poco dalle Regioni e un poco dai Comuni, un poco alle caste (dagli alti burocrati ai politici), senza «dimenticare» la Rai e gli editori di giornali. Dunque un poco da tutti, puntando al sodo, all’incasso sicuro.

Renzi ha insomma fatto tutto il possibile, anche abbondando con le una-tantum, pur di portare a casa le famigerate coperture necessarie a tagliare il cuneo fiscale. Il premier è infatti convinto che assieme a quella delle riforme, questa sia la sua vera scommessa, una di quelle su cui si gioca davvero la faccia. Ma mentre per il Senato si parla del 2015, questa ha un orizzonte temporale molto più ravvicinato. Diciamo i sette mesi di validità del bonus.

Di qui a fine anno per consentire al governo di uscirne bene dovranno però realizzarsi due condizioni. La prima, la più importante, quella a cui il governo preme di più, è il consolidamento della crescita (e quindi la ripresa del lavoro), a cui dovrebbe certamente contribuire l’operazione 80 euro, così come l’accelerazione dei pagamenti degli arretrati della pubblica amministrazione. Più liquidità nelle tasche degli italiani e a disposizione delle imprese infatti dovrebbero, nel primo caso, far riprendere i consumi interni; e nel secondo accelerare la ripresa degli investimenti. La seconda condizione riguarda il conseguimento dei target di risparmio: entro l’anno capiremo se lo Stato è davvero capace di riformarsi e mettere a segno quelle economie di cui si parla da tempo, se la spending review è solo una cortina fumogena oppure un vero progetto di riforma di tutta la macchina pubblica.

La scommessa di Renzi è però anche una scommessa sul ceto medio italiano, su una fascia di popolazione che più di altre, negli anni passati, si è fatta carico del risanamento del Paese, e che da tempo aspetta dal governo un segnale di attenzione. Annunciare un provvedimento a suo favore e mantenere la promessa fatta nei tempi indicati contribuisce certamente a rafforzare gli indici di fiducia delle famiglie. E’ questa, al pari dei soldi in più in busta paga, è la miglior cura che si possa immaginare per un Paese ancora malato. Alla faccia dei gufi i segnali ci sono tutti (ad aprile, secondo l’ultima ricerca Censis-Confcommercio, per la prima volta dal 2011 il numero degli ottimisti ha superato quello dei pessimisti di 12 punti) e ci dicono che siamo sulla buona strada. Vedremo poi a fine anno se i conti torneranno davvero tutti.

La Stampa 20.04.14

«Max&Co chiuso, intervenga il Governo», di Maria Silvia Cabri

L’imminente chiusura degli storici negozi Max Mara e Max&Co continua a far discutere. Sul punto è intervenuta anche l’onorevole carpigiana Pd Manuela Ghizzoni, che insieme all’onorevole Davide Baruffi della Commissione Lavoro, ha presentato un’interrogazione al ministro del lavoro Giuliano Poletti, per sollecitare l’attenzione sul tema. «La chiusura dei due negozi in corso Alberto Pio — spiega l’onorevole —, avrà inevitabilmente un riflesso su tutto il tessuto sociale di Carpi. Prendendo spunto da questi eventi, ho sentito il bisogno di lanciare un grido di allarme a livello istituzionale. Specie a fronte di chiusure che così fortemente penalizzano le lavoratrici donne». Quella del punto vendita di Carpi è infatti solo l’ultima in ordine cronologico di una serie di chiusure che rientrano in un più ampio fenomeno di ridimensionamento dell’azienda reggiana, che, negli ultimi due anni, ha portato al licenziamento di una sessantina di addette alle vendite. Dal 2012 sono stati chiusi almeno 16 monomarca Max&Co, a cui potrebbero aggiungersi a breve altre tre chiusure. «Questi licenziamenti, spesso effettuati in deroga alle norme sul preavviso — prosegue la parlamentare —, sono avvenuti nella disattenzione generale e a danno di personale femminile, tra le categorie più penalizzate sul mercato italiano. Da un gruppo così affermato nel mondo — continua —, ci si sarebbe aspettati almeno un tentativo di più efficace difesa del marchio e, di conseguenza, del personale. La strada da percorrere era forse quella dell’innovazione del prodotto e dell’offerta, per intercettare una domanda che è al contempo massiccia nei numeri, ma debole sul fronte della capacità di spesa. Le chiusure e i licenziamenti non possono che rappresentare l’ultimissima opzione». Per queste ragioni, la Ghizzoni ha presentato l’interrogazione per chiedere se il ministro «sia a conoscenza della situazione dei punti vendita del monomarca Max&Co e come intenda attivarsi per tutelare le lavoratrici coinvolte». Sulla difficile situazione degli esercizi commerciali del centro storico intervengono anche le associazioni di categoria. «I negozianti sono stati bravi a ripartire dopo il sisma —spiega Massimo Fontanarosa, direttore Confcommercio —; gli eventi promossi in sinergia con il Comune hanno avuto riscontri positivi. Ma non basta: altre chiusure sono in previsione. E’ urgente che il Governo si attivi in tempi brevissimi, a livello di tasse, Irpef e Irap, e agevolando le modalità di assunzione». Anche Barbara Bulgarelli, direttore Cna definisce la situazione molto preoccupante: «La chiusura di negozi di qualità e tradizione è espressione di un malessere economico che investe tutti. Carpi rischia di perdere attrattività ed eccellenza, omologandosi a tanti altri centri storici». «La chiusura di famosi monomarca colpisce molto — prosegue —, ma lo stesso interesse deve essere espresso verso tutte le piccole imprese artigiane che hanno chiuso in questi due anni».
«Dieci anni fa le attività venivano tramandate da padre in figlio — prosegue Massimiliano Siligardi, direttore Confesercenti —; ora, dopo sei mesi dall’apertura, un negozio rischia di chiudere. Oltre al dato negativo quantitativo, c’è anche un discorso di qualità che va affrontato».

Il Resto del Carlino 14.04.14

"Le scarpe rotte prima della vittoria", d Gad Lerner

Succede di rado, ma succede. Che lo spirito di un’epoca si condensi in pochi versi, indissolubilmente legati a una melodia, per poi attraversare il tempo e farcene rivivere ogni volta l’attualità.
Quando abbiamo deciso di sperimentare un racconto televisivo dell’Italia che uscisse dal chiuso dei talk show, il titolo Fischia il vento è venuto naturale: una matrice in cui potevano ritrovarsi due casematte della cultura di sinistra come Feltrinelli e Repubblica, ma in cui soprattutto si ritrova il senso comune popolare di una democrazia che non dimentica di essere nata dalla Resistenza antifascista. Fischia il vento, più ancora di Bella ciao, è il canto per eccellenza della nostra Resistenza perché non la fa facile: ci inchioda a una dimensione tragica. Il nostro canto malinconico della Liberazione non può prescindere da Fischia il vento: memoria in bianco e nero di una guerra civile nella quale c’erano una ragione di civiltà contrapposta a un torto criminale.
Ancora oggi siamo chiamati a schierarci. D’accordo, è solo una canzone. Ma, come il vento, la senti arrivare gelida da lontano. Il fatto che sia una traduzione, e che la musica sia russa, l’arricchisce di gravità.
Fornisce la percezione di un accadimento più grande di noi, nel quale le brigate partigiane restituirono a un’Italia disonorata un ruolo nobile di protagonismo.
La canti anche da solo, ma pensandola in coro. Non è allegra, ma vibra. Esprime la fatica di una guerra dall’esito incerto, non la baldanza di una vittoria.

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“Venticinque aprile”, di ALBERTO CUSTODERO

BAMBINI PARTIGIANI imbracciarono le armi durante la Resistenza. La prova spunterebbe dagli archivi fotografici dell’Imperial War Museum di Londra. Si tratta di foto scattate da soldati angloamericani e donate molti anni dopo la fine della guerra al museo londinese. Alcune erano state segretate, forse per evitare un ritorno negativo di immagine sulla Liberazione. Lo scatto del sergente Loughlin (con il timbro “segreto”) nei pressi di San Marino il 26 settembre ‘44 ritrae, ad esempio, un bambino del quale viene citato anche il nome (Angelo Batelli). “ The boy is only 8 years old”, il ragazzo ha solo 8 anni. E, precisano gli inglesi, ha rischiato la vita per salvare la vita a molti soldati alleati. La sua attività bellica è descritta in una didascalia di poche righe. «Il piccolo Batelli ha disinnescato le bombe a mano che i tedeschi, acquartieratisi a casa sua, volevano usare contro la fanteria alleata». Altra foto. La scatta il 10 settembre ‘44, a Trani, il sergente Meyer. La didascalia descrive «un partigiano molto giovane, al quale è stato amputato un braccio»: suo il volto sorridente nell’immagine più piccola pubblicata in questa pagina. E ancora. Pizzoferrato, Abruzzo, 4 maggio ‘44: il sergente Fox immortala, accovacciato a terra col mitra impugnato, «un giovane guerrigliero italiano che ha risposto all’appello delle armi». Anche questa foto riporta il timbro secret, ed è quella qui accanto pubblicata più in grande. A Ravenna, il 24 febbraio ‘45, un ragazzino in uniforme inglese di circa dieci anni compare sorridente in uno scatto del sergente Currey, VIII Armata: «Il componente più giovane dei partigiani del Ravennate è originario della provincia di Napoli. Ha combattuto con i partigiani nelle montagne attorno a Firenze e in Romagna».
Gli storici confermano con alcuni distinguo come possibile la presenza di bambini, anche sotto i 14 anni, che avrebbero combattuto contro i nazifascisti. «Molti erano quelli coinvolti nella guerra partigiana», spiega Claudio Pavone, ex partigiano, 93 anni, il più rigoroso storico della Resistenza. Ma aggiunge: «Destando meno sospetti facevano cose che i grandi non potevano fare. In questo senso non parlerei di “bambini guerrieri o guerriglieri”. I bambini potevano essere utilizzati come staffette, o per eludere i controlli delle forze fasciste o naziste, ma restavano bambini». «Quando ci sono le rivolte di popolo che hanno come teatro dei combattimenti le strade — spiega Gabriella Gribaudi, ordinario di Storia all’università di Napoli — ci sono anche i bambini che partecipano. E muoiono, come settant’anni fa col coinvolgimento degli “scugnizzi” nelle “quattro giornate” di Napoli. E come succede ancora oggi in giro per il mondo: in occasione della “rivolta delle pietre” in Palestina, erano i bambini a scagliare sassi contro i soldati israeliani».
«Le foto del museo britannico della guerra — aggiunge lo storico Gianni Oliva — confermano che conflitti come quelli resistenziali coinvolgono inevitabilmente anche ragazzini in tenera età. In una insurrezione di popolo combattuta casa per casa, con connotazioni anche di guerra civile, salta il concetto d’età. Lo scontro coinvolge tutti. Compresi i più piccoli, sottoposti spesso a violenze inaudite, come l’essere costretti e vedere i morti giustiziati nelle piazze». Più scettico, invece, lo storico torinese Bruno Maida: «Dubito che bambini soldato abbiano preso le armi al fianco di partigiani. La mia impressione è che i piccoli in divisa ritratti nelle foto inglesi fossero magari orfani di guerra. O feriti, o mutilati, come il “tamburino sardo” del Risorgimento, e poi “adottati” come mascotte o per propaganda
durante la Liberazione».

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“Quando la guerra cancella i confini”, di MARCO REVELLI

NON CONOSCO casi di bambini “reclutati” nelle formazioni partigiane. Frequento gli archivi piemontesi, in particolare di “Giustizia e Libertà”, ho visto i ruolini con gli organici: giovani o giovanissimi molti, qualcuno anche sotto le classi d’età coinvolte dai bandi di reclutamento forzato della Repubblica sociale (la quale, al contrario, sfoggiava effettivamente le proprie mascotte in divisa).
Ma bambini no. Per una ragione molto semplice: che la guerra partigiana era massacrante.
Richiedeva una capacità di resistenza fisica incompatibile con l’infanzia. Il che non significa che i bambini potessero restare miracolosamente fuori da quella guerra.
Al contrario. Era, quella, una guerra che cancellava i confini tra civili e militari.
Tra giovani e anziani. Tra uomini e donne…
I rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti non facevano distinzioni, colpivano tutti.
Nelle baite bruciate, nelle borgate messe a ferro e fuoco, vivevano (e rischiavano) interi nuclei famigliari. Così come l’appoggio alla Resistenza poteva assumere molte forme: un po’ di cibo offerto, un servizio di staffetta attraverso le linee, un biglietto portato da un vallone all’altro, in questo caso sì, anche da bambini o bambine.
Niente di più lontano dai bambini soldato delle milizie di oggi che appartengono non solo a un altro secolo ma a un diverso universo di senso.

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“La canzone”, di EMILIO MARRESE
Fu scritta su un foglietto staccato da un ricettario medico. Quello del dottor Felice Cascione, via Asclepio Gandolfo 5 a Imperia. Una prescrizione per l’anima: “Soffia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna agir / a conquistare la nostra (?) primavera in cui sorge il sol dell’Avvenire”, recitava la prima strofa a matita in calligrafia ordinata. La spedì dai monti liguri, dov’era salito partigiano dopo l’8 settembre del ’43, alla mamma Maria, maestra elementare. Che gliela fece riavere corretta e dattiloscritta: soffia era diventato fischia, agir era ardir , e la primavera non aveva più punto interrogativo, non era più nostra ma rossa . La prima volta venne intonata dalla brigata di Cascione, ventisei anni, ex campione di pallanuoto e “medico dei poveri”, davanti al portone della chiesa di San Michele a Curenna, borghetto del savonese, la sera della vigilia di Natale dopo la messa, davanti a un pentolone di castagne. Pochi giorni più tardi Cascione fu trucidato dai fascisti, mentre i suoi versi adottati dal vento continuarono a volare di bosco in bosco fino a diventare l’inno ufficiale della Resistenza. Prima ancora della più trasversale Bella ciao. Ognuno si masticò la sua versione: ardir può essere anche andar , e c’è chi aggiunge una strofa con falce e martello. Perché quelle parole sono già di tutti, sono fiorite per esserlo. Al punto di poter perlopiù ignorare, oggi come allora, chi ne
fosse veramente l’autore. «È una vera e propria arma contro i fascisti. Li fa impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone», dice il partigiano Johnny nel romanzo di Beppe Fenoglio.
La storia di Felice Cascione, u Megu, e del suo canto ribelle è stata ricostruita da Donatella Alfonso in Fischia il vento ( Castelvecchi, 140 pagine, 16,50 euro). Bello e carismatico come dev’essere un eroe, Felice rimane orfano a cinque mesi di Giobatta, commerciante d’olio, ma la madre riesce a farlo studiare. Nelle poco limpide acque marine davanti al porto diventa centrovasca e capitano del Guf Imperia, che scala tra il ‘37 e il ‘39 dalla serie C alla A del campionato di pallanuoto. In quella stessa estate arriva secondo ai Mondiali con la nazionale universitaria a Vienna, tre giorni prima dell’invasione della Polonia. Lascia Genova per la Sapienza a Roma (dove si ritrova in squadra il portiere Massimo Girotti, non ancora divo del cinema), e infine si laurea in Medicina a Bologna nel ’42, al termine della sua fuga dalla burocrazia fascista che lo ostacolava negli esami e nelle graduatorie per un posto alla Casa dello Studente. Il giovane Felice era nel mirino per le sue frequentazioni, in particolare quella di Giacomo Castagneto detto Mumuccio che lo aveva introdotto nel partito comunista clandestino, e presentato a Natta e Pajetta. Il dottorino diventa subito popolare a Oneglia perché non fa pagare né medicine né visite a chi non può. In agosto si fa venti giorni di prigione per adunata sediziosa e, dopo l’armistizio, si rifugia sui monti coi compagni a capo di un manipolo che arriverà presto a contare una cinquantina di uomini. Tra loro c’è Giacomo Sibilla detto Ivan, operaio che ha fatto la campagna di Russia e porta una chitarra a tracolla accanto al mitra. È lui che la sera, nei casolari diroccati, strimpella questa Katiuscia , la celebre melodia popolare russa. Il testo del poeta Isakovskij parlerebbe di meli e peri in fiori, ma già i soldati italiani nella steppa l’avevano storpiato con riferimenti al vento e alle loro scarpe di cartone. Si tratta di metterla giù meglio, per quest’altra battaglia. Ci pensa u Megu.
Le camicie nere stanano e giustiziano Felice il 27 gennaio 1944, lasciandone il corpo su un pendio. «Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è leggendario» scriverà, un anno dopo, su La voce della democrazia, un altro giovane partigiano noto come Santiago. La sua firma è Italo Calvino.

La Repubblica 20.04.14

“Contro la corruzione servono nuove leggi su prescrizione e falso in bilancio”, di Liana Milella

Raffaele Cantone ha finalmente ottenuto i lasciapassare per insediarsi sulla poltrona di commissario anti-corruzione, lì dove lo ha voluto Renzi. Ieri era nella sua stanza di magistrato della Cassazione. È emozionato perché, per la prima volta nella sua ventennale carriera che lo ha visto pm a Napoli contro la camorra e dalla camorra minacciato di morte, da 3 giorni è fuori ruolo. Sulla scrivania i tantissimi messaggi che ha ricevuto dal giorno della nomina.
«Mi scrivono via sms, via mail, o per lettera, e c’è un leitmotiv che mi colpisce molto, la comune fiducia nel fatto che una svolta è possibile».
La corruzione? «Uno dei mali peggiori della nostra democrazia». L’Italia è redimibile? «Io credo proprio di sì, e ci sono tante energie positive che aspettano solo di essere utilizzate». Le leggi attuali sono sufficienti? «Sicuramente servono delle decisive correzioni». La battaglia di Renzi contro la burocrazia? «La condivido al cento per cento. La cattiva burocrazia è la madre della corruzione». E quella contro gli sprechi? «La corruzione è essa stessa fonte di sprechi, perché molto spesso il valore degli appalti lievita proprio per pagare il prezzo della corruzione». Se il nostro Paese vince la scommessa dell’anti-corruzione ciò comporterà dei vantaggi tangibili per l’economia? «Sicuramente sì, perché il miglioramento della posizione dell’Italia nelle classifiche internazionali incentiverà gli investimenti, soprattutto quelli stranieri».
Mai come nel suo caso c’è stato un consenso bipartisan che ha portato a non registrare alcuna voce di dissenso sulla sua nomina. Nell’Italia delle divisioni questo è davvero singolare non trova?
«Il dato è obiettivamente interessante perché i voti che si sono susseguiti al Senato e alla Camera erano segreti. Quindi del tutto spontanei. Sul piano personale la cosa mi ha particolarmente gratificato, ma dal punto di vista istituzionale ci ho visto la precisa volontà di una svolta nella lotta alla corruzione, perché è una priorità comunemente riconosciuta».
Parliamoci chiaro, i commissari, nel nostro Paese, non godono di buona fama, né in genere hanno dato clamorosi risultati. Anche nel caso della corruzione. Lei crede davvero che un commissario possa garantire una svolta radicale?
«Innanzitutto, io non sono il commissario anti corruzione…».
No, e che cos’è allora?
«Sono il presidente di un organo collegiale che giuridicamente è un’Autorità indipendente e che, malgrado la denominazione, svolge una funzione molto chiara, deve controllare il rispetto delle regole di prevenzione imposte alla pubblica amministrazione dalla legge Severino. L’obiettivo dell’Authority non è quello di combattere la corruzione già avvenuta, ma di provare a prevenirla. Questa è la grande scommessa della legge del 2012».
Capisco il suo entusiasmo, ma si metta nei panni degli italiani tempestati dalle notizie di una corruzione dilagante a tutti i livelli dello Stato…
«Pensare che qualcuno abbia la bacchetta magica per bloccare una situazione simile è illusorio. Io, ovviamente, la bacchetta non ce l’ho. Una lotta dura come questa non può essere vinta né in 6 mesi, né in 2 anni, ma l’obiettivo è di provare a invertire il trend, cioè creare le condizioni perché il fenomeno regredisca a condizioni fisiologiche, perché i fenomeni corruttivi esistono da sempre, e in qualsiasi tipo di Stato. La questione chiave è di riportare il livello della corruzione a quello delle società occidentali evolute. La grande scommessa è che sia la pubblica amministrazione a creare al suo interno gli anticorpi per combattere la corruzione».
Cantone, si fermi. Cosa sta promettendo agli italiani, un autopulizia che, se va bene, darà risultati tra dieci anni?
«Io posso promettere solo una cosa, il massimo impegno ed entusiasmo personale a lavorare in quest’impresa. E metterei la firma se il sistema potesse migliorare in un termine molto più breve, perché vorrebbe dire invertire la tendenza.
Ma è evidente che l’Authority anticorruzione
non può cambiare da sola la situazione della lotta alla corruzione. Il mio ufficio è solo un tassello che richiede tutta un’altra serie di pezzi del puzzle».
Qual è il programma dei suoi primi cento giorni?
«Non solo un politico, e quindi non faccio programmi di questo tipo. Per come sono abituato a lavorare, cercherò subito di capire come funziona l’ufficio, quali mezzi può utilizzare e quali sono le sue potenzialità. Inutile fare battaglie senza capire qual è l’esercito in campo. Io non faccio nessun proclama. Mi aspetto ovviamente che al momento opportuno la politica valorizzi la mia nomina unanime e renda l’Autority più efficace e più incisiva».
Quali poteri chiederà per garantire risultati efficaci?
«Il primo, e fondamentale passaggio, è quello di completare la squadra con gli altri membri dell’Authority. Sono certo che i componenti scelti condivideranno il mio entusiasmo nel credere in quest’impresa. L’Authority oggi ha poteri ispettivi, ma non sanzionatori, che invece sono assolutamente necessari per rendere effettivi i controlli. La legge Severino prevede una serie di obblighi per le pubbliche amministrazioni, da quello di dotarsi di piani anti- corruzione, al rispetto delle regole di trasparenza negli appalti. Noi svolgeremo la vigilanza, ma poi bisogna sanzionare in modo adeguato chi non rispetta gli obblighi stessi».
Non le pare che il bilancio della Severino sia negativo? Le inchieste si moltiplicano, la prescrizione le falcidia, il famoso caso della concussione divisa a metà è tuttora aperto.
«Ho sempre pensato che la legge fosse un primo passo positivo ma da completare, sia sul piano della prevenzione che della repressione. È sicuramente necessario incidere sulla prescrizione, ma anche prevedere meccanismi che stimolino le collaborazioni, proprio come succede per la mafia. Servono norme ostacolo per la contabilità delle imprese come un rafforzato falso in bilancio. Bisogna rafforzare la norma sulla corruzione tra privati. Un sistema penale che non funziona rappresenta il più grosso incentivo al ripetersi della corruzione, perché non espelle dal sistema i soggetti corrotti e non rappresenta una contro spinta sul piano psicologico per non delinquere. Rischia solo di lasciare nei posti chiave dell’amministrazione soggetti di dubbia moralità e di mandare un messaggio contraddittorio alle persone perbene. È indispensabile una fortissima sinergia tra momento repressivo e momento preventivo».
Lei chiederà di allungare la prescrizione, di cambiare il falso in bilancio, di chiudere la partita dell’autoriciclaggio?
«Sicuramente le considero scelte prioritarie in una complessiva logica di contrasto alla corruzione».
È fin troppo tempo che gli stessi magistrati sollecitano queste riforme. Non ritiene che il tempo dell’attesa, anche per il governo Renzi, sia ormai scaduto?
«In verità, il tema della prescrizione andrebbe affrontato in modo complessivo perché riguarda una quantità enorme di reati e perché l’immagine dell’inefficienza della giustizia italiana viene misurata sul numero delle prescrizioni».
Lei come la cambierebbe?
«La mia esperienza mi dice che una buona formula sarebbe quella di far ripartire l’orologio della prescrizione subito dopo una condanna in primo grado. Questo eviterebbe le impugnazioni dilatorie».
Da magistrato, non ce l’ha con Renzi per la polemica sui vostri stipendi?
«Se vengono chiesti sacrifici a tutti può essere giusto chiederli anche ai magistrati, purché non appaia assolutamente punitivo per la categoria».

La Repubblica 20.04.14

"Questa volta il premier mi piace ma…", di Eugenio Scalfari

Oggi è Pasqua. Per i cristiani è il giorno dedicato alla Resurrezione, ma il Resurrexit riguarda tutti perché ciascun individuo, ciascun popolo, ciascuna generazione attraversano nel corso della loro vita momenti di pena, di abbattimento, di disperazione e di smarrimento della speranza per il futuro.
Gran parte del mondo, l’Europa e l’Italia in particolare, stanno vivendo un momento di crisi profonda e per questo il Resurrexit , incitando a risorgere, rappresenta uno stimolo che va accolto e seguito.
Papa Francesco l’ha ricordato ed in molte occasioni ne ha anche indicato gli aspetti morali che riassumo con le sue parole da me direttamente ascoltate: «Ama il prossimo tuo più di te stesso». Questa è l’indicazione, valida per i credenti e per i non credenti. Valida, anzi obbligatoria soprattutto per i Governi, per le istituzioni e per tutti quelli che operano per realizzare una visione del bene comune. Ama il prossimo tuo più di te stesso significa, in politica, aiutare i deboli, i poveri, gli esclusi, i vecchi che trascinano la vita che gli resta e i giovani che debbono costruirla apprendendo e facendo crescere i loro talenti.
Mai come oggi abbiamo bisogno di risorgere e di conquistarci un futuro. Questo è il metro per capire e obiettivamente giudicare quanto avviene nel nostro Paese che è al tempo stesso l’Italia e l’Europa.
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Il Resurrexit dell’altro ieri nella politica italiana ed anche europea ha il nome di Matteo Renzi. A me di solito non piace e l’ho scritto e detto molte volte. RICONOSCO le sue doti di comunicatore e di seduttore; da questo punto di vista è il figlio buono di Berlusconi come anche il capo di Forza Italia ha riconosciuto più volte. Buono perché è molto più giovane di lui e soprattutto perché non ha gli scheletri nell’armadio che abbondano invece in quello dell’ex Cavaliere di Arcore.
Ha coraggio ed ama il rischio, ma politicamente improvvisa e spesso le sue improvvisazioni sono fragili, pericolose e preoccupanti.
La sua operazione di taglio del cuneo fiscale è preoccupante: appartiene a quel tipo d’intervento, specie per quanto riguarda le coperture, gran parte delle quali scricchiolano, cartoni appiccicati l’uno all’altro con le spille che spesso saltano via; sicché non è affatto sicuro che convinceranno le autorità europee a dare via libera e concedergli di rinviare a due anni il rientro nel limite del 3 per cento del rapporto tra il Pil e il deficit del debito pubblico.
E poi: la tassa sulle banche è retroattiva e comunque è una una tantum non ripetibile, i tagli della Difesa sono rinviati ma non aboliti; il maggior incasso dell’Iva è un anticipo d’un anno e ce lo troveremo sul gobbo nel 2015; il pagamento dei debiti alle aziende creditrici, che doveva essere almeno di 17 miliardi, è stato ridotto a 7. Infine gli incapienti con redditi inferiori agli 8 mila euro annui e quindi esentati dal pagamento dell’Irpef avrebbero dovuto precedere per evidenti ragioni di equità il bonus in busta paga che premia i redditi superiori. Senza dire dei contributi da parte dei Comuni il cui pagamento però può essere accompagnato dall’aumento delle imposte comunali che potrebbero vanificare o ridurre fortemente il bonus di 80 euro in chi in quei Comuni risiede.
Questi aspetti negativi sono stati ampiamente segnalati nei loro articoli di ieri dai colleghi Boeri, Fubini, Bei, De Marchis, Conte, sul nostro giornale e da Dario Di Vico sul Corriere della Sera , dando un bilancio nettamente negativo dell’operazione.
Eppure a me questi vari e sconnessi cartoni appiccicati con le spille piacciono. Insolitamente lo trovo soddisfacente nonostante le numerose insufficienze che ho appena segnalato.
La ragione è semplice: è una sveglia, uno squillo di tromba in un disperato silenzio di sfiducia e di indifferenza. Probabilmente sposterà voti nelle prossime consultazioni europee pescando nell’elettorato dei non votanti, degli indecisi, dei grilli scontenti, dei berlusconiani delusi e tratterrà in favore del Pd tutti gli elettori incerti e critici di una leadership accentratrice e assai poco sensibile ad un lavoro di squadra che non sia ristretta al cerchio magico degli yes man che restano intorno al giovane fiorentino.
Si è detto da molte parti che l’operazione del bonus in busta paga non è un programma organico ma uno spot elettoralistico. È esattamente così e venerdì sera nella trasmissione Otto e mezzo l’ha ammesso lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, che del cerchio magico è indiscutibilmente il capo. Concordo con lui: è uno spot elettorale che forse, speriamolo, diventerà un programma pensato e strutturato nel 2015.
Ma se, come i sondaggi indicano, il risultato elettorale del 25 maggio vedrà il Pd al primo posto, largamente davanti a Forza Italia e a Grillo, quel risultato non sarà soltanto un effimero successo di Renzi che certamente soddisferà il suo amor proprio; ma cambierà anche i rapporti di forza nella politica italiana e la posizione del nostro paese nella politica europea; aumenterà il nostro prestigio all’interno del Partito socialista europeo; rafforzerà la posizione di Schulz che corre proprio in quei giorni per conquistare la poltrona di presidente della Commissione di Bruxelles; rafforzerà il baluardo contro i populismi anti-europei o euroscettici opponendo ad essi un altro tipo di populismo che in questo caso è costruttivo; relegherà i berluscones ad un ruolo marginale incoraggiando uno schieramento liberal-moderato attorno al centrodestra di Alfano, Lupi, Cicchitto, Quagliariello.
Se vogliamo dire tutto dobbiamo anche aggiungere che il percorso di cui Renzi si è servito per costruire il suo spot era già stato avviato e in molti settori anche portato a termine e contabilizzato in appositi atti legislativi dal governo di Enrico Letta. Di questo ci si scorda spesso ed è un grave errore perché Letta è stato e rimane una delle figure importanti della politica italiana ed europea. Gli si può rimproverare di non aver fatto squillare la tromba per risvegliare i dormienti, ma la ragione c’è: Letta non è un uomo da spot. Preparava un programma che, se fosse rimasto in sella, avrebbe trovato piena applicazione durante il semestre di presidenza europea assegnato all’Italia, anche se alcuni segnali di ripresa si erano già verificati con l’aumento della produzione industriale e la diminuzione del fabbisogno di bilancio di 5 miliardi rispetto all’anno precedente. Del resto è stato proprio Delrio a dirci che lo spot renziano diventerà un programma strutturato nel 2015. Le date oltreché i contenuti coincidono con quelli di Letta, ma la sveglia non ha squillato. La differenza è questa, determinata dalle diversità caratteriali di quelle due personalità.
C’è un terzo uomo che in qualche modo le riassume tutte e due nei loro aspetti positivi ed è Walter Veltroni. E ce n’è un quarto che non va dimenticato e si chiama Romano Prodi. Un quartetto niente male per risvegliare gli animi del Bel Paese, specie se troveranno tra loro un modus vivendi che eviti esiziali lotte intestine. **** Penso d’aver spiegato finora le prime quattro righe del titolo di quest’articolo; resta però il “ma” dell’ultima riga ed è quello che ora debbo chiarire ai miei lettori. Quel “ma” riguarda le riforme istituzionali e in particolare quella del Senato. Ne ho già parlato domenica scorsa ma ritengo opportuno tornarci di nuovo poiché tra pochi giorni dovrà essere votata in prima lettura al Senato e la sua importanza è essenziale.
Quella del Senato non è un riforma importante ma limitata ad un settore specifico della vita sociale. Quella del Senato riguarda l’architettura costituzionale che sorregge lo Stato di diritto e cioè il rapporto e la separata autonomia dei poteri costituzionali: il Legislativo, l’Esecutivo, il Giudiziario. La Corte costituzionale tutela il principio sul quale si fonda lo Stato di diritto e la Costituzione che lo accoglie nei suoi principi e ne articola gli effetti. Il Legislativo approva le leggi proposte dal Governo o dai propri membri o direttamente dall’iniziativa dei cittadini ed è l’espressione del popolo sovrano; controlla l’efficienza e il coretto esercizio del potere Esecutivo. Il potere Giudiziario dirime sulle basi della legislazione esistente i conflitti tra i cittadini ed anche tra essi e la pubblica amministrazione. Il Capo dello Stato non fa parte di alcun potere ma valuta nel momento della promulgazione da lui firmata la conformità delle leggi alla Costituzione e coordina la leale collaborazione tra governo e Parlamento, fermo restando il potere definitivo della Corte.
Queste sono le premesse che fanno del Senato uno degli organi del potere Legislativo previsto dalla Costituzione del 1947 ma esistente anche nello Statuto Albertino, composto da senatori a vita di nomina regia.
La Costituzione repubblicana che prevede un Senato eletto dal popolo, con in più i presidenti della Repubblica che hanno terminato il loro mandato e cinque senatori a vita nominati dal Capo dello Stato sulla base di meriti culturali da lui valutati, può certamente esser modificato nelle sue attuali competenze, ma non credo possa essere abolito o privato di competenze che di fatto equivalgano all’abolizione. Una decisione del genere sulla base dell’articolo 38 metterebbe infatti in crisi l’intera architettura costituzionale e dovrebbe essere quindi accompagnata da una serie di contrappesi tali da modificare l’intera struttura su cui poggia la Repubblica.
Il progetto Renzi-Berlusconi prevede in realtà proprio questo: la riduzione del Senato ad organo competente soltanto ad intervenire sui poteri, gli interessi e la legislazione degli Enti locali. Il rapporto tra tali Enti e lo Stato sono invece rimessi alle Conferenze Stato-Regioni e Stato- Comuni per cui un’eventuale competenza del Senato nella sua nuova configurazione sarebbe soltanto un inutile duplicato.
Come se non bastasse a questa diminutio , un’altra se ne aggiunge: i membri del Senato, ridotti di numero come opportunamente dovrebbe avvenire anche per la Camera dei deputati, sarebbero composti dai governatori di alcune Regioni e dai sindaci di alcuni Comuni nonché dai presidenti dei Consigli regionali e comunali, conservando le loro cariche originarie e assumendo anche la nuova senza alcun compenso aggiuntivo. Ma con un effetto politico rilevante: poiché attualmente Regioni e Comuni sono in larghissima prevalenza guidati dal Pd, il nuovo Senato sarebbe di fatto dominato dal Pd e una formazione politica che allo stato attuale non ha nessun governatore e quasi nessun sindaco, e cioè il Movimento 5 Stelle che raccolse nelle ultime elezioni politiche dello scorso febbraio il 29 per cento dei voti e che i sondaggi attuali per le Europee collocano al secondo posto dopo il Pd, risulterebbe escluso dal futuro Senato. Non sarebbe una gran perdita, visto che si tratta di una scatoletta vuota, ma comunque non sopportabile e probabilmente incostituzionale perché modificherebbe totalmente il criterio della rappresentanza che è un requisito di pari importanza (se non addirittura superiore) a quello della governabilità.
Siamo tutti d’accordo di modificare il Bicameralismo perfetto, riservando alla sola Camera dei deputati il potere di accordare o togliere la fiducia parlamentare ai Governi. Ma non siamo per niente d’accordo di ridurre il Senato a una scatola semivuota, tanto più in una fase in cui si parla di instaurare un “premierato” che accresca fortemente i poteri dell’Esecutivo. Ipotesi a mio avviso valida ma che ha bisogno di veder rafforzati i poteri di controllo del Legislativo e in particolare del Senato proprio perché questa Camera alta debitamente eletta dal popolo sovrano non dà la fiducia al Governo e quindi è la più idonea a controllare la pubblica amministrazione.
La senatrice a vita Elena Cattaneo ha già presentato uno studio molto accurato e ricco di proposte in merito. Andrebbe esaminato, eventualmente integrato con altri suggerimenti e messo in discussione nell’imminente esame dello stesso Senato sul disegno di legge Renzi-Berlusconi che personalmente mi permetto di definire una “porcata” così come la Corte costituzionale definì la legge elettorale di Calderoli finalmente abolita.
Il Presidente della Repubblica di solito non interviene in questioni di leggi elettorali, salvo quando si tratta di riformarle per non lasciare il Parlamento in una situazione anomala. Personalmente credo che sia competente ad esprimere le sue idee su una vera e propria decapitazione del Senato, organo sostanziale nell’architettura costituzionale e credo anche che possa e debba intervenire sul modo di reclutamento dei senatori. Già si espresse evidenziando la necessità di modificare il Bicameralismo perfetto ma nulla ha ancora detto sulla scatola vuota e sull’elezione di secondo grado inflitte alla Camera alta che diventerà non bassa ma bassissima e duplicata dalla Conferenza tra Stato ed Enti locali. Una sua opinione sarebbe di essenziale importanza.

La Repubblica 20.04.14

"Le sue storie magiche tra realtà e poesia", di Paolo Collo

Se è vero – come diceva Franco Lucentini – che le prime righe di qualsiasi romanzo sono fondamentali per il successo di un libro, si può dire che alcuni autori di lingua spagnola hanno dato un grosso con- tributo a questa tesi. Come Miguel de Cervantes, ad esempio: «In un paese della Mancia, di cui scordo il nome, abitava non molto tempo fa un gentiluomo di quelli con la lancia esposta nella rastrelliera, lo scudo antico, un cavallo tutto os- sa e un buon cane da caccia». O il messicano Juan Rulfo autore di Pedro Páramo: «Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta». O come l’inizio di Cent’anni di solitudine del colombiano Gabriel García Márquez, scomparso l’atro ieri a Città del Messico all’età di ottantasette anni: «Molti anni dopo, di fronte al plotone d’esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio»…
Sì, è proprio vero, il vecchio «Gabo» non c’è più. Uno degli autori che maggiormente ha segnato non solo il cosiddetto boom della letteratura latinoamericana, ma l’intero panorama letterario del Novecento. Cent’anni di solitudine (del 1967) è stato, ed è, un libro imprescindibile, venduto in più di cinquanta milioni di copie nelle lingue di tutto il mondo. Un libro che ci cambiato l’idea di romanzo. Così come il suo autore ha cambiato la vita dei suoi lettori (sono parole del presidente della Colombia). E che così commentava: «Il mio problema maggiore era distruggere la linea di demarcazione che separa ciò che sembra reale da ciò che appare fantastico, perché nel mondo che cercavo di evocare tale barriera non esisteva. Ma avevo bisogno di un tono convincente, che rendesse verosimili le cose che meno lo parevano… bisognava raccontare una storia, semplicemente, come la raccontano i nonni».
È il «realismo magico», che più che una parola o una definizione o un modo di scrivere, è un modo di sentire, e di leggere. La parola nasce nel lontano 1925 – Magischer Realismus – a opera di un critico tedesco, tal Franz Roth, che la coniò per indicare un gruppo di pittori. Ma sarà con la letteratura latinoamericana (e non solo) che troverà poi la sua collocazione. Il termine lo incontriamo infatti nella premessa che lo scrittore cubano Alejo Carpentier scrisse per il suo romanzo del 1949 Il regno di questo mondo: «E cos’è la storia dell’America tutta se non una cronaca di reale-meraviglioso?» Forse il tentativo in campo letterario – ma anche in quello delle arti plastiche – di ridare forma e contorni a un continente che si è visto depredare di tutto: oro, argento, rame, petrolio, salnitro, caucciù… Di milioni di vite umane condannate dal- la violenza, dalle malattie giunte dal Vecchio Mondo, dal lavoro forzato. E depredati anche della memoria. Infatti ben poco è restato delle culture precolombiane. Eliminare il passato, usi e costumi, per creare una nuova storia del continente. Una storia tutta spagnola, portoghese, nordamericana, cristiana. Una condanna all’amnesia, che si ripeterà fino ai giorni nostri, con le dittature di Pinochet o di Videla. E in cambio una storia «ufficiale» che – come ha scritto Eduardo Galeano – «si riduce a una sfilata di notabili con uniformi appena uscite dalla tintoria».
Una letteratura che si sviluppa a macchia l’olio proprio a partire da queste radici che affondano nel fantastico, nel mistero, nella mitologia stessa della Scoperta. Dall’Antologia della letteratura fantastica di Borges e Bioy Casares alla Guerra della fine del mondo di Vargas Llosa, da Scorza a Eliseo Alberto. E cambia la realtà, vengono violate, forme, stili, sequenze spazio-temporali, cambiano gli spazi stessi delle città: nasce la Macondo di García Márquez, la «terribile» Comala di Rulfo, così come «le» Buenos Aires di Ernesto Sabato (Sopraeroietombe), di Borges (Eva- risto Carriego), di Cortázar (Divertimento), di Saer (L’indagine)…
Ed è su queste basi, in questa «compagnia», in America Latina o in esilio, che nasce l’opera di García Márquez: dalla sua nascita ad Aracataca, in Colombia, nel 1927, all’iscrizione all’università di Bogotá, subito interrotta per fare il giornalista, poi a Roma, a Parigi, in Messico e, finalmente, l’opera narrativa: Foglie morte nel 1955, Nessuno scrive al colonnello nel 1961, I funerali della Mamá Grande e La mala ora nel ’62, Cent’anni di solitudine nel ’67, L’autunno del patriarca nel 1975, Cronaca di una morte annunciata nel 1981, L’amore ai tempi del colera nell’85, Il generale nel suo labirinto nell’89, Dell’amore e di altri demoni nel ’94, Notizia di un sequestro nel ’96, fino a Memoria delle mie puttane tristi nel 2004. E gli articoli, i ricordi, la moglie Mercedes, i figli Rodrigo e Gonzalo, il cazzotto che gli diede il non più amico Vargas Llosa nel ’76, le discussioni, il marxismo, Fidel Castro, il Premio Nobel nel 1982 (dove, vestito di lino bianco, die- de una rosa gialla – il suo fiore preferito – a tutti gli amici e amiche per poterli riconoscere tra la folla che partecipava all’evento).
In una calda notte tropicale, a Barranquilla, con gli amici, tracannando whisky, annunciò che stava portando a termine il suo libro più importante, Cent’anni di solitudine, e disse: «Non assomiglia agli altri. Questa volta mi sono finalmente lasciato andare. O faccio un colpaccio, o mi rompo la testa!»

L’Unità 19.04.14

Il grande romanzo del giornalismo di Oreste Pivetta

Come si fa a pensare Gabo lontano da Macondo, dal colonnello Aureliano Buendia, anche (letterariamente) dal realismo magico, affascinante ossimoro attraverso il quale si definì tanta letteratura che con lui e dopo di lui ci giunse dall’America delle dittature, dei generali, ma anche delle utopie rivoluzionarie, dei grandi sogni, degli insuperabili orizzonti, paesaggi della terra e dell’ani- ma? Ma García Marquez era stato altro prima di diventare scrittore e forse era diventato scrittore frequentando giovanissimo la redazione di un giornale. Aveva ventuno anni, era il 1948, quando cominciò a «fare il giornali- sta», redattore e cronista. Non smise dopo i primi romanzi. Continuò con lo spirito giusto in una professione che dovrebbe essere animata dalla cultura, dalla moralità, dall’onestà, dalla passione civile, stimolato da un’America in perenne ansia di libertà e di democrazia. García Marquez giornalista lo rimase profondamente e orgogliosamente, non cessò probabilmente mai di esserlo.
Un trentennio dopo la pubblicazione del suo capolavoro, Cent’anni di solitudine, García Marquez scrisse Notizia di un sequestro, archiviato nelle bibliografie come un romanzo. Ma «Notizia di un sequestro» rappresenta prima di tutto un’alta prova di giornalismo, un faticoso reportage (lui stesso lo definì «l’impresa più difficile della mia vita») costruito attraverso mesi e mesi di indagini, a proposito di dieci rapimenti organizzati nel giro di dodici mesi, estremo ricatto dei narcotrafficanti nei confronti del governo legale. Lo si potrebbe citare come una «no fiction novel», prendendo a prestito la famosissima definizione di Tom Wolfe. «No fiction novel» come lo fu A sangue freddo, opera magistrale di Truman Capote attorno a un orrendo delitto, ma soprattutto sguardo sull’America della periferia, o come lo furono Il negus o Shah-in-shah di Ryszard Kapuscinski. Certo, anche in Notizia di un sequestro, come in tutti gli articoli della maturità, si può ritrovare Gabo dei romanzi, Macondo e il colonnello, men- tre la Colombia diventa un’isola dell’immaginario e il capo dei trafficanti il simbolo dell’illegalità, della violenza, di un potere riconosciuto e in- toccabile. Allo stesso modo si potrebbero leggere Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile, dove García Marquez rievocò la storia vera di un film girato dal grande regista nel suo paese dopo il golpe di Pinochet, un reportage che sperimentava il respiro del romanzo.
Dopo gli inizi nel 1948 a Cartagena, nel ’40 Gabo si trasferì a Baranquilla, nel 1954 tornò a Bogotà, reporter ma anche critico cinematografico. Viaggiò in Europa, a Roma (per frequentare un corso di cinematografia), a Parigi, a Londra. Tornò in America, si stabilì in Venezuela, visitò Cuba, conobbe prima Guevara e poi Fidel Castro. Lavorò per l’agenzia «Prensa Latina», fondata dal Che. Come corrispondente di «Prensa Latina» si trasferì a New York. Gli venne negato presto il diritto d’ingresso. Scrisse della rivoluzione cubana, scriverà del Cile, seguirà ogni movimento libertario dal Venezuela in giù, ammirava Chavez, si scontrò invece con Uribe, presidente colombiano, fino al 2010, prima di sinistra, poi liberale… La politica fu sempre nel suo cuore. Lui fu sempre da una parte. Non abbandonò Castro neppure quando apparve quanto il regime cubano soffocasse la dissidenza e reprimesse gli intellettuali dissidenti. Scrisse anche dell’Italia, che visitò più volte, scrisse di Roma e di Milano, raccontò persino di Fregene: «A Fregene, una stazione balneare vicino a Roma, morì il mio carissimo amico Franco Solinas, uno degli scrittori di cinema meglio qualificati dei nostri tempi…». Sono poche pagine (e molte righe dedicate a Cesare Zavattini, «un italiano pieno di immaginazione e con un cuore da carciofo, che infuse nel cinema della sua epoca un soffio di umanità senza precedenti»), che suonano soprattutto testimonianza del suo rapporto con la settima arte, un «matrimonio senza armonia»: «Non posso vivere senza il cinema, né con il cinema».
Altra storia italiana: «Gli Stati Uniti pensavano che i comunisti sarebbero andati al potere in Italia grazie alle elezioni generali del 1948. La Cia, che era stata creata da poco, contribuì a impedirlo con tutto un sistema di macchinazioni truculente… La Cia fece circolare lettere false e documenti dubbi del Partito comunista per deteriorarne l’immagine pubblica…». Gabo narrava del Nicaragua e nel confronto storico denunciò il ripetersi dei metodi antidemocratici usati dalla Cia. Gabo invece a Roma diventò turista affascinato: «Sono tornato a Roma d’estate dopo una lunghissima assenza e l’ho ritrovata come sempre: più bella, e più sporca, e più pazza dell’ultima volta. L’estate esplose d’improvviso la settimana scorsa, con quel caldo che sembra di vetro liquido, e la moda femminile, che quest’anno ha lasciato le porte aperte a ogni genere di arbitrio di forme e colori, trasformò la città eterna nella più moderna e giovanile del mondo…». Siamo nel 1982, il peggio deve ancora arrivare. Gabo è stato attento osservatore della politica (assai di parte), ma anche del costume. E della nostra cucina, quando scoprì con la moda di «essere magri» la virtù dimagrante della pasta, senza negare il supremo valore del cibo: «… per molti anni si è detto, e non è mai stato smentito che la cantante operistica Maria Callas, che da giovane pesava quasi cento chili, avesse recuperato la sua linea grazie a una drastica dieta a base di spaghetti… Tuttavia, Monica Vitti è una delle donne più attraenti e snelle che conosca, e l’ho vista mangiare due piatti di spaghetti alla puttanesca e un coniglio intero con melanzane e, subito dopo, due chili di gelato alla crema, mentre guardava alla televisione un film di banditi…». Comprensibile se è vero che la nostalgia comincia dal cibo. Lo disse Ernesto Guevara, «forse rimpiangendo gli arrosti astronomici della sua terra argentina, mentre si parlava di cose di guerra durante le notti da uomini soli sulla Sierra Maestra». In poche parole il giornalismo può suonare come un romanzo.

L’Unità 19.0.14