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"Un atto di fiducia verso gli elettori", di Chiara Saraceno

Una scelta spiazzante quella del PD. Dopo aver collaborato alla sconfitta degli emendamenti sulla parità di genere nelle liste elettorali al momento dell’approvazione dell’Italicum alla Camera, per le elezioni europee ha deciso di mettere come capolista nelle cinque circoscrizioni tutte donne, e di avere “solo” il 60% di uomini in lista. Certo, il sistema elettorale con cui si vota per il Parlamento europeo è meno rigido, meno pre-ordinato sia del passato Porcellum sia del futuro Italicum. Non ci sono liste bloccate e gli elettori possono indicare fino a tre preferenze. Quindi, in teoria, possono votare tutti uomini, o tutte donne, a prescindere da come sono collocati in lista. Ma si sa che la collocazione è importante per la visibilità di un candidato/a e per le sue chances di essere eletto.
La scelta di mettere tutte donne capolista, soprattutto, è un atto di fiducia, prima che nelle donne, negli elettori. Rompendo con la tradizione che vuole capilista personaggi (per lo più uomini) riconoscibili perché da sempre sulla scena, o perché fanno un mestiere che li rende visibili (giornalisti, sportivi, e simili), il PD ha scelto cinque donne dal non lunghissimo, ancorché già consolidato e riconoscibile, curriculum politico, nel partito, in Parlamento, nella società civile. Proprio perché queste elezioni europee sono molto più importanti di quelle passate per il futuro stesso della UE, per il tipo di unione che si vorrà e potrà fare, al di là del fiscal compact, e gli elettori ci arrivano con più sfiducia e ambivalenza, con meno disponibilità a rilasciare deleghe in bianco, con questa scelta, di queste donne (non genericamente perché donne) il PD si rivolge agli elettori con la promessa di voler davvero rinnovarsi, come partito, ma anche nel tipo di europeismo che vuole portare avanti. Certo, non bastano 5 capolista donne a produrre novità nei contenuti. Occorre vedere chi altro c’è, quali saranno le posizioni effetti-vamente portate avanti e quanto le elette, incluse le capolista, saranno autonome e sapranno dare una propria impronta, alla campagna elettorale e poi nel Parlamento europeo, senza appiattirsi su priorità decise altrove. Senza pretendere che si facciano carico di una “politica per le donne”, la speranza è che sappiano portare uno sguardo e delle domande almeno un po’ diverse da quelle che oggi dominano il discorso pubblico, più aderenti alla realtà in cui viviamo oggi, donne e uomini di ogni età.

La Repubblica 10.04.14

"Se chiudere i confini toglie futuro ai giovani", di Carlo Bastasin

Ogni giorno vediamo i difetti dell’euro e dell’Europa. Ma uscire dall’euro non significa prendere le distanze dai problemi che denunciamo. Significa invece negarsi i mezzi di affrontarli e porvi rimedio. Significa fare il gioco di chi prospera in una società chiusa, grazie alle proprie rendite di posizione. Significa in ultima istanza favorire la casta. La stessa che ha prodotto un debito pubblico enorme negli anni Settanta e Ottanta, che pesa oggi su di noi e che peserà ancora in futuro. Infatti, se c’è qualcuno che dovrebbe ribellarsi a chi li invita ad abbandonare l’Europa o l’euro, sono i giovani.
Di tutte le accuse all’idea europea, la più penetrante è che sia un progetto delle elites per le elites. Perché è un’accusa vera, ma non veritiera. Perché il progetto visionario di uomini senza seguito, armati della speranza nel ragionamento, voleva proprio smontare le gerarchie feudali che tenevano le società europee immobili dentro confini nazionali che erano anche paludi morali.

La risposta italiana all’apertura dei confini è stata invece quella di allargare la palude. Se c’è una radice degli speciali problemi italiani, andrebbe cercata negli anni Novanta quando il paese, sfinito dal debito, ha avuto paura di aprirsi e non ha capito la profondità del cambiamento portato dalla moneta unica. Nel terreno dell’economia, l’euro stava irrigando dal basso una silenziosa trasformazione di mentalità, ma le implicazioni politiche dell’euro sono rimaste avvolte nella nebbia della nostra infantile inconsapevolezza. Abbiamo fatto finta di nulla. Anche tra le forze dell’economia la chiusura del paese ha prevalso. Mentre la Germania raddoppiava la quota dell’export sul pil, noi abbiamo pensato di difendere le mura, puntando invece sui servizi interni: oltre il 70% del valore aggiunto ma solo il 5% dell’export italiano. La quota di profitti dei servizi professionali è diventata 5-6 volte più alta che in Francia, in Benelux o in Scandinavia, con margini di profitto che salivano oltre il 60 percento. L’economia “introversa”, quella isolata dal mondo, è diventata più forte e quindi più influente culturalmente. Non a caso si è stretto un rapporto con la politica locale raramente sano. La crescita del paese non era certo il primo obiettivo per la casta.
Si è infatti gonfiata l’economia “invisibile”, un gentile eufemismo per vari gradi di illegalità. Tra il 2005 e il 2008, in un paese che aveva perso la volontà di crescere, il peso dell’economia sommersa è aumentato del 6,6% del pil. Ecco chi vuole spegnere la luce, confidando nelle paure di chi gli si fa attorno spaventato e, come avviene a chi ha paura degli spazi, è colto da un’ansia che interrompe la formazione del ricordo e inceppa la capacità di apprendere dai propri errori. Si vuole allora solo sfuggire dalla realtà: dissociarsi.
Dissociarsi non significa solo uscire dall’euro, ma negare gli altri. Quale distanza da chi ricordava che cosa fosse l’Europa del Novecento e riteneva chiaro il suo dovere di riscatto: diventare il luogo naturale in cui la nostra responsabilità nei confronti degli altri non viene dopo di noi e dopo la nostra identità, ma ne è l’elemento fondante. Dà al senso di noi, a quel bisogno che qualcuno chiama identità, non solo la direzione, ma come diceva Emmanuel Levinas, uscito da un campo di concentramento, il significato dell’orientamento.
Era talmente poco ideologica l’avventura dell’euro, che esso ha cercato di unire un’Europa priva di ogni strumento indispensabile all’influenza ideologica: né una lingua comune, né un’opinione pubblica europea, né mezzi di comunicazione comuni. Mancano in Europa una mentalità comune, una partecipata mediazione degli interessi politici, meccanismi di comunicazione e di legittimazione indispensabili a riempire il “vuoto repubblicano”. Nondimeno l’euro, questo medium prosaico – il primo davvero continentale – pur corrispondendo a interessi materiali, ha continuato a creare il bisogno di migliore politica, È a causa delle difficoltà evidenziate dall’euro, non certo per merito delle nostre virtù, che oggi vediamo una pubblica amministrazione inefficiente e mal governata a cui i cittadini, risvegliati dall’ipnosi del debito e delle svalutazioni, sono diventati insofferenti. Reagiscono con severità ai fallimenti dello Stato fin da quando l’introduzione della moneta unica è avvenuta nell’assenza di controllo sugli speculatori che hanno manipolato abusivamente i prezzi. È la lezione dell’euro sulla qualità del mercato e dello Stato ad aver armato i cittadini contro i lussi castali della politica, delle lobby o di imprese fallimentari.
In questo senso la vicenda dell’euro non si è manifestata con la prevalenza dell’economia sulla politica, bensì di una politica funzionale all’agire individuale anziché su politiche che poggino sull’ideologia sia di partito sia nazionale. L’euro ha cioè corrisposto a una metamorfosi della politica che già si manifestava a livello nazionale. La connotazione negativa della politica, propria della dittatura – sotto la quale «si diventa politici quando si comincia a pensare» -, si è estesa nelle democrazie europee nella forma di una diffusa intolleranza al fatto che, in sistemi sociali sempre più complessi, attraverso la politica, pubblico e privato vengano abusivamente schiacciati l’uno sull’altro. Dietro questo disagio si è fatta strada una visione fattuale della politica che in ogni campo favorisce la funzionalità e la solidità di scelte collettive che agevolano l’agire individuale.
Il caso dell’euro che consente e stimola l’integrazione europea, non per volontà della politica – che si accontenta di un ruolo protezionista – ma nel mettere in comunicazione gli individui, in tal senso davvero animali politici, è macroscopico. Ma corrisponde a un sentire che, almeno dalla caduta del Muro, sa riconoscere per esempio che la giustizia politica non è mai giustizia, l’informazione soggetta alla politica non è mai informazione e così via per la cultura, il mercato, i commerci, la finanza, fino alla gestione del risparmio, cioè alla scelta individuale tra consumo presente o futuro. In tutti questi ambiti, per via dell’apertura dei confini nazionali, la politica nazionale, la politica chiusa, ha perso capacità di definizione autonoma. Il ruolo che ne viene apprezzato e che funziona è quello di intermediazione. Non nel senso banale di comporre e compensare interessi sociali diversi, bensì in quello di regolare, stimolare e verificare l’interazione tra sfere dell’agire individuale e collettivo che danno forma alla società e al suo futuro con la stessa legittimità della politica. Così era l’obiettivo della moneta unica, che non determina la libera scelta degli attori sociali, ma tiene aperta a essa la prospettiva della diversità, un’apertura al cambiamento continuo. A patto di volerlo affrontare consapevolmente. Perché euro o non euro, alla negazione della realtà e al rifiuto del futuro da parte di una società, non ci sarà mai rimedio.

Il Sole 24 Ore 09.04.14

"In università pochi apprendisti", di Claudio Tucci

Nato una decina di anni fa con le migliori intenzioni di integrare mondo della formazione terziaria e impresa, l’apprendistato in università stenta ancora a decollare. Con numeri che parlano chiaro: nel 2012 a fronte di 504mila contratti di apprendistato “professionalizzante” (quello di secondo livello, utile “a imparare un mestiere”) appena 234 hanno riguardato l’apprendistato per l’alta formazione e la ricerca (di cui 142 solo in Lombardia).
Performance che segnano forti distanze rispetto a Paesi nostri competitor, come la Francia che su 420mila giovani occupati ogni anno con contratti di apprendistato, oltre il 10% (vale a dire più di 42mila unità) frequentano studi a livello terziario. Il confronto è praticamente impari con la Germania che con il suo “sistema duale” occupa, anche se prevalentemente nel ciclo secondario, quasi 1,7 milioni di ragazzi che vengono ospitati dalle aziende tedesche (70% nel settore dell’industria e commercio; il restante 30% nelle imprese artigiane). E anche in Inghilterra è in corso un dibattito su una nuova proposta di riforma dell’apprendistato (la «Richard Review») che fa perno sulla necessità di porre più saldamente nelle mani dei datori di lavoro la gestione del contratto (l’imprenditore cioè scommette sull’apprendista e il finanziamento pubblico è «on results», legato al raggiungimento degli obiettivi previsti dal contratto).
E in Italia? L’apprendistato di alta formazione è stata una scommessa della legge Biagi del 2003. E per farlo decollare l’allora governo ha finanziato con 11,5 milioni di euro un progetto pilota con le regioni per coinvolgere circa mille apprendisti. Ma l’impegno si è concentrato essenzialmente sull’attivazione di master (oggi il 90% dei contratti di apprendistato di terzo livello è finalizzato al conseguimento del titolo di master, mentre è bassissimo l’utilizzo nell’università). Nel 2008, poi, il Dl 112, ha ricompreso il dottorato di ricerca tra i titoli conseguibili con l’apprendistato e previsto, nei casi di inerzia regionale, che l’attivazione dell’alto apprendistato potesse essere rimessa ad apposite convenzioni stipulate tra imprese e atenei (o altre istituzioni formative). E con il decreto Carrozza si è voluto rilanciare ancora l’apprendistato in università, con un riconoscimento di un massimo di 60 crediti.
Ma i nodi che hanno frenato (e frenano tuttora) l’apprendistato di terzo livello sono essenzialmente rimasti tutti in piedi. E queste esperienze sono rimaste sperimentazioni (e non realtà strutturate e organiche). Lo strumento non è ancora abbastanza conveniente per le aziende. C’è una iper regolamentazione regionale e il placement universitario è piuttosto “fiacco”. Tant’è che in Crui, la conferenza dei rettori italiani, c’è un gruppo di lavoro per capire come far decollare apprendistato (e tirocini formativi).
«Servono ulteriori elementi di supporto – spiega il professore di diritto del lavoro della Luiss, Roberto Pessi – e il compito di modellare i profili formativi va affidato a imprese e atenei». La Luiss, con il dipartimento di Impresa e management, spiega Pessi, «sta mettendo in piedi un progetto di apprendistato per i dottorati industriali. E per la laurea magistrale stiamo facendo un censimento delle aziende disponibili a cui proporremmo un percorso di apprendistato che non penalizza la presenza del ragazzo nell’impresa, anche attraverso l’e-learning». C’è poi il progetto «Fixo» di Italialavoro che prevede contributi pari a 6mila euro per ogni apprendista assunto a tempo pieno (che scendono a 4mila per gli apprendisti part-time). Ma oltre alle difficoltà (da superare) ci sono best practice. Dal 2007 a oggi Assolombarda ha contribuito a realizzare 311 assunzioni con apprendistato per conseguire un master, coinvolgendo 50 aziende. A ciò si aggiungono tre apprendistati per il corso di laurea, e uno per il dottorato di ricerca. L’ultimo a decollare, con una Pmi e l’università Cattolica di Milano, è un innovativo progetto di ricerca, strutturato in modo molto flessibile, dal titolo «Nuovi modelli di pubblicità dei prodotti finanziari».
Anche l’ateneo di Bergamo, assieme alla scuola di alta formazione Adapt, è sugli scudi per l’apprendistato di alta formazione e ricerca. «Con una fatica incredibile – evidenzia il professor Michele Tiraboschi – perché il quadro regolatorio dei dottorati di ricerca complica non poco la vita essendo pensato per la carriera puramente accademica e non per percorsi aziendali». In tutto, dal 2009 a oggi, aggiunge Tiraboschi, «abbiamo realizzato 18 apprendistati di alta formazione in dottorato e una trentina di apprendistati di ricerca fuori dal dottorato».

Il Sole 24 Ore 09.04.14

"Bentornati nel mondo reale", di Massimo Giannini

Stavolta, a Palazzo Chigi, niente slide e pesciolini rossi. Il Def è un documento cruciale. Impegna il governo non solo di fronte al Paese e al Parlamento, ma anche e soprattutto di fronte alla Commissione Europea e poi all’Ecofin, che dovranno esaminarlo, approvarlo o correggerlo nel prossimo mese di giugno. Per questo, in attesa di leggere il testo definitivo varato dal governo, la prima e la più importante valutazione da fare è che la fase delle televendite è conclusa, o quanto meno sospesa. Matteo Renzi rinuncia ad usare le sue abituali “armi di persuasione di massa”.
PIER Carlo Padoan comincia ad usare le sue essenziali “strategie di contenimento”. Il risultato è un Documento di Economia e Finanza ancora denso di zone d’ombra, ma sufficientemente credibile sul piano numerico, e sostanzialmente condivisibile sul piano politico. Il roboante esordio nella stanza dei bottoni e l’ubriacante tour nelle capitali europee ci avevano restituito un presidente del Consiglio fin troppo convinto che «l’Europa cambia verso» e che l’Italia può «forzare» la griglia degli impegni comunitari. La conferenza stampa di ieri, volitiva ma non certo pirotecnica come la precedente, ci restituisce invece un premier che per fortuna ha imparato a fare qualche conto con la realtà. E la realtà, purtroppo, è che non siamo in condizione di sottrarci ai vincoli di bilancio che abbiamo volontariamente sottoscritto.
Li rispetteremo, ora è nero su bianco. E questa è già un’ottima notizia, che ci mette al riparo dai pericolosi avventurismi e dai penosi velleitarismi delle ultime settimane. Questo non significa morire
di austerità. La scommessa del Def è raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica non solo attraverso le manovre di contenimento del deficit e del debito, ma soprattutto attraverso la crescita del Pil sostenuta dalle riforme strutturali da approvare
nel frattempo.
Nessuno, nemmeno Renzi-Mandrake che gioca al «rullo compressore» e Padoan-Lothar che fa il severo controllore, può escludere che il piano di riforme fallisca. Ma obiettivamente, in attesa di convincere la signora Merkel e l’intera Eurozona a rivedere le basi economiche della sua convivenza, questo è l’unico modo per disinnescare la gigantesca mannaia del Fiscal Compact e del Six Pack, che dal 2016 ci obbligherebbero a rientrare di un ventesimo l’anno della parte di debito che eccede il 60% del Pil. Vuol dire stangate da 50 miliardi l’anno per i prossimi 15 anni. Cioè la pura e semplice macelleria sociale.
Viceversa, come ha spiegato Padoan, ci basterebbe ottenere di qui ai prossimi tre anni una crescita nominale del 3%, di cui un 1% di aumento del Pil e un 2% di aumento dell’inflazione, e la ghigliottina ci sarebbe risparmiata, perché il debito si ridurrebbe in automatico per il solo effetto della crescita del Prodotto lordo. La scommessa è tutta qui. Ricorda quella che fecero Prodi e Ciam-
pi sugli spread tra il ’96 e il ’99, quando l’ingresso nell’euro senza uccidere l’economia nazionale fu assicurato dall’enorme risparmio di spesa per interessi e dall’avanzo primario cumulato in quegli anni: grazie alla «cura» e alla credibilità di quel governo, il differenziale con i tassi tedeschi scese in due anni da 600 a zero punti.
La storia non si ripete mai due volte. E quando lo fa o è tragedia o è farsa. Tuttavia, nelle condizioni date, è l’unico azzardo che si può tentare. Tutto ruota intorno alle riforme, alla loro praticabilità e alla loro incisività. I chiaroscuri sono ancora tanti, e Renzi non li ha affatto illuminati. Non è chiaro come sarà articolato il taglio del cuneo
fiscale nella busta paga di maggio, e come sarà applicato ai cosiddetti «incapienti». Non è chiaro dove calerà la scure della Spending Review che rischia di riprodurre il nefasto schema tremontiano dei tagli lineari. Non è chiaro quando la riduzione dell’Irap, e dunque il contestuale aumento dell’imposta sulle rendite finanziarie. Non è chiaro quanto e quando saranno saldati i crediti dello Stato verso le imprese. E nulla si sa ancora di come saranno davvero riformati il fisco, la Pubblica Amministrazione e il mercato del lavoro.
Nell’immediato restano due cose buone, purché non si rivelino una tantum. Gli 80 euro mensili di sgravio Irpef, che Renzi chiama la «quattordicesima nelle tasche degli italiani», è una bella boccata d’ossigeno per molte famiglie. Il miliardo in più di tassazione sulle banche, per le plusvalenze realizzate con la rivalutazione delle quote di Bankitalia, è una scelta di equità che riequilibra il prelievo tra chi ha molto e chi ha poco. Se a questo si aggiungono il tetto agli stipendi dei manager e il rilancio dei tagli a tutte le caste, viene fuori un pacchetto di misure dal forte sapore elettorale. Riflettono quella vena di «populismo dolce» di cui Renzi è obiettivamente portatore. Ma incrociano un sentimento fortemente radicato nella società italiana.
Per questo il premier cresce nell’indice di fiducia e il Pd vola nei sondaggi. Ogni giorno che passa – tra la battaglia sul Senato e questo stesso Def – diventa sempre più evidente che il voto europeo del 25 maggio sarà lo snodo esiziale della legislatura. Renzi cerca lì il suo «lavacro», per purificarsi del peccato originale commesso ai danni di Enrico Letta. Ce la può fare, con Grillo fiaccato dalle risse tra «cittadini» e Berlusconi affidato ai servizi sociali. Ma dal 26 maggio la stagione delle promesse deve finire. Bentornati nel mondo reale.

La Repubblica 09.04.14

"Il Governo approva il DEF: si punta su nuovo reclutamento e sviluppo delle carriere", di Alessandro Giuliani

Nella serata dell’8 aprile il Consiglio dei Ministri ha fatto, con il Documento di economia e finanza 2014, di voler rivedere i modelli di selezione e gestione del personale: largo a valorizzazione del merito, con un nuovo contratto che prevede un più rapido ed efficace metodo di reclutamento di insegnanti e ds. C’è poi l’impegno a rafforzare lo sviluppo professionale. Gli altri punti su cui intervenire: sicurezza, apprendistato, istruzione tecnica, lotta a Neet e dispersione, più lingua inglese e connettività wi-fi.​ Sono diversi i passaggi riguardanti la scuola nel Documento di Economia e Finanza. Si va dall’edilizia, passando per l’apprendistato, per la lotta alla dispersione e il miglioramento della lingua inglese a tutti i livelli scolastici e per l’avanzamento delle tecnologie digitali nelle scuole italiane.
Ma il punto più controverso, su cui si sposterà sicuramente l’attenzione nei prossimi giorni, è quello dalla valutazione. Di istituti e docenti che vi operano.
All’interno del documento si indica la necessità di dare “piena attuazione, a partire dall’inizio del prossimo anno scolastico, del Regolamento per l’applicazione del Sistema Nazionale di Valutazione delle istituzioni scolastiche. Valutazione e incentivi alle università migliori (ANVUR)”. Si parla anche di nuove metodologie da adottare per reperire il personale: bisogna rivedere i modelli, “in ottica di valorizzazione del merito, del contratto degli insegnanti e del metodo di reclutamento di insegnanti e dirigenti scolastici, che va reso più rapido ed efficace sotto l’aspetto amministrativo e deve garantire una selezione effettiva delle migliori professionalità”.
Per il Governo, quindi, è giunta l’ora di “fornire alle scuole strumenti di raffronto, verifica e riconoscimento del merito e dell’efficienza. Disporre, a livello nazionale, di un sistema trasparente dove i risultati relativi al miglioramento delle attività didattiche e formative siano comparabili tra istituti e tra il nostro sistema nazionale e quelli dei principali paesi europei”. Anche perché, “la valutazione è entrata nella cultura e nella prassi ormai da alcuni anni. Nell’ultimo decennio si sono introdotti i test INVALSI e a garantire la partecipazione alle indagini internazionali (ad esempio, l’OCSE-PISA). Siamo ora nelle condizioni di mettere in atto un sistema di valutazione delle scuole pienamente operativo”.
Nel DEF, inoltre, si indica l’esigenza di “migliorare qualità e risultati della scuola, anche rafforzando lo sviluppo professionale degli insegnanti e diversificandone lo sviluppo della carriera”. Un punto, quest’ultimo, che il Ministro intende ratificare all’interno del prossimo rinnovo del Ccnl. Con l’amministrazione che, con ogni probabilità, chiederà di abbandonare del tutto la logica degli aumenti a ‘pioggia’. Mentre i rappresentanti del lavoratori hanno già detto che, seppure favorevoli al merito, non intendono abbandonare del tutto gli attuali scatti: un minimo per tutti, almeno per adeguare gli stipendi all’inflazione, deve essere garantito.
Ecco, brevemente, gli altri punti che riguardano scuola, istruzione ed università.
È confermato uno stanziamento iniziale di “2 miliardi per rendere le scuole più sicure, con interventi di messa in sicurezza, efficienza energetica, adeguamento antisismico e costruzione di nuove scuole, e per rilanciare l’edilizia anche attraverso una riallocazione delle risorse non utilizzate”.
Maggiore sostegno va poi conferito “ all’apprendistato, ai tirocini formativi presso le aziende, e all’alternanza scuola-lavoro, trasformando le sperimentazioni in pratiche diffuse, aumentando il numero di ore che i giovani delle passano in azienda nel periodo scolastico ed universitario, e certificando le competenze che acquisiscono. Predisposizione, nell’ambito del Piano Garanzia Giovani, di programmi di orientamento che diminuiscano la dispersione e migliorino la qualità delle scelte degli studenti”.
Via libera anche al “rafforzamento dell’ istruzione tecnica e valorizzazione delle esperienze positive come il modello ITS ( Istituti Tecnici Superiori), scuole ad alta specializzazione tecnologica nate per rispondere alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche”. Per favorire un miglior raccordo tra scuola e mondo del lavoro, “è in fase di elaborazione un piano triennale d’interventi per tirocini extracurriculari degli studenti delle quarte classi delle scuole secondarie di secondo grado, con priorità per quelli degli istituti tecnici e degli istituti professionali presso imprese, altre strutture produttive di beni e servizi o enti pubblici”.
Tra gli obiettivi che si prefigge il Governo Renzi vi è anche quello di “fornire la risposta più efficace all’ aumento dei NEET: offrire ai ragazzi un’opportunità di lavoro non dopo, ma durante la formazione scolastica ed universitaria. Recuperare produttività per il sistema Italia attraverso formazione, innovazione e ricerca”.
A tal proposito, “la lotta alla dispersione si deve attuare fin dalla scuola per l’infanzia, la cui diffusione vede ancora oggi disparità inaccettabili tra le diverse aree del paese. Applicando pienamente il principio di sussidiarietà, il Governo favorirà una maggiore sinergia tra pubblico, privato ed enti locali, anche incentivando i meccanismi delle convenzioni.
Il sistema dell’istruzione e dell’università si devono evolvere ulteriormente per dotare gli studenti delle competenze nuove che sono rese necessarie dalle innovazioni intercorse a livello civile, economico e sociale negli ultimi decenni. In particolare, è necessario assicurarsi, anche con innovazioni dell’offerta formativa, che le competenze linguistiche, quelle digitali e quelle relative all’imprenditorialità siano diffuse nel nostro sistema educativo”.
Nel DEF si indica, inoltre, la necessità di “ diffondere l’insegnamento della lingua inglese dalla scuola primaria fino all’università attraverso il CLIL, metodologia di insegnamento di una disciplina non linguistica in lingua straniera”.
Largo anche alla “messa a disposizione di connettività wi-fi all’interno degli istituti scolastici . Avanzamento nell’integrazione delle tecnologie digitali nelle metodologie, linguaggi e contenuti della didattica, ricercando nell’innovazione digitale lo strumento per allargare gli spazi della cultura e della formazione. Sostegno alla diffusione e all’utilizzo, soprattutto nell’istruzione superiore, di Open Educational Resources.

da La Tecnica della Scuola 09.04.14

"Eva Braun gli ebrei e gli inganni del Dna", di Adriano Sofri

La notizia ha fatto il giro del mondo: Eva Braun era ebrea. Lo prova il suo Dna, rintracciato grazie a una spazzola da capelli. La notizia voleva colpire: Che scherzi fa la storia! Però dava per assodato che l’antica questione di che cosa voglia dire essere ebrei si risolvesse (di nuovo) in un dato biologico: a definire l’essere ebrei è un’analisi del Dna. Ormai, oltretutto, alla portata di (quasi) tutte le tasche, in rete. Il razzismo biologico, dall’Ottocento in qua, aveva proclamato di fornire un fondamento scientifico alle sue due pretese essenziali: 1 che il genere umano si divida in razze diverse, e 2-che le razze non siano solo diverse, ma superiori e inferiori. Inferiori fino al punto di meritare d’essere sterminate. Se il primo assunto, l’esistenza di razze diverse, fosse stato vero, la conseguenza — superiori e inferiori, fino alla “subumanità” — non sarebbe stata meno arbitraria, infame e criminale. Quella pretesa “scienza”, cui l’accademia italiana del ventennio si prostituì largamente, non era la premessa dell’odio razzista,
ma la sua serva.
LA genetica ha dimostrato la fallacia della nozione di razza (leggere Luigi Luca Cavalli Sforza): le diversità che impariamo ad apprezzare crescono su una formidabile omogeneità e somiglianza. Impareremo anche, prima o poi, a sentire più la somiglianza che la distanza dagli altri animali. Tuttavia questo, che è davvero un progresso, è contraddetto dall’invadenza con cui le meraviglie della genetica diventano luogo comune: “È nel mio Dna”. Una volta era il sangue, che “non mentiva”… Ma nel nostro Dna non è scritto niente di quello che pensiamo diciamo o facciamo, del gioco difensivo o di attacco della nostra squadra, della onestà del nostro partito, dell’avarizia di nostra zia. Ci siamo così abituati a giurare sul nostro Dna, da non batter ciglio alla notizia che Eva Braun era ebrea. Il che non è escluso, naturalmente. Poco tempo fa Csanad Szegedi, il numero due di Jobbik, il partito neonazista ungherese, sfegatato persecutore di ebrei, ha scoperto di avere un’ascendenza ebraica, si è dimesso e ha invocato il perdono del rabbino capo di Budapest. Del resto, in Ungheria non c’è ben informato che non vi confidi che la madre di Orbàn era una signora rom. La genetica aiuta a fare bellissime scoperte sulla storia delle popolazioni, dei loro spostamenti, dei loro incroci. Questo riguarda anche popolazioni ebraiche, in particolare la più vasta, e più enigmatica quanto alla provenienza originaria, l’ashkenazita. Le ricerche, via via più sofisticate, sul Dna ricostruiscono percorsi e incontri possibili: possibili, perché nemmeno qui c’è la certezza, e risultati diversi si confrontano, e non di rado premesse diverse li influenzano. C’è una forte probabilità che gli ashkenazim siano arrivati in Europa orientale a partire dal Vicino Oriente. I biologi statistici che la misurano, così come i loro colleghi archeologi che scavano la terra invece che le molecole, devono guardarsi dal mirare a identificare, a parti rovesciate, una irriducibile identità ebraica, e a fare del legame antico con un territorio una ragione del diritto attuale a quel territorio. Oltretutto, per la biologia come per l’archeologia e la gastronomia e tutto il resto dev’esserci una prescrizione. Grazie al Dna si ricostruisce un’ascendenza paterna, dal cromosoma Y, o materna, mitocondriale. Nel caso della materna, molte ricerche sembrano arrivare a donne, specialmente italiane o europee, sposate da immigrati ebrei e convertite all’ebraismo: circostanza che mostra come ci si muova dentro una storia culturale e non una predestinazione biologica. Queste ricerche, così delicate per il bilico tra determinismo genetico e vicenda storico-geografica, sono piene di fascino: ho scoperto dopo aver deciso di scrivere questo articolo un recupero postumo dello studio di Arthur Koestler sulla “Tredicesima tribù” (1976). L’autore di “Buio a mezzogiorno” raccontava l’impero guerriero dei Cázari, tra il V secolo d. C. fino alla caduta di Bisanzio, nel nord del Caucaso, che nell’VIII secolo, di fronte alla pressione musulmana, si era improvvisamente convertito alla religione, alla lingua e al costume ebraici. Spinti verso occidente dall’avvento dei nordici rus e di Gengis Khan, i cázari sarebbero diventati — qui era la spettacolosa tesi del libro — gli ebrei ashkenaziti di Polonia, Ucraina, Ungheria, Lituania: dunque le più numerose vittime dell’antisemitismo nazista non sarebbero state semite, bensì turchiche, legate al Caucaso rivendicato dagli “ariani” e non alla Palestina. Gran libro, che consiglio, e gran rumore e scandalo, anche. Il libro era, e probabilmente resta, molto più suggestivo che convincente. Oggi alcuni biologi hanno creduto di provarne attraverso l’indagine genetica la fondatezza: altrettanto suggestivamente, ancor meno convincentemente.
Gli studi più accreditati assegnano all’80 per cento dei
maschi ebrei e al 50 per cento delle femmine una provenienza ancestrale dal Vicino oriente. La quota mancante spetterebbe a conversioni e matrimoni misti. Nella disputa fra sostenitori scientifici dell’omogeneità genetica degli ebrei e di un’origine largamente prevalente in Palestina, e i loro avversari, riaffiora costantemente la dannata tentazione di ricavare dalla biologia conseguenze culturali e perfino politiche. Vedo che Harry Ostrer, pur fautore dell’omogeneità “razziale” e della partenza mediorientale, resiste tuttavia a quel “riduzionismo”, e sottolinea che alcuni marcatori genetici sono comuni a ebrei e palestinesi. (Anche se così non fosse, la questione politica — il mutuo “diritto al Ritorno” — non ne sarebbe toccata). Lo storico Shlomo Sand, discusso epigono dell’“ipotesi cázara” e antisionista, aveva comunque ragione a sottolineare che «una volta dire che gli ebrei sono una razza era antisemita, ora dire che non sono una razza è antisemita: la storia si diverte a farci impazzire».
Il Dna ci rende individualmente diversi, e differenzia anche i gruppi. La loro influenza fisica è sensibile. L’isolamento in cui gli ebrei hanno vissuto o sono stati forzati e la quota di endogamia fa sì che la ricerca mirata alla cura delle patologie vi trovi un campo privilegiato. È il futuro della genetica, cui si affidano progetti (e affari) spinti fino all’immortalità. Dalla mappatura del genoma dei 320 mila islandesi (che non sono una razza) si promette una terapia dell’Alzheimer. Sul resto, l’intelligenza, i modi di vivere, la cultura, i geni non hanno la prima parola, né l’ultima. Forse Eva Braun ebbe parenti ebrei. Nel 2010 un’indagine belga condotta sul Dna salivare «di 39 discendenti di Hitler» dichiarò di aver rintracciato «il cromosoma Aplogruppo Eib 1b1, comune fra ebrei ashkenazim e sefardim, e fra popoli nordafricani ». Mah. La mia è una modesta proposta: piantiamola di dire “ce l’ho nel mio Dna”. Se ce l’ho, ce l’ho altrove.

La Repubblica 09.04.14

"I virtuosismi che non servono", di Michele Ainis

La nave delle riforme veleggia in mare aperto. Ma il Capo delle Tempeste è al largo del Senato, dove soffiano venti da destra e da sinistra. Da un lato, l’altolà di Forza Italia: meglio abolirlo che farne un ente inutile. Dall’altro, lo stop dei professori: attenti alla deriva autoritaria. Può darsi che queste riserve siano figlie dei calcoli politici, degli egoismi di parte o di partito. Non sarebbe il primo caso. Tuttavia chi tratta gli argomenti altrui partendo dalla malafede del proprio interlocutore, dimostra d’essere a sua volta in malafede. E anche questo è ormai un vizio nazionale.
Domanda: c’è modo di rispettare le obiezioni senza sfregiare le intenzioni? Quelle del governo, ma altresì degli italiani, che non ne possono più di veti incrociati. E c’è modo di tradurre le riserve in una riserva di consensi, senza abbattere i quattro paletti issati da Renzi? Nell’ordine: no alla fiducia, no al voto sul bilancio, no all’elezione diretta, no all’indennità dei senatori. Risposta: gli strumenti esistono, se i musicisti avranno voglia di suonarli. Se per una volta eseguiranno il medesimo spartito, smentendo l’apologo filmato nel 1979 da Fellini (Prova d’orchestra ). E se ciascuno saprà ascoltare le note degli altri orchestrali, senza eccedere in virtuosismi da solista.
Ecco, l’ascolto. Non è vero che il nuovo Senato sia poco più d’un soprammobile, come sostiene Forza Italia. È vero tuttavia che fin qui rimane povero di competenze e di funzioni. Partecipa al processo normativo dell’Unione Europea, valuta l’impatto delle politiche pubbliche sul territorio. E vota le leggi costituzionali, soltanto quelle. Sulle altre conserva unicamente i poteri della suocera: consiglia, rimbrotta, sermoneggia. Al contempo perde la titolarità del rapporto fiduciario, e perde quindi il sindacato ispettivo sul governo. Curioso: questa riforma abolisce il Cnel, organo consultivo mai consultato da nessuno; però rischia di sostituirlo con un Senato di superconsulenti.
E la minaccia autoritaria, evocata sulla sponda sinistra del fiume? Esagerata anch’essa. Dopotutto, non c’è alcun intervento sui poteri del premier, che resta un primus inter pares rispetto ai ministri. E se con una mano l’esecutivo incassa il voto a data fissa sui propri disegni di legge, con l’altra rinunzia al dominio illimitato sui decreti legge. È vero, però, che il bicameralismo paritario offre una garanzia, nel bene e nel male. Anche se l’eccesso di garanzie uccide il garantito. Ma quante leggi scellerate avremmo avuto in circolo senza il disco rosso del Senato? A una garanzia in meno, pertanto, ne va affiancata una di più. Da Pericle in poi, la democrazia funziona in questo modo.
La via d’uscita? Rafforzare il ruolo del Senato come organo di garanzia. Innanzitutto attribuendogli il voto sulle leggi elettorali, che d’altronde sono leggi materialmente costituzionali, nel senso che innervano la Costituzione materiale di un Paese: se decidi sulle seconde, puoi ben decidere pure sulle prime. E inoltre conferendo al Senato un monopolio su tutte le materie che trovano i deputati in conflitto d’interesse, al pari della legge elettorale.
Nemo iudex in causa propria , nessuno può giudicare se stesso; meglio perciò rimettere al Senato ogni decisione sulle immunità, sulle cause d’ineleggibilità e d’incompatibilità, sulla verifica dei poteri, sulla misura dell’indennità dovuta ai membri della Camera, o più in generale sul finanziamento alla politica.
Dopo di che non è vietato immaginare ulteriori contrappesi. Per esempio allargando l’accesso alla Consulta anche da parte delle minoranze parlamentari, come succede in Francia. O potenziando il controllo del capo dello Stato sulle leggi: con un secondo rinvio, superabile a maggioranza assoluta. Ma in ultimo i guardiani della legalità costituzionale sono gli stessi cittadini. Siamo noi italiani, che negli anni Venti applaudimmo Mussolini, che negli anni Quaranta andammo sulle montagne per combatterlo. Nessuna norma scritta, nessun marchingegno costituzionale, può sostituirsi al sentimento civile. Ma certo può aiutarlo, può allevarlo. Su questo punto, viceversa, la riforma ospita silenzi imbarazzanti. Niente recall , né referendum propositivo, né corsia preferenziale per le leggi popolari. Dunque una buona riforma per quanto c’è scritto, un po’ meno per quanto non c’è scritto. Si tratta d’aggiungervi ancora qualche parolina.

Il Corriere della Sera 08.04.14