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"Si chiama capitale cognitivo e ci farà ricchi", di Gilberto Corbellini

In occasione nel dibattito televisivo tra i candidati alla segreteria del Pd il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi indicava nella ricerca, nell’istruzione e nella cultura le risorse da valorizzare, cioè i settori su cui avrebbe investito politicamente per stimolare l’azione del governo, allora presieduto da Enrico Letta. Anche nel chiedere al Parlamento la fiducia ha caricato la scuola e la cultura di un valore socioeconomico nuovo per un Paese che, proprio per aver ignorato il valore dell’istruzione, della ricerca e della cultura negli ultimi decenni è vertiginosamente retrocesso rispetto ai parametri che contraddistinguono la dinamicità produttiva e sociale di una democrazia vitale. Chi ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni e più sembra fosse all’oscuro che i livelli d’investimento in istruzione, ricerca e cultura sono i più predittivi (più delle risorse naturali) della capacità di un sistema economico e politico di migliorare il benessere sociale. In termini non solo di reddito pro capite, ma anche di tasso di disoccupazione, di eguaglianza, di salute e di felicità percepita. Perché si traducono in un maggior numero di cittadini con laurea e dottorato, in istituzioni accademiche efficienti e competitive, quindi in grado di attrarre finanziamenti internazionali, in brevetti e sistemi industriali tecnologicamente avanzati, in maggiore consumo di cultura (cinema, teatro, quotidiani, mostre, musei… ): insomma, rendono una nazione intelligente, cioè capace di far fronte o anticipare gli imprevisti dovuti ai cambiamenti degli scenari economici e politici. Renzi prende in mano il Paese che in Europa ha una delle più basse percentuali di laureati (la più bassa tra 30 e 35 anni ): poco più del 20%, che è meno della metà di Gran Bretagna o Francia e lontana dalla media dell’Unione Europea (35%). E’ di pochi giorni fa il dato che registra un calo di 90 mila unità nel numero di immatricolati nel 2013-14 rispetto al 2003-4. Da questa crisi economica e da questo disinteresse per lo studio derivano la diffusione della corruzione, dell’evasione fiscale, delle truffe, del gioco d’azzardo, della criminalità organizzata, oltre che dei ciarlatani, giacché il livello d’istruzione (e la qualità del sistema educativo) di un Paese è anche predittivo dell’etica pubblica che caratterizza la convivenza sociale. Il nostro sistema educativo è intorno al 70° posto (su 148 posizioni), secondo il World Economic Forum. E’ vero che esportiamo cervelli, ma le nostre scuole e università sono alla canna del gas, come conseguenza di inadeguate riforme e scarsi investimenti, cioè per la mancata valorizzazione del ruolo sociale di insegnanti e docenti, che sono i meno pagati (anche a causa dei perniciosi corporativismi e degli eccessi di tutela sindacali), e per il degrado delle strutture scolastiche e universitarie e per i tagli irresponsabili e populisti ai finanziamenti per la ricerca e l’università. Le università si stanno spopolando di ricercatori e sono abitate da docenti demotivati e catturati nei gironi infernali di una burocrazia asfissiante e di procedure di reclutamento e valutazione formalistiche e largamente disfunzionali. Sono poche le università o i dipartimenti che si distinguano per comportamento virtuosi, mentre sono ancora troppe le sacche di personale scarsamente attivo o spregiudicatamente volto al proprio interesse personale, ancora attraverso la spartizione di posti con concorsi pilotati. Del resto, una mentalità meritocratica (al di là di quel che si voglia intendere con questa ambigua parola) non si innesta dall’oggi al domani su una tradizione secolare familistica e clientelare. Le prospettive di successo del nuovo governo nell’invertire il processo di declino dell’Italia non dipenderanno da generiche riforme del sistema politico, se non si sceglie anche di investire da subito e su tempi lunghi per migliorare la qualità del capitale umano o immateriale, che oggi si chiama «cognitivo », prevedendo anche sanzioni laddove la scarsa «performance» o le cattive abitudini la facciano da padrone. Investire sul capitale cognitivo – che nelle società e nelle economie fondate sulle conoscenze è costituito principalmente da competenze scientifiche e tecnologiche, cioè da università e gruppi di ricerca internazionalmente competitivi oltre che da imprese innovative – significa destinare risorse, alleggerire la burocrazia e usare la leva fiscale per promuovere gli investimenti in formazione e ricerca, ma anche nello studio e nella valorizzazione del patrimonio storicoartistico e paesaggistico. La comunità scientifica e accademica deve premere su un governo che intende ridare dinamicità al Paese, indicando gli interventi strutturali necessari e richiamando la discussione pubblica a quella concretezza dei fatti che Renzi dice sarà la cifra operativa del suo governo. Ecco perché «Tuttoscienze» dedicherà i prossimi 4 articoli ad altrettanti grandi temi, incentrati sull’università e sulla ricerca. L’idea è raccogliere la sfida del nuovo premier per un’agenda delle più urgenti riforme su Lavoro, Pubblica Amministrazione, Fisco, declinandola sulle questioni scientifiche. Eccole: 1) i contratti per i ricercatori e l’organizzazione dell’università, 2) l’abilitazione nazionale e i concorsi accademici, 3) le agevolazioni per la ricerca, 4) la semplificazione burocratica.

La Stampa 26.02.14

"Salvascatti all'esame del senato", di Antimo Di Geronimo

Il decreto salvascatti verso l’aula. Entro oggi la commissione istruzione dovrebbe completare l’esame degli emendamenti al disegno di legge 1254 di conversione del decreto-legge 3/2014, in materia di automatismi stipendiali del personale della scuola. Il testo è slittato di qualche giorno, per dare tempo al nuovo governo di insediarsi. E proprio dal neo ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, sono arrivate le prime stoccate agli scatti, che fanno pensare a una modifica ulteriore delle progressioni di carriera. Dopo il sì dell’aula al dl, che va convertito entro fine marzo pena la decadenza, il provvedimento andrà alla camera per il via libera definitivo. Il dispositivo servirà a cristallizzare gli aumenti corrisposti nel 2013 ai circa 80mila lavoratori della scuola che hanno maturato il gradone grazie alla valutazione del 2013. Che manterranno sia gli aumenti che la classe stipendiale successiva così maturata. Ma non servirà a recuperare il ritardo nella maturazione dei gradoni per tutti gli altri lavoratori. Anzi, se il governo non darà il via libera definitivo all’avvio della contrattazione in tempi brevi, il rischio che si corre è quello di perdere definitivamente questa possibilità. Il decreto legge, infatti, prevede che se le parti non si metteranno d’accordo per chiudere il contratto entro giugno, pattuendo il recupero del 2012, i 120 milioni di risparmi derivanti dai tagli operati dall’articolo 64 del decreto legge 112/2008 saranno risucchiati dall’erario. Resta il fatto, pero, che i 120 milioni non bastano. E quindi bisognerà attingere dalle risorse contrattuali destinate allo straordinario. Che, peraltro, viene ordinariamente finanziato con una decurtazione della busta paga a monte di circa 900 euro l’anno a testa. Di qui la necessità di un contratto ad hoc. L’aumento di stipendio che consegue alla maturazione del gradone successivo consiste, mediamente, in 100 euro netti al mese.

Tra gli emendamenti all’esame della commissione, quello del presidente della VII commissione, Andrea Marcucci, che prevede che non saranno «soggette a recupero le somme già corrisposte al personale amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola per le posizioni economiche orizzontali attribuite per gli anni 2011, 2012 e 2013 in virtù della sequenza contrattuale del 25 luglio 2008». Alle conseguenti minori entrate per lo Stato, pari ad euro 17 milioni per l’esercizio finanziario 2014, si dà copertura mediante corrispondente riduzione, per l’esercizio finanziario 2014, del fondo di istituto.

Per comprendere appieno la questione del blocco dei gradoni è necessario fare un salto indietro fino al 2010: l’anno in cui è stato emanato il decreto legge 78 dall’allora governo Berlusconi. Il decreto 78, infatti, è il provvedimento con il quale è stata disposta la cancellazione dell’utilità di 3 anni ai fini della progressione di carriera: il 2010, il 2011 e il 2012. Ciò ha comportato il differimento di 3 anni del termine di compimento dei cosiddetti gradoni. E cioè dei periodi di servizio al compimento dei quali si ha diritto ad un aumento di stipendio. Facciamo un esempio. Il contratto prevede incrementi stipendiali legati all’anzianità di servizio al compimento dei seguenti periodi: 8, 15, 21, 28 e 35 anni di servizio. L’entrata in vigore del decreto legge 78/2010 ha comportato uno slittamento in avanti di tre anni di tutti i relativi termini di compimento dei gradoni. Il primo è passato da 8 a 11 anni di servizio, il secondo da 15 a 18, il terzo da 21 a 24, il quarto da 28 a 31 e l’ultimo, da 35 a 38 anni di servizio. Con l’entrata in vigore del decreto interministeriale 14 gennaio 2011, però, è stata ripristinata l’utilità del 2010. E quindi, il ritardo nella progressione di carriera si è ridotto da 3 a 2 anni, determinando i seguenti termini di compimento dei gradoni: 10, 17, 23, 30 e 37 anni di servizio. Il 13 marzo 2013, poi, è stato sottoscritto un contratto ad hoc che, utilizzando parte delle risorse destinate allo straordinario (i fondi del cosiddetto miglioramento dell’offerta formativa) ha ripristinato l’utilità del 2011. E per effetto di tale accordo, i termini di compimento dei gradoni sono passati a 9, 16, 22, 29 e 36 anni di servizio. Il 25 ottobre scorso, però, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il dpr 122/2013, che cancella anche l’utilità del 2013, di fatto, ponendo nel nulla gli effetti del recupero del 2011.

da ItaliaOggi 25.02.14

"I pennarelli e una foto di Einstein. Ecco cosa resta a Città della Scienza", di Gianluca Abate

C’è silenzio, a Bagnoli. Un silenzio strano, ovattato. L’autobus bianco spegne i motori dopo aver portato gli studenti a una mostra sul cervello. I gabbiani volteggiano senza emettere alcun suono. E anche il traffico di via Coroglio, una cacofonia di clacson e marce tirate, è un’eco che resta al di là del muro di cinta. Dentro, davanti al mare, si sentono solo i rumori di ciò che calpestano le suole delle scarpe: il crepitìo dei vetri rotti, lo scricchiolìo delle travi di legno bruciate, lo scrocchio dei mattoni sbriciolati, lo stridìo delle lamiere accartocciate. Ogni oggetto ha un suono, qui. E quei suoni raccontano ciò che accadde a Città della Scienza la sera del 4 marzo di un anno fa. Ché il rumore si fa immagine, e ti sembra quasi di vederli quei vetri che esplodono per le otto bombe, le travi di legno che vengono giù dal tetto, i mattoni che iniziano a sfarinarsi, gli exhibit che si fondono per il calore. Lo Science center, il cuore dell’evoluzione e della tecnologia, un anno dopo è ancora lì. Una montagna alta quattro metri di travi, laterizi, tubi, pilastri. Era il simbolo della Napoli del progresso, è stato raso al suolo dalla prima invenzione dell’uomo, il fuoco.

«Armi di distruzione contro la cultura». Vincenzo Lipardi, consigliere delegato di Città della Scienza, chiama così le bombe che incendiarono la struttura con violenza e rapidità tali da rendere vano il pur durissimo sforzo dei vigili del fuoco. Il suo ufficio affaccia sulla cupola argentea del nuovo planetario e su «Corporea», il museo del corpo umano che è l’emblema di questa storia alla rovescia. Doveva essere l’ultimo tassello di Città della Scienza, dopo che — tra polemiche e ritardi — nel 2010 erano stati bloccati i fondi necessari alla sua realizzazione. Sarà, invece, il primo tassello della ricostruzione. Davanti a quell’edificio seminascosto dalle impalcature — guardando verso Capo Miseno tra una gru gialla che svetta immobile e la vecchia ciminiera diventata faro — Lipardi ricorda il suo 4 marzo. «Avevo portato mio figlio al cinema, eravamo andati a vedere Il principe abusivo. Quando siamo tornati, mi disse che c’era un fuoco. Pensavo a un falò o chissà che. Arrivato qui, invece, ho trovato l’inferno». La buca d’accesso a quell’inferno è quattro piani più sotto. Ci si arriva attraversando la strada e varcando l’ingresso di quella che un tempo fu la «Fabbrica interconsorziale di concimi», sette ettari all’interno dei quali si producevano fertilizzanti, il primo insediamento industriale impiantato nell’area quando correva il 1850. Caschetto giallo di protezione in testa, si accede scortati da un addetto alla vigilanza. E subito dietro la rete coperta da un telo verde — al di là di un tavolino, una sedia per bimbi e un cesto di pennarelli colorati che spiccano per l’innaturalezza — si staglia un panorama post-bellico. Era l’ingresso dello Science center. Varcarlo oggi è un po’ come entrare a Mostar. Anche il mare, visto attraverso le grandi finestre in frantumi, sembra voler somigliare alla Neretva, il fiume reso tristemente famoso dalla guerra nell’ex Jugoslavia. Le macerie, invece, sono identiche. Bombe sull’Erzegovina, bombe su questa fetta di città. Non è rimasto nulla, e sarà per questo che a Cristina Basso, addetta stampa di Città della Scienza, ancora vengono gli occhi lucidi quando entra qui dentro.

Il fuoco non ha risparmiato nulla. Anzi, una cosa sì: il planetario. Visto da fuori, sembra praticamente intatto. È una costruzione a forma di cupola, e il calore ha fatto sì che all’interno si conservasse tutto intatto, come una moderna Pompei. Peccato che i macchinari siano andati completamente distrutti. Bruciati, come la telecamera che controllava l’accesso alla struttura dalla spiaggia, stranamente l’unica che sia stata messa fuori uso. Il resto è un ammasso informe di calcinacci, mattoni, travi di legno, pezzi d’acciaio. Un estintore rosso è ancora a terra tra le sedie e i tavolini ribaltati, i computer negli uffici sono fusi, gli uccelli impagliati conservati nei depositi hanno gli occhi vitrei, quasi li avessero sbarrati davanti a tutto quest’orrore. Non hanno resistito neppure i vetri antiproiettile che facevano nello stesso tempo da sfondo e cornice: li avevano messi perché pensavano di doversi difendere dagli scugnizzi di Coroglio che si divertivano a romperli lanciando sassi. Le bombe, quelle proprio non le avevano previste. Oltre ai rumori, c’è un’altra cosa che colpisce in questo scenario di devastazione. I colori. Sono solo due, il nero delle strutture bruciate e il marrone dell’acciaio arrugginito. Una monotonia cromatica sullo sfondo della quale spicca — manco fosse una scena di Schindler’s list — il rosso vivo del maniglione antipanico della porta dalla quale sono entrati gli attentatori. Poco più in là, c’è la spiaggia oggetto della contesa con il Comune. La si immaginava come una grande scenografia con sdraio e ombrelloni, è una lingua di terra piena di scogli tra i quali hanno gettato la ruota di un camion, una sedia di plastica bianca e una bottiglia di detersivo azzurra. Eppure, appena un anno fa, Città della Scienza era la speranza di Bagnoli. E forse lo è ancora, in un quartiere passato dall’illusione della città-fabbrica immaginata da Francesco Saverio Nitti al miraggio della città albergo sognata dal sindaco Nicola Amore. Oggi non c’è né l’una né l’altra: l’Italsider ha chiuso, del grande parco urbano è rimasto solo un progetto ingiallito nel tempo. Quel museo del futuro, adesso, si candida a (ri)diventare l’attrattore di una zona atomizzata. Una shrinking city, insomma. Una di quelle città che perdono pezzi, si restringono. E forse è per questo che — letto da Mariangela Contursi, economista, la donna che si occupa di far nascere e crescere le imprese a Città della Scienza — quell’incendio, nella sua drammaticità, «è stato utile, ché da quel giorno almeno s’è rimesso in moto il dibattito sull’area. Sono arrivata qui nel ’96, e da allora ho visto show per demolire le ciminiere, una bonifica la cui qualità viene messa in discussione dai magistrati, aste deserte, opere che si fermano fino all’ultimo miglio: questa è stata Bagnoli fino ad oggi».

Quel che sarà, invece, passa anche per la ricostruzione della Città della Scienza. La solidarietà, per una volta, ha funzionato davvero. Quattrocentomila persone hanno deciso di fare una donazione, e fino ad ora è stato raccolto un milione e 200 mila euro. Il premio Nobel Carlo Rubbia ha creato un comitato per la ricostruzione cui hanno aderito, tra gli altri, Claudio Abbado, Renzo Piano e David Gross. S’è mobilitata anche Firenze, con un concerto al teatro Puccini. Il 4 marzo, a Città della Scienza, verrà firmato l’accordo di programma: 65 milioni di euro per ricostruire tutto entro il 31 dicembre 2016. «Nessuna commemorazione, sarà una festa perché torniamo alla vita». Sarà un caso, ma Vincenzo Lipardi lo dice mentre l’autobus riaccende il motore, gli studenti escono dalla mostra tra schiamazzi di gioia, i clacson delle auto che passano davanti ai cancelli dell’Italsider tornano a farsi sentire. Andando via, poco prima di quella rete verde che separa il passato dal futuro, un Albert Einstein affisso al muro sembra sorvegliare la scena. È l’unico superstite dell’incendio. E il plexigas dietro al quale è custodita la sua foto non solo ha protetto dal fuoco l’immagine, ma ha anche custodito la sua frase: «Non preoccupatevi dei vostri problemi con la matematica. Vi assicuro che i miei sono molto più grandi».

da Il Corriere del Mezzogiorno 25.02.14

"Sorrentino agli Oscar e Greco al Museo egizio: da qui Franceschini riparta per rilanciare la Cultura", di Andrea Purgatori

Al netto delle dichiarazioni d’intenti, sempre suggestive e sempre fumose, suggerisco al nuovo ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini di cominciare il suo nuovo lavoro tenendo a mente un paio di cose che sono accadute o stanno per accadere (chiedo perdono a Paolo Sorrentino se non sono napoletanamente scaramantico): la nomina di Christian Greco alla direzione del Museo Egizio di Torino e la possibile vittoria agli Oscar de La Grande Bellezza.

Greco ha 39 anni e, a quanto mi risulta, nessuna tessera di partito in tasca, né appartenenze a consorterie parareligiose o massoniche ma solo la propria competenza, che ne ha fatto uno dei massimi esperti di egittologia al mondo (se non fosse emigrato, dubito che adesso potrei portarlo ad esempio). Sorrentino, 43 anni, è un cineasta e scrittore che ha conquistato un posto da protagonista nel panorama del cinema internazionale. E per diventare regista non ha mai avuto bisogno di iscriversi a un qualsivoglia club, tranne che a quello di chi difende con passione l’arte del cinema italiano, la sua storia, il suo futuro, le sue scarsissime risorse.

Ecco, ministro Franceschini, questi mi sembrano due spunti più che validi per impostare il lavoro e una nuova politica della Cultura, spesso percepita o svillaneggiata come una spesa inutile piuttosto che come un investimento. Senza mai tenere conto che garantisce milioni di posti di lavoro e altrettanti potrebbe offrirne, se questo settore (brutta parola, direi meglio: patrimonio) fosse considerato strategico quanto lo è nel resto d’Europa (siamo al 27° posto, l’ultimo, con una spesa pari all’1,1 delle risorse pubbliche contro una media del 2,2).

So bene che saranno più i guai che dovrà risolvere che il tempo da dedicare alla progettualità. Tuttavia, la strada che da Torino porta a Los Angeles e viceversa suggerisce infinite possibilità di svolta e coraggio creativo per sperare che questo governo rimetta la Cultura al centro della propria visione futura del Paese e confini ai margini dei processi decisionali le lobby che in questo mondo speculano e regalano poltrone. Stanchi di invidiare L’altrui bellezza, facciamo il tifo perché la nostra Bellezza diventi finalmente Grande, curata, rispettata e di tutti, ministro Franceschini.

da Huffington Post 25.02.14

"Internet ha cambiato la democrazia. La vecchia politica fa male a resistere", di Sebastiano Maffettone

Adoro il puzzo stantio delle vecchie librerie, e scartabellare tra i volumi, anche in una bancarella, mi riempie di gioia. Tuttavia, compro il novanta per cento dei libri in rete su Amazon. YouTube e simili hanno smantellato l’industria discografica e oramai le canzoni si ascoltano e si acquistano con il computer. Lo stesso sta succedendo negli Stati Uniti, e c’è da giurarlo tra poco anche da noi, con Netflix e il cinema. L’informazione tradizionale e l’università sempre più risentono della concorrenza in rete, così come paghiamo le bollette delle nostre utenze via web e non c’è ditta o attività commerciale che non apra un bel sito da cui acquistare. La finanza poi è addirittura impensabile senza la rete. Persino le religioni oramai ne fanno largo uso: il Papa twitta, e il culto che fa più nuovi proseliti nel mondo, l’Evangelismo, è quella che ha più antica dimestichezza col web. Insomma, sopravvalutare la rilevanza della rete è difficile.
Come dubitare allora che una rivoluzione del genere non finisca per cambiare anche la politica? D’altronde casi che lo mostrano non mancano, e senza distinzione di razza e cultura. La primavera araba non meno che Occupy Wall Street , gli indignados spagnoli e i cinquestellati italiani, la campagna presidenziale di Obama e quanto succede in questi giorni in Ucraina, in maniera diversa caso per caso lo confermano. Sono stato così felice di partecipare ad Alpis — un seminario di studiosi di tecnologie digitali con particolare focus sulla progettazione partecipata — per avere l’opportunità di discutere con scienziati tecnici di temi e problemi di assoluta rilevanza come quelli che riguardano le conseguenze politiche e istituzionali della trasformazione legata all’impatto della digitalizzazione nel nostro mondo.
Fenomeni tanto pervasivi generano reazioni culturali spesso radicali, che condannano il mondo della tecnologia informatica come una fonte di pura alienazione. Per persone meno estremiste culturalmente parlando, un compito importante rimane quello di analizzare i mutamenti nell’ecologia istituzionale (il termine è di Yochai Benkler) all’interno di una società liberal-democratica. Il che, detto in un italiano più leggibile, equivale a cercare di capire che cosa sta cambiando e su quale base nei rapporti di forza tra individui, gruppi e istituzioni. Sin dall’inizio l’età della rete è stata vista da molti come una speranza per la democrazia, una democrazia spesso malata. Si è creduto così che la possibilità da parte del pubblico di partecipare alla vita democratica aumentasse a dismisura attraverso la rete. Dopotutto, strutturare una opinione pubblica rilevante in rete costa assai meno di quanto non costi edificare un network televisivo. Ma c’è anche chi ha temuto l’avvento prossimo venturo di monopoli dell’informazione digitali, nuove e potentissime istanze del Grande Fratello, che tutto sanno sulle nostre preferenze, gusti e valori.
Ma fin qui siamo ancora a livello di distinzioni preliminari troppo generali. È invece più interessante rovistare nei lavori degli informatici per sapere effettivamente che prospettive reali ci sono. Fiorella De Cindio, informatica dell’Università di Milano, propone un modello di habitat digitale che è stato già in parte sperimentato in campagne elettorali. Si tratta di costituire innanzitutto un’architettura di sistema che permetta la partecipazione diffusa della cittadinanza agli eventi politici in termini di quella che i teorici della politica chiamano democrazia deliberativa. Qualcosa del genere presuppone la cooperazione al progetto da parte di scienziati sociali. Un habitat digitale appropriato richiede infatti la compresenza di persone e gruppi esterni alla rete con quelli che invece sono online. Una volta accertata la trasparenza della procedura, tocca agli scienziati sociali concettualizzare l’identità degli utenti, le loro motivazioni, il senso della partecipazione politica, la maniera in cui il pubblico vede la comunità, le possibilità degli individui di accedere alle procedure online e così via. Tutto ciò dovrebbe fare emergere progressivamente gli interessi pre-politici dei soggetti coinvolti per vedere come essi siano in rapporto con l’offerta politica del momento.
Procedure e modelli come questi possono essere adoperati con diversi scopi. Si può pensare che la rappresentanza tradizionale sia definitivamente morta, e che i gruppi online debbano votare volta per volta sui dilemmi politici senza vincoli di lealtà politica precedente e senza coerenza tra una votazione e l’altra. Oppure, più moderatamente, si può ritenere che le forze politiche tradizionali abbiano bisogno di un’iniezione di fiducia per essere rivitalizzate. Comunque la si pensi, la ricerca di nuovi spazi di democrazia deliberativa — tra cui quelli in rete — sembra essere una necessità e non un lusso in momenti di crisi politica.

Il Corriere della Sera 25.02.14

"Salvascatti all'esame del senato", di Antimo Di Geronimo

Il decreto salvascatti verso l’aula. Entro oggi la commissione istruzione dovrebbe completare l’esame degli emendamenti al disegno di legge 1254 di conversione del decreto-legge 3/2014, in materia di automatismi stipendiali del personale della scuola. Il testo è slittato di qualche giorno, per dare tempo al nuovo governo di insediarsi.

E proprio dal neo ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, sono arrivate le prime stoccate agli scatti, che fanno pensare a una modifica ulteriore delle progressioni di carriera. Dopo il sì dell’aula al dl, che va convertito entro fine marzo pena la decadenza, il provvedimento andrà alla camera per il via libera definitivo. Il dispositivo servirà a cristallizzare gli aumenti corrisposti nel 2013 ai circa 80mila lavoratori della scuola che hanno maturato il gradone grazie alla valutazione del 2013. Che manterranno sia gli aumenti che la classe stipendiale successiva così maturata. Ma non servirà a recuperare il ritardo nella maturazione dei gradoni per tutti gli altri lavoratori. Anzi, se il governo non darà il via libera definitivo all’avvio della contrattazione in tempi brevi, il rischio che si corre è quello di perdere definitivamente questa possibilità. Il decreto legge, infatti, prevede che se le parti non si metteranno d’accordo per chiudere il contratto entro giugno, pattuendo il recupero del 2012, i 120 milioni di risparmi derivanti dai tagli operati dall’articolo 64 del decreto legge 112/2008 saranno risucchiati dall’erario. Resta il fatto, pero, che i 120 milioni non bastano. E quindi bisognerà attingere dalle risorse contrattuali destinate allo straordinario. Che, peraltro, viene ordinariamente finanziato con una decurtazione della busta paga a monte di circa 900 euro l’anno a testa. Di qui la necessità di un contratto ad hoc. L’aumento di stipendio che consegue alla maturazione del gradone successivo consiste, mediamente, in 100 euro netti al mese.

Tra gli emendamenti all’esame della commissione, quello del presidente della VII commissione, Andrea Marcucci, che prevede che non saranno «soggette a recupero le somme già corrisposte al personale amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola per le posizioni economiche orizzontali attribuite per gli anni 2011, 2012 e 2013 in virtù della sequenza contrattuale del 25 luglio 2008». Alle conseguenti minori entrate per lo Stato, pari ad euro 17 milioni per l’esercizio finanziario 2014, si dà copertura mediante corrispondente riduzione, per l’esercizio finanziario 2014, del fondo di istituto.

Per comprendere appieno la questione del blocco dei gradoni è necessario fare un salto indietro fino al 2010: l’anno in cui è stato emanato il decreto legge 78 dall’allora governo Berlusconi. Il decreto 78, infatti, è il provvedimento con il quale è stata disposta la cancellazione dell’utilità di 3 anni ai fini della progressione di carriera: il 2010, il 2011 e il 2012. Ciò ha comportato il differimento di 3 anni del termine di compimento dei cosiddetti gradoni. E cioè dei periodi di servizio al compimento dei quali si ha diritto ad un aumento di stipendio. Facciamo un esempio. Il contratto prevede incrementi stipendiali legati all’anzianità di servizio al compimento dei seguenti periodi: 8, 15, 21, 28 e 35 anni di servizio. L’entrata in vigore del decreto legge 78/2010 ha comportato uno slittamento in avanti di tre anni di tutti i relativi termini di compimento dei gradoni. Il primo è passato da 8 a 11 anni di servizio, il secondo da 15 a 18, il terzo da 21 a 24, il quarto da 28 a 31 e l’ultimo, da 35 a 38 anni di servizio. Con l’entrata in vigore del decreto interministeriale 14 gennaio 2011, però, è stata ripristinata l’utilità del 2010. E quindi, il ritardo nella progressione di carriera si è ridotto da 3 a 2 anni, determinando i seguenti termini di compimento dei gradoni: 10, 17, 23, 30 e 37 anni di servizio. Il 13 marzo 2013, poi, è stato sottoscritto un contratto ad hoc che, utilizzando parte delle risorse destinate allo straordinario (i fondi del cosiddetto miglioramento dell’offerta formativa) ha ripristinato l’utilità del 2011. E per effetto di tale accordo, i termini di compimento dei gradoni sono passati a 9, 16, 22, 29 e 36 anni di servizio. Il 25 ottobre scorso, però, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il dpr 122/2013, che cancella anche l’utilità del 2013, di fatto, ponendo nel nulla gli effetti del recupero del 2011.

ItaliaOggi 25.02.14

"Italiani sempre più poveri il 52% si sente ormai parte della classe medio-bassa", di Vladimiro Polchi

Una nebbia densa grava sul Paese. È la «grande incertezza ». Il 73% degli italiani trema per la crisi economica. La disoccupazione angoscia quasi la metà dei nostri concittadini. E la criminalità? Fa paura, ma non più come un tempo. Il nemico più temibile oggi è il politico: è lui lo «straniero più ostico».
A mappare le nostre ansie è il settimo rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza, realizzato da Demos&Pi e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis. La “graduatoria delle paure” conferma l’intreccio tra insicurezza economica e politica. Il 68% degli italiani afferma di sentirsi frequentemente preoccupato per “l’instabilità della politica”. Appena il 13% ripone fiducia nello Stato (il valore più basso tra Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia). I temi economici rimangono nelle prime posizioni. Fra tutti, è la perdita del lavoro a occupare la vetta (49%), secriminalità.
guita dalla paura di perdere la pensione (44%). Complessivamente l’insicurezza economica riguarda il 73% degli intervistati: sei punti meno dello scorso anno, ma quindici più del 2009. «Più che di un cambio di tendenza — chiarisce il direttore del rapporto, Ilvo Diamanti — si tratta di una sorta di assestamento, dopo lo choc dell’anno passato, quando la “scoperta” della crisi economica aveva traumatizzato gran parte della società. Quest’anno il trauma pare essere stato metabolizzato ». Stessa tendenza per i timori all’incolumità personale, in leggero calo, ma ancora su livelli significativi: quasi un italiano su due (47%) è preoccupato per la sicurezza.
E sono soprattutto i furti nelle abitazioni a provocare inquietudine (31%).
È una società che scivola verso il basso: l’85% degli italiani ritiene che la distanza tra “chi ha poco” e “chi ha molto” sia cresciuta negli ultimi dieci anni. Mentre la maggioranza assoluta, per la prima volta, posiziona la propria famiglia nella classe sociale bassa o medio-bassa (52%). Tra le vittime della crisi figurano i giovani: secondo due persone su tre «per quelli che vogliono fare carriera, l’unica speranza è andare all’estero».
«È la “Grande incertezza” che incombe su di noi. E rende difficile orientarsi — sostiene Diamanti — perché non ha nomi né volti definiti. Salvo uno, forse, che nell’ultimo anno ha sovrastato gli altri, fino a divenire lo straniero più ostico: il politico. Le istituzioni stesse. Infatti, in testa alla graduatoria delle nostre preoccupazioni quotidiane incontriamo “l’instabilità politica” ». Non è tutto. Stando al rapporto, la rappresentazione offerta dai media contribuisce alla messa in scena di questa incertezza. La criminalità è ancora in testa nell’agenda dell’insicurezza dei tg, ma la seconda componente nel 2013 è costituita dall’instabilità politica (con il 19,4% del totale delle notizie ansiogene, più del doppio del 2012). E non solo in tv. È la politica a dominare anche le prime pagine dei quotidiani, soprattutto in Italia, occupando circa il 32% delle notizie complessive (quotidiani analizzati: Repubblica e Corriere della Sera). Solo su Twitter domina ancora l’immigrazione, che occupa il 41% dei tweet legati alla percezione dell’insicurezza.

La Repubblica 25.02.14