Latest Posts

"Lingua Madre. Se i ragazzi italiani non sanno l’italiano. Secondo l’indagine Pisa, sono uno su cinque", di Simonetta Fiori

Immaginiamo una festa con un centinaio di studenti, tutti del secondo anno delle superiori. Venti di loro non sanno l’italiano. No, non è una festa cosmopolita con quindicenni che arrivano da tutto il mondo. Si tratta di adolescenti italiani, un quinto dei quali ha problemi con la lingua madre. Un dato evidenziato dalle ultime rilevazioni Pisa, ma curiosamente passato sotto silenzio (si tratta dell’indagine internazionale promossa dall’Ocse per valutare il livello di istruzione degli adolescenti dei principali paesi industrializzati). Naturalmente il fenomeno non è uniforme sul piano geografico e sociale. «È drammatica la distanza tra i licei del Nord-Est e gli istituti professionali del Mezzogiorno», dice Luca Serianni, insigne storico della lingua e autore di saggi sull’insegnamento dell’italiano nelle scuole (L’ora d’italianoe Leggere scrivere argomentare, entrambi pubblicati da Laterza; e con Giuseppe Benedetti Scritti sui banchi, Carocci). Ma cosa significa non sapere l’italiano? Serianni pesca tra i quotidiani degli ultimi giorni. «Alla fine delle scuole superiori un ragazzo dovrebbe essere in grado di capire un articolo di fondo».
E invece?
«E invece molti arretrano davanti alle prime parole astratte. Parole come “esimere” o “desumere”, che sono mattoni fondamentali per la costruzione di un discorso argomentativo. O parole meno usuali come “facezie”, che possono dare alla frase una connotazione ironica. O, guardi qua, “deflagrante” e “propedeutico”: chi può capirlo? Per non dire di “pàupulo”: si tratta del verso del pavone, ma ho dovuto consultare il vocabolario anche io».
Sta dicendo che i giornalisti dovrebbero scrivere in modo più chiaro?
«No, i giornali offrono una pluralità di registri linguistici che tutti i diciottenni scolarizzati dovrebbero essere in grado di padroneggiare. Ciò significherebbe molte cose. Essere informati su argomenti ritenuti essenziali. Individuare una linea dell’articolista ed eventualmente dissentirne. Cogliere le risorse espressive messe in atto da chi scrive: paradosso, satira, indignazione».
In realtà i test Pisa sono meno impegnativi di un editoriale. Prendiamo la tabella sul vaccino contro l’influenza: non richiede finezze interpretative.
«Sì, si tratta di un testo trasparente, con poche subordinate e nessuna parola desueta. È preoccupante che non l’abbia capito tra il 33 e il 40 per cento dei quindicenni meridionali. Forse gioca anche il fattore dell’ansia, comprensibile in ragazzi alle prese con i test».
Qual è il problema più grave nell’italiano scritto degli adolescenti?
«Il deficit principale non è l’ortografia, su cui la scuola insiste molto. Un problema ricorrente è la violazione della coerenza testuale, che è poi l’incapacità di argomentare gerarchizzando le questioni trattate. Anche nei temi di intonazione intimistica sorprendono le frasi prive di senso compiuto. Mi viene in mente il tema di un’alunna quattordicenne di un liceo pedagogico. “Noi ragazze siamo molto diverse dai maschi… perché noi cerchiamo sempre l’abbraccio, il bacetto che ci fa sentire al sicuro da tutte le cose che ci sembrano brutte. Al contrario i maschi…” e qui mi sarei aspettato: “sono insensibili”, “pensano soprattutto al sesso”. Niente di tutto questo. “Al contrario i maschi cercano di dare il meglio di loro, ma alla fine non ci riescono”. La ricostruzione dello specifico maschile s’è perduta per strada…».
Forse si può intuire, ma certo è detta male.
«Le cose certo non migliorano con i temi su questioni sociali. Questa volta siamo in una quarta ginnasio, alle prese con un tema su “L’uomo e l’ambiente”. Scrive un ragazzo: “Secondo me si dovrebbe fare la macchina ad acqua ed elettricità per guarire l’ambiente, ma è solo che i politici non vogliono, perché finché c’è il petrolio che è l’unica fonte di energia esistente e la più sfruttata”. Lasciamo perdere tutti gli errori sintattici e lessicali. Quel che davvero non va è la storia della macchina ad acqua, con il facile qualunquismo contro la politica. Siamo sicuri che, diventato adulto, il nostro ragazzetto non sarà tra quelli pronti a giurare sul metodo Stamina?».
Ma in questo caso la lingua è solo parte del problema.
«È una parte essenziale. Conoscere la propria lingua – per tornare alla domanda iniziale – significa padronanza del ragionamento e delle risorse espressive più adeguate per illustrarlo. Tenga conto che un bambino italofono si affaccia alla scuola elementare con un dotazione di 2000 parole, che sono quelle che ti permettono di sopravvivere: il 90 per cento dei discorsi prodotti comunemente dagli adulti. Alla fine della scuola dell’obbligo, questo patrimonio dovrebbe essere molto più ricco».
Cosa non va nell’insegnamento dell’italiano a scuola?
«Si insiste troppo sulla teoria grammaticale, specie nella scuola media e nel biennio. Talvolta si sfiora l’ossessione su nozioni di analisi logica del tutto inutili: è davvero fondamentale distinguere il complemento di compagnia dal complemento d’unione? Bisognerebbe soffermarsi di più sulla componente semantica, permettendo in questo modo di affinare la padronanza lessicale. E poi scrivere bene implica leggere bene. E leggere bene significa andare oltre il testo letterario, che pure io amo molto».
Più saggistica e meno Dante?
«Dante è fondamentale, ma nel triennio delle superiori bisognerebbe leggere anche una rivista come Limes, ossia articoli di geopolitica e sociologia, storia economica e storia della scienza. Brani che possano offrire modelli di organizzazione linguistica del pensiero complesso. Paradossalmente questa operazione è più facile negli istituti tecnici che non nei licei, in cui è tuttora centrale il percorso letterario, com’è giusto che sia. Mi rendo conto che rinnovare l’impostazione didattica nelle quattro ore del triennio liceale è alquanto difficile».
Ma l’italiano si può studiare con metodi mutuati dall’apprendimento di lingue straniere?
«In qualche caso sì. Mi è capitato di proporre esercizi in cui si richiede allo studente di integrare il testo con la parola mancante, oppure di individuare l’intruso secondo le modalità dell’enigmistica. Alcuni vocaboli sono davvero stranieri nell’orizzonte linguistico e culturale di un adolescente. Se prendo un vecchio scritto di Tommaso Padoa Schioppa, m’imbatto in parole come “lapidario”, “antinomia”, “conscio”, “blandire”, “anomalo”, “convenzione”. Forse bisognerebbe scegliere un elenco di parole da salvare, proponendole ai ragazzi come si fa con i vocaboli di un’altra lingua».
Siamo già a un livello avanzato.
«Sì, prima occorrerebbe cimentarsi con esercizi più pedestri. Come il riassunto, genere che prediligo: verifica la comprensione, educa alla sintesi correggendo la tendenza alla verbosità e aiuta a selezionare le notizie più importanti. La sua pratica andrebbe estesa oltre la scuola media. Ed è più utile del tema generico, come l’esempio che le ho appena fatto sull’inquinamento: anche io in quei casi non saprei cosa scrivere, se non ovvietà sostenute con fervore retorico. E per la correzione, suggerirei ai professori anche la matita verde».
Nel senso?
«Va bene il rosso e il blu, ma evidenzierei con il verde la scrittura più espressiva e meno scontata. Anche per evitare di trasformare il compito in un camposanto pieno di croci».
I nostri adolescenti hanno problemi con l’italiano pur essendo costantemente immersi nella scrittura dei social network. Certo, si tratta di una lingua diversa.
«Diciamo che è un italiano diverso da quello argomentativo. È però sempre un aspetto di scrittura, che non interferisce con l’altro codice. Sicuramente non fa danno. E favorisce il gioco di parola, che è pur sempre un esercizio linguistico».
In un libro recente Si dice? Non si dice? Dipende Silverio Novelli teorizza un italiano tridimensionale: quello del sì (bisogna dire così, facciamocene una ragione), quello del no (così è vietato), e quello del «dipende» (territorio immenso che include il digitale).
«Nessuno di noi parla o scrive sempre la stessa lingua. Quando faccio lezione non dico mai “chi se ne frega”, cosa che mi capita di dire a casa. Anche se i miei studenti – beata ingenuità – ritengono che sia un’ipotesi del tutto impensabile».

La Repubblica 26.02.14

"La scommessa del premier", di Massimo Adinolfi

Se si fossero trovate allineati nella casella di partenza una nuova maggioranza, un nuovo Parlamento, un nuovo Presidente del Consiglio, un nuovo programma, sarebbe stato più semplice: per tutti. Non è andata così. E non poteva andare così, nelle condizioni date. Ma al nuovo giro che comincia oggi, è un fatto che Renzi parte due passi avanti rispetto a tutto il resto. Per l’investimento politico in cui è impegnato: lui e con lui tutto il Partito democratico.

E non certo per le mani in tasca al Senato o per il computer tenuto in bella mostra ieri, alla Camera, sul banco del governo. Questi aspetti del personaggio dicono però che una ventata di novità ha investito la politica italiana: in replica alla Camera, Renzi ha parlato ancora a braccio, ma ha impiegato un buon quarto d’ora, e speso parole assai intense, per celebrare la sacralità del luogo. Dunque: non si è trattato di irriverenza o di semplice noncuranza. Anzi: nonostante lo sfoggio di capacità multitasking del premier, che porta il pc in aula, legge, twitta, beve il caffè e ascolta il dibattito contemporaneamente (e chi non lo fa, oggi, se è costretto a riunioni lunghe sei ore e mezza, tanto quanto la discussione parlamentare?) proprio non è sembrato che l’Aula che aveva davanti fosse per lui sorda e grigia. Nessun pericolo per la democrazia, dunque. Si è trattato anzi di un tentativo di rappresentarla, anzi quasi di viverla, in maniera che riuscisse comprensibile, moderna, vera e reale. In questo tentativo, non tutto – com’è ovvio – funziona allo stesso modo, e proprio l’intervento di ieri alla Camera dimostra la velocità con cui Renzi è capace di correggere il tiro. Al Senato aveva infatti risposto alle critiche di chi lamentava la vaghezza delle sue parole, e la mancanza di questo o quel pezzo del programma, obiettando che non sono certo le parole che servono, bensì i fatti. Ora, se in quella sede non avesse tenuto un discorso di sessantotto minuti, forse questa replica sarebbe apparsa più convincente. O forse nemmeno in questo caso, dal momento che non sarebbe convincente neanche il prete che dal pulpito saltasse l’omelia domenicale perché quelle che contano non sono le prediche ma soltanto le opere di bene. Passando però alla Camera Renzi ha tenuto un discorso più contenuto, e soprattutto più composto, persino più gonfio di sana retorica, ma proprio per questo più conveniente al luogo e alla circostanza. E il governo ha potuto prendere il largo.

Come la nave di Teseo. Della trireme guidata dall’eroe ateniese ci racconta infatti Plutarco che si dovettero sostituire tutte le assi e le vele e i chiodi, e i filosofi non smettevano di discutere se allora, pur essendo cambiati tutti i pezzi, si potesse dire che l’imbarcazione fosse rimasta la stessa. Il fatto è che a prestare un’identità alla nave erano il nome, la missione, il viaggio: così anche Renzi non sembra temere di cambiare in corsa, o forse persino le carte in tavola (e questo sarà forse un problema per Alfano e il Nuovo Centrodestra, alle prese con lo spauracchio di Berlusconi), mantenendo però l’identità del suo governo in forza di un investimento, di una scommessa squisitamente politica.

Che ieri è risuonata più volte, specie nel rivolgersi ai grillini (apparsi come la vera forza a cui Renzi vuole sottrarre consensi nel Paese): voi siete quelli che non conoscono la democrazia interna, noi siamo quelli che credono nella democrazia; voi siete quelli che disprezzano la politica, noi siamo quelli che ci credono ancora; voi siete quelli che considerano irriformabile il sistema, noi siamo quelli che pro- vano a fare, da subito, la riforma elettorale e quella istituzionale; voi siete quelli che danno la colpa all’Europa, noi siamo quelli che citano Spinelli e considerano l’Europa una «straordinaria opportunità» e puntano sul semestre europeo per ridefinire compiti ruoli e responsabilità dell’Italia nel contesto internazionale.

Poi Renzi ha aggiunto: basta? No che non basta. E in effetti non basta. I termini del programma economico e sociale di Renzi attendono di essere molto meglio definiti: scuola, cuneo fiscale, riforma del lavoro, riforma della pubblica amministrazione, strumenti per la crescita sono titoli generali, che il governo e il Parla- mento devono ancora riempire di contenuti. Ma da quel che s’è visto Renzi ha la capacità di cambiare qualche pezzo, di sostituire un remo o una trave, se non funziona, e tuttavia di tenere la rotta. O almeno di provarci: questo è l’impegno che ha assunto. E la navigazione è appena cominciata.

L’Unità 26.02.14

"La crisi strangola i consumi -2,1%, il peggior calo di sempre", di Luigi Grassia

Speriamo che in questo 2014 le cose vadano meglio ma di certo il 2013 dell’economia in Italia è stato brutto e lo conferma il crollo dei consumi, l’indicatore più sicuro del malessere delle famiglie: il -2,1% rispetto a un anno prima è il dato peggiore dal 1990 cioè da sempre visto che la serie storica è cominciata allora. In parole povere era da almeno 24 anni, ma in realtà potrebbero essere molti di più, che i commercianti non si trovavano di fronte a cifre simili. Fra l’altro, il 2013 è stato l’ultimo di diversi anni di consumi in calo, quindi quel -2,1% è rispetto a dati già bassi in maniera patologica. È da un quadriennio che per colpa della crisi le famiglie sono costrette a stringere la cinghia, se si esclude la piccola eccezione del 2010, quando sembrò profilarsi una ripresa (ma a ben guardare anche quell’eccezione evaporerebbe facendo i calcoli in termini reali, ovvero al netto dell’inflazione).

Fra i numeri dell’Istituto nazionale di statistica colpiscono soprattutto quelli del comparto alimentare. Nel 2013 gli italiani, attanagliati dalla recessione, hanno dovuto risparmiare pure a tavola, dove i consumi sono calati dell’1,1% come non accadeva dal 2009.

La forzosa «spending review» delle famiglie non sembra conoscere limiti e dopo avere eliminato il superfluo va a intaccare pure i beni di prima necessità. Ne è un’altra prova la flessione del valore degli acquisti di farmaci (-2,4%). Certo si deve pur mangiare e la soluzione è offerta dai discount, cioè i negozi di prodotti super-scontati che sono gli unici a terminare l’anno in positivo (+1,6%), seguiti a distanza dai cosiddetti esercizi specializzati (+0,5%), cioè i negozi focalizzati su una singola tipologia (mobili, abbigliamento, libri).

L’aumento delle vendite «low cost» preoccupa la Coldiretti che mette in guardia dai «prodotti offerti spesso a prezzi troppo bassi, prodotti di scarsa qualità che rischiano di avere un impatto sulla salute» (benché non si debba generalizzare né criminalizzare a priori i prodotti dei discount, visto che queste catene di negozi svolgono una funzione utilissima nella crisi, sono un fattore di sopravvivenza per molte famiglie). Tutto il resto del settore della distribuzione, compresi i supermercati e gli ipermercati, registra un giro d’affari in contrazione, a cominciare dai piccoli negozi, come le botteghe e gli alimentari sotto casa (-2,9%).

Un ulteriore risvolto negativo, evidenziato dalla Confesercenti, sta nel fatto che nei passati dodici mesi sono andate in fumo quasi 19 mila imprese del commercio al dettaglio, più di duemila solo nell’alimentare, strangolate dalla mancanza di clienti. E un’altra associazione, la Confcommercio dice che «l’ennesimo calo congiunturale, quello di dicembre, è molto peggiore del previsto». Infatti neppure il Natale è riuscito a spronare la domanda. Anzi, l’arretramento è stato netto (-0,3% su novembre e -2,6% su base annua). Federdistribuzione parla di «un comportamento di freno ai consumi, divenuto ormai consolidato».

I conteggi delle associazioni di consumatori sembrano non lasciare scampo: secondo Federconsumatori e Adsubef solo per i prodotti della tavola in media una famiglia ha diminuito la spesa di 309 euro, e non perché i prezzi siano calati ma perché si è proprio comprata meno roba. Il Codacons guardando più in là prevede un altro anno debole sul fronte consumi, ipotizzando un calo dello 0,8% per il 2014. Non fa ben sperare il dato sulla fiducia dei consumatori a febbraio, di nuovo in calo, anche se le interviste dell’Istat si fermano alle prime due settimane del mese e quindi non possono registrare gli eventuali effetti del nuovo governo sul dato della fiducia.

La Stampa 26.02.14

"Un governo rosa per iniziare un cambiamento concreto", di Valeria Fedeli

I contenuti e le proposte del discorso tenuto ieri in Senato dal Premier Matteo Renzi sono senz’altro condivisibili. Il premier si è assunto l’onore e l’onere di guidare una sfida che è e deve essere di tutte e tutti. Guardiamo e lavoriamo tutti con fiducia e ottimismo perché finalmente si avvii quel cambiamento per il quale da tanto tempo molti di noi si spendono, nell’impegno politico e sindacale, o nella fatica e nella passione del lavoro e dell’impresa. Finalmente ci sono timidi segnali di ripresa, ma intanto gli effetti della crisi sono ancora tutti presenti. Da quasi un anno una diversa responsabilità, che si è resa necessaria dopo i risultati elettorali e che ha trovato ancora la guida saggia e lungimirante del presidente Napolitano, ha sostituito le sterili contrapposizioni e la forzata costruzione di alleanze che hanno reso il nostro sistema politico fermo, incapace di dare risposte ai problemi reali di persone ed economia, fragile rispetto agli attacchi di forze populiste che giocano allo sfascio.
Ora abbiamo un nuovo governo che ha l’obiettivo vitale di attuare le riforme, per superare le difficoltà che avevano frenato il lavoro del governo Letta, che in questi mesi ha svolto una funzione decisiva per iniziare a restituire fiducia interna e credibilità internazionale.

Questo governo è un governo generazionale e di parità tra i generi, come qualcuno dice: ma nel senso che dobbiamo pensare e costruire quei risultati che renderanno l’Italia un Paese in cui la prossima generazione di donne e uomini potrà vivere meglio, con diritti garantiti e opportunità, ritrovando l’orgoglio di appartenere ad una comunità coesa e forte. Intanto occorre rispondere alle urgenze: la sofferenza di famiglie, lavoratori e piccoli imprenditori non può più aspettare. Si tratterà di ridefinire tassazione e incentivazione, energia, sburocratizzazione e digitalizzazione, fattori di investimento strategico e aree in cui creare nuove opportunità di occupazione, formazione, sistema di diritti e di ammortizzatori.

Dobbiamo avere chiaro che si tratta di regole, di scelte strategiche, di politiche da condividere. Ma si tratta anche di valori. Con la riforma del lavoro dobbiamo rilanciare il valore costituzionale del lavoro e costruire un nuovo welfare fondato sulle persone e sulle persone che lavorano, don- ne e uomini, superando le discriminazioni e le diseguaglianze verso le donne, ripensando l’efficacia degli ammortizzatori sociali, immaginando anche nuovi strumenti di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, accompagnato da un investimento vero sulla formazione e sul supporto per la ricerca di nuovo impiego, sui diritti e sulla conciliazione dei tempi privati e lavorativi.

La riforma del lavoro deve essere un processo aperto e condiviso, con ciascuno dei soggetti in causa come imprese, mondo del lavoro, istituzioni.Dobbiamo così rilanciare un piano serio, moderno e strategico di politiche industria- li con la piena consapevolezza che ogni nostra prospettiva di crescita e di rilancio non può che essere inquadrata in un’ottica europea ed europeista.

Energia, ambiente, ricerca, filiera formazione-lavoro, innovazione, tecnologia, qualità, sostenibilità etica e rispetto dei diritti: sono i fattori che rendono il made in Italy un modello di sviluppo che unisce qualità produttiva e qualità del lavoro. Se – come emerge da recenti ricerche – perdia- mo posizioni nel riconoscimento del made in Italy come brand globale, non è per responsabilità delle piccole e me- die imprese, dei lavoratori o degli artigiani che creano il made in Italy, ma per quanto abbiamo saputo investire su noi stessi. La nostra manifattura è stata e continuerà ad essere il motore del Paese, la nostra garanzia di qualità, l’esperienza produttiva diffusa e condivisa su cui fondare il futuro di tutte e di tutti.

Il processo di riforma del lavoro e di rilancio delle politi- che industriali deve svilupparsi garantendo un ulteriore fattore strategico: il riconoscimento e la valorizzazione del- le competenze complementari di donne e uomini. Trovo che su questo il governo possa dare davvero un buon esempio. Tra i principali temi di sfida che si trova davanti ci sono sicuramente le riforme istituzionali, lo sviluppo, la semplificazione burocratica, la capacità di essere protagonisti in Europa. Quattro sfide decisive in mano a quattro giovani donne (mostrando anche un bell’esempio di integrazione armoniosa delle esperienze di lavoro e private, a partire dalla maternità). E poi la gestione di aree strategiche come salute, istruzione e ricerca, difesa, affari regionali e autonomie: ancora affidate a donne. Credo che ci sia, nelle concrete possibilità che questo governo riesca a realizzare il cambiamento, una carta in più: le donne possono essere il fattore che davvero cambia le cose.

L’Unità 26.02.14

“Restituire dignità agli insegnanti”, di Flavia Amabile

Anche alla Camera Matteo Renzi lo conferma: la scuola prima di tutto. Fuori dall’aula di Montecitorio professori, sindacati, presidi e addetti ai lavori affilano le armi contro i primi annunci della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini che si schiera contro gli scatti e contro la consultazione dal basso che invece il premier sostiene. Fuori dalle stanze della politica si teme di finire in un nuovo tritacarne economico o di diventare le vittime sacrificali di un braccio di ferro nel governo in nome del merito e della valorizzazione. Dentro l’emiciclo della Camera Renzi ripete di voler «valorizzare il ruolo degli insegnanti», spiegando che questo vuol dire intervenire «non soltanto sul fattore economico», ma sulla «mancanza di prestigio sociale che abbiamo sottratto a un valore come l’insegnamento». Ripete quello che è un suo cavallo di battaglia, il ricordo del tempo andato, citato più volte, e messo nero su bianco anche nella mozione per le Primarie pd che a dicembre lo hanno incoronato segretario.

«Penso alla mia piccolissima esperienza di studente della provincia di Firenze – racconta -. Quando entravo al bar la maestra elementare era vista da tutti come il riferimento del paese, perché era considerata un valore prezioso per la comunità. Oggi proviamo a domandarci se di fronte agli insegnanti dei nostri figli abbiamo lo stesso atteggiamento. Non è più così: l’insegnante viene contestato a prescindere».

Nella mozione prometteva una «campagna di ascolto mai lanciata da un partito a livello europeo» a partire da gennaio 2014 «casa per casa, comune per comune, scuola per scuola» per dare «risposte alle proposte degli insegnanti, non lasciandoli soli a subire le riforme». La realtà ha superato, come sempre, l’immaginazione. A gennaio la campagna di ascolto non è partita ma a febbraio Renzi non solo è segretario del Pd ma pure premier e da oggi darà il via ai mercoledì nelle scuole con i poteri di capo di governo. Prima tappa Treviso alla scuola media statale Coletti. Non a caso probabilmente la scelta è caduta su una scuola media che Renzi ha da tempo annunciato di voler rivoluzionare. Ma è anche una scuola multietnica, con un tasso di stranieri che in alcune classi arriva al 50-60%.

Parla di nuovo anche di edilizia scolastica Renzi, rispondendo alle critiche di chi giudica le sue promesse un libro dei sogni da 13 miliardi che nessuno sa dove trovare. «Il problema – spiega – non è solo di stabilità degli edifici, che c’è, ma non è credibile un Paese che non mette in cantiere una gigantesca» opera di messa in sicurezza delle scuole. Chiede, quindi, che «la stabilità degli edifici scolastici sia più importante di quella dei conti. Il problema della scuola non è ideologico». Per dare concretezza alle sue parole dà anche una scadenza precisa alle promesse: «Attenderemo le risposte degli amministratori locali ma dal 15 giugno al 15 settembre, quando riprenderanno le scuole vogliamo che sia visibile, plastica, evidente l’opera di investimento che è stata fatta».

La Stampa 26.02.14

"Italia, crescita troppo lenta. Ma per i conti c’è più respiro", di Marco Mongiello

Quest’anno l’eurozona crescerà un po’ più velocemente del previsto e l’Italia un po’ più lentamente. E alla fine a dare un po’ di respiro ai conti pubblici italiani non sarà la «clausola di flessibilità» delle regole di bilancio europee, ma la rinnovata fiducia dei mercati internazionali che ha fatto abbassare il co- sto degli interessi sul debito. È quanto emerge dalle nuove previsioni economiche, presentate ieri all’Europarlamento di Strasburgo dal commissario Ue per gli affari economici e monetari Olli Rehn.

La cifra più attesa era quella sul deficit, dopo che l’anno scorso l’Italia è riuscita per un pelo a non oltrepassare la fatidica soglia del 3%. Nel 2012 e nel 2013 la differenza tra entrate e uscite è rimasta inchiodata al 3% esatto, ma è stato sufficiente per convincere Bruxelles a farci uscire dalla procedura di in- frazione per deficit eccessivo.

La Commissione stima che quest’anno il rapporto deficit/Pil sarà del 2,6%, cioè un po’ più basso del 2,7% previsto a novembre, anche se più del 2,5% indicato dal precedente governo. «Le finanze pubbliche – si legge nelle pagine de- dicate al nostro Paese – hanno beneficiato della diminuzione dei rendimenti sui titoli di Stato portando ad una riduzione della spesa per interessi». Per ripagare gli investitori internazionali che finanziano il nostro debito pubblico nel 2012 spendevamo il 5,5% del Pil, nel 2013 il 5,3%.

UN PO’ DI FIATO

Nel 2014 quindi il nuovo governo può gestire i conti pubblici senza dover fare troppe acrobazie per restare sotto al tetto del 3% previsto dal Patto di stabilità. Proprio per avere un po’ di margine di manovra l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni a novembre aveva chiesto di poter utilizzare la cosiddetta «clausola di flessibilità» ma, avendo presentato in ritardo i documenti sulla spending review, Bruxelles aveva già fatto sapere la settimana scorsa che la richiesta italiana sarebbe stata respinta. Il deficit migliorerà ancora l’anno prossimo quando la Commissione prevede una riduzione fino al 2,2%, contro il 2,5% indicato a novembre.

Le buone notizie però finiscono qui. L’anno prossimo il saldo strutturale, cioè la differenza tra entrate e uscite al netto del ciclo economico e degli interessi sul debito, «è destinato a peggiorare a politiche invariate». Il commissario finlandese ha quindi ricordato che l’Italia «per essere in grado di ridurre l’elevato debito pubblico, come previsto dalle regole del Patto di stabilità e di crescita, dovrà fare aggiustamenti strutturali in qualche modo più elevati». Un richiamo, dunque, a mettere in campo riforme incisive.

IL PICCO DELLA DISOCCUPAZIONE

A preoccupare è soprattutto la lentezza della crescita italiana. Secondo le nuove stime quest’anno l’aumento del Pil sarà limitato allo 0,6%, contro lo 0,7% indicato a novembre. A spingere l’economia italiana sarà la domanda esterna del settore industriale che poi si ripercuoterà anche sui servizi, ma la cifra resta lontana dall’1,1% previsto da Saccomanni ed è ancora meno rassicurante se confrontata con l’accelerazione del resto della zona euro, dove le previsioni sono passate dall’1,1% di novembre all’1,2%. Germania e Francia, i due pesi massimi dell’eurozona, quest’anno cresceranno rispettivamente dell’1,8 e 1%.

L’anno prossimo comunque l’au- mento del Pil italiano dovrebbe accele- rare all’1,2% e Rehn si è detto fiducioso sul fatto che l’Italia riuscirà a far ripartire la crescita grazie al nuovo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, ex ca- po economista dell’Ocse. Lui, ha detto il commissario europeo, «è autore di numerosi rapporti sull’aumento della crescita economica e sulle riforme strutturali e sa cosa deve essere fatto per ravvivare la crescita. Ho fiducia sul fatto che attuerà in Italia quelle stesse indicazioni».

Secondo gli analisti della Commissione poi quest’anno l’Italia toccherà il picco sia per la disoccupazione, che aumenterà ancora al 12,6% per poi scendere di poco nel 2015 al 12,4%, sia per il debito pubblico che toccherà quota 133,7% per scendere al 132,4% l’anno prossimo.

Guardando all’intera eurozona il commissario europeo ha concluso che «il peggio della crisi ora potrebbe essere dietro di noi», ma ha avvertito: «questo non è un invito ad abbassare la guardia perché la ripresa è ancora modesta. Per rendere la ripresa più forte e creare più posti di lavoro abbiamo bisogno di mantenere la rotta delle riforme economiche».

L’Unità 26.02.14

"Scuola, due miliardi per ristrutturare le aule", di Corrado Zunino

Nel primo Consiglio dei ministri dell’era Renzi entrerà la scuola. Su indicazione del premier, in quella sede il ministro dell’Istruzione avvierà un vasto piano per l’edilizia scolastica. Non una novità in valore assoluto: una novità, tuttavia, per le cifre messe a servizio del grande cantiere e per il percorso ipotizzato per sbloccare subito i finanziamenti. L’investimento da due miliardi servirà a curare 2.300 scuole oggi fuori norma, pericolose, nella maggior parte dei casi senza certificazione anti- sismica. Secondo un “rapporto sicurezza” in mano al precedente governo sono 15 mila gli edifici pubblici per l’istruzione con “urgente necessità di rilevanti interventi”, quasi un terzo dell’intero patrimonio scolastico. Lo stesso dossier spiega che per 10 mila istituti è stata ipotizzata la demolizione.
L’arco di tempo previsto per la grande operazione è di due anni, fino alla primavera 2016. Renzi ha chiesto investimenti e progetti immediati per poter aprire cantieri già dal prossimo 15 giugno, a scuole appena chiuse, e riconsegnarne pronte alcune centinaia — meno compromesse — al rientro di studenti e insegnanti a metà settembre. Il piano prevede, non a caso, corsie privilegiate per l’approvazione dei progetti. «Deve essere subito evidente l’opera di intervento che abbiamo fatto, si deve vedere che lo Stato c’è», il presidente del Consiglio. Davide Faraone, il responsabile Pd della scuola, aggiunge: «Al Sud una scuola in ordine è anche un presidio contro le mafie».
Alla Camera, ieri, il premier aveva detto: «L’edilizia scolastica è innanzitutto un problema di stabilità della aule, ma un paese che non mette in cantiere una gigantesca battaglia affinché la stabilità delle aule e degli edifici scolastici sia più importante dei conti non è credibile». La questione scuola è strettamente collegata alla ripresa economica: «Una scuola, più di una prefettura e di una caserma, ha a che fare con gli italiani, tutti», ha spiegato Renzi ai suoi. Otto milioni di studenti creano un indotto di malcontento (le famiglie) larghissimo. Sempre il premier, che oggi parlerà del “grande cantiere” con il ministro Stefania Giannini nel loro viaggio a Treviso, ha fatto pervenire agli ottomila sindaci d’Italia la richiesta di una segnalazione puntuale dei problemi degli edifici sotto la loro potestà (altri sono di responsabilità provinciale). Ad oggi non esiste, nonostante 20 anni di rilevazioni e 12 milioni spesi, un’anagrafe dell’edilizia scolastica. L’ultima cifra attendibile per i costi di un risanamento globale, conteggiata dalla Protezione civile di Guido Bertolaso, è di 13 miliardi di euro.
L’ex ministro Maria Stella Gelmini parla di 1,620 miliardi finanziati tra il 2008 e il 2009 dal governo Berlusconi. Maria Chiara Carrozza aggiunge 450 milioni di investimento straordinario sotto il suo mandato, di cui 150 milioni già distribuiti dalle Regioni (che possono stipulare mutui trentennali agevolati). Il problema, però, è la distanza storica tra lo stanziamento deciso e i soldi davvero spesi. Sotto il governo Letta alla voce “edilizia
scolastica” sono rimasti bloccati 2,5 miliardi. La scommessa di Renzi è questa: finanziare e spendere. Sarà possibile farlo sottraendo gli investimenti sull’edilizia scolastica dal Patto di stabilità interno, su cui vigila l’Unione europea, e quindi dal deficit. «Il patto su questa parte va
cambiato subito», ancora Renzi, «come si può pensare che un comune e una provincia abbiano competenza sull’edilizia scolastica senza avere la possibilità di spendere soldi che sono bloccati? ».
Ogni anno nelle scuole italiane si contano decine di crolli e incidenti. Nel 2008, quando il controsoffitto del liceo Darwin di Rivoli (Torino) cedette, perse la vita uno studente di 17 anni. L’ultimo monitoraggio — anche questo parziale — è stato avviato dal ministero dell’Istruzione due anni fa. E ci rivela che 15 scuole su cento erano negozi, ex seminari, appartamenti e edifici industriali successivamente riadattati. Un edificio su tre è stato costruito prima del 1960. Per molti le certificazioni non sono rintracciabili. L’82 per cento dei plessi scolastici non ha la “prevenzione incendi” e metà non possiede neppure una scala esterna di sicurezza. Quasi quattro scuole su dieci non sono in possesso del certificato di conformità dell’impianto elettrico e 33 su cento neppure di un impianto idrico antincendio. Oltre metà dei plessi scolastici — 23 mila, quindi — ricadono in zone ad altissimo o ad alto rischio di terremoto, ma soltanto uno su sette è stato progettato rispettando le norme antisismiche.

La Repubblica 26.02.14