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"Quattro priorità per l'emergenza lavoro", di Francesca Barbieri e Valentina Mel

Sarà la sfida numero uno del nuovo Governo, in cima alla lista di priorità da affrontare in tempi rapidi. L’emergenza lavoro – come dimostrano i campanelli d’allarme suonati dall’Istat ogni mese – va affrontata con urgenza, per aggredire un tasso di disoccupazione vicino al 13%, che esplode al 41,6% tra i giovani.
Taglio del cuneo fiscale, completamento della riforma degli ammortizzatori sociali, semplificazione dei contratti, lotta alla disoccupazione giovanile. Sono i quattro dossier aperti sul tavolo del neoministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Sono le questioni più urgenti da risolvere per dare una scossa a un sistema produttivo ingessato e incapace di crescere e anche, in alcuni casi, per non perdere la possibilità di usare i fondi che arrivano dall’Europa.
La sfida principale – come ha già sottolineato il neo-ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – è ridurre il peso fiscale e contributivo sul costo del lavoro, che in Italia supera il 53%, secondo i calcoli dell’ufficio studi di Confindustria. L’ultimo richiamo è arrivato venerdì scorso proprio dall’Ocse, dove Padoan ha appena lasciato la carica di capo economista: nel suo rapporto «Obiettivo Crescita», l’organizzazione ha invitato il nostro Paese a intervenire per abbassare il cuneo fiscale e il costo minimo del lavoro, in particolare per i redditi bassi. L’Ocse invita l’Italia a riequilibrare le tutele, spostandole dalla protezione del posto di lavoro a quella del reddito del lavoratore.
Nelle intenzioni del Governo Renzi c’è quella di tagliare l’Irap del 10% e ridurre l’Irpef, probabilmente attraverso un aumento delle detrazioni sui redditi più bassi. L’obiettivo non è certo facile da raggiungere, visto che l’operazione richiede una buona dose di risorse, almeno sette-otto miliardi. Come trovare le coperture sarà la sfida dei prossimi mesi: l’idea di partenza è intensificare le sforbiciate sul lato della spesa, con una spending review sulle uscite correnti – escludendo le prestazioni sociali e assistenziali – e si potrebbe intervenire anche con una rimodulazione della tassazione sulle rendite finanziarie.
Il capitolo risorse sarà cruciale anche per dare attuazione all’annunciata riforma degli ammortizzatori sociali, che prevede l’introduzione di un sussidio universale esteso a tutti i senza lavoro, superando l’attuale cassa integrazione in deroga. Nell’immediato, però, bisognerà decidere su quale rotta procedere, proprio per definire i criteri di assegnazione della cassa in deroga: il decreto messo a punto dal precedente Governo – che ha introdotto regole più severe per accedere ai sussidi, è stato bocciato dalle parti sociali perché esclude alcune categorie, come gli apprendisti. Si dovrà anche far fronte alla richiesta che arriva dalle Regioni, che giudicano insufficiente lo stanziamento di 1,7 miliardi, alla luce anche della spesa del 2013, che si aggira sui 2,5 miliardi.
Un altro fronte aperto è quello della semplificazione dei contratti: sono almeno 27 le tipologie esistenti, tra rapporti subordinati, parasubordinati, di lavoro autonomo e speciali. In questo ambito le difficoltà che si presentano sulla strada del Governo sono di tipo politico, perché sarà un’impresa ardua mettere d’accordo le tante “anime” che sostengono l’Esecutivo. È tutto da capire, quindi, come sarà tradotto in pratica il nuovo contratto a tutele crescenti che punta a sterilizzare per i primi tre anni la tutela reale dell’articolo 18. Oppure come realizzare eventuali modifiche ai contratti a termine (tra le ipotesi c’è quella di allargare gli spazi dell’acausalità).
Infine, c’è un’opportunità da non sprecare: l’attuazione della Garanzia giovani, il programma europeo che porta in dote 1,5 miliardi da spendere quest’anno e il prossimo.
In tutte le Regioni il primo step dovrà essere la registrazione del giovane presso un servizio per l’impiego o al portale «Cliclavoro». Ogni Regione dovrà però siglare un protocollo con il ministero del Lavoro. Operazione che va fatta in tempi brevi per poter partire con l’attuazione del programma entro la fine di marzo e mettere a frutto le risorse europee, realizzando politiche attive davvero efficaci.

Il Sole 24 Ore 24.02.14

"Le identità rubate alle ragazze sulla Rete", di Erika Dellacasa

Sono soprattutto giovanissimi, per lo più ragazze. Ma ci sono anche una studentessa universitaria e una commercialista. E poi un dentista. Tutti vittime della stessa trappola: il «furto d’identità» su internet, la creazione di un falso profilo Facebook o altre perfide «costruzioni» virtuali in rete che provocano danni concretissimi. Almeno quaranta denunce negli ultimi mesi sono arrivate alla polizia postale di Genova e la stessa Procura ha alzato il livello d’attenzione su quella che chiama una «reiterazione del fenomeno», tanto che il procuratore aggiunto Franco Cozzi ha aperto diversi fascicoli con ipotesi di reato rafforzate: dalle molestie allo stalking. E poi diffamazione, propagazione di notizie false e lesive della persona e l’elenco potrebbe non fermarsi qui.
Lo stalking, ad esempio, si può applicare al caso della giovanissima che ha visto il suo cellulare postato da un ex fidanzato su siti erotici con il risultato che la studentessa veniva chiamata ad ogni ora da persone non esattamente educate. Lo stalking è avvenuto, per così dire, per interposta persona: non è stato l’ex in vena di vendette a perseguitare la ragazza ma ha fatto in modo che altri lo facessero. Tanto pesantemente da poter ipotizzare il più grave reato di stalking che, come spiega il magistrato, richiede che la vittima tema per la propria incolumità o per quella dei famigliari ma anche viva in uno stato di ansia o ancora sia costretta a cambiare le sue abitudini di vita.
Creare poi un falso profilo Facebook, quasi sempre diffamatorio (ma c’è anche il caso più tortuoso in cui, per danneggiare la vittima, nel falso profilo si inseriscono frasi offensive nei confronti di amici), aggrava la situazione. È toccato a un’altra ragazza trovare in rete il proprio falso profilo in cui si descriveva al minimo come molto disinibita. «Abbiamo già visto — dice un investigatore — casi in cui un ex ha preso il volto della ragazza dalle foto del vero profilo Facebook e poi con programmi ormai alla portata di tutti lo ha sostituito all’originale in filmati e fotografie porno poi messi in rete. Per la vittima è uno choc fortissimo».
L’adulto oggetto di questa persecuzione ha maggiori risorse per difendersi ma sono soprattutto i giovanissimi a restare vittima di quello che i colpevoli — una volta scoperti — cercano di descrivere come «solo uno scherzo». Ne sa qualcosa Roberto Surlinelli direttore del settore tecnico della polizia Postale che per la Liguria segue il progetto «Vita da social» (si può contattare su Facebook), indirizzato proprio ai ragazzi a partire dalla prima media inferiore anche se, dice, «abbiamo deciso di cominciare a fare incontri anche con le quarte e le quinte elementari». Lo scorso anno sono stati contattati 8.500 ragazzi in Liguria, giovanissimi ma già esposti ai rischi del web. «Alcuni ci hanno raccontato — dice Surlinelli — che le loro chat sono state copiate e messe in rete, in modo che quella che credevano una conversazione a due è diventata pubblica nella loro cerchia di amici».
Ed è in crescita il fenomeno delle ragazzine che postano al fidanzatino, anche con cellulare, le proprie foto magari ingenuamente sexy con la richiesta di cancellarle: quando la simpatia finisce, finiscono nel gran calderone della rete per vendetta, per rancore, per quello «scherzo» che può avere conseguenze drammatiche. I cyberstalker sono giovanissimi o adulti. Così come è in crescita in cyberbullismo: le denunce a livello nazionale sono quintuplicate in un anno. «Denunciate — è l’invito della Postale alle vittime — ma fatelo subito. Troppi vengono da noi solo quando sono ormai stremati da mesi di molestie, quando si rendono conto che da soli non possono far fronte al furto di identità e alle diffamazioni che in rete si diffondo a macchia d’olio».

Il Corriere della Sera 24.02.14

“Sul lavoro una donna vale la metà di un uomo”, di Chiara Saraceno

La capacità di una società di produrre i beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni dipende dalla quantità, qualità e combinazione delle risorse a propria disposizione. Per questo il capitale umano viene sempre più frequentemente incluso tra le risorse economiche. Il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Tradotto in cifre: un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia cioè ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo… E poi: il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Non importa quanta esperienza o saggezza abbia egli accumulato nella vita già vissuta, il suo futuro è dietro le spalle e quindi parlando di contributo al Pil del paese, è redditizio poco o nulla. Sono i dati, sorprendenti e amari, diffusi ieri dall’Istat che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui, arrivando a definire il nostro valore medio intorno ai 342mila euro. Mescolando una serie di parametri che sulla base del genere, dell’età, della preparazione scolastica e delle potenzialità professionali, indica il nostro capitale umano, che non è in questo caso una categoria
morale, bensì un puro modello matematico.
Alessandra Righi ricercatrice Istat, ha curato il volume “Il valore monetario dello stock di capitale umano”, promosso dall’Ocse. E spiega: «Sulla base di questi indicatori possiamo monetizzare le potenzialità di un individuo e quindi il suo impatto sul Pil. L’anomalia dell’Italia, che si colloca comunque in basso nella classifica mondiale, è la conferma della distanza profonda tra donne e uomini. Nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Soltanto il 50% delle donne italiane infatti lavora, e quando anche ha un’occupazione, prosegue Righi, «il suo stipendio è inferiore a quello maschile».
Dunque nel computo del capitale umano il suo “peso” sarà di 231mila euro contro i 453mila del partner. Se invece a questo si sommasse il lavoro invisibile e cioè quello di cura, la famiglia, i figli, la casa, ecco che ai 231mila euro si dovrebbero aggiungere altri ben 431mila euro di attività domestiche. Il famoso e mai riconosciuto né monetizzato welfare familiare. «Sono dati che mi indignano ma da studiosa non mi stupiscono», dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’università di Torino. «Nel conteggio del capitale umano l’occupazione femminile viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi… Le donne subiscono poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoescludono dal mercato. E tutto questo viene naturalmente calcolato nella potenzialità o meno di produrre reddito».
Per arrivare a quantificare in euro il capitale umano, l’Istat si è basato sulla capacità degli individui di generare reddito nell’arco della vita e il valore complessivo che ne viene fuori, riferito al 2008 (non esistono altri aggiornamenti), è di 13.475 miliardi di euro, pari a oltre otto volte e mezzo il Pil dello stesso anno. Una cifra che porta a 340 mila euro a testa il “prezzo” di un italiano medio. Interessante osservare come un giovane tra i 15 e i 34 anni, valga 556mila euro, visto il tempo e le energie che potrà mettere nel fabbricare ricchezza, contro i 139mila euro di una donna over sessanta. La quale comunque in questa età della vita produce assai più di un suo coetaneo maschio, che per le statistiche vale non più di 46mila euro. Tutto abbastanza gelido e terribile se ci si ferma riflettere. E infatti l’economista Del Boca invita a fare delle distinzioni. «Un conto è applicare modelli, e ipotizzare cifre. Altro è intendere il capitale umano come l’insieme anche non monetizzabile di ciò che si è, e di ciò che si è fatto nella vita». Perché infatti questa è un’altra storia.

La Repubblica 24.02.14

"Banda larga, ricerca e innovazione: Italia tra gli ultimi", di Carlo Buttaroni

La crescita del Pil nell’ultimo trimestre del 2013 è una buona notizia. Ma non basta. Non è ancora l’annuncio di una nuova stagione e per diventare almeno un indizio, se non proprio una prova, ha bisogno di ulteriori conferme. Per capirne di più,dovremo vedere se il trimestre incorso registrerà un segno positivo più consistente del precedente. In questo caso,vuol dire che l’economia reale ha ripreso, seppur lentamente, a muoversi. Per adesso,il miglioramento dipende in grande parTe dalle esportazioni,cioè dagli altri Paesi che hanno ricominciato a tirare, mentre sul fronte interno i segnali sono ancora troppo deboli per essere considerati l’inizio della primavera. La debolezza della domanda aggregata riguarda soprattutto i consumi delle famiglie e senza una ripresa dei consumi,con un tasso di disoccupazione in crescita, l’inverno potrebbe essere ancora lungo. Senza contare che una ripresa così lenta significa un Percorso per l’Italia di almeno dieci anni per tornare ai livelli pre-crisi. Per risalire servirà, cioè, il doppio del tempo impiegato per scendere. E nell’economia globale di oggi la velocità non è una variabile trascurabile. Crescere lentamente significa accumulare ritardi nei confronti dei Paesi più dinamici. Non bisogna scomodare la relatività per capire che se il mondo viaggia a 100 e l’Italia a 1, la distanza crescente farà sembrare del tutto fermo il nostro Paese. La posizione competitiva dell’Italia dipende dalla velocità con cui uscirà dalla crisi e recupererà il terreno perduto. Per adesso la lettura dei parametri economici ci vede penalizzati. Le stime per i prossimi anni indicano che la velocità della ripresa in Italia sarà più lenta della media europea. E a preoccupare, oltre agli indicatori economici,ci sono anche elementi strutturali, che descrivono il ritardo accumulato e che è necessario colmare per tornare competitivi.

LA DISTANZA Per misurare la distanza che ci separa dagli altri Paesi europei, abbiamo utilizzato 12 «assi indicatori»: la diffusione della banda larga, il numero di imprese che innovano,la spesa(pubblica e privata)in ricerca e innovazione, la spesa pubblica in istruzione, il numero di laureati (nella fascia tra i 30 e i 35 anni), la popolazione attiva,la quota di disoccupazione di lunga durata e di disoccupazione giovanile, la dinamica de lPil e la quota di Pil pro-capite,le disuguaglianze e l’andamento dei consumi delle famiglie. Un set non esaustivo ma sufficiente a descrivere la fragilità del nostro sistema economico e sociale. Oggi,se l’Italia si trovasse su una pista con tutti gli altri partner europei, il ritardo alla partenza del nostro Paese sarebbe schiacciante in molti campi. Per rendersene conto basta scorrere le classifiche che abbiamo elaborato sulla base dei dati più recenti Istat e Ocse. Per renderne omogenea la lettura, ciascun asse è disposto sulla medesima scala da 100 (il migliore) a 1 (il peggiore). Se analizziamo la diffusione della banda larga, la Sveziaèal1° posto(100punti)mentre l’Italiaèal24° posto (14 punti), a 86 punti di distanza dalla prima e assai più vicina all’ultima (Romania). Va meglio per quanto riguarda le imprese innovatrici: Italia in 12esima posizione staccata di 33 punti dalla Germania. Scendiamo al 17° posto, invece, per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo, dove la migliore è la Finlandia. Scivoliamo verso il fondo della classifica nella spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, dove in testa c’èlaDanimarcacon86punti di vantaggio. E non è un caso, bensì una conseguenza, se siamo ultimi in Europa per quanto riguarda il numero di laureati nella fascia d’età tra i 30 e i 35 anni. Saliamo di poco e diventiamo penultimi nella quota di popolazione attiva (di cui fanno parte le persone che lavorano, più quelle in cerca di occupazione). In testa ci sono Svezia, Paesi Bassi, Danimarca e Germania. In fondo, oltre l’Italia, c’è la Romania, che ci precede di poco, e Malta che chiude la classifica. Va male anche per quanto riguarda due indicatori economici come la disoccupazione di lunga durata e quella giovanile. La disoccupazione di lunga durata è un parametro fondamentale per valutare lo stato di salute di un’economia. Innanzitutto,una prolungata assenza dal mondo del lavoro danneggia irrimediabilmente il capitale umano perché deteriora competenze e talenti e tende a diventare strutturale, cioè non più recuperabile alle attività produttive. Un tasso elevato di disoccupazione strutturale può compromettere per lunghissimo tempo le ambizioni di un’economia. Per quanto riguarda la minor presenza di disoccupazione di lunga durata l’Italia è al 22° posto, assai lontana dalla Svezia che è in testa alla classifica. Scendiamo di ulteriori due posizioni nell’indicatore che riguarda la minor presenza di disoccupazione giovanile. In questo campo prevale su tutti la Germania mentre l’Italia, tra i 27 Paesi europei, è al 24° posto. L’indicatore della dinamica del Pil riflette la lentezza della nostra crescita. Negli ultimi 12 anni siamo il Paese europeo che è cresciuto meno. In testa alla classifica risultano le economie dell’Est,con tassi decisamente superiori non solo a quelli dell’Italia ma anche a quelli della Germania, della Francia e del Regno Unito, che comunque ci precedono nella classifica del Pil pro-capite, dove l’Italia si posiziona al 12° posto, sotto tutte le altre economie avanzate. Nella classifica che tiene in considerazione la minor presenza di disuguaglianze economiche, l’Italia è al 18° posto e si colloca nella parte bassa per quanto riguarda il punteggio specifico. Ciò significa che gli italiani, non solo sono diventati più poveri, ma che la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi aumentando il divariotra i pochi che stanno bene e i molti che stanno male. La crescita delle disuguaglianze, la contrazione del Pil, l’aumento del tasso di disoccupazione (di lunga durata e giovanile),insieme al deterioramento dei redditi e del potere d’acquisto,si riflette inevitabilmente nella diminuzione dei consumi delle famiglie. Qui l’Italia è al 24° posto. Conseguenza anche del fatto che,mentre in tutte le altre economie avanzate il Pil è sceso ma i redditi delle famiglie sono cresciuti, in Italia è successo che i redditi sono diminuiti di pari passo all’andamento del prodotto interno lordo. Col risultato che la crisi si è avvitata su stessa e l’Italia è l’unico Paese, tra le grandi economie, ad aver chiuso il 2013 in recessione.

L’Unità 24.02.14

"Più studenti meno prof. Crescono le classi", di Nicola Luci pollaio

L’anno scolastico è ancora lontano ma i sindacati già lanciano l’allarme sulle le classi. Il fatto è che a settembre le scuole italiane si troveranno con 34mila studenti in più che si siederanno sui banchi scolastici. Non che questo sia un fatto negativo in assoluto. Per anni si è parlato di una diminuzione degli studenti legato alla decrescita della natalità. Questa tendenza non c’è più, anche grazie alla presenza degli immigrati. Semmai, da anni, esiste il problema contrario: che a una crescita seppure modesta degli alunni non corrisponde una crescita similare del corpo degli insegnanti. Cosi’ soprattutto in qualche grande città del Nord si rischiano «classi-pollaio» con oltre trenta alunni. L’Anief, associazione sindacale del settore scuola ha messo in evidenza come «tra il 2007 e il 2012 l’amministrazione abbia soppresso oltre 100mila cattedre». Nel dettaglio per il prossimo anno scolastico sono previsti 33.997 allievi in più: l’incremento più consistente sarà nelle classi superiori con +25.546 allievi (+ 1,03%); in aumento anche gli scolari della primaria (+9.216, +0,36%). Previsto invece un lieve decremento nella scuola media: ci saranno 785 alunni in meno (-0,05% rispetto all’anno scolastico in corso). «Ma anziché adeguare l’organico dei docenti a questo importante boom di allievi, il ministero dell’Istruzione denuncia l’Anief ha comunicato ai sindacati che non ci saranno variazioni del corpo docente. A ben vedere, però, la forbice prof-alunni si sta sempre più allargando. Scorrendo gli ultimi dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato si scopre che tra il 2007 e il 2012 il personale della scuola ha perso oltre 124 mila posti». L’incremento degli alunni per l’anno scolastico 2014-2015 e’ stato comunicato in un incontro tecnico tra ministero e sindacati. «L’incremento riguarda soprattutto alcune regioni del nord riferisce Massimo Di Menna della Uil scuola e il rischio è che soprattutto nelle grandi città avremo classi particolarmente numerose, con oltre trenta alunni». Ora e’ atteso un atto amministrativo, un decreto interministeriale (Istruzione-Economia) per la determinazione degli organici. «Sarebbe più opportuno prima provvedere alla formazione delle classi e poi verificare i posti da assegnare», dice ancora il sindacalista della Uil. Tra i problemi spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir c’è anche «la legge del 2011 con la quale il legislatore ha fatto cadere l’autonomia delle scuole d’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, accorpandole in mega-istituti senza capo né coda, rette da dirigenze in perenne affanno. Non è un caso che il nostro sindacato abbia deciso di contrastare questa impostazione, patrocinando gratuitamente i ricorsi ai Tar contro il dimensionamento selvaggio. Un’opera che abbinata al blocco degli organici, anche a fronte di un incremento sostanzioso di alunni, come avverrà nel prossimo anno, sta producendo timori sempre maggiori, purtroppo fondati, sulla funzionalità del servizio scolastico». Tra l’altro, spiegano i sindacati, gli insegnanti italiani non solo devono confrontarsi anche con classi di trenta alunni, ma lo fanno con una paga mensile tra le più basse in Europa (una media di 1.200-1.300 euro al mese, uno stipendio che si colloca al penultimo posto in Europa). Ieri il neo ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha auspicato che si possa superare per gli stipendi degli insegnanti il meccanismo degli scatti automatici. Ora, rintuzzano ancora i sindacati, parlare di blocco degli automatismi significa «non tenere conto della realtà», del fatto che l’anzianità è l’unico modo per difendere il potere d’acquisto dei salari e che per premiare davvero il merito occorrono risorse. «Queste idee meritocratiche, queste vecchie impostazioni di stampo gelminiano non tengono conto della realtà, ovvero che il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2006 e che gli stipendi degli insegnati italiani sono tra i più bassi d’Europa», commenta il segretario generale della Flc Cgil Domenico Pantaleo. Il sindacalista evidenzia poi che «in tutta Europa l’anzianità contribuisce alla valorizzazione della professionalità. Quindi c’è tutta la nostra disponibilità a discutere ma si deve aprire un tavolo perché in questi anni con il blocco dei contratti i salari nella scuola, e in tutto il settore della conoscenza, hanno subito un vero e proprio attacco». «Non bisogna considerare l’anzianità in maniera dispregiativa, negativa, perché in tutta Europa è considerata un elemento della carriera», dice Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola. ​

L’Unità 24.02.14

"La burocrazia. Un decreto “ licenzierà” i consiglieri di Stato", di Valentina Conte

Il governo Renzi è pronto a schierare la sua potenza di fuoco e di novità contro la burocrazia che incista i gangli dello Stato. Prendendo di mira per primi quanti saranno chiamati, nelle prossime ore, a insediarsi nei nuovi “uffici di diretta collaborazione” dei ministri, ritenuti dall’ex sindaco di Firenze parte del problema: lentezze, imbuti, tappi. Parliamo di capi di dipartimento, capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi, in primis. Snodi reali del potere romano e altissime competenze, in grado di condizionare l’iter di formazione delle leggi, stravolgerne il dettato, allungandone non di rado l’applicazione con decreti attuativi diventati ormai il vero termometro delle riforme (anche perché spesso scritte male).
A tutto questo, alle eminenze grigie, ai mandarini e agli altissimi burocrati, Renzi è pronto a mettere un freno. Così, prima ancora di delineare la già annunciata riforma della Pubblica amministrazione per il mese di aprile — dunque la mobilità dei dirigenti e il loro incarico a tempo — è deciso a dare un segnale sin da subito, in uno dei primissimi Consigli dei ministri. Con un decreto legge, vorrebbe lui. Con una direttiva formale o una forte “indicazione”, gli suggeriscono più prudentemente i suoi, per tenere fuori dall’imminente spoil system, il valzer delle poltrone ministeriali che contano, i Consiglieri di stato e i magistrati del Tar. Così da rompere un corto circuito dannoso per l’Italia e per l’azione del governo.
Il terreno è scivoloso, i meccanismi delicati. Ma se il buon giorno si vede dal mattino, l’intenzione di Renzi è ben confermata dalla prima nomina fatta da Graziano Delrio, neo sottosegretario alspicco
la Presidenza del Consiglio, di Mauro Bonaretti, già suo capo di gabinetto al ministero degli Affari regionali e prima ancora city manager a Reggio Emilia. Sarà segretario
generale di Palazzo Chigi, al posto di Roberto Garofoli, ex capo di gabinetto di Filippo Patroni Griffi alla Funzione Pubblica. Entrambi, Garofoli e Patroni Griffi, consiglieri di Stato. Nel governo Letta 20-25 posizioni di
erano ricoperte proprio dai giudici amministrativi, che ora Renzi vorrebbe rottamare.
A parte Giustizia, Difesa, Esteri, Interno dove i rispettivi capi di gabinetto sono per prassi un giudice ordinario, un militare, un ambasciatore e un prefetto, gli altri i ruoli sono “aperti”. E spesso affidati a consiglieri e avvocati di Stato. Tra i consiglieri, c’erano Rosanna De Nictolis (Ambiente), Marco Lipari (Beni culturali), Goffredo Zaccardi (Sviluppo Economico). Oltre a Patroni Griffi (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Carlo Deodato (capo dell’ufficio legislativo). Sempre consigliere di Stato, anche Alfredo Storto (capo del legislativo alla Funzione pubblica). Come pure, in altra casella — quella di viceministro allo Sviluppo Economico — Antonio Catricalà, già segretario generale e sottosegretario a Palazzo Chigi, nonché presidente Antitrust.
Ruolo, quello di viceministro, che molti (a destra) vorrebbero riconfermare ora con la Guidi. A rischio potenziale anche Francesco Tomasone, potente capo di gabinetto con moltissimi ministri del Lavoro, sin da Giugni (capo del legislativo con Treu), confermato da Giovannini, e da molti ritenuto corresponsabile del pasticcio esodati. Anche lui consigliere di Stato. Senza contare Mario Alberto di Nezza, capo gabinetto alla Sanità (con un passaggio precedente all’Economia), però magistrato Tar. Mentre Giacomo Aiello, stesso ruolo alle Infrastutture, è avvocato dello Stato.
E questo solo per parlare delle funzioni apicali. Tutti magistrati, in molti casi affezionati alle porte girevoli che ora Renzi vuole chiudere. La partita chiave si giocherà però da un’altra parte, in via Venti Settembre, al ministero dell’Economia. Lì non ci sono magi-strati, ma la macchina è ingolfata. E comunque avvezza a seguire una propria linea politica, a prescindere dal governo. Dopo l’era del potentissimo Vincenzo Fortunato, per decenni capo di gabinetto, l’attuale Daniele Cabras (funzionario parlamentare) è dato in uscita. Alla Ragioneria, Daniele Franco (ex Bankitalia), è ancora vissuto come corpo estraneo. La difficile alchimia spetterà ora a Pier Carlo Padoan. Mentre il premier Renzi dopo aver rottamato, dovrà anche rimpiazzare. E questa è tutta un’altra storia.

La Repubblica 24.02.14

"Formazione e lavoro. L'Italia resta indietro", di Luigi Venturelli

Nello scorrere il lungo elenco di emergenze che raccontano la crisi del sistema produttivo italiano, il nuovo ministro del Lavoro avrà forse la tentazione di mettersi le mani nei capelli. Da dove cominciare? Tra le centinaia di vertenze aziendali e le altrettanti ricerche macroeconomiche che giacciono sul suo tavolo, il neoincaricato Giuliano Poletti troverà anche il XIV Rapporto sulla formazione continua realizzato dall’Isfol per conto del dicastero che presiede. E che finora, complice il delicato passaggio di governo, non ha ricevuto l’attenzione che merita. Perché descrive un’Italia agli ultimi posti in Europa per capacità di formare i propri lavoratori, di innovare i processi di produzione e di aggiornare le competenze professionali. Dunque, in ultima analisi, un’Italia che trascura uno degli strumenti chiave per superare la recessione.

I DATI DEL RAPPORTO Tra la popolazione adulta di età compresa tra i 25 e i 64 anni, infatti, solo il 6,6% ha partecipato nel corso del 2012 ad iniziative di formazione o istruzione. Un dato che, se rappresenta comunque un passo avanti rispetto al 5,7% dell’anno precedente, resta nettamente al di sotto della media europea, pari al 9%, e di gran parte dei Paesi più industrializzati. Basti citare il 7,9% della Germania, il 10,7% della Spagna, il 15,8% del Regno Unito e il 16, 5% dell’Olanda. Senza dimenticare gli inarrivabili Paesi scandinavi, con la Svezia al 26,7% e la Danimarca al 31,6%. Così, purtroppo, non è in Italia, dove ogni anno mancano all’appello circa 100mila occasioni di lavoro per mancanza di persone qualificate. Sfogliando i dati della ricerca, non mancano certo le contraddizioni. La partecipazione alla formazione appare più accentuata per le femmine (al 7%, contro una media Ue del 9,7%) rispetto ai maschi (al 6,1%, contro una media Ue dell’8,4%), nonostante le donne continuino a riscontrare molte più difficoltà degli uomini nell’accedere al mercato del lavoro. E un discorso simile vale per i giovani tra i 25 e i 34 anni, che vantano una quota pari al 13,6%, e che restano ai margini pur essendo i più istruiti e formati. Non stupisce che le persone con un maggior grado di istruzione abbiano più facile accesso ad iniziative di formazione: tra tutti i laureati la probabilità di essere coinvolti in percorsi di formazione è di 1 su 6, tra chi ha un titolo di scuola media si parla di ben 15 milioni di adulti solo di 1 su 61. Un distacco nei processi formativi che rischia di approfondire le distanze di natura sociale ed economica fra i diversi segmenti della popolazione, visto la forte presenza in Italia di persone con bassi livelli di istruzione.

LA SCURE SUI FONDI Eppure, in un momento cruciale come questo, quando molte imprese sono in bilico tra soccombere alla crisi o rischiare in innovazione per restare in attività, anche l’anno scorso i fondi per la formazione sono stati bruscamente tagliati. Con una procedura non del tutto ortodossa, a primavera il governo Letta ha tolto 328 milioni di euro ai fondi interprofessionali per finanziare la cassa integrazione in deroga. Esigenza innegabile, ma resta da registrare il fatto che si è scelto di andare a pescare le risorse tra quelle versate all’Inps da aziende e lavoratori per la formazione. Mediamente, la spesa complessiva annuale ammonta circa a un miliardo di euro, ma è suddivisa in tante filiere e gestita da tanti soggetti diversi tra fondi europei, fondi interprofessionali, enti locali e privati che non sono rari gli scandali e gli sprechi di risorse. Quando fatta seriamente, però, la formazione funziona. Lo dimostra l’esperienza di Fondimpresa, il fondo interprofessionale promosso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, che conta 166mila aziende aderenti con più di 4,5 milioni di lavoratori occupati, e che dal 2007 al 2013 ha finanziato corsi di formazione per 1,7 miliardi di euro ed oltre 2,8 milioni di persone, di cui oltre 100mila cassintegrati. Il 2013 è stato l’anno dei progetti di riconversione industriale: un’azienda di Napoli che faceva componenti per aerei per Alenia ha deciso di alzare il tiro ed ora produce piccoli veivoli in proprio, una piccola fabbrica calabrese è passata dalle forniture per l’edilizia ai materiali rotabili, gli ex addetti della Sangiorgio hanno virato dagli elettrodomestici alle bobine elettromagnetiche, ma c’è anche stato chi ha fatto un passo ancora più lungo, dai sigari ai carrelli portavivande per aerei. Tutti progetti sostenuti e resi possibili da iniziative di formazione continua del personale. Da ricordare anche il bando riservato ai lavoratori in mobilità: il 55% di chi vi ha partecipato (circa 8mila persone) è riuscito a trovare un’altra occupazione. Eppure la formazione continua a rivestire in Italia una funzione ancillare: secondo i dati Isfol, solo il 5,3% delle imprese con più di 10 addetti sono molto impegnate sia sul piano dell’innovazione e della formazione, e nel 2012 solo il 28,1% ha svolto attività di formazione, contro il 34,5% dell’anno precedente. «Si tratta di un circolo vizioso» commenta Fabrizio Dacrema, responsabile formazione della Cgil, «causato da un sistema produttivo poco competitivo che non investe in innovazione». Non a caso, il 39% delle imprese che hanno fatto formazione ha fatto anche innovazione di prodotto. Per rompere questo circolo, ci vorrà «l’azione congiunta di politiche industriali tese ad innovazione e investimenti in conoscenza, e la definizione di un sistema nazionale di certificazione delle competenze, che le riconosca e le valorizzi, accompagnato da un sistema organico di reti territoriali dell’offerta formativa che ponga fine alla frammentazione e agli sprechi».

L’Unità 24.02.14