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"Kiev e le scelte dell’Europa", di Gianni Riotta

Nel romanzo «La Guardia Bianca», lo scrittore russo Michail Bulgakov ritrae la tragedia della famiglia Turbin a Kiev nel 1918-19, durante la guerra tra l’armata dei conservatori Bianchi, i Rossi bolscevichi, le effimere milizie del nazionalista ucraino Petlyura. I personaggi usano le due lingue come maschere politiche, proclamandosi fedeli a Mosca o Kiev nei giorni alterni dell’assedio.

Oggi l’Ucraina conosce la seconda rivoluzione dopo il 2004 Arancione, ma, malgrado la fuga del presidente Yanukovich, irriso sul web per il grottesco palazzo con i water decorati da mosaici finto bizantini e il ritorno dell’ex eroina Tymoshenko, il quadro è fermo a Bulgakov: da che parte va Kiev, a Ovest con Bruxelles, o a Est, con Mosca? La mappa delle ultime elezioni è nitida, l’Occidente vota unito l’opposizione democratica, Est e Sud, dove si parla russo, stanno con Putin, spaccati a metà.

Le speranze del 2004 Arancione sono perdute, la Tymoshenko discreditata, nessuno nella piazza che ha rovesciato il regime filorusso dell’ex teppista Yanukovich è leader maturo, non l’ex ministro dell’Economia Yatsenyuk, non l’ex pugile Klitschko. La propaganda di Mosca (e i suoi galoppini in Italia) seminano scandalo per i neofascisti nazionalisti di «Settore Destra», ma la debolezza dell’opposizione non bilancia le colpe del regime, lo sfascio economico, la repressione dei dimostranti anche quando la piazza era ancora non violenta. Anche il falco putiniano Alexei Pushkov, presidente della Commissione Esteri del Parlamento russo, ammette «Yanukovich ha fatto una triste fine».

E ora? Non ci sono «buoni» e «cattivi», in Ucraina tra cui scegliere, ma ricordate che Vladimir Putin non smetterà di interferire: se Kiev entra nell’area di influenza europea, o addirittura della Nato, il sogno neoimperiale di Mosca fallisce. Quando ha fatto strappare a Yanukovich, con la promessa di 15 miliardi di euro e un oceano di gas, l’accordo con i troppo cauti diplomatici europei, Putin voleva per sempre legare Kiev a Mosca, emulo della cacciata della Guardia Bianca 1919. Il Cremlino ambisce alla Crimea, che, si dice, Kruscev abbia assegnato agli ucraini durante una sbronza.

L’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale americano Brzezinski e l’ex presidente europeo Prodi hanno, in questi giorni, proposto che, per evitare la guerra civile tra filorussi e filo-Ue che il Cremlino non esiterebbe a scatenare come in Georgia, il paese resti libero ma neutrale, modello Finlandia. Putin si impegna a non mestare negli affari interni, Europa e Stati Uniti sostengono l’economia che è allo sfascio, ma senza alleanze militari. Gli stessi oligarchi ucraini, al sicuro nel lusso di Londra, sembrano comprenderlo, se Rinat Akhmetov, considerato dal Financial Times «l’uomo più ricco in Ucraina» e ex alleato di Yanukovich, dichiara «Voglio un’Ucraina forte, indipendente ed unita e sottolineo unita».

La strada della ragionevolezza ha un solo contro: Putin. Per risolvere la crisi occorre che il duro del Cremlino accetti che, come la sua adorata squadra di hockey non è riuscita ad assicurarsi la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, così anche per lui, dopo i successi di Siria e Iran davanti alle incertezze croniche del presidente Obama, sia venuto il giorno della sconfitta. I dimostranti di Piazza Indipendenza sono riusciti dove ormai nessuno sembrava più riuscire, umiliare Vladimir Putin. Perché il piano per un’Ucraina neutrale passi, occorre che Putin lo accetti, riconoscendo di aver perduto. Nella sua storia non ci sono precedenti di questa saggezza, quando le prende, Zar Putin aspetta, si lecca le ferite e riparte.

Una Seconda Guerra Fredda non è nell’interesse di nessuno, mentre la Cina mobilita la flotta nell’Oceano Pacifico, ma non possiamo farci illusioni. L’Ucraina è divisa, fragile e povera, per sottrarla al Cremlino Usa e Ue devono investire in aiuti finanziari veri, mobilitando una diplomazia meno di porcellana di quella che l’ex Kgb Putin ha fugato con rubli e minacce. Se la Russia scegliesse di vendicare lo smacco, Washington, Bruxelles e Berlino devono avere un Piano B, contrastare l’offensiva russa con caparbietà. La cosmopolita città di Leopoli, (Lviv), teatro negli Anni Trenta di una grande scuola filosofica, ha fatto parte in un secolo di quattro nazioni, impero Austro Ungarico, Polonia, Urss e Ucraina: i suoi studenti sono pronti alla secessione, non intendono vivere sotto il tallone russo. Il Cremlino deve sapere che Usa ed Europa sono pronti al negoziato, ma senza tradire i ragazzi europei di Lviv.

Così è bene che agisca anche l’Italia. Il neo ministro degli Esteri Federica Mogherini ha lanciato su twitter un post che il premier Matteo Renzi ha condiviso: «Con il pensiero, e il cuore, a #Kiev. Che tu sia poliziotto o manifestante, non si può morire così, in #Europa». Giusti sentimenti, a patto di ricordare che non siamo nella poesia di Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia, tra poliziotti e studenti nella democratica Italia 1968. I dimostranti andati pacificamente in piazza, i primi a morire, e le squadracce del regime oggi in fuga vergognosa dopo le violenze, non sono uguali, né politicamente, né eticamente. Il governo proponga in Europa, alla vigilia del semestre italiano, per l’Ucraina un ragionevole compromesso senza gradassate con la Russia, ma con un nitido segnale a Putin: l’Ue non tollererà nuove aggressioni a Kiev. Il 2014 non è il 1918 di Bulgakov.

La Stampa 24.02.14

Ma perché il merito vale solo per le donne?" di Fiorenza Sarzanini

Otto donne su sedici ministri, la metà esatta. Nasce così il governo guidato da Matteo Renzi. Ed è la prima volta che accade. Ma le consuetudini sono evidentemente difficili da superare e quando si arriva ad esaminare la componente femminile il livello di critica inevitabilmente si alza. I giudizi si fanno taglienti, addirittura sprezzanti. Soprattutto ci si sofferma sulla mancanza di esperienza di alcune, sull’incapacità (presunta) delle altre. Con la convinzione, neanche troppo velata, che siano state scelte per una questione di immagine, per ottenere un risultato politicamente corretto.

L’Italia sta attraversando un momento difficile a causa della crisi economica, la questione dei marò ci ha esposti anche dal punto di vista internazionale. Nessuno è disponibile a concedere cambiali in bianco, tanto meno ad un governo nato con una «manovra di palazzo». Ma non si capisce perché,aprioristicamente, l’eventuale fallimento dovrebbe essere determinato — come già qualche analista prevede — dal fatto che «le ministre» non hanno (o non avrebbero?) le competenze giuste.

Perché questo criterio non viene applicato anche per giudicare i loro colleghi? Come mai questa necessità di meritocrazia viene auspicata soltanto quando si tratta di donne?

Se riguardo ad una nomina ci sono sospetti di «anomalie» è giusto che ciò venga espresso, ma non si può essere intransigenti a priori, tantomeno prevenuti.

Dirà il tempo se Federica Mogherini sia davvero in grado di guidare un ministero strategico come la Farnesina. Ma lo stesso vale per Andrea Orlando, chiamato a gestire una materia difficile e complessa come quella della Giustizia. Analogo discorso si può fare per Maria Elena Boschi o Marianna Madia, così come per Maurizio Martina o Gian Luca Galletti.

Tutti i sedici ministri possono essere criticati. È legittimo, è giusto esprimere delle riserve e chiedere all’intero esecutivo di mostrarsi all’altezza della situazione. Ma questo — è evidente — deve avvenire a prescindere dal sesso dei componenti.

Non è questione di quote o controquote: solo di buon senso e di qualità della politica. A meno che non si pensi, senza avere il coraggio di dirlo, che il solo fatto di affidarsi a una donna offra meno garanzie, suscitando così maggiori diffidenze. Come se, fino a quando non si è posta la questione delle pari opportunità, il merito fosse stato la regola di questo Paese.

www.corriere.it

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“Ora si sciolga il nodo delle pari opportunità”, di FRANCESCA IZZO

La formazione del nuovo governo segna un passaggio di rilievo nella vicenda politica italiana. Viene riconosciuto e sancito con la presenza di 8 ministre su 16 (tutte alla testa di ministeri importanti) il principio della parità di genere.

Dopo l’elezione di un Parlamento con il maggior numero di donne e di giovani della storia della Repubblica, dopo la formazione del governo Letta che dava grande spazio alle competenze femminili, siamo ora alla sua piena sanzione.

È stata così inaugurata una prassi che renderà difficile, se non impossibile, aggirare tale principio in futuro. È il frutto della forza e della tenacia con cui donne, appartenenti alle più varie organizzazioni, gruppi, associazioni, si sono battute in questi ultimi anni per raggiungere questo risultato. E chi ha condiviso, come me, la responsabilità della mobilitazione il 13 febbraio di tre anni fa delle donne italiane, in difesa della dignità calpestata e per l’uscita da uno stato di passiva marginalità, non può che esserne soddisfatta. Nel giro di pochi anni è stato compiuto un percorso notevole.

Ora può cominciare una fase nuova, certo non semplice ma coinvolgente. Non è stato previsto un ministero delle pari opportunità come accade invece in altri paesi, Francia e Spagna ad esempio, che hanno governi paritari.

Questa assenza rischia di rendere meno incisiva, più neutra l’azione del governo, per un altro verso potrebbe però stimolare l’intera compagine governativa ad acquisire quell’ottica di genere indispensabile per attivare l’enorme potenziale femminile di cui l’Italia dispone.

Spetta innanzitutto alle nuove ministre tenere costantemente presente le prospettive e le ricadute di genere nella loro azione, nelle politiche che perseguiranno.

La vita delle donne italiane, la loro quotidianità, dovrà percepire sensibilmente i benefici di questo cambiamento, di queste presenze ai vertici dello Stato.

A questo scopo sarebbe opportuno più che un sottosegretariato, la creazione, presso la presidenza del Consiglio, di una figura, con ridotto ma qualificato staff, che coordini, monitori, segua l’iter e valuti l’impatto delle leggi e provvedimenti volti a superare il gap di genere nel nostro Paese.

L’Unità 23.02.14

"La doppia sfida sull’economia", di Paolo Guerrieri

La posta in gioco del nuovo Governo è davvero alta. Se non riuscirà a riformare il paese il declino dell’Italia potrebbe divenire inarrestabile. La sfida è duplice: le riforme istituzionali e la ristrutturazione dell’economia. Due piani strettamente intrecciati che richiedono al governo Renzi una agenda snella e fatta di chiare priorità. Sul piano economico la strada è obbligata: il problema atavico del nostro indebitamento pubblico va affrontato attraverso il rilancio a pieno ritmo della crescita. Se il ristagno dovesse perdurare, non vi sarà modo di contenere il debito italiano e la sua ristrutturazione (default) diverrebbe inevitabile. E qui c’è un primo problema che il governo e il nuovo ministro dell’economia Padoan dovranno affrontare: l’anemia della ripresa in corso, attestata su dinamiche assai modeste intorno allo 0,5%, molto al di sotto dell’1,1% previsto nella legge di stabilità approvata a dicembre. Per accrescere la flebile ripresa servono due ordini di misure, in qualche modo complementari: fornire sostegno a breve termine alla domanda aggregata (consumi e investimenti), e incidere, nel medio periodo, sulle debolezze strutturali che limitano la capacità di crescere.

Tra le prime potranno essere attuati provvedimenti per cercare di allentare la stretta creditizia, dal momento che non sarà possibile tornare a crescere se non si rilancia l’offerta di credito all’economia. Occorre ricapitalizzazione delle banche e allargamento della piattaforma di garanzie pubbliche per l’accesso al credito di imprese e famiglie. A ciò deve aggiungersi un’intensificazione del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, più che raddoppiando i 22 miliardi di arretrati saldati fin qui. In terzo luogo, attraverso la modifica del patto di stabilità interno degli enti locali, si può sbloccare un consistente flusso di investimenti e spese in conto capitale, in particolare dei Comuni, con un positivo grande impatto moltiplicativo a breve sull’economia reale. Sul secondo versante – ovvero i fattori strutturali che frenano la crescita – le riforme da attuare sono note da tempo. Bisogna affrontarle con determinazione e in un certo ordine. Il dato positivo è che Renzi ha già annunciato tre di queste riforme (un piano globale del lavoro; la semplificazione e ristrutturazione organizzativa della pubblica amministrazione; la riforma del sistema fiscale, con un forte taglio del cuneo a favore di imprese e lavoratori)come altrettante priorità dei primi cento giorni. Le prime consistenti risorse per finanziare tali misure potranno derivare dalla «spending review» e da un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie, unitamente ai proventi della lotta all’evasione. Staremo a vedere, anche perché i tempi annunciati per tali interventi appaiono assai stretti. E dettati più che altro dalla partita altrettanto importante che si giocherà in Europa, ove c’è da rinegoziare il rapporto tra spazi di crescita e rigore finanziario. Una rinegoziazione che, sfruttando la guida italiana del semestre europeo, appare inevitabile se si vorrà far ripartire la crescita. La sfida è duplice. Da un lato, si tratta di sfruttare tutti i margini di flessibilità consentiti dalle regole europee attraverso lo scambio bilaterale tra attuazione delle riforme e allentamento dei vincoli delle politiche di aggiustamento («accordi contrattuali»). A questo riguardo è positivo che l’Eurogruppo e la Commissione si siano espresse di recente a favore di tali accordi. Dall’altro è necessario promuovere in alleanza con gli altri maggiori paesi un nuovo corso di politica economica soprattutto su tre fronti: il completamento dell’Unione bancaria; l’introduzione di meccanismi di aggiustamento macroeconomico simmetrici tra paesi debitori e paesi creditori (innanzi tutto la Germania); il completamento del mercato interno europeo sul fronte dei servizi, unitamente a investimenti europei da finanziare in comune in una serie di servizi e aree strategiche. C’è oggi in Europa una più forte consapevolezza di queste necessità per evitare che in assenza di cambiamenti diventi inarrestabile il successo di movimenti e forze antieuropee a partire dalle prossime elezioni europee. Starà dunque all’Italia e al suo nuovo governo assumere un ruolo propulsivo. Ne va del futuro del nostro paese.

L’Unità 23.02.14

“Ecco la mia idea di destra e sinistra”, di Matteo Renzi

C’È stato un tempo in cui a sinistra la parola “sinistra” era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?
“CENTRO-sinistra” o “centrosinistra” era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l’universo del campo progressista.
In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c’è il Partito democratico, la parola “sinistra” come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell’Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberaldemocratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, “democratica”.
Erano, nel mondo, gli anni della “terza via”, di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.
A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio — or sono venti anni esatti — pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della “terza via” — che pure nel socialismo liberale, nell’utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso — si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all’insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell’Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.
Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all’americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.
Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull’eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come “merito” o “ambizione”? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli “ultimi”, legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l’eguaglianza — non l’egualitarismo — resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un’ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un’altra profondità. «Nel linguaggio politico — scrive Bobbio — occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell’avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale».
Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/ indietro, chissà, innovazione/conservazione.
E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull’analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.
Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l’opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze. Con l’invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale — libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt — e fornendo loro l’occasione di realizzare se stessi. L’invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall’altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere “Sì!” alla loro domanda di cambiamento.
La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un’altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell’innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.
Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l’innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l’incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all’incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all’ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.
La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.

La Repubblica 23.02.14

Bersani: «Anche la politica deve guarire», di Claudio Sardo

Pier Luigi Bersani sta bene. È dimagrito ma l’ho visto mangiare con appetito, rendendo il giusto onore a quegli straordinari tortelli piacentini fatti in casa. Sulla testa sono ormai pallidi i segni dell’operazione che ha bloccato la sua emorragia cerebrale: bisogna cercarli per riconoscerli. Gli sono pure ricresciuti i capelli (dove possono). Da quella drammatica mattina del 5 gennaio non ha più fumato: «Nessuno me lo ha imposto, ma visto che c’ero…». Il suo volto, le reazioni, lo sguardo sono quelli di sempre. E così la voglia di scherzare, che penso sia diventata per lui una sorta di autodisciplina, un modo per darsi un limite, per non prendersi mai troppo sul serio.

I collegamenti con Roma tornano a farsi giorno dopo giorno più intensi, soprattutto attraverso il telefonino che ronza nonostante la moglie Daniela fulmini quell’oggetto con gli occhi. La passione per la politica resta per lui una carica vitale. S’arrabbia nel parlare del- le cose che non gli sono piaciute in questi giorni, a partire dai modi con i quali Renzi ha scalzato Letta e imposto, con la forza, il suo governo senza aver dato una spiegazione compiuta.

Bersani non si rassegna alla politica ridotta a partita di poker: «Dobbiamo sempre pensare al film di domani. Oggi stiamo preparando il futuro. E mi preoccupa questo distacco tra la società e le istituzioni democratiche. Temo che il distacco continui a crescere e nessuno di noi può illudersi che basti un po’ di populismo e di demagogia, magari in dosi contenute, per risolvere il problema. Bisogna dire la verità al Paese, e non inseguire i pifferai sperando di batterli sul loro terreno. Dire la verità, affrontare i problemi concreti, le questioni che si stanno incancrenendo perché nessuno ha il coraggio di dire dei no quando sono scomodi. Io ho sbagliato in qualche passaggio, ho commesso errori, ma resto convinto che la politica non ritroverà se stessa nei particolari e nelle tattiche. È il senso, la direzione di marcia che le dà forza. O la ritroviamo, o ci perdiamo».

Sono andato a trovare Bersani a Piacenza con Miguel Gotor. Che gli ha portato in regalo la nuova edizione de Il Principe di Machiavelli, edito da Donzelli. Il regalo si prestava a facili ironie. Ma Bersani si è messo a ridere perché aveva sul tavolino e stava finendo di leggere proprio I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli di Antonio Gnoli e Gennaro Sasso. Più che il 500esimo anniversario de Il Principe, deve essere la crisi della politica a suscitare questa curiosità. O forse è il risorgente «fiorentinismo». Bersani ha ripreso a leggere da quando si è quietato il terribile mal di testa che lo ha perseguitato per tutta la prima fase della convalescenza. Quando racconta la sua malattia, la sofferenza è legata soprattutto a quel mal di testa insopportabile, vai a capire quanto legato alla vecchia cervicale e quanto all’operazione vera e propria.

IL VANTO DELL’OSPEDALE DI PARMA

Non ho avuto il coraggio di chiedergli se ha avuto paura di morire. Lui però ha detto che quando il chirurgo gli chiese la firma per il consenso informato, prima dell’intervento, non esitò un secondo. Il medico provò a elencare i rischi: «Lei può morire, oppure…». «L’ho interrotto subito – ricorda Bersani – e ho detto: penso che quello che sta per dirmi sia anche peggio di morire». Certo, entrando in casa Bersani (per me era la prima volta), non ci vuol molto a capire dove trovi quella riserva di energia umana e di serenità: l’affetto, l’amore della signora Daniela e delle figlie è una protezione così attiva e robusta che vale certo più di tante terapie e tecnologie. «Se avessi potuto, ovviamente mi sarei evitato tutto questo. Ma, pur nella sventura, confesso di uscirne con un sentimento di soddisfazione. La persona vale sempre più di ciò che fa». Nel dolore si ritrova la solidarietà. E il senso della misura. Di manifestazioni di solidarietà, di amicizia, di stima ne ha avute tantissime. E continuano. Gli ho detto che anche noi, a l’Unità, siamo stati invasi da messaggi di simpatia e di incoraggiamento, che andavano molto oltre il consenso o il dissenso su singole scelte politiche. «Quando sono tornato a casa mi è venuta voglia di rileggere La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj. Non me lo ricordavo così. I punti di vista sul senso della vita cambiano con l’esperienza, ma guai a perdere l’umanità più profonda. E guai a non cogliere le occasioni che la vita ti dà per scoprirle».
Un punto di vanto per Pier Luigi Bersani è senza dubbio l’ospedale di Parma, la sanità emiliana. Nel racconto qui prevale la razionalità sul sentimento. Fu lui, da presidente della Regione, a pro- porre di concentrare su Parma il servizio di neurochirurgia per tutta l’area tra Reggio e Piacenza. «La neurochirurgia è un business e giunsero diverse offerte di privati per costruire centri nelle tre province. Qualcuno può pensare che sia più comodo avere la clinica nella propria città. Ma decidemmo di puntare sul pubblico e su un unico grande centro specializzato, a Parma, in modo da attirare professionalità, tecnologie, ricerca. Non fu una scelta facile, ma ho sperimentato che è stata davvero la migliore, che abbiamo costruito un’eccellenza del Paese. Correvo da Piacenza in ambulanza ma intanto i medici di Parma, collegati in rete, leggevano la mia Tac. Sono stato curato al meglio, e sono stato trattato come ogni persona che si trovi nella medesima condizione».
In quei giorni, nel turbine della paura e della solidarietà – mentre la signora Daniela negava la benché minima soddisfazione a telecamere o giornalisti perché, in fondo, considerava persino immorale che le si domandasse qualunque cosa finché sussisteva un pericolo di vita – diventò un tormentone la partita Juventus-Roma, quella che il 5 gennaio Bersani chiese alla figlia di registrare prima di entrare in sala operatoria. Da romanista fati- co a ripassare la materia, comunque ho saputo che il risultato (3-0) è stato comunicato a Bersani al risveglio e che la registrazione è stata la prima cosa vista alla tv di casa, al rientro. L’orgoglio di tifoso è stato poi solennemente premiato qualche giorno fa: a Piacenza è arrivato Giuseppe Marotta, direttore generale della Juventus, portando in dono a Bersani una maglia dei bianconeri, con le firme di tutti i giocatori. «È stato veramente un grande gesto di amicizia», scandisce compiaciuto. Temo per Gotor che il suo regalo resti a un gradino inferiore: ho sempre avuto la sensazione che la passione per il calcio sia molto forte in Bersani e che sia abituato a reprimerla in pubblico.
Certo, la politica dà più preoccupazioni. Del nuovo governo, Bersani apprezza la scelta di Pier Carlo Padoan all’Economia. Tra i ministri ci sono suoi amici, ci sono giovani sui quali ha puntato. Ma ci sono anche cose che lo convincono poco. Soprattutto non lo convince la sovraesposizione di Renzi, il rischio che sfiora l’azzardo. I giovani e il record di presenze femminili sono una bella scommessa ma tutto, troppo è in capo «alla responsabilità personale di Renzi». Lui ha deciso ogni cosa: i tempi, la forzatura, gli equilibri. E a Bersani continua a non piacere la politica personale: «La modernità esalta la leadership, ma ci deve essere qualcosa di più di una squadra attorno al leader. C’è bisogno di una comunità che condivide, partecipa, collabora, costruisce». Non gli è piaciuto neppure il voto della minoranza in direzione. Quel voto a favore dopo le astensioni nelle precedenti riunioni gli è apparso come un salto logico, anch’esso non ben motivato. Se la responsabilità è di Renzi, «bisogna tenere vivo con lealtà e chiarezza il confronto nel partito. Serve a tutti, non solo al Pd». Con una precisazione: «Questo non vuol dire che ora non si debba collaborare. Si partecipa e si fa di tutto perché l’impresa riesca. Quando sento qualcuno che ipotizza di non votare la fiducia, penso che abbia perso la bussola. La fiducia si vota, altrimenti finisce il Pd. Poi bisogna tornare a pensare e a discutere, senza timore di dire la nostra, su cosa è utile che il governo Renzi faccia per l’Italia e su cosa dovranno fare i democratici da domani».

LE ELEZIONI E LA CENTRALITÀ DEL PD

La chiacchierata con Bersani intreccia passato e futuro. «Le elezioni non sono andate come volevamo, ma hanno confermato la centralità del Pd e la sua preminente responsabilità verso l’Italia. Il Pd è la struttura portante, la spina dorsale di un Paese in affanno. Da qui bisogna partire. Dalle risposte che dobbiamo ai giovani senza lavoro, alle imprese che stanno chiudendo, alla manifattura italiana, alle eccellenze che rischiano di diventare preda di acquirenti stranieri, alle famiglie che non ce la fanno». Bersani vorrebbe scuotere Renzi. Ma anche chi si è battuto contro di lui al congresso e chi si sente più vicino alla delusione di Letta, per- ché il Pd ha bisogno di tutti per rafforzare il lega- me con la società. «Il Pd non è un nastro trasportatore di domande indistinte. Non è un ufficio al quale si bussa per sentirsi dare risposte generiche o demagogiche. La centralità del Pd non deve cambiare la nostra idea del governo: guai a pensare che le istituzioni siano spazi da occupare e che per il consenso basti il messaggio. Il governo è coerenza, competenza, rischio. E siccome è anche la responsabilità più impegnativa della politica, da qui deve ripartire il confronto. E il solo modo per aiutare l’Italia e dunque anche il nuovo governo».

Poi, dopo l’avvio del governo, si aprirà il confronto sul rilancio del partito. «Che non è – dice Bersani – un’appendice insignificante del governo. Bisogna mantenere una capacità propositiva e un profilo di autonomia». Ma non ha vinto l’idea di Renzi della sovrapposizione dei ruoli e delle funzioni? Si può riaprire una battaglia che è stata per- sa? Bersani sa bene che sono in tanti a dire che proprio lui ha perso la battaglia sul ruolo del parti- to. «Il tema tornerà perché è vitale per la democrazia italiana. Non si rompe la tenaglia populista di Berlusconi e Grillo senza ridare al partito una dimensione sociale, ideale, di composizione e selezione degli interessi. So di non essere riuscito a cambiare lo statuto del Pd come avrei voluto. Ma non ho mai avuto una vera maggioranza per farlo. C’era sempre qualcosa che lo impediva. Ho cercato di compensare questo limite proponendo una costituzione materiale del Pd diversa da quella formale. Ho parlato di collettivo, ho respinto l’idea di un partito personale, mi sono battuto perché la modernità democratica non contraddicesse i principi della Costituzione. Ma la battaglia continua».

Prima di tornare a Roma, Bersani dice che dovrà ancora «misurarsi con l’esterno». È già andato agli argini del Po, lontano da occhi indiscreti. Altre passeggiate sono in programma. È stato per me un grande piacere rivederlo e abbracciarlo. Confesso che temevo qualche ferita più profonda. Invece abbiamo parlato, come altre volte, cercando di andare oltre la cronaca incalzante. A propsito di cronache: «Il medico – racconta ancora Bersani – mi ha fatto i test della memoria e della concentrazione. Ha detto che avendo lavorato in quel punto della testa, voleva avere la certezza che tutte le potenzialità fossero state preservate. Mi ha fatto una certa impressione quando ha detto di aver “lavorato” sulla mia testa, ma poi sono stato rassicurato. Tutto è a posto al 100%. L’ho ringraziato. Dopo però ci ho ripensato: se mi avesse tolto dalla memoria quel 5% che ancora mi fa male, forse sarebbe stato perfetto».

L’Unità 23.02.14

"Le lacrime sul paese diviso", di Bernardo Valli

In carrozzina, in lacrime, Yiulia Tymoshenko, appena uscita di prigione, ha chiuso una giornata ricca di drammi, non conclusi, tra le barricate di piazza Indipendenza. ATARDA sera l’ex primo ministro e capo dell’opposizione ha ringraziato le centomila persone che l’acclamavano, dicendo che erano state loro a liberarla, e non i diplomatici venuti da fuori. Soltanto allora la “rivoluzione” ha sorriso e ha sparato fuochi d’artificio nel cielo grigio in onore della prigioniera liberata. Prima di quel momento le strade di Kiev erano gremite da una folla più angosciata che trionfalistica. Pesava sulla città, e pesa ancora, la minaccia di una secessione. La soddisfazione per gli avvenimenti della notte era velata dall’ansia. Il detestato presidente, Viktor Yanukovic, aveva lasciato Kiev; il Parlamento l’aveva giudicato «non in grado di adempiere alle sue funzioni» e quindi l’aveva deposto. Alcune radio raccontavano che da Kharkiv, dove era approdato, aveva poi cercato di ripartire in aereo per la Russia, ma che era stato bloccato sulla pista di volo da un gruppo di manifestanti.
Mi aspettavo che questi avvenimenti suscitassero canti e sorrisi, e invece, percorrendo le strade in salita in direzione del Parlamento, e facendomi largo tra la folla compatta, soffocante di piazza Indipendenza, scoprivo soltanto volti preoccupati. Ogni tanto si alzava una voce isolata: «A morte i criminali». Neanche i comizi erano trionfalistici. I toni erano mesti. Neppure sulle barricate i ribelli esultavano agitando manganelli e sbarre di ferro, nonostante nelle ultime ore la capitale fosse caduta nelle loro mani e il Parlamento avesse legittimato la loro protesta.
Colpiva l’ordine nella città. Le automobili si fermavano ai semafori, i negozi erano aperti, anche in prossimità delle barricate. Capitava che gli uomini spesso mascherati delle “centurie”, di cui si conoscono le idee estremiste, radicali, svolgessero il ruolo di vigili urbani, in prossimità del campo trincerato. Penso che il grigiore delle espressioni fosse dovuto alla consapevolezza che la vittoria dell’insurrezione rischia di avere un costo molto alto. La secessione, appunto, questo era ed è l’incubo: la spaccatura della nazione ucraina, con tutte le conseguenze di una divisione sofferta, lacerante, forse ritmata dalla violenza.
L’Ucraina si sta infatti sgretolando. Le regioni orientali russofone non accettano la destituzione del presidente, Viktor Yanukovich, appena decretata dal Parlamento di Kiev; mentre le regioni occidentali più “europee” accolgono con sollievo la liberazione di Yiulia Tymoshenko, condannata a sette anni di carcere, e amnistiata dal Parlamento trasformatosi in una Convenzione rivoluzionaria.
Nella notte tra venerdì e sabato Yanukovich ha sentito che la sua sicurezza personale non era più garantita, e, pare con due elicotteri, ha lasciato di gran fretta la sua lussuosa residenza sul Dniepr, e ha raggiunto Kharkiv, storica seconda città dell’Ucraina, situata nel Nord Est russofilo. Là, alloggiato in un club di golf, ha annunciato alla televisione di non avere l’intenzione di dimettersi e di essere vittima di un colpo di Stato. Inizierà al più presto visite nelle regioni a lui favorevoli. Al più presto andrà a Odessa, dove si parla da tempo di una secessione della Crimea. Yanukovich si è ben guardato dallo smentire le voci sulla sua tentata fuga in Russia. Nella stessa Kharkiv il governatore, Mikhailo Dobkineon, ha riunito a congresso i rappresentanti delle regioni ucraine vicine per studiare l’inaccettabile situazione creatasi a Kiev. E alla riunione hanno
partecipato governatori e deputati russi.
Esistono ormai due poteri ucraini distinti. Quello nelle province orientali filo russe, di cui Kharkiv è la città principale, e dove Viktor Yanukovich si trova in una posizione incerta, ma da dove può tentare iniziative contro il potere di Kiev nato dall’insurrezione. Quest’ultimo ha l’appoggio, per ora disordinato, dei ribelli di piazza Indipendenza, e ha ricevuto il battesimo della legalità dal Parlamento, nel quale è avvenuto un terremoto.
Molti deputati del partito delle Regioni, di cui Yanukovich è o era il leader, hanno aderito al Partito della Patria di Yiulia Tymoshenko. Si è così formata una maggioranza di 328 voti (su 450) che ha destituito Yanukovitch e liberato Tymoshenko. Lo stesso Parlamento ha deciso di tenere elezioni presidenziali il 25 maggio, di formare un governo di “salute pubblica” entro dieci giorni e ha nominato l’ex sindaco Avakov ministro degli interni d’emergenza. Il quale ha invitato i gruppi estremisti di
piazza Indipendenza a unirsi alla polizia per mantenere l’ordine pubblico, aggregandoli al nuovo potere.
Al centro dell’Europa una rivolta rischia di spaccare il secondo paese del continente per la superficie, fino a qualche anno fa con quasi cinquanta milioni di abitanti poi ridotti a quarantacinque milioni da una dissanguante emigrazione economica. Un’operazione geopolitica di queste dimensioni un tempo provocava un conflitto armato, o ne era il risultato. Adesso la crisi Ucraina mobilita
la diplomazia al suo più alto livello. I ministri degli esteri di Francia, Germania e Polonia hanno pensato nella notte tra giovedì e domenica di avere realizzato un accordo che avrebbe riappacificato le forze a confronto a Kiev. Un confronto che arroventa i rapporti tra l’Europa da un lato e la Russia dall’altro. Con gli Stati Uniti ben presenti sullo sfondo. Dimostrando la propria disponibilità Putin ha mandato a Kiev un suo inviato, il diplomatico Vladimir Lukin, uomo famoso per la sua moderazione.
Ma Lukin se ne è andato senza firmare il testo dell’accordo ritenendolo inefficace, ingiusto e pericoloso. Infatti i rappresentanti moderati dell’opposizione, dopo avere sottoscritto il documento, non sono riusciti a convincere i gruppi estremisti di piazza Indipendenza, dai quali dipende il campo trincerato. Per questi ultimi l’accordo prolungava la presidenza di Viktor Yanukovitch, mentre al tempo stesso Yanukovitch sentiva i suoi poteri ridimensionati e minacciati. Insomma il compromesso realizzato dai ministri europei non ha prodotto l’intesa sperata. Al contrario ha fatto da detonatore. Ha fatto esplodere una situazione in verità già esplosiva.
L’incognita risiede adesso nel sapere come continuerà la “guerra non armata” tra russi e occidentali (europei e americani non divisi ma neppure uniti su questo problema). Putin ha promesso a Obama nelle ultime ore di non voler aggravare la situazione. Ed è presumibile che l’altro diretto interlocutore del leader russo, Angela Merkel, abbia ricevuto le stesse assicurazioni. Ma il ministero degli esteri russo ha fatto sapere al segretario di Stato che a suo avviso i ministri europei (il tedesco, il francese e il polacco) si sono lasciati ingannare a Kiev dagli oppositori di Yanukovich, un alleato non troppo stimato dal Cremlino. Se la secessione ucraina si confermerà, i russi da un lato e gli europei e gli americani dal-l’altro, saranno mesi alla prova. L’Ucraina pesa più del Kosovo e della Georgia.

La Repubblica 23.02.14

"Capi di Gabinetto e Dirigenti inamovibili il Potere Ombra cresciuto nei Ministeri" di Sergio Rizzo

Non sappiamo ancora se quella lettera partirà mai. Ma che nelle ore precedenti alla formazione del governo fosse circolata l’idea di emanare come primo atto dell’epoca renziana una direttiva per sbarrare la strada verso i vertici dei ministeri ai consiglieri di Stato e ai giudici dei Tar, è garantito. Atto senza precedenti, capace di ribaltare i rapporti fra la politica e un grumo di potere che da decenni ha in mano le leve operative dell’esecutivo con l’egemonia incontrastata sugli incarichi da capo di gabinetto o degli uffici legislativi. Una burocrazia che si sovrappone alla burocrazia, tenendosi per mano e passandosi spesso il testimone da un ministero all’altro. Alcuni casi hanno letteralmente fatto scuola. Uno per tutti, quello di Corrado Calabrò: nel 1963 era già con Aldo Moro a Palazzo Chigi, un trampolino che gli ha consentito in seguito di attraversare tutto l’universo governativo, alla guida dei gabinetti di Bilancio, Mezzogiorno, Sanità, Industria, Agricoltura, Marina Mercantile, Poste, Istruzione, Politiche comunitarie, Riforme… Monumento ineguagliato a una potente stirpe di ministri ombra cresciuta irresistibilmente fino ai giorni nostri, di incarico in incarico.
Soltanto nel primo semestre del 2013, periodo che registra le nomine coincidenti con l’insediamento dell’esecutivo di Enrico Letta, sono stati conferiti a consiglieri di Stato o del Tar 54 incarichi governativi, il 37,5% di tutti quelli extragiudiziali assegnati negli stessi mesi a 113 diversi magistrati. Compresi, fra questi, due esponenti del governo: il viceministro dello Sviluppo Antonio Catricalà e il sottosegretario alla Presidenza Filippo Patroni Griffi. E compresi anche i magistrati ingaggiati dai ministri del vecchio esecutivo che Matteo Renzi ha confermato. Come il capo dell’ufficio legislativo delle Infrastrutture di Maurizio Lupi, Gerardo Mastrandrea, che dieci anni fa entrò negli uffici di Porta Pia in qualità di esperto legislativo del viceministro Mario Tassone. O come il suo collega Giuseppe Chiné che fa lo stesso lavoro alla Salute di Beatrice Lorenzin, la quale ha collocato al posto di capo di gabinetto un altro consigliere di Stato, Mario Alberto Di Nezza.
Ecco spiegato il motivo per cui, anziché una disposizione formale che impedisca la consueta migrazione di mandarini da palazzo Spada al governo, c’è da attendersi piuttosto una moral suasion per indurre i ministri a scegliersi per quei ruoli chiave figure un po’ diverse. Per capire l’aria che tira, del resto, è sufficiente dare un’occhiata in cima alla piramide. Dove c’è il braccio destro di Renzi Graziano Delrio, ex ministro degli Affari regionali e ora sottosegretario alla Presidenza: il suo capo di gabinetto al ministero risponde al nome di Mauro Bonaretti, era direttore generale del comune di Reggio Emilia con Delrio sindaco. Segno inequivocabile che anche a Palazzo Chigi molte cose sono destinate a cambiare. A cominciare da alcune posizioni strategiche occupate, manco a dirlo, da altrettanti consiglieri di Stato.
Per esempio, quella di capo dell’ufficio legislativo affidata in precedenza a Carlo Deodato. O quella del segretario generale della Presidenza, incarico ricoperto nel governo Letta da Roberto Garofoli, già capo di gabinetto di Patroni Griffi alla Funzione pubblica. Si tratta di una figura chiave, che deve far funzionare una struttura cruciale e complessa, nel tempo diventata gigantesca: 4.500 persone, più del triplo rispetto al Cabinet Office del premier britannico David Cameron. Ragion per cui la persona più accreditata per ricoprire quel ruolo è lo stesso Bonaretti. Ma è circolato anche il nome dell’ex segretario generale dell’Anci Angelo Rughetti, deputato del Pd fra i più vicini a Renzi e Delrio.
Ce n’è abbastanza, insomma, perché la vecchia guardia sia in subbuglio. Tanto più, dopo aver letto i nomi dei nuovi ministri, per la mancanza di punti di riferimento. Ma la fibrillazione si è estesa anche ai ministeri, che rischiano di venire investiti da un altro terremoto. Entro tre mesi dovranno essere confermati o sostituiti, in base alle norme che regolano lo spoils system in salsa italiana, gli altissimi dirigenti. E qui si apre la partita dei segretari generali, che si presenta intricata per molti aspetti e per la caratura dei personaggi. Michele Valensise, che era stato nominato da Giulio Terzi ed era rimasto con Emma Bonino, continuerà il suo incarico alla Farnesina con Federica Mogherini? E come sarà il rapporto fra Antonio Lirosi, ex mister consumatori considerato molto vicino all’ex segretario democratico Pier Luigi Bersani, nominato da Flavio Zanonato segretario generale del ministero dello Sviluppo economico neppure due settimane prima delle dimissioni del governo, e il nuovo ministro Federica Guidi? Per non parlare di altri pezzi da novanta. Persone sconosciute ai più, talvolta defilate, ma più potenti degli stessi ministri. Valga per tutti l’esempio del quasi settantenne Ercole Incalza, l’uomo che con Lorenzo Necci ha gestito la controversa, quanto a modalità e costi, operazione dell’alta velocità ferroviaria made in Italy. «Quattordici volte inquisito e quattordici volte prosciolto», ha ricordato il Fatto quotidiano , nonché inquilino ministeriale a più riprese a partire da quando ai Trasporti c’era il socialista Claudio Signorile, è da tre lustri l’eminenza grigia delle Infrastrutture. Sopravvissuto a una mezza dozzina di ministri, è stato confermato da quello attuale, Lupi, alla testa della struttura che si occupa delle grandi opere. Intoccabile, ha una influenza enorme.
Eppure quella sulla quale siede Incalza non è nemmeno una di quelle venti poltrone considerate nevralgiche per il potere ministeriale. Alcune delle quali occupate da persone di recente inserimento nell’amministrazione. La più ingombrante è quella del direttore generale del Tesoro, tradizionalmente uno degli inamovibili: da due anni l’incarico è nelle mani di Vincenzo La Via. E poi il Ragioniere generale dello Stato: altra posizione ultralongeva oggi ricoperta da Daniele Franco, arrivato con l’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Resisterà al suo posto o cederà alla tentazione di rientrare nei ranghi della Banca d’Italia, da cui proviene? Mentre per il responsabile della spending review (la revisione della spesa) Carlo Cottarelli si potrebbe profilare un trasferimento dall’Economia a Palazzo Chigi. Magari a capo di quel dipartimento economico che era stato in grande spolvero negli anni 90 al tempo di Stefano Parisi e che ora potrebbe ritrovare l’antico smalto. Ma se nella riorganizzazione del governo la presidenza del consiglio è destinata ad avere più voce in capitolo sulle questioni economiche, al tempo stesso Palazzo Chigi vedrà scomparire strutture la cui esistenza separata dai tradizionali ministeri ben poco si giustifica, come l’Integrazione (che andrà al Lavoro?) o l’Editoria (ai Beni culturali?).
Inutile dire che il cambiamento vero della pubblica amministrazione parte da qua: l’alta burocrazia. Ed è certo che la portata innovativa del governo Renzi su questo fronte si giudicherà dalle prime mosse. Vedremo se il ministro Marianna Madia darà seguito ai propositi di introdurre misure per l’Italia sconvolgenti come la licenziabilità dei dirigenti o l’obbligo di rotazione degli incarichi dirigenziali dopo un massimo di sei anni. Un grimaldello che potrebbe mettere in crisi incrostazioni di potere tipo quelle sedimentate intorno a figure come Incalza. Anche se per sbriciolarle completamente manca un passaggio. Ovvero, che le leggi siano scritte in modo chiaro e trasparente, e soprattutto che per essere attuate non abbiano bisogno di decreti, norme o circolari ministeriali: un sistema che espropria il Parlamento del potere di legiferare affidandolo a meccanismi nebbiosi manovrati da una burocrazia spesso ottusa e autoreferenziale, corresponsabile dell’immobilismo. Con il risultato che tutto finisce nel pantano. A ottobre 2013 il Sole24ore ha calcolato che per rendere operative leggi emanate a partire dal governo Monti mancavano 469 provvedimenti di attuazione.

Il Corriere della Sera 23.02.14