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"Foibe, la terza via storica del «genocidio ideologico». Né rivolta né vendetta: fu progetto politico", di Dario Fertilio

Dieci anni ben spesi, quelli dedicati al Giorno del Ricordo. Appesantita alla nascita da polemiche a sinistra e ipoteche di destra, con il rischio d’essere oscurata dalla Memoria della Shoah che si celebra appena due settimane prima, la solennità del 10 febbraio, nata per commemorare i massacri comunisti nelle foibe — e l’esodo dei giuliano-dalmati dalle loro case — si è trasformata progressivamente in appuntamento vero, capace di attraversare gli schieramenti, diffondere emozioni e superare le ideologie. 
Così sta avvenendo quest’anno: dalle 180 manifestazioni del 2006 e dopo le 500 dell’anno scorso, si raggiungeranno senz’altro cifre superiori. Colpisce anche la varietà delle iniziative: dalle celebrazioni più tradizionali alla Foiba di Basovizza, o a Redipuglia, all’incontro dei rappresentanti degli esuli con il Papa; dall’omaggio a Ottavio Missoni nel teatrino di Palazzo Grassi, a Venezia, alla «biblioteca di pietra» che si sporgerà idealmente dalla costa di Rimini verso quella opposta dell’Adriatico; dal concorso letterario «Tanzella», a Verona, riservato alle opere scritte nei dialetti delle popolazioni vittime, al concerto serale romano nella basilica di Sant’Andrea della Valle; e l’impatto popolare maggiore verrà probabilmente dallo spettacolo televisivo in programma su Rai 1, Magazzino 18 di Simone Cristicchi, accompagnato da un numero speciale di Porta a Porta . 
Tutto potrebbe sembrare, dunque, a suo modo, pacificato: meno forti sono a sinistra le iniziative dei «negazionisti» che vorrebbero derubricare il genocidio degli italiani istriani, triestini e dalmati a «vendetta di guerra» generata dall’odio per l’occupazione fascista; e parallelamente hanno perso l’iniziale carattere revanscista le prese di posizione rivolte a denunciare l’«odio slavo», come anche le discussioni — in particolare nel gruppo di lavoro presso il ministero della Pubblica Istruzione — sui libri di testo delle scuole, troppo timidi nel raccontare la verità, quando non addirittura reticenti. 
E invece la questione del tutto pacificata non è, a cominciare dal numero delle vittime: minimizzato da un lato a poche migliaia, dilatato dall’altro fino a 25 mila, mentre la cifra avanzata dagli storici più indipendenti, e prudenti, si aggira intorno alle 11 o 12 mila. 
Eppure, viene da chiedersi, sta proprio nel balletto dei numeri, il nocciolo della questione? O non va cercato piuttosto nel significato storico e morale da attribuire al genocidio? Fra gli storici si sta facendo largo una specie di «terza via» interpretativa, estranea alle opposte ideologie, e che idealmente viene riferita allo storico triestino, di cultura slovena, Elio Apih, scomparso nel 2005 e membro della commissione nominata dai governi di Roma e Lubiana. Per Apih, nel saggio postumo Le foibe giuliane pubblicato dalla Leg di Gorizia, va tolta di mezzo l’idea di una «insurrezione popolare» slava contro gli occupanti italiani, prendendo atto invece della «azione politica coordinata» messa in atto dai seguaci di Tito secondo le indicazioni giunte a suo tempo da Stalin (e anche non immemore del modo di procedere dei nazisti). Così si spiega l’organizzazione dei trasporti in corriere dai finestrini imbiancati a calce perché le vittime non fossero riconosciute; l’esecuzione di massa dei prigionieri legati tra loro ai polsi con filo spinato; l’istituzione di «tribunali popolari» con lo scopo non di accertare colpevolezze, ma di funzionare insieme come propaganda e tecnica del terrore. Non fu rivolta popolare, né pulizia etnica, né eliminazione di un gruppo nazionale: si trattò invece di genocidio ideologico, con lo scopo di spianare il terreno al nascente regime comunista jugoslavo. Tanto è vero che nelle foibe finirono anche croati, sloveni, serbi, tedeschi e persino qualche militare alleato. 
Tutto questo, e non un semplice omaggio alla bandiera, sarà quest’anno al centro del Giorno del Ricordo.

da il Corriere della Sera

"Buone notizie e cattive notizie", di Giovanni Valentini

LE NOTIZIE sono quella cosa che un tale che non si interessa granché di nulla vuole leggere. Ed è notizia fintanto che lui la legge. Poi è morta.
(da “L’inviato speciale” di Evelyn Waugh — Rcs Libri, 2002 — pag. 69)
Nel suo editoriale di domenica scorsa sul nostro giornale, Eugenio Scalfari ha scritto: “Il circuito mediatico ama le cattive notizie gonfiandole a dismisura e questo è un malanno grave”. Quello stesso giorno la Repubblica annunciava in un titolo di prima pagina: “Mai più abbandonati al pronto soccorso, arriva l’hostess per malati e familiari”. E contemporaneamente, il Corriere della Sera dedicava una pagina agli “Onesti d’Italia”: otto storie, in un mese, di “eroi quotidiani” che al tempo della crisi hanno restituito denaro smarrito, riprese poi ieri su Rai Uno nella puntata di “Storie vere” insieme al video di Repubblica.it sullo scippo sventato a Napoli da un mendicante nigeriano.
Già: buone notizie e cattive notizie. Un tema sempre più cruciale nel rapporto di fiducia fra chi produce informazione e chi la riceve. Troppo spesso sentiamo lamentare, da parte dei lettori o telespettatori, che i giornali — e più in generale i media — “pubblicano soltanto cattive notizie”, intossicando così la vita dei cittadini. E proprio su questo argomento, ho tenuto recentemente un “seminario aperto” al Master dell’Ordine dei giornalisti a Bari, proponendo agli aspiranti colleghi di costituire per due o tre mesi un Osservatorio, concentrato su quattro o cinque giornali, per censire le buone e le cattive notizie che appariranno in questo arco di tempo.
Ma, innanzitutto, che cos’è una notizia? Con la partecipazione dei giovani corsisti, abbiamo provato ad abbozzare una definizione, senza la pretesa naturalmente di esaurirla in poche righe: “Una notizia è l’annuncio, la descrizione, il racconto di un fatto, un evento, una situazione o un problema, d’interesse generale, che fino a quel momento era sconosciuto oppure noto solo a una ristretta cerchia di persone”.
Poi ci siamo domandati: quando una notizia è buona e quando è cattiva? Una notizia è “buona” quando trasmette modelli di comportamento virtuoso e può avere quindi un effetto pedagogico, educativo ed emulativo: e qui, prima che fossero pubblicate le otto storie degli “eroi quotidiani”, abbiamo citato appunto il caso di chi trova un portafogli gonfio di soldi e lo restituisce al legittimo proprietario o lo consegna alla forza pubblica. Una notizia è invece “cattiva” quando comunica disvalori, comportamenti negativi: per esempio atti di violenza, di criminalità, d’illegalità.
Sappiamo tutti, però, che la vita quotidiana è fatta tanto di buone notizie quanto di cattive notizie. E i giornali o i telegiornali, non possono riferire soltanto le une e nascondere le altre. È vero, tuttavia, che da sempre “il circuito mediatico — come dice Scalfari — ama le cattive notizie gonfiandole a dismisura”, perché le buone notizie non fanno — come si suol dire — notizia.
C’è una “fisiologia” della buona notizia che può giustificare un tale trattamento mediatico, nella misura in cui questa rientra appunto nella norma, nell’ambito della regolarità. Ma c’è anche una “funzionalità” della cattiva notizia che, al di là della cattiva coscienza individuale, della morbosità o in certi casi del compiacimento voyeuristico, può contribuire a spiegare un maggiore interesse: e cioè, l’utilità della sua diffusione per prevenire o evitare la ripetizione di situazioni pericolose, se corrisponde a una denuncia e se alimenta una condanna o una riprovazione.
La questione non riguarda soltanto i comunicatori di professione. Coinvolge anche i destinatari delle notizie e cioè tutta l’opinione pubblica. È proprio questa infatti la piattaforma sociale su cui si formano giorno per giorno il senso comune, il costume civile o incivile, i comportamenti collettivi. Da qui dipende, in larga misura, quello che si chiama in inglese “mood” popolare, cioè l’umore, lo stato d’animo ovvero l’opinione di una comunità. E la responsabilità di fornire un’informazione per così dire edificante tocca in primo luogo al servizio pubblico radiotelevisivo, tenuto istituzionalmente a rispettarne il pluralismo e l’equilibrio.
In attesa dei risultati che saranno raccolti dai giovani colleghi del Master di Bari, possiamo trarre intanto una prima conclusione. Non esistono, in assoluto, buone e cattive notizie. Esistono solo le notizie. Se sono buone o cattive, dipende essenzialmente da chi le diffonde, da come e con quali finalità le diffonde. Ma quando la stella polare è l’interesse generale, allora si fa solitamente buona informazione.

da La Repubblica

"Bollate, il bullismo, gli adolescenti così svanisce il senso della violenza", di Matteo Lancini

La diffusione degli strumenti di comunicazione tecnologica e di internet ha radicalmente modificato la nostra civiltà, il modo di vivere la gioia, il dolore, l’istante privato e quello pubblico. Il dramma personale diventa oggetto di spettacolarizzazione globale. La morte e la violenza ripresi in diretta sono tra i video più cliccati del web, registrano ascolti televisivi altissimi. A questo ormai siamo abituati, così come agli applausi che accompagnano i funerali. Nella società dell’immagine e della condivisione, tutto ciò che accade nella realtà può essere catturato, trasferito e diffuso in tempi rapidissimi. Sono soprattutto gli adolescenti, molto sensibili ai temi di visibilità e successo, bisognosi di sapere che esistono nella mente degli altri, a non occuparsi delle conseguenze che può avere la divulgazione di immagini e filmati attraverso la rete. Non solo. Il senso stesso della violenza sembra svanire, in nome della necessità di trasformare l’occasione drammatica in «spettacolo», da osservare, filmare, divulgare. Come nella mente degli adolescenti del «pestaggio» di Bollate: si è costruita una pericolosissima dinamica che ha portato quei terribili momenti a trasformarsi in «evento». Per un lungo periodo nessuno interviene per porre fine alla violenza, mostra indignazione, rifiuto. 
L’indifferenza tra gli individui è un fatto a cui assistiamo quotidianamente. La libertà delle scelte, dei comportamenti e dei valori di riferimento rende la nostra società «trasparente» rispetto ai principi dell’etica tradizionale. Quel che conta è assistere per esibire, non intervenire per soccorrere. Eppure gli affetti sono al centro della regolamentazione dei rapporti. L’etica familiare contemporanea promuove sensibilità agli affetti della società ristretta ma non sempre riesce a promuovere un’etica sociale in senso ampio. In famiglia si mettono a punto regole specifiche, valide per il singolo nucleo ma non associate a valori assoluti. È forse giunto il tempo di individuare una strada moderna che conduca a una nuova forma di «comunità educante»: i conducenti non possono che essere gli adulti che presidiano le agenzie educative e che governano le istituzioni politiche.

da il Corriere della Sera

"No Tav, perché sono sbagliati quei nove mesi a Grillo", di Francesco Merlo

Di sicuro è giuridicamente bene argomentata, ma l’ipotesi di reato, istigazione alla disobbedienza, contestata dalla procura di Genova a Beppe Grillo suona strampalata: patafisica applicata alla giurisprudenza. E i nove mesi di reclusione, chiesti dalla procura di Torino, per violazione dei sigilli di una baita durante una manifestazione No Tav, sono un’esagerazione.
Soddisfano le tifoserie ma trasformano il diritto in un’arma politica, in un bastone punitivo. È vero che Beppe Grillo ha incitato, ha aizzato, ha insultato, e qualche giorno fa si è spinto sino a trasformare la sua bacheca web in un muro di latrina sul quale scrivere oscenità contro la presidente della Camera, Laura Boldrini. E molti di noi da tanto tempo pensano che il grillismo è un orrore politico. Ma questa offensiva della magistratura, deformata dalla voglia di offenderlo, è un’invasione di campo.
So bene che la mia solidarietà non gli interessa e che, alla critica politica, Grillo preferisce questa enormità dei pm che in fondo avvalorano le sue borie di Davide contro Golia, di testimone di libertà contro la tirannia, di bandito nella foresta di Sherwood. È una soperchieria insomma controproducente ed è musica alle orecchie di Grillo, il quale già quando fu denunziato, in faccia ai carabinieri incrociò i polsi come per farsi ammanettare. Si crede Gobetti, si spaccia per un Danilo Dolci settentrionale, si traveste da Alexander Langer. Ovviamente è un imbroglio: Grillo è un luddista sfascia tutto. Quelli erano liberali e pacifisti, nutriti di libri e di ideali, lui è illiberale e attaccabrighe, con il ghigno triste dell’arruffapopolo di talento.
Ebbene, proprio per questo gli eccessi giudiziari lo rafforzano, come un barattolo di spinaci rafforza Braccio di Ferro. Certo i magistrati di Genova e di Torino non sono degli sprovveduti, hanno a che fare con i rigurgiti del terrorismo e con le violenze dei No Tav che a volte hanno trasformato la Val di Susa «in un centro sociale a cielo aperto» come ha scritto il nostro Paolo Griseri. Ma Grillo fa politica, in Parlamento come in strada, contro l’alta velocità, contro i termovalorizzatori e contro tutto ciò che si muove ed è moderno, televisione compresa. Ed è politica anche la disobbedienza che predica e che sta al suo movimento come la lotta di classe stava al Pci. Persino le cesoie e la sega che ha usato per entrare nella baita Clarea sono, almeno sino ad oggi, politica e non corpi di reato. Dunque alla fine questi capi di imputazione sembrano anch’essi prodotti della paccottiglia complottistica inventata dalla Casaleggio associati, insieme ai bavagli ostentati alla Camera, all’impeachment, alla scatoletta di tonno, alle urla “boia chi molla”, “al golpe al golpe”, “siete tutti mafiosi” … Con Grillo nel ruolo, finalmente di nuovo comico, del dissidente sovietico, dell’eroe che si batte contro il regime e contro chi vuole fare della democrazia un recinto di prepotenza.
Lo so che i paragoni sono pericolosi, ma c’è un precedente che mi riporta alla mia giovinezza. Quarant’anni fa, per combattere le violenze del Msi di Almirante, molte procure d’Italia, da Milano sino a Catania, lo misero sotto inchiesta. E certo allora le ragioni erano ben più solide, perché c’erano i picchiatori, le botte dei cuori neri, gli esplosivi … Ma quando arrivarono alla richiesta di sciogliere il Msi con articoli e commi, di dichiararlo fuori legge, ci fu il cortocircuito. Era il 1971, e quel piccolo brutto partito, erede del fascismo, divenne il primo partito in Calabria, in Sicilia, a Napoli: tre milioni di voti.

da La Repubblica

"La ridefinizione del concetto di classe media", di Paul Krugman

Una delle peculiarità degli Stati Uniti, da molto tempo, è la smisurata percentuale di persone che si considerano di ceto medio (illudendosi). Lavoratori a basso salario, che secondo i parametri internazionali sarebbero considerati poveri, cioè persone con redditi inferiori alla metà della mediana, si definiscono nonostante tutto di ceto medio-basso; e persone con redditi quattro o cinque volte superiori alla mediana si considerano tutt’al più di ceto medio-alto.
Ma forse tutto questo sta cambiando. Secondo una nuova inchiesta d’opinione della Pew, c’è un forte incremento del numero di persone che si definiscono di ceto basso, e un incremento un po’ più contenuto del numero di persone che si definiscono di ceto medio-basso, tanto che a questo punto, sommando insieme le due categorie con «basso» nella definizione, ci avviciniamo quasi alla maggioranza relativa della popolazione (anzi ci avviciniamo a quel famoso 47 per cento citato da Romney, ricordate?).
A mio parere è uno sviluppo estremamente interessante. Le politiche contro la povertà, dagli anni 70 in poi, poggiano sulla diffusa convinzione che i poveri siano «Quelli Là», gente diversa da noi americani veri, quelli che lavorano sodo. È una convinzione che ormai da decenni non ha più corrispondenza con la realtà, ma solo adesso sembra che la realtà stia facendo breccia. Tutto questo però significa che la destra, che sostiene che la povertà è il frutto di insufficienze caratteriali e che i programmi per la lotta alla povertà sono un male perché rendono la vita troppo facile, ora devono rivolgersi a un pubblico in cui tantissimi «Non Quelli Là» si rendono conto di essere fra quelli che a volte hanno bisogno della rete di sicurezza sociale.
E ce n’è ancora di strada da fare. Lo dico agli americani dell’86° percentile: se credete di essere di ceto medio-alto, siete fuori dal mondo.

Soldi e classe sociale
Quello che ho detto qui sopra ha innescato alcune reazioni prevedibili, che classifico sotto due categorie: (1) «Ma hanno i cellulari!», e (2) la classe sociale di appartenenza dipende da come ti comporti, non da quanti soldi hai.
La mia risposta in entrambi i casi sarebbe di dire che quando parliamo di essere o non essere di ceto medio, abbiamo in mente due elementi cruciali di questo status sociale: la sicurezza e le opportunità.
Per sicurezza, intendo che avete risorse e riserve a sufficienza per essere sicuri che le ordinarie emergenze della vita non vi precipitino nell’abisso. Questo significa avere una copertura sanitaria decente, un impiego ragionevolmente stabile e disponibilità finanziarie sufficienti a poter sostituire l’auto o lo scaldabagno senza andare sul lastrico.
Per opportunità, intendo in generale riuscire a garantire ai propri figli una buona istruzione e l’accesso a prospettive lavorative, senza avere la percezione che le porte siano chiuse perché non vi potete permettere di fare la cosa giusta.
Se non avete queste cose, per me significa che non conducete una vita da ceto medio, anche se avete una macchina e qualche gadget elettronico che non esisteva ai tempi in cui la maggioranza degli americani era davvero di ceto medio: e questo a prescindere dalla pulizia, dalla sobrietà e dalla misuratezza dei vostri comportamenti.

Ora, sempre secondo quel sondaggio Pew, all’inizio del 2008 solo il 6 per cento degli americani si considerava di ceto basso (molto meno del tasso di povertà ufficiale!), solo il 2 per cento si considerava di ceto alto e l’1 per cento non lo sapeva. Perciò il 91 per cento degli americani – grossomodo persone con redditi compresi tra i 15mila e i 250mila dollari – si considerava di ceto medio. E una grossa fetta di queste persone si sbagliava.
Prendiamo la sanità: molti americani con redditi significativamente al di sopra della soglia di povertà sono o erano fino a pochissimo tempo fa privi di assicurazione sanitaria, e molti altri rischiavano di perderla.
Basta questo, per me, a dire che non erano di ceto medio. Molti lavoratori a basso reddito, probabilmente la maggior parte, non hanno quasi nessun patrimonio, nessun fondo pensione ecc.

E per quanto riguarda le opportunità? La qualità delle scuole pubbliche in America è estremamente varia e le famiglie a basso reddito non possono permettersi di vivere in un buon quartiere. L’istruzione universitaria è diventata molto meno accessibile di un tempo, perché i fondi per gli istituti pubblici sono diminuiti. Le probabilità di finire il college variano considerevolmente a seconda del reddito familiare.
Potrei andare avanti, ma sono sicuro che è evidente se ci pensate (e se avete una qualche percezione delle realtà dell’esistenza). Tantissimi americani (molto probabilmente la maggioranza assoluta) semplicemente non hanno i requisiti necessari per condurre una vita da ceto medio così come l’abbiamo sempre concepita.

Il punto è che saremmo in grado, se volessimo, garantire gli elementi fondamentali di una vita da ceto medio per quasi tutti gli americani: altri Paesi avanzati ci riescono. L’assistenza sanitaria universale è la norma: noi finalmente stiamo facendo un passo avanti, parziale, verso quella norma, ma la destra vi si oppone istericamente. Una buona istruzione di base per tutti e un’istruzione universitaria gratuita o a costi accessibili in altri Paesi avanzati è possibile.

La cosa triste è che il fatto di aver trasformato in feticcio la classe media, il fatto di fingere di appartenere quasi tutti a quella classe è una delle ragioni principali del fatto che molti di noi, in realtà, non ne fanno parte. Ecco perché è una buona cosa che la cittadinanza si renda sempre più conto della realtà delle differenze di classe: perché in questo modo aumentano le probabilità di cominciare a creare davvero il tipo di società che facciamo solo finta di avere.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

da www.ilsole24ore.com

"La bisaccia di Squinzi", di Nicola Cacace

Il presidente di Confindustra Giorgio Squinzi ha invitato il premier Enrico Letta al
direttivo dell’associazione del 19 febbraio e nel contempo «a presentarsi all’appuntamento portando delle soluzioni», aggiungendo che «se altrimenti arriverà con la bisaccia vuota, gli industriali si rivolgeranno al capo dello Stato».
È un invito ad un cambio di passo del premier che gli industriali hanno tutto il diritto di fare, anche se si può avanzare qualche dubbio sulla procedura costituzionale immaginata dalla Confindustria.
Nel contempo si vorrebbe rivolgere agli industriali qualche domanda sul loro ruolo nello sviluppo del Paese. È vero che soprattutto le piccole e medie imprese si stanno dando da fare per sostenere il nostro export, e gliene va dato merito, ma non per seguire lo storico ammonimento del presidente Kennedy agli americani «chiedetevi voi quello che potete fare per il Paese», si vorrebbe capire se, oltre alle solite legittime domande su Irap e cuneo fiscale, gli industriali della Confindustria, quelli medi e grandi, hanno qualcosa da offrire al Paese. Per esempio nell’ambito del programma governativo «Destinazione Italia», approntato per aumentare la quota di investimenti diretti esteri che, come è noto, sono in Italia i più bassi del mondo, qualcosa si può aspettare anche da loro. Il Paese cresce poco da vent’anni per carenza di consumi ma anche per scarsi investimenti, soprattutto quelli industriali in macchine ed attrezzature.
Non perché mancano le risorse, semplicemente perché si preferiscono altre alternative,
investimenti finanziari e/o investimenti diretti all’estero. Da più di dieci anni gli Ide (investimenti diretti esteri, cioè quelli nell’economia reale) fatti all’estero dai nostri industriali sono mediamente tre volte superiori agli (investimenti diretti esteri in Italia. Nel quinquennio 2007-2012 gli (investimenti diretti esteri all’estero di industriali italiani sono stati 38 miliardi di euro l’anno, nello stesso periodo gli (investimenti diretti esteri dall’estero sono stati 13 miliardi l’anno.
È stato detto autorevolmente: «Gli investimenti esteri? Vanno promossi ma insieme a quelli nazionali. Le imprese italiane hanno circa 70 miliardi di euro attualmente impiegati in strumenti di liquidità. Basterebbe usare quelli per recuperare gran parte degli investimenti perduti negli ultimi anni». Chi parla è Vittorio Terzi di Mc Kinsey che ha diretto la ricerca «Investire nella crescita: idee per rilanciare l’Italia» (Corriere della Sera del 30 settembre 2013). I dati dimostrano che i contributi maggiori che gli industriali italiani hanno dato in questi anni per aiutare il Paese ad uscire dal baratro si sono rivolti in due direzioni, investimenti finanziari di liquidità, con uno stock stimato in 70 miliardi ed investimenti diretti esteri dal flusso annuo di 38 miliardi. Con una differenza importante a nostro sfavore, mentre gli Investimenti diretti dall’Italia all’estero (out) sono stati al 90% green field, cioè nuovi impianti
industriali, a prova positiva della fiduci a italiana nella globalizzazione, la totalità degli Investimenti diretti dall’estero all’Italia (in) è servita a fare shopping di bocconi prelibati, senza alcun contributo immediato a Pil ed occupazione: Bulgari, Parmalat, Loro Piana, Avio spa, Ansaldo energia, Telco Telecom, Ducati, Rinascente, Pomellato, Gancia, etc.
Allora, caro dottor Squinzi, chieda pure al dottor Letta di presentarsi con una bisaccia
piena di «doni» per l’Italia, ma per favore, ci dia pure lei qualche buona notizia, qualcosa che gli industriali, cui i profitti non sono mancati neanche negli anni di crisi, possano fare per aiutare l’Italia a uscire dal baratro.

da L’Unità

"Lo streaming al potere", di Filippo Ceccarelli

La politica cambiata dallo streaming sempre in bilico tra realtà e finzione. E il Pd si interroga se rimandare in diretta la direzione

Interrogativo prima del tempo, ma a futura memoria: verrà trasmessa in streaming anche la prossima riunione della direzione del Pd? L’ex presidente del partito Cuperlo ha infatti posto la questione se il prossimo 20 febbraio, data fatidica per le sorti del governo Letta, sia opportuno discutere in diretta web.
SECONDO lui no perché lo streaming «limita» il confronto. Renzi gli ha risposto in modo problematico: «Vediamo poi». Il segretario ha comunque offerto la sua disponibilità a discutere in una «logica di trasparenza. Io non ne ho mai lesinato ». Ed è vero.
Ma è pure vero che lo stesso Renzi, sempre nella replica, è tornato sull’argomento, sia pure per attaccare in modo abbastanza colorito i parlamentari cinquestelle che «partiti dallo streaming anche al bagno, ora si nascondono, non danno indicazioni e sono arrivati al voto segreto».
Pure in questa parabola c’è un fondo di vero. Li si è visti sdegnosamente in azione contro il povero Bersani; poi anche in un faccia a faccia con Letta, e in quel caso gli andò meno bene – anche se non esistono criteri oggettivi, si giudica per impressioni e suggestioni, ognuno guarda e poi la pensa come vuole.
Ma finora, nonostante i proclami sulla chiarezza e la limpidità della politica M5S, gli utenti della rete non hanno mai avuto il piacere di assistere non si dice a qualche bella litigata interna con strilli e tutto il resto, che pure ci sono state, ma anche solo a un incontro fra i parlamentari e i loro amatissimi Grillo & Casaleggio. Magari prima o poi accadrà, la speranza essendo l’ultima a morire, però intanto questa storia dello streaming qualche sintomatico spunto lo solleva.
Il primo riguarda i numeri, cioè il bacino di fruizione che riguarda la politica. Secondo calcoli necessariamente approssimativi, l’ultima direzione del Pd è stata cliccata, e quindi in qualche modo seguita, da circa 50 mila individui (20 mila solo su
Repubblica. it).
Il secondo, non necessariamente più frivolo in un’epoca di visioni a distanza, ha
a che fare con le forme estetiche dello streaming, che paiono ancora abbastanza antiquate e bruttine, l’audio spesso incerto, una sola telecamera fissa, riprese che trasmettono allo spettatore un senso di rigidità confinandolo in un angolo visuale come in una gabbia.
Ma il punto ancora più rilevante riguarda – anche se l’espressione è impegnativa – il coefficiente di verità di questo strumento; e dunque la sua influenza sulla politica. La modifica? La inquina? La distorce? E i suoi leader? Gli impone per caso una recita mutandone le azioni e il linguaggio? Il dubbio, in altre parole, è che sotto gli occhi di un pubblico immaginato, questi leader smettano di essere se stessi – il che francamente qualche problemino solleva.
Perché da sempre il potere ha bisogno di riserbo, se non di segreto. Con qualche ragione, dopo il tragico meeting Bersanicinquestelle, si è detto che in streaming i presidenti di Usa e Urss non avrebbero mai risolto la crisi dei missili di Cuba; né mai, s’è aggiunto, negli anni 70 si sarebbe firmato il contratto dei metalmeccanici da parte di Lama e Agnelli.
Ma non esiste, o non esiste ancora una fenomenologia dello streaming. Così ad esempio nella penultima direzione del Pd, mentre parlava il turbo-segretario, Cuperlo si è praticamente dimesso da presidente: in diretta e coram populo, come si è capito dalla sorpresa e dalle parole di Renzi. Questo spingerebbe a considerare lo streaming un propulsore di reattività.
Mentre nell’ultima direzione quello stesso dispositivo ha funzionato come una specie di narcotico, Renzi e Letta sembravano le ombre di loro stessi e il dibattito è tornato ad essere quello di sempre, anzi pure un po’ peggio: noioso, stantio, ipocrita e reticente fino all’indecifrabilità.
Vero è oggi i leader paiono ormai prigionieri di una particolarissima condizione esistenziale, per cui «si sentono ripresi anche quando non lo sono – come è stato detto – e sono ripresi anche quando non lo sanno». Così come, tanto nel mondo del potere quanto in quello della tv (reality e talent), si è venuta a creare un’ampia zona che non è né vera né fasulla.
Ha scritto già nel 2001 Marc Augé: «In questo senso la realtà è diventata finzione; ma deve essere chiaro che questa finzione non è del tutto menzognera, né del tutto inventata, anche se l’immagine resta ingannevole: non facendo vedere tutto, non dice nulla; e non dicendo tutto, non mostra nulla». E’ un po’ difficile, e anche di più tornare adesso al Pd; ma in fondo, dietro all’astruso teorema, si intravede la croce, la delizia e magari, all’occorrenza, perfino un po’ l’eterogenesi dello streaming.

da la Repubblica