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"L'innovazione e il minuetto", di Franco Cordero

Quanto l’ipnosi influisca in politica italiana, consta dal lungo dominio fascista: 20 anni, 8 mesi, 26 giorni; cade d’un colpo domenica 25 luglio 1943, vergognosamente, ma continuerebbe fino all’estrema vecchiaia del Dux se non sprofondasse in guerra; ai sudditi piaceva e molti lo rimpiangono. Conta vent’anni anche l’epoca berlusconiana, dove l’irrazionale pesa altrettanto: emblematica la presenza d’una mussolinide; e il consenso ha due radici. L’insofferente della legalità vota B. perché gli conviene: vedi evasori fiscali, corruttori, corrotti, parassiti, malaffaristi vari, nel cui calcolo il pirata al potere significa lassismo, criminofilia, impunità; chi poi abbia profitto diretto voterebbe anche diavoli con le corna. Ma sono tanti a vederlo eroe positivo, buono, giusto, benefico, persino bello, defensor fidei, alle prese con potenze malvagie: la novità, rispetto alla vecchia filibusta, sta nell’essere anche stregone; se li acquisiva mediante lanterne magiche, corrompendo pensiero, sentimenti, gusto. In teoria aveva l’antagonista a sinistra ma lì tengono banco oligarchi inamovibili. Specie nella falda postcomunista, hanno aspetti del clero ateo: forti d’un potere, lo conservano pragmaticamente; cantano formule vacue; ragionano abbastanza per capire che non vinceranno mai ad armi pulite. L’obiettivo strategico, quindi, è un regime consortile; meglio satelliti che oppositori senza futuro: in gergo eufemistico, «larghe intese». Nel ventennio sono andati due volte al governo, consumandone sette senza muovere dito sul conflitto d’interessi, colossale patologia italiana, appena pensabile in una monarchia caraibica: sotto banco avevano garantito l’impero del Re Lanterna; pende ancora lo stupido anatema in malafede contro l’»antiberlusconismo».
Tali i precedenti, finché qualcuno spariglia i giochi, quindi mette paura: nel tardo 2012 l’oligarchia era vittoriosa in casa ma perde rovinosamente alle urne: parevano distacco incolmabile 13 punti sull’avversario segnato dai colpi; in poche settimane li dilapida, salvandosi per il rotto della cuffia nella Camera bassa, dove corre un premio. In aprile vanno in scena «larghe intese», coniugio suicida e spettacolo lugubre. Sette mesi dopo Silvius Magnus esce sbattendo la porta (voleva l’immunità penale) ma restano al governo fedeli suoi, cominciando dal pupillo carissimo Angelino Alfano, servizievoli ogniqualvolta l’impero lo richieda. Il soccombente s’era dimesso dalla segreteria e stavolta gli oligarchi subiscono un’umiliante débâcle alle primarie: 18% uno, 68% l’altro; quasi 3 milioni i votanti (sorridendo a occhi accesi, l’uomo della nomenclatura pronosticava eventi capitali). Non sarebbe una compagnia scaltrita dal mestiere se ammettesse la disfatta: continuano come niente fosse, con che toupet accusano l’avversario d’essere «contiguo » al fenomeno B. Astrologicamente parlando, chiamiamoli scorpioni: Massimo D’Alema punta l’aculeo; Gianni Cuperlo sibila; Stefano Fassina ringhia rancoroso.
Aveva dei programmi l’équipe benedetta dal Colle: riforme (in primis, legge elettorale) e terapie economiche; rien de rien, nei 10 mesi d’una garrula vita vegetativa. Volano parole remote dai fatti: l’infelice creatura sconta un vizio genetico e nella conversione delle «intese» da «larghe» a «ristrette », mantiene in corpo la quinta colonna berlusconiana; con i quali cromosomi l’unica politica possibile è anchilosi ciarlante. Ad esempio, l’Italia ha al collo un vampiro che le succhia gli euro: il km d’alta velocità qui costa 61 milioni, contro i 10.2 in Francia; impossibile mettervi mano perché sono intoccabili gl’interessi patrocinati dallo «statista» plutocrate. Letta nipote salmodia in stile democristiano (tornando dal Golfo Persico, orgoglioso, vanta 500 milioni d’elemosina che gli Emiri hanno lasciato cadere nel cappello). Esiste un fronte ferreo dell’equilibrio immobile. Stando le cose quali erano nove mesi fa, il futuro sarebbe una tranquilla gestione oligarchica (senior partner l’Olonese): e l’Italia stia quieta nel posto che le spetta; il mondo appartiene ai forti e furbi. Ma dalle primarie salta fuori un guastafeste: non sta al patto d’inerzia; vìola i rituali; vuole l’en plein elettorale e siccome può riuscirvi, scattano solidali reazioni difensive (berluscones, frange centriste, soidisante sinistra). Quanto meno valgano, tanto più i politicanti eccellono nel taglio delle teste. In casa Pd l’hanno tagliata tre volte a Romano Prodi (1998, 2008, 2013). L’ultima resta famosa negli annali dell’intrigo parlamentare: i 101 voti negati al candidato che poche ore prima i votanti acclamavano, donde una vertiginosa pochade; e quasi nonagenario, risale al Colle per sette anni l’inquilino uscente, architetto del mirabile ibrido governativo.
Lo sfidante va colpito nel punto in cui riesce pericoloso: la figura d’innovatore; come guastargliela? Ovvio, basta ingolfarlo nel minuetto. I carismi d’agonista antisistema sfumeranno appena gli elettori lo vedano simile a tutti, immischiato nella solita manfrina e perdente, perché questa maggioranza gl’inibirebbe ogni serio tentativo. L’esca è la presidenza del Consiglio: offerta letale; lasciandosi abbindolare, affonda nel marasma, senza l’alternativa d’una chiamata alle urne. Neapolitanus Rex non gliela concederebbe, quando anche esistessero onesti meccanismi elettorali: l’ha detto o lasciato capire; e sta tenendo vivo l’esecutivo inerte, con lodi al premier. Né piglierei sul serio l’Olonese invocante l’ordalia elettorale nei termini convenuti: la sua parola pesa meno d’una piuma; e perché rischiare la sconfitta definitiva, avendo sotto mano un Pd letargico, fannullone, incline ai patti sotto banco, avvilito dalla tresca con i «diversamente berlusconiani», finti fuorusciti, pronti alla genuflessione appena lui chiami? Le «larghe intese» sono dietro l’angolo, tanto più se votassimo con una proporzionale pura. Insomma, M. R. stia lontano da Palazzo Chigi. La partita è dura ma, condotta bene, riserva buone chance.

da la Repubblica

"Se il «marchio Italia» perde punti nell’anno magico del turismo globale", di Gian Antonio Stella

Maglia nera in Europa: pernottamenti scesi del 4,6 per cento.

Vi pare possibile che «il Paese più bello del mondo» perda turisti nell’anno del boom mondiale del turismo? Che vada sotto del 4,6 per cento (maglia nera europea) mentre perfino la Grecia recupera ossigeno crescendo dell’11? Che ricavi dall’immenso tesoro d’arte e bellezza, unico a livello planetario, solo il 4,1 per cento del Pil? Non sono campanelli d’allarme: sono campane assordanti. Eppure troppi non le sentono. Come se si trattasse di un problema comunque minore…
Stavolta no, nessuno può attribuire tutto alla crisi mondiale, al crollo dei mercati, allo spostamento degli assi di certe produzioni industriali, all’emergere prepotente della Cina o dell’India. Niente alibi. Perché mai si erano visti, nella storia, tanti benestanti in vacanza quanti nel 2013.
Sono stati, spiegava nei giorni scorsi Unwto-World Tourism Barometer, 1.087 milioni. Cioè oltre 52 milioni in più rispetto al 2012 quando, per la prima volta, il loro numero aveva superato di slancio il miliardo. Nel non lontanissimo 1980 erano 280 milioni: siamo al quadruplo.
È la prova della bontà della tesi di Jeremy Rifkin: «L’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza è il turismo globale: una forma di produzione culturale emersa, ai margini della vita economica appena mezzo secolo fa, per diventare rapidamente una delle più importanti industrie del mondo». Tesi confermata dalla Commissione europea: «Il turismo rappresenta la terza maggiore attività socioeconomica dell’Ue».
E chi potrebbe sfruttare l’occasione meglio di noi? Abbiamo più siti Unesco (addirittura 49, e dovrebbero diventare 50 con le Langhe) di chiunque altro su tutto il pianeta. Siamo nelle posizioni di testa delle classifiche del «Country Brand Index 2012-2013» che ha studiato i «brand-Paese» di 118 nazioni accertando che il «marchio Italia» tra i potenziali consumatori è primo per il cibo, primo per attrazioni culturali e terzo per lo shopping, insomma primo nei sogni dei viaggi che i cittadini del mondo vorrebbero fare. Veniamo da una storia che nel 1979, come rivendicava il ministro del Turismo dell’epoca, Marcello di Falco, ci vedeva «secondi al mondo per attrezzatura ricettiva, primi per presenze estere, primi per incassi turistici, primi per saldo valutario».
Macché: spiega l’ultimo dossier Unwto, l’organizzazione mondiale per il turismo, che restiamo sì al quinto posto per numero di arrivi ma per fatturato siamo scivolati già al sesto posto dietro Macao e siamo ormai tallonati dalla Germania che dal 2008 ha dimezzato il distacco di 6 miliardi di dollari riducendolo a 3. Per non dire della classifica della competitività turistica (non basta avere la torre di Pisa, Pompei o l’Etna: devi offrire pure prezzi giusti, trasporti, organizzazione, sicurezza…), classifica che ci vede malinconicamente arrancare al 26º posto nel mondo e al 17º in Europa.
Spiega il rapporto 2013 di World Travel & Tourism Council, mostrando tutti gli indicatori (sei su sei) con la freccetta verso il basso, che il turismo in senso stretto col quale troppi si riempiono a sproposito la bocca («il nostro petrolio!») contribuisce al Pil italiano con appena il 4,1% e cioè una quota inferiore a quella che vari Paesi occidentali ricavano già da Internet. Peggio: compreso l’indotto (per capirci: compresi i laboratori che sfornano croissant per le colazioni negli alberghi o le fabbrichette che fanno le divise dei camerieri) supera a malapena il 10,3%. Lontanissimo da quel 18,5% immaginato nel 2010 dal «Piano strategico per il turismo» della Confindustria di Emma Marcegaglia. E ancor più lontano dagli impegni di Silvio Berlusconi: «Ho dato come missione al ministro Brambilla di portare la quota di Pil del turismo dal 10 al 20%».
Non basta: senza una sterzata virtuosa gli economisti del Wttc prevedono che nei prossimi 10 anni solo nove Paesi su 181 monitorati cresceranno meno del nostro.
La tabella a fianco sui pernottamenti, diffusa giorni fa da Eurostat, ribadisce tutto. L’Ungheria ha avuto nel 2013 un aumento del 5,0%, la Slovacchia del 5,5, la Bulgaria del 6,2, la Gran Bretagna (28 siti Unesco: poco più della metà dei nostri) del 6,5, la Lettonia del 7,3 e la Grecia, come dicevamo, addirittura dell’11 per cento. Oro zecchino, per le esauste casse di Atene.
Certo, non siamo gli unici a essere andati male. Qualcosa hanno perso ad esempio anche il Belgio o la Danimarca. Ma nessuno su 28 Paesi, come dicevamo, è andato male come noi. Dalle tre cime di Lavaredo ai Faraglioni di Capri, dagli Uffizi al barocco di Noto, da San Gimignano ai trulli di Alberobello possiamo offrire più di tutti, sul pianeta. Eppure perdiamo 4,6 punti. Con un’emorragia, come denunciava giorni fa Assohotel, di 1.808 imprese alberghiere. Nell’«anno magico» del turismo mondiale.
Colpa del crollo dei turisti interni, certo: gli italiani che possono permettersi una vacanza, purtroppo, sono sempre di meno. Tanto da pesare oggi, secondo una ricerca di Nomisma, meno degli stranieri. Come successe nel 1958. Proprio per questo, però, spiccano i ritardi culturali e tecnologici che rendono più difficile l’aggancio di quei turisti esteri che potrebbero aiutare le nostre finanze.
Spiega uno studio di Mm-One Group su dati Eurostat che nonostante i passi avanti degli ultimissimi anni, dovuti proprio al tentativo sempre più angosciato di recuperare clienti superando le pigrizie del passato quando troppi erano convinti che «comunque vada, qui devono venire», l’Italia è ancora nettamente indietro rispetto agli altri Paesi europei.
Basti dire che il 30,1% degli alberghi, delle locande, dei bed&breakfast e insomma di tutte le attività ricettive non ha ancora una piattaforma dedicata alle ordinazioni. Che meno della metà e cioè il 46,7% vende online. Che mediamente i pernottamenti venduti sul web rappresentano solo il 12,5%. Uno su nove.
Nel resto dell’Europa, la quota di fatturato derivante dall’e-commerce è del 24% ma diversi Paesi stanno molto sopra: la Gran Bretagna è al 39%, l’Islanda al 35, l’Irlanda al 33, la Repubblica Ceca al 31, la Lituania al 30, l’Olanda al 29… E mette malinconia vedere come noi, al 17%, siamo staccati dai nostri «concorrenti»: cinque punti sotto la Francia, sei sotto la Germania, dieci sotto la Spagna, ventidue sotto il Regno Unito.
Per questo resta stupefacente il silenzio che, salvo eccezioni, ha sempre accompagnato la diffusione di numeri sconfortanti come (fonte Wttc) la perdita di 4,3 miliardi di euro nel turismo straniero nel 2012 rispetto al 2006.
Silenzio degli uomini di governo. Silenzio dei partiti. Silenzio dei sindacati, che sembrano non accorgersi di come il settore abbia sette volte più addetti della chimica o addirittura ventisette volte quelli della siderurgia primaria.
Fu giusto, quando nacque il governo Letta, salutare come una svolta positiva l’accorpamento del ministero dei Beni culturali con quello del Turismo. Anzi, sarebbe stato bene aggiungere anche l’Ambiente. Proprio perché un ministro del nostro patrimonio dovrebbe poter pesare molto, in Consiglio dei ministri. Perfino il passaggio delle funzioni a Massimo Bray, però, si è rivelato un percorso complicatissimo. E la sterzata si è fatta sempre più urgente.

da il Corriere della Sera

"Gli ostacoli alla crescita economica", di Bill Emmott

Dall’inizio del 2014 per gli investitori internazionali nell’economia mondiale è cambiato tutto. Per i giovani disoccupati d’Italia, Gran Bretagna o persino America, o per una famiglia con un reddito invariato o in calo negli ultimi cinque anni, non è cambiato nulla. La grande domanda per il 2014 è se questi due percorsi torneranno a unirsi.

Per gli investitori il cambiamento è notevole, anche se a pensarci bene non dovrebbe sorprendere. Per i giovani disoccupati e per le famiglie normali, al contrario, è la mancanza di cambiamento a deludere. Ma per loro la vera, grande delusione in molti paesi, l’Italia in particolare, è la mancanza di iniziativa da parte del governo o dei politici. Ci sarà un perché se il Movimento Cinque Stelle rimane stabile nei sondaggi e partiti anti-sistema come il Dutch Freedom Party in Olanda, il Front National francese o l’Independence Party britannico, guadagnano consensi nella prospettiva delle elezioni di maggio per il Parlamento europeo.

Il cambiamento per gli investitori, tuttavia, dovrebbe portare un po’ di speranza, almeno per quanto riguarda un eventuale termine per la delusione. Una speranza più forte in America e in Gran Bretagna che in Italia o nel resto della zona euro, ma che potrebbe arrivare anche lì, in ultima analisi. A patto cioè, che gli eventi in Asia e in altre economie emergenti, non lo blocchino o lo destabilizzino. In che cosa consiste il cambiamento? Nel fatto che invece di continuare a calcolare quanto sono deboli le economie americana, inglese, giapponese e nordeuropea, investitori e banchieri centrali sono ora costretti a calcolare quanto siano forti. Il recupero dopo un crac finanziario, specialmente se duro come quello del 2008-09, è sempre lento. Ci vuole tempo perché le banche si sistemino, perché le aziende riducano i loro debiti, la fiducia è in frantumi. Ma alla fine ritorna e le aziende ricominciano a investire e ad assumere.

Questo è chiaramente quello che sta accadendo in America e in Gran Bretagna. La ripresa degli investimenti va al rallentatore, ma è in corso. In America a gennaio sono stati creati meno nuovi posti di lavoro di quanto sperassero gli economisti, ma probabilmente ne è in gran parte responsabile il brutto tempo. La Federal Reserve confida nella ripresa abbastanza da aver iniziato a restringere la sua politica monetaria, riducendo gradualmente la quantità di obbligazioni acquistata ogni mese dal mercato, il cosiddetto «alleggerimento quantitativo».

A differenza dell’America, il crescente rafforzamento della Gran Bretagna è dovuto più al mercato immobiliare e ai consumi delle famiglie e questo potrebbe renderlo meno sostenibile nei prossimi anni. Ma anche lì la disoccupazione è in calo e i redditi, al momento, stanno cominciando a crescere. Per questo motivo è probabile che entro la fine dell’anno la Banca d’Inghilterra cominci a ridimensionare la propria politica monetaria per impedire che la crescita produca un nuovo aumento dell’inflazione. Nella zona euro la preoccupazione è diversa: piuttosto che dell’inflazione la Banca centrale europea deve preoccuparsi della deflazione, o del calo dei prezzi, perché una tale tendenza renderebbe il peso già enorme del debito pubblico ancora più oneroso e potrebbe anche danneggiare le imprese. Ma la settimana scorsa la Bce ha ottenuto un’importante vittoria presso la Corte costituzionale tedesca, quando il giudice ha deciso che non poteva bloccare le misure adottate da Mario Draghi per sostenere il sistema finanziario. Questo rende più probabile che per combattere l’inflazione la Bce sarà ora in grado di presentare la propria politica di «alleggerimento quantitativo», pompando denaro nelle economie della zona euro così come la Fed ha fatto in America.

Quindi il cambiamento è in cammino, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma, come sempre, incombe un’ombra, o meglio, due ombre. In Europa la grande incognita è la politica – il pericolo che le elezioni europee di maggio potrebbero trasformare la naturale delusione dei comuni elettori in una grande ribellione contro l’Unione europea, contro la cooperazione internazionale e contro le politiche di austerità associate con l’euro e con la Germania di Angela Merkel.

Nel mondo, però, l’incognita è un’altra anche se pure lì c’è una componente politica. L’ombra proviene dai nuovi fermenti che agitano le economie emergenti, quelle che negli ultimi cinque anni hanno salvato l’economia globale. In parte questo è il risultato del mutamento di politica della Federal Reserve, dal momento che l’alleggerimento quantitativo americano negli ultimi anni ha inondato di denaro non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero. Anche un sacco di economie emergenti, però, hanno continuato a crescere velocemente in mezzo alla recessione globale, creandosi da sé molto nuovo credito e incoraggiando le proprie imprese private a chiedere prestiti. Il processo è stato sostenuto dall’aumento dei prezzi delle risorse naturali e dell’energia, che ha fatto apparire gli investimenti nelle economie produttrici di risorse dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina come una scommessa a senso unico. Ma ora i prezzi delle materie prime sono in calo e questo rende la scommessa più rischiosa.

È per molti versi un ritorno alla crisi finanziaria dei mercati estasiatici ed emergenti del 1997-98. I paesi che avevano accumulato grossi debiti privati e grandi deficit della bilancia dei pagamenti furono duramente colpiti. Così i produttori di petrolio, come la Russia, perché il prezzo del petrolio crollò. Ora le economie più fragili sono ancora quelle con grandi deficit come la Turchia, il Sud Africa, l’India e Indonesia, ma anche, di nuovo, la Russia. Le turbolenze dei mercati emergenti sono solo agli inizi, quindi è troppo presto per dire se sarà solo un’onda nell’oceano o un nuovo tsunami. C’è anche un’ulteriore complicazione: la Cina. La seconda più grande economia del mondo non è fragile, né ha un deficit. Ma altri paesi dipendono dalle sue importazioni, in particolare di risorse naturali e semilavorati. E la sua economia sta rallentando bruscamente per via della bolla del credito interno e degli sforzi ufficiali per contenerla.

Lo scenario più favorevole è che le turbolenze dei mercati emergenti stavolta siano contenibili e che il rallentamento della Cina sia moderato. Ciò consentirebbe alle economie occidentali in convalescenza di recuperare le forze nel corso dell’anno. Eppure, dobbiamo sempre ricordare che la politica ha il potere di distruggere anche la previsione più fiduciosa e che i mercati finanziari vanno nel panico come mandrie di gnu inseguiti dai leoni. E dobbiamo infine ricordare che il punto dell’intero esercizio non sono le cifre del Pil o il reddito degli investitori ma il futuro di quei giovani disoccupati e i redditi familiari. Se non ci saranno miglioramenti entro la fine del 2014, non ci sarà nulla di cui rallegrarsi.

da www.lastampa.it

"Visco: più soldi a famiglie e imprese", di Bianca di Giovanni

La ripresa è ancora «debole e incerta». La crescita italiana si fermerà quest’anno ancora a cifre da prefisso telefonico, 0,75%. Altroché l’1,1% a cui punta il governo.
La Penisola resta assediata dall’alta disoccupazione, soprattutto tra i giovani, e dalla bassa competitività per il grado ancora insufficiente di innovazione.
L’economia è ancora in panne: è urgente sostenere il reddito delle famiglie e delle imprese attraverso sgravi fiscali. È un quadro devastante quello fornito dal governatore Ignazio Visco in occasione dell’Assiom Forex (la tradizionale assemblea degli intermediari finanziari) di Roma. Per uscire da un tunnel che sembra interminabile, nonostante alcuni segnali di inversione di tendenza, è necessario agire su diverse leve: prima tra tutte quella del credito. Ed è su questo punto che il numero uno di Bankitalia lancia unmessaggio chiarissimo: si risolva al più presto il problema dei crediti deteriorati degli istituti bancari.
In altre parole, si «ripuliscano» i bilanci delle banche da questi fardelli, frutto di sei anni di crisi profonda, e si consenta alla macchina di ripartire. Le banche hanno il dovere di contribuire alla ripresa, tanto più che «anche da noi il sistema finanziario deve riguadagnare la fiducia del pubblico».

INTERVENTI AMBIZIOSI
Il governatore non cita esplicitamente il termine inglese, ma è chiaro a tutti che
si parla dell’ipotesi «bad bank». Il che vuol dire che non bastano solo le operazioni
di mercato di alcuni intermediari, che stanno creando dei «veicoli» su cui scaricano i crediti «spazzatura» (vedi il caso Mediobanca). Questo va certamente «nella giusta direzione». Ma Visco si spinge oltre, chiede «interventi più ambiziosi, da valutare anche nella loro compatibilità con l’ordinamento europeo».
Impossibile non pensare al caso spagnolo, in cui lo Stato si è accollato i debiti bancari facendosi finanziare dal Fondo europeo. Certo, l’Italia non è a quel punto. Tanto più che prima di pensare a un finanziamento pubblico, ci sarebbe molto cammino da fare nel nostro Paese sul fronte del mercato del credito. «È un settore ancora poco sviluppato da noi – commenta Innocenzo Cipolletta, a margine del Forex – Le banche
dovrebbero ricorrere ai “veicoli” con più frequenza, senza farlo tutti insieme». In ogni caso è cruciale agire ora. Certo, c’è il vincolo di bilancio. Se, tuttavia, l’Italia manterrà la credibilità che ha riconquistato, non guadagnerà solo in termini di minore spesa per interessi, ma anche in termini di nuova flessibilità sulla spesa pubblica. Insomma, più denaro in circolo e magari anche la possibilità di sostenere il peso dei crediti deteriorati per favorire i prestiti alle imprese. Il governatore fa un appello preciso alla platea degli intermediari finanziari. «Ogni sforzo va indirizzato a risollevare la domanda favorendo, in una visione condivisa di più chiare prospettive future, la creazione di nuove opportunità di lavoro, l’accumulazione di capitale,
un’innovazione volta a ottenere guadagni di produttività da trasferire sui redditi».
Il Visco-pensiero sta tutto in queste poche righe: rinforzare la domanda creando posti di lavoro, innovazione, produttività. Il faro dev’essere il sostegno ai redditi delle famiglie, soprattutto quelle più deboli. Bisogna tenere conto «di chi sta soffrendo di più le conseguenze della lunga crisi e dei cambiamenti connessi con l’apertura dei mercati e con il rapido affermarsi delle nuove tecnologie». Torna, nelle parole di Visco, un vecchio «tic» del governatore: quell’attenzione verso le giovani generazioni
su cui si scarica la crisi. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto «un livello prossimo al 13%, il doppio di quello prevalente prima della crisi e il più elevato da quando è iniziata, negli anni Cinquanta, la rilevazione – osserva Visco – Il forte e protratto calo dell’attività economica ha pesato in misura maggiore sui giovani, tanto che il tasso di disoccupazione per quelli di età compresa tra i 15 e i 24 anni, escludendo gli studenti, è sceso al 43% dal 61% del 2007».
Non bastano i segnali di stabilizzazione del tasso di occupazione registrati negli ultimi
mesi: il lavoro rischia di arrivare troppo tardi. La ripresa così è messa a rischio.
Oltre al credito, per il governatore ci sono altri due fattori di rischio: la dinamica
dei prezzi e le condizioni del mercato dei debiti sovrani.
Sul primo punto, Visco esclude l’ipotesi deflazione. Tuttavia ricorda che «anche un periodo prolungato di variazoni dei prezzi al di sotto del livello compatibile con la stabilità monetaria» può ridurre la capacità di spesa delle famiglie. Come dire: il rischio impoverimento è reale.
Sul debito pubblico, poi, il governatore offre una impostazione opposta a quella dei fautori dell’austerity. Il tema non si affronta con il solo rigore, ma puntando sulla crescita.
Se il Pil aumenterà, sarà automatico rispettare i vincoli del fiscal compact.

da L’Unità

"Bolle e rimpasto: psicosomatica del potere", di Filippo Ceccarelli

Tra bolle e malpancismi quando la politica scopre la psicosomatica. Dal Cavaliere a Renzi, le parole del potere

Immerso e in qualche modo impantanato come tutti gli altri protagonisti della politica in uno stagno di metafore ad alto impatto, Matteo Renzi ha detto ieri che al solo sentire parlare di rimpasto gli «vengono tutte le bolle» e allora scappa a Firenze, «in mezzo alla gente. Il valore terapeutico e anzi salvifico della “gente” ha messo in secondo piano entità, tipologia e conseguenze pratiche di dette bolle. Ma è chiaro che l’immagine era intesa a proclamare nel modo più netto la sua totale e persino patologica incompatibilità con quell’antica formula politichese.
Curioso e paradossale, semmai, è che più gli odierni leader si sforzano di tenersi lontani da rimpasti, vertici, verifiche, staffette, appoggi esterni e altri vetusti attrezzi da Prima Repubblica e meno questo squalificante armamentario sembra disposto ad abbandonare il campo, anzi. Come mai?
Una possibile risposta è che la politica resta pur sempre “l’arte di far credere” (Hannah Arendt). Ma poiché il discorso pubblico della Seconda Repubblica, come del resto l’immaginario che le fermenta nella pancia, tende drammaticamente a ripetersi, dagli e dagli s’affaccia anche il temerario dubbio che forse le bolle e altri sintomi accampati per distogliere da sé qualche sospetto, o garantire un profilo più smagliante, ecco, siano meno metaforiche di quanto si sarebbe portati a immaginare.
Per cui, sì, è un modo di dire che davvero non lo vuole, questo benedetto rimpasto. E tuttavia evocando le bolle, magari Renzi le esorcizza sul serio. O saranno eventuali macchioline, pusto-lette, foruncoli, afte, brufoli, fuochi di Sant’Antonio, nessuno ovviamente si sogna di pretendere da lui, come da qualsiasi altro capo politico, resoconti precisi o puntuali al riguardo, tanto più se si considera che gli unici seri paletti piantati dalla normativa sulla privacy all’informazione riguardano, oltre agli orientamenti sessuali, lo stato di salute delle persone.
Quindi pace e bene. Ma in un tempo in cui il corpo dei leader ha sostituito idealità e progetti, la psicosomatica del potere, e quindi l’interconnessione tra disturbi fisici reali e possibili cause di origine psichica, ha tutta l’aria di configurarsi come una faccenda non così campata in aria.
Certo, dipende anche dal tipo di stress. Un conto è una possibile verifica, si capisce, o un eventuale rimpasto. Tutt’altro peso, per dire, può assumere la tensione prolungata e il senso di colpa; da questo punto di vista solo Francesco Cossiga ha avuto l’onestà di attribuire pubblicamente al caso Moro i capelli divenutigli bianchi prima del tempo e una malattia alla pelle delle mani.
Quando il Pci cambiò nome — altro esempio di rilievo — migliaia di militanti entrano certamente in una sofferenza emotiva che durò un anno e più. Non per caso, proprio in quel frangente entrò nel lessico politico l’espressione “mal di pancia” — e “malpancisti” si qualificarono quanti con indubbio disagio non si riconoscevano nelle due mozioni.
Il desiderio frustrato, l’attesa disperante di una poltrona, la depressione per la sua perdita, si muovono anch’essi lungo questo delicato orizzonte, anche se è impossibile non solo stabilire rapporti di causa-effetto a livello fisico. Di solito chi comanda tende a ingrassare. L’altro giorno un rotocalco ha maliziosamente pubblicato una foto di Renzi evidenziandone con un cerchio la pancetta. Ma molto gioca nel suo caso l’invidia per la giovane età. Altri leader anziani vivono perennemente scortati da medici fiduciari, di solito prontamente beneficiati con incarichi pubblici, gettoni e seggi e rispetto.
Ma per tornare ai pretesi e conclamati sfoghi epidermici, tra le mille e mille elucubrazioni che questo tempo bizzarro stimola e al tempo stesso lascia disperdere, ce n’è una che tra potere e prurito stabilisce un nesso tanto saldo quanto misterioso. O almeno, non si ha idea di quanti potenti siano disposti a mostrare una così acuta sensibilità in proposito.
Per dirla tutta. Ciò che ieri ha evocato Renzi dinanzi alla pur remota prospettiva di un rimpasto, altre due volte (2003 e 2004), era stato detto da — indovina — Berlusconi. Solo che al posto delle generiche “bolle” paventate dal giovane segretario del Pd, l’anziano capo del centrodestra aveva denunciato il rischio di prendersi l’”orticaria”.
In tal senso la benemerita Wikipedia offre diverse varianti del pruriginoso disturbo che procura macchie e bollicine di nome “pomfi”. Esistono in effetti l’orticaria ereditaria, colinergica, da contatto, da pressione, da allergia alimentare, da puntura di insetto, da polline e — ebbene sì — pure da stress emotivo.
Ed eccoci di nuovo. Non si coglie qui l’occasione — troppo facile — per concludere che Renzi e Berlusconi dicono le stesse cose e hanno le medesime idiosincrasie, anche a livello psicosomatico. Ma solo perché questa battuta della presunta orticaria è fiorita sistematicamente in bocca a quasi tutti gli altri leader, da Fini a D’Alema, da Bossi fino a Maroni.
Insomma piace molto a tutti e la trovano assai convincente. Nel frattempo sono anni che non si parla che di rimpasti e verifiche e altre cose per lo più inutili e al tempo stesso evidentemente necessarie, ancorché urticanti. Del resto l’erba cattiva non muore mai.

da la Repubblica

"Prodi: «Letta rischi di più. La mia staffetta non si ripeta»", di Alessandro Barbano

Professore Romano Prodi, la Consulta tedesca ha rinunciato a decidere sulla legittimità dello scudo della Bce, cioè sull`acquisto dei titoli di Stato dei paesi indebitati, e ha rinviato gli atti alla Corte di giustizia europea. È una svolta?
«Una svolta non so, ma una decisione inaspettatamente positiva sì. E mi ha fatto piacere che sia venuta da una Corte tanto influente quanto venerata in Germania. La quale, rinunciando a deliberare su una controversia sovranazionale, riconosce che c`è un giudice in Lussemburgo, cioè in Europa, e non solo a Berlino. Di questi tempi, non è poco».

E una tregua concessa dalla tecnocrazia alla politica?
«Lo vedremo più in là, ma certo il rinvio a una giurisdizione superiore è indirettamente una manifestazione di riconoscimento politico dell`entità che la sostiene, cioè l`Europa».

Nel merito è anche un modo di riconoscere l`autonomia della Bce?
«Nel merito deciderà la Corte europea, ma il messaggio politico di questo rinvio è chiaro e positivo».

Che vuol dire? Che, dopo gli appelli di Giorgio Napolitano al Parlamento di Strasburgo e di intellettuali come Jurgen Habermas sui giornali, alla vigilia delle elezioni la voce dell`Europa torna a farsi sentire?
«Non mi pare. Perché la voce dell`Europa torni a parlare in concreto agli europei bisogna che cambi la politica. Non vedo per ora nessun mutamento di sostanza. Il messaggio che continua a passare è un altro. Io sono ancora indispensabile per il vostro futuro – dice oggi l`Europa ai cittadini, o almeno questi così intendono -, ma gli interessi politici dei paesi periferici non sono presi in considerazione, poiché non c`è un equilibrio tra le diverse anime ma una forza che prevale sulle altre, e questa forza si chiama Germania. Una sentenza interessante non smuove gli elettori, senza una politica che li aiuti nelle loro difficoltà. Ci vuole ben altro».

Dobbiamo aspettarci un boom del populismo nelle urne di maggio?
«Il populismo è il termometro del disagio, questo è chiaro. Bisognerebbe iniziare a chiedersi perché esso si è infiltrato in tutte le democrazie europee tranne una. La Merkel lo ha spento, ma a quale prezzo?
Quello di dire: cari elettori, io faccio i vostri interessi, mai un euro a questi latini un po` lazzaroni e un po` truffaldini. Una semplificazione un po`ardita, non le pare?».

Ma non sarà una semplificazione, o una scorciatoia troppo corta verso il bipolarismo, anche la legge elettorale in cottura nei forni italiani?
«Non lo so, però io sono stato sempre per un sistema bipolare, come quello francese. E resto convinto che un Paese frammentato come l`Italia lo si può guarire solo obbligando i partiti ad accordarsi».

Anche se per prendere la maggioranza dei seggi basta il 37 per cento dei voti?
«Non voglio entrare in questi dettagli. Dico solo che il doppio turno è uno strumento di democrazia e di coesione da promuovere».

Ma in un Paese dove sono implose coalizioni che avevano 370 deputati in Parlamento il concime dell`unità risiede nel disegno di una scheda elettorale?
«Certo che no. Potrei rispondere guardando alla nostra storia divisiva e troverei molti esempi e ragioni valide. Le alleanze coese e le stesse grandi coalizioni funzionano quando i progetti si sono, per così dire, omogeneizzati. Non per nulla in Germania, dove la distanza tra le forze politiche rivali è molto inferiore che in Italia, hanno discusso mesi per fare un programma comune. Oggi sappiamo che le larghe intese sono da noi pressoché impossibili. E abbiamo il dovere di rimediare a uno sfarinamento che ci sta di fronte. Lo strumento della legge elettorale non è esaustivo ma può servire. Soprattutto se elimina il rischio della governabilità in una delle due Camere. Perciò ritengo che sia molto utile il collegamento tra legge elettorale e riforma del Senato».

È il programma di Renzi?
«È il programma di uno che l`instabilità del Senato l`ha pagata sulla sua pelle, politicamente parlando. Il bicameralismo perfetto era frutto della paura del ritorno al Fascismo, ma quella era un`Italia che usciva dalla guerra. Già nel `48 si era capito che le due Camere con funzioni parallele potevano dar vita a un parlamentarismo malato».

Darebbe un consiglio a Letta e a Renzi per non bruciarsi in questa transizione?
«A Letta dico in modo affettuoso che deve fare uno scatto, deve rischiare di più. Perché in questo momento la mediazione non paga più».

Parla di rimpasto?
«No, parlo di riforme e decisioni coraggiose. Il rimpasto è un mezzo tecnico e può vedersela da solo. Ma deve fare attenzione a non consumarsi nella mediazione».

C`è ancora tempo per svoltare?
«Sinceramente mi pare di sì, purché non se ne perda altro».

E a Renzi?
«Non posso dare consigli in una situazione interna al Partito democratico, che non conosco a fondo. Dico solo che in questo momento lui è estremamente forte e deve usare con saggezza questo vantaggio. Per prima cosa deve mettersi attorno gente che conosca l`economia e la politica estera».

Vuol dire che la sfida si gioca oltre i confini?
«Si gioca dentro e fuori. Perché all`estero devi presentarti con una politica interna credibile, per cercare alleanze in grado di proporsi come alternative a una certa egemonia tedesca. Nessun Paese da solo può vincere questa partita. Italia, Francia e Spagna insieme possono farlo. Ma devono avere le carte in regola».

Lei sente aria di elezioni?
«Sono fuori dal giro ristretto in cui si decide se andare al voto. Ma so per esperienza che su queste decisioni giocano molto fattori ambientali e soprattutto emotivi. Ho imparato che la politica non è certo il luogo della razionalità assoluta».

Ma c`è anche profumo di staffetta, e qualcuno dice che a furia di ricordare analogie con quel 1998, quando D`Alema le successe, qualcosa potrebbe ripetersi tra Renzi e Letta.
«Confesso che a distanza di tanti anni non ho ancora capito perché nel `98 si sia agito in quel modo. Ma mi è chiaro che quello fu un suicidio politico e spero che stavolta non si ripeta. Allora non fu ucciso solo un disegno di governo ma anche la speranza di un Paese. Questo fu il danno più grave».

Ha detto, di recente, in un`intervista al Corriere che non intende fare il capo dello Stato.
«Lo confermo».

Perché? A furia di subire tradimenti, non ama più il suo Paese o la politica?
«Il mio Paese lo amo follemente e la politica ancora di più. Ma devo prendere atto di essere diventato obsoleto in un dibattito politico, diciamo così, due punto zero, in cui le parole sono più veloci del pensiero e in cui io non riesco più a capire».

Il Senato è terreno di scontro, dopo la decisione del presidente Grasso di costituire Palazzo Madama in giudizio nel processo di Napoli che vede Berlusconi imputato della compravendita dei parlamentari, grazie alla quale sarebbe poi caduto proprio il secondo governo Prodi nel 2008. Come giudica questa decisione?
«La giudico con gli occhi e le parole di chi guarda questa vicenda dall`estero, e la considera l`episodio più grave di tutta la storia politica italiana. Mi colpisce come in Italia la compravendita di senatori sia stata sottovalutata e derubricata a poco più che un incidente. Essa ha prodotto un danno ai partiti e alle istituzioni nella forma più lesiva per la democrazia. Perciò credo che la difesa del Senato come istituzione fosse quanto meno doverosa. Se poi per formalizzarla si sia trovata una procedura intelligente, o piuttosto no, è un altro discorso».

Però succede che prima una commissione parlamentare si pronunci per il no alla costituzione di parte civile e poi si avochi la decisione, ribaltandola. Non le pare che qualche dubbio sorga sulla bontà della risposta istituzionale?
«Può darsi, ma non entro nell`autonomia delle istituzioni. Dico però che la compravendita di senatori è una lesione, per la quale il Senato come istituzione e i partiti come difensori della democrazia avrebbero dovuto reagire con il senso più forte del vulnus».

Perché il trasformismo in Italia da meccanismo adattivo della democrazia diventa spesso pratica criminogena?
«Non me la sento proprio di configurare ciò che è accaduto come trasformismo. Questa vicenda è un attacco al fondamento dello Stato e al luogo, il governo, dove si prendono le decisioni più importanti. Ripeto, è incredibile che ciò faccia indignare gli osservatori stranieri e qui passi sotto traccia».

Torniamo allora al suo ultimo giorno da premier, cioè a quel 24 gennaio 2008 quando fu sfiduciato al Senato con 161 voti, contro i 156 favorevoli a lei. Che cosa ricorda o che cosa intuì?
«Intuii che c`erano tante cose che non capivo. Le voci si rincorrevano, ma un`operazione truffaldina era, per un uomo ancorato al patto di lealtà parlamentare, inaccettabile. Certo, se avessi avuto prove avrei reagito con decisione immediata. Ma finii per convincermi che tutto fosse frutto di chiacchiere. Poi, quando ho ricevuto la lettera di De Gregorio con la sua confessione e le sue scuse, è stato un colpo». Lei figura come uno dei principali testimoni dell`accusa al processo che si aprirà a Napoli martedì prossimo. Che cosa dirà? «Per ora nessuno mi ha chiamato. Certo, non potrò che confermare di aver ricevuto quella lettera. Non posso aggiungere altro».

da il Mattino

"Uno spettro si aggira per l’Europa: le larghe intese", di Paolo Soldini

Ci sono le larghe intese anche nel futuro dell’Europa? Qualcuno, guardando ai sondaggi
che in questi giorni cominciano a circolare sulle elezioni per il parlamento europeo del 22-25 maggio, pensa che a una megacoalizione tra socialisti & democratici da una parte e popolari dall’altra non ci siano alternative. Il Ppe è in netto calo e dovrebbe prendere
una cinquantina di seggi in meno rispetto ai 275 che ha ora. Il gruppo S&D crescerebbe invece di una ventina di europarlamentari arrivando a quota 213, in un testa a testa in cui alla fine potrebbe anche sperare di prevalere.
Ma i socialisti e democratici non potrebbero comunque contare sull’esistenza di una maggioranza a sinistra del centro, pur se la sinistra radicale del Gue/Nlg dovrebbe ottenere un buon risultato, crescendo di 23-24 seggi fino a contarne una sessantina e
superando i Verdi che perderebbero un buon terzo dei loro 58 seggi attuali.
Ammesso (e non concesso) che fosse praticabile un’alleanza, magari limitata
e solo tattica, tra S&D, sinistra radicale e Verdi, essa potrebbe contare su non più di 312-313 deputati, ben meno della maggioranza relativa dei 751 eurodeputati.
Una maggioranza, a dire il vero alquanto risicata, ci sarebbe solo se alle sinistre si aggiungessero i liberaldemocratici del gruppo Alde che, sempre stando ai sondaggi, sarebbero in leggero calo ma comunque vicini agli 80 seggi. Una prospettiva realistica in
fatto di convergenze sui temi dei diritti e delle libertà civili, ma ben meno praticabile sul terreno dell’economia.
Dall’altra parte i popolari in fatto di potenziali alleati non stanno certo meglio. Anzi. Il gruppo dei conservatori (britannici e polacchi) pare in netto declino e la galassia dei gruppi e gruppetti sulla destra dovrebbe essere fagocitata dal nuovo gruppone degli anti-euro capitanato dal Front National di Marine Le Pen e dai populisti
dell’olandese Geert Wilders chiaramente incompatibile con le posizioni europeiste del Ppe, pur con tutte le sue esitazioni e contraddizioni. Neppure a destra, dunque, esisterebbe una possibile maggioranza.
Ciò significa che le larghe intese, magari più simili alla große Koalition tedesca che al modello italiano, a Bruxelles e a Strasburgo sono praticamente inevitabili? La domanda è mal posta perché è sbagliato considerare la condizione politica della futura assemblea europea con i criteri dei parlamenti nazionali. L’europarlamento è in una fase di passaggio: per la prima volta, il 22-25 maggio gli elettori voteranno, insieme con un partito, il candidato che quel partito indicherà per la presidenza della Commissione
europea.Èuna novità importante sotto il profilo della democrazia e della partecipazione dei cittadini, ma la nomina del futuro presidente e dei membri della Commissione, che avverrà a novembre, resterà comunque nelle mani dei governi nazionali e i nuovi
parlamentari avranno, al più, un potere di orientamento o di veto. Il voto europeo, insomma, non è l’elezione del futuro governo europeo.
Questa circostanza rispecchia l’incompiutezza della costruzione europea e le incongruenze democratiche che ne conseguono. In un certo senso, poiché nell’Unione coesistono governi di centro-destra e di centro-sinistra, le larghe intese, almeno nella formazione della futura Commissione sono, in qualche modo, inevitabili. Lo sarebbero
anche nell’ipotesi (teorica) che la sinistra o la destra ottenessero dalle urne una maggioranza schiacciante. Ma questo non significa che la battaglia politica per il parlamento sia inessenziale. Lo scontro tra i socialisti&democratici, che saranno capitanati dal socialdemocratico tedesco Martin Schulz, e i popolari, che tutto
lascia prevedere sceglieranno come candidato Jean-Claude Juncker nel congresso del 7 marzo a Dublino, avrà una posta molto alta. Ben difficilmente i governi nazionali potrebbero ignorare l’indicazione alla guida della Commissione sostenuta dalla maggioranza degli elettori europei: è praticamente certo che a novembre sulla poltrona
più importante dell’Unione si siederà o il socialista Schulz oppure il popolare che sarà stato scelto a Dublino.
E non sarà indifferente, per la politica dell’Unione, se a capo del suo esecutivo
ci sarà un progressista sensibile agli aspetti sociali della politica economica o un conservatore attento solo alle ragioni della disciplina di bilancio.
L’alternativa esiste, dunque, dà sostanza alla dialettica destra-sinistra e impone scelte alla sinistra. A favore di Schulz potrebbero schierarsi, al momento della designazione parlamentare del candidato alla presidenza, i deputati eletti dalle sinistre radicali, che si presentano alle elezioni proponendo il greco Alexis Tsipras e una politica certamente europeista ma di forte rinnovamento della politica economica
e finanziaria dell’Unione. Potrebbe essere una spinta decisiva perché nelle file dei socialisti&democratici si faccia strada un orientamento più chiaro e meno consociativo, meno succube del pensiero economico unico che nel segno dell’austerity ha dominato
le politiche anti-crisi, di quello mostrato finora nei vari paesi e a Bruxelles.

da L’Unità