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"Industria in crisi, a rischio 18 mila posti di lavoro", di Paolo Baroni

Non passa settimana che via Molise sia transennata. Un presidio, un corteo non mancano mai nella strada che costeggia il possente palazzo Piacentini, nato nel ’32 al tempo delle Corporazioni che oggi ospita il ministero dello Sviluppo economico. E’ così per tutte o quasi le settimane dell’anno, che piova a dirotto come la scorsa settimana o che il termometro segni 40 gradi. Del resto al ministero, negli ultimi due anni, hanno dovuto aprire ben 159 i tavoli “di crisi”, tavoli che interessano imprese grandi e meno grandi, singoli stabilimenti e multinazionali estere, tutti chiamate a rapporto da governo per evitare il peggio: licenziamenti, ristrutturazioni, chiusure.

Sessanta intese

Fino ad oggi sono sessantadue gli accordi siglati d’intesa con le parti sociali e gli enti locali, che corrispondono a circa 12 mila posti messi «in salvo». Allo Sviluppo snocciolano con soddisfazione l’elenco: 1600 alla Micron di Avezzano, 1500 alla Natuzzi, 2000 alla Berco, 1400 alla Indesit, 800 alla Novelli, 500 a Porto Torres, 450 alla Sigma Tau e poi Richard Ginori, Sixty, Plasmon, Valtur e via discorrendo. Solo negli ultimi giorni si è riusciti a rinviare la chiusura dell’Ansaldo Breda di Palermo, che voleva sospendere l’attività e mettere in cassintegrazione a zero ore oltre 150 operai, e a siglare un protocollo d’intesa che consente di avviare il rilancio del polo siderurgico di Piombino, per il quale sembrano affacciarsi nuovi investitori esteri dopo il flop dei russi di Severstal.

Ma il lavoro da fare è ancora tanto. «Il 2014 sarà l’anno decisivo pr capire il destino dell’industria italiana», commentano nei corridoi infiniti del ministero. Mentre i sindacati, con i metalmeccanici in prima fila, non perdono occasione per chiedere al governo misure più incisive ed efficaci in materia di politica industriale.

Nuove emergenze

In queste settimane stanno esplodendo nuovi casi: il più rilevante riguarda Electrolux, sei-settemila dipendenti sparsi tra Susegana e Porcia, vicenda che tra l’altro sta mettendo a dura prova i rapporti istituzionali tra due regioni, il Veneto ed il Friuli, ed il governo (sia lo Sviluppo economico che palazzo Chigi). E poi restano in sospeso tantissime altre vertenze.

Al ministero segnalano «una significativa tendenza delle multinazionali stranieri a disinvestire nel nostro Paese», mentre le imprese italiane riportano in Italia parte delle loro produzioni come hanno fatto Natuzzi e Indesit. In bilico, o meglio a rischio, ci sono così almeno altri 18 mila posti di lavoro su un totale di 120 mila addetti interessati da stati di crisi. Ben 18 imprese, che occupano in totale 2300 dipendenti, hanno addirittura annunciato di voler cessare l’attività. Tutte le altre tagliano posti, chiudono stabilimenti e ristrutturano senza andare troppo per il sottile.

I settori in difficoltà

La recessione dalla quale l’Italia sta uscendo molto a fatica è stata pesantissima e non ha risparmiato nessuno. Nessun settore produttivo è rimasto indenne, dal Nord al Sud. Elettrodomestici, siderurgia, farmaceutica, componentistica auto e moto e telecomunicazioni sono i comparti più colpiti. Nella lista dei casi ancora aperti ci sono la Aristide Merloni (3500 occupati), Agile- ex Eutelia (1900), Alcatel Lucent (2000), Alpitur (3500), la chimica di Basell (2000 dipendenti), i 1100 della Detomaso ed i 1500 di Eon, Golden Lady (3500) e Filanto (650), Menarini (farmaceutica, 3000 occupati) ma anche i 200 del Pastificio Amato. E poi Manutencop (15mila), Tirrenia, Fincantieri, Xerox, Sirti (4400) e Micron (4400) nel settore tlc, le cartiere Reno De Medici (1700), i vetri Pilkinton, l’itc di Nokia-Siemens (1200) e tante, tante altre aziende note e meno note.

Su tutti, però, i settori che preoccupano di più il governo, «che richiedono una particolare attenzione» come dice il sottosegretario De Vincenti, sono siderurgia e industria dell’elettrodomestico. Il primo è un comparto che un paese manifatturiero come il nostro non può permettersi di perdere perché ne costituisce la linfa vitale, il secondo è invece un comparto che un tempo era di eccellenza assoluta e che oggi risulta spiazzato dalla concorrenza internazionale. Solo in questi due settori ballano quasi 50 mila posti.

La battaglia non si presenta però facile perchè a patire le maggiori difficoltà sono le imprese che più delle altre soffrono l’appensantimento dei costi di produzione dovuti al costo del lavoro ed ai costi dell’energia. Due “moloch” difficili da sconfiggere, nonostante la crisi ci abbia già fatto pagare un costo molto salato.

La Stampa 20.01.14

"L’Italia dei rifiuti e dei miliardi sprecati", di Mario Pirani

L’Italia dovrà nei prossimi dieci anni affrontare la maggiore operazione di bonifica della propria storia, ossia lo smantellamento definitivo (il cosiddetto decommissioning) delle quattro ex centrali nucleari di Trino Vercellese, Caorso, Latina e Garigliano, dell’impianto di Bosco Marengo, nonché delle installazioni Enea di Saluggia, Casaccia e Rotondella.
Un’operazione complessa, che si concluderà — almeno si spera — con la costruzione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, il sito (in superficie) che ospiterà tutte le scorie nazionali a bassa e media radioattività (e temporaneamente anche quelle ad alta radioattività). Accanto al deposito nazionale è prevista anche la realizzazione di un grande parco tecnologico, che ospiterà centri di ricerca e sperimentazione nel settore dei rifiuti, delle bonifiche ambientali in genere. E l’Italia ne ha davvero estremo bisogno, fin dai tempi di Seveso, per arrivare a situazioni esplosive e pericolosissime come quelle della Campania (Terra dei Fuochi).
Si tratta complessivamente di un’operazione da circa 6,5 miliardi di euro, di cui qualcosa è già stato speso negli ultimi quattro anni passati. A chi fa capo questa operazione? Alla Sogin, una società di Stato, completamente pubblica, derivata dalla scissione dell’Enel oltre 10 anni fa, con circa 800 dipendenti e sede in Roma centro. Le risorse finanziarie per fare tutto ciò stavolta ci sono, sono disponibili pronta cassa: vengono infatti direttamente dalla bolletta elettrica alimentata da anni da ogni cittadino che versa una cifra a questo per lo scopo.
È una grande occasione di lavoro per la ripresa economica, migliaia di posti di lavoro specializzati, è una grande opportunità di qualificazione delle imprese italiane (Ansaldo Nucleare, Saipem, Demont, ecc.) che potrebbero prepararsi per affrontare il mercato europeo e mondiale dello smantellamento delle centrali nucleari che verranno dismesse per vetustà. Allo smantellamento saranno destinati investimenti per decine e decine di miliardi di euro.
C’è però un grande punto interrogativo: dovuto alla mancanza di ogni esperienza operativa, dato che in tutti questi anni non siamo riusciti ad avviare una fase davvero esecutiva. Cosa è stato fatto? Come al solito la principale attività e motivo di impegno ha riguardato la lotta per le poltrone e i ruoli. Il problema purtroppo non si è fermato qui con la prevista chiusura delle centrali nucleari ma è giornalmente riprodotto dall’accumularsi di scorie radioattive ogni volta che viene eseguita una tac in ospedale o in un laboratorio. Per questo in alcuni settori industriali è necessario affrontare con celerità quotidiana il problema del deposito.
Veniamo al caso del deposito nazionale definitivo e annesso parco tecnologico. Innanzitutto la normativa per la definizione del progetto (criteri di localizzazione, Autorità di controllo, e altro ancora) non è definita. Ben tre Governi hanno avuto il compito di fissare il quadro normativo. Nessuno ha fatto onore all’incarico. Ogni volta si ricomincia con le audizioni parlamentari delle parti interessate e se si vanno a leggere i resoconti da anni troviamo sempre le stesse cose. Forse basterebbe copiare ciò che hanno già realizzato i principali paesi europei.
I punti possono essere così definiti: attivare un sistema di coinvolgimento delle popolazioni interessate; organizzare un dibattito pubblico “alla francese”; ottenere il consenso o dissenso delle popolazioni interessate con trasparenza e obiettività; inserire nelle commissioni preposte alle valutazione persone di provata capacità professionale nei diversi comparti toccati da un progetto di tali dimensioni; definire tempi certi di autorizzazione nel rispetto delle normative per tutte le parti in causa.
Nell’insieme un compito davvero arduo. Se fallissimo il risveglio potrebbe rivelarsi tragico.

La Repubblica 20.01.14

Alluvione, Ghizzoni e Vaccari interverranno domani in Parlamento

I parlamentari del Pd in mattinata hanno fatto il punto della situazione al Coc di Ravarino. I parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari, nella giornata di domani, interverranno rispettivamente alla Camera e al Senato per sostenere la richiesta di stato di emergenza avanzata dalla Regione Emilia-Romagna in seguito all’alluvione che sta interessando le aree a Nord della città di Modena. In mattinata, ancora in piena emergenza, hanno incontrato amministratori e funzionari dei Comuni interessati presso la sede del Coc di Ravarino. “Esprimiamo solidarietà alle popolazioni già colpite dal terremoto e ora dall’alluvione – dicono l’on. Ghizzoni e il sen. Vaccari – Vicinanza, ma anche sincero plauso, ai sindaci, agli amministratori, alle forze dell’ordine, ai vigili del fuoco, ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ai volontari e all’intero sistema di Protezione civile, gli organi di informazione locale che, in questi giorni, continuano a dimostrare di essere la vera spina dorsale di questa comunità”. Ecco la dichiarazione della deputata Manuela Ghizzoni e del senatore Stefano Vaccari:

“Vogliamo, innanzitutto, esprimere la nostra solidarietà e vicinanza alle popolazioni delle zone che lottano contro le acque dei fiumi, dei torrenti e dei canali che minacciano case e aziende, popolazioni già duramente colpite dal sisma del 2012. Ora, accanto ai danni del terremoto, dovranno contare anche quelli delle esondazioni. Un sincero plauso ai sindaci, agli amministratori tutti, alle forze dell’ordine, ai vigili del fuoco, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ai volontari e all’intero sistema di Protezione civile, gli organi di informazione locale che, in questi giorni, continuano a dimostrare di essere la vera spina dorsale di questa comunità. Siamo accanto a loro e, come abbiamo confermato in mattinata nel corso della riunione tenutasi al Coc di Ravarino, porteremo a Roma le loro sacrosante richieste. Già domani interverremo, ognuno nel proprio ramo del Parlamento, per sostenere la richiesta dello stato di emergenza avanzata dalla Regione Emilia-Romagna. Occorrono non solo risorse, ma anche procedure snelle che consentano una pronta risposta nell’assistenza alle popolazioni e nel ripristino delle attività commerciali e produttive danneggiate. Crediamo debbano essere utilizzate le stesse modalità che abbiamo faticosamente costruito all’indomani del terremoto e che anche la Sardegna alluvionata ha preso in prestito. Auspichiamo che quest’ultima tragedia possa almeno servire a riportare in testa alle priorità il tema della manutenzione del territorio: politiche di tutela e di conservazione devono essere al centro dell’azione dello Stato, a partire dal Governo e giù fino al livello territoriale. Nell’ultima legge di stabilità è contenuto un piano di emergenza ambientale di contrasto al dissesto idrogeologico. A fronte di ciò che è capitato ancora in questi giorni in Liguria, Emilia e Toscana non basta di certo: occorre cambiare passo e rafforzarlo in modo significativo. Di fronte a questa ennesima tragedia ognuno si faccia carico delle proprie responsabilità. La manutenzione e il consolidamento degli argini dei fiumi, che questo territorio ha sollecitato in più occasioni negli anni scorsi, rappresentano uno dei compiti fondamentali (assieme ad altri) per contrastare il rischio idraulico: non può essere più trascurato o fatto rientrare nei capitoli a cui si tagliano risorse!”.

Legge elettorale, arriva il doppio turno anti-larghe intese

Il doppio turno contro le larghe intese. E’ questa la proposta che oggi Matteo Renzi porterà nella direzione del Pd e che avrebbe già ricevuto l’avallo di Silvio Berlusconi. Secondo quanto si apprende infatti il testo della legge elettorale fin qui in discussione verrà modificato introducendo la possibilità di un ballottaggio tra le due coalizioni che hanno ottenuto più voti.

Il meccanismo sarebbe dunque questo: nel caso in cui nessuna delle due coalizioni raggiunga la soglia del 35% dei consensi (quella che consente di accedere al premio del 15%), si tornerà a votare quindici giorni dopo proprio per assegnare il bonus che consente di ottenere una maggioranza certa alla Camera.

Restano le mini liste bloccate di sei candidati per circoscrizione e gli sbarramenti: al 5% per i partiti in coalizione e quello dell’8% per le forze che si presentano da sole.

Con la “clausola” del ballottaggio si punta a evitare quello che è accaduto a febbraio scorso, ossia il ripetersi dell’obbligo di ricorrere alle larghe intese. Un anno fa – con questo sistema – Bersani e Berlusconi si sarebbero sfidati in un secondo turno di coalizione per assegnare i seggi mancanti al raggiumento della maggioranza .

da www.partitodemocratico.it

E la scuola lotta ancora per “quota 96”, di L.Ci.

Una nuova proposta di legge è stata recentemente presentata alla Camera da Manuela Ghizzoni (Pd), anche se l’affollamento delle Camere e le prospettive incerte della legislatura non sembrano spingere le cose nella direzione desiderata dai lavoratori di “Quota 96”. Portano avanti la loro battaglia nel nome di “quota 96”: sono gli insegnanti e gli altri lavoratori della scuola che dopo la riforma previdenziale Fornero hanno dovuto rinunciare ad una prospettiva di pensione già intravista e ormai da tempo cercano di riconquistarla nelle aule parlamentari ed in quelle giudiziarie, finora senza successo. La vicenda somiglia ad altre innescate dalla stretta sulle pensioni di fine 2011, drastica nei contenuti e certo anche frettolosa nelle modalità di applicazione: a differenza però dei cosiddetti “esodati” questi dipendenti possono generalmente contare ancora sul posto di lavoro e sulla relativa retribuzione.
SPARTIACQUE A SETTEMBRE
La richiesta degli interessati è semplice: ottenere che per loro la soglia di applicazione della riforma sia spostata dal 31 dicembre 2011 al 31 agosto dell’anno successivo. Questo perché il mondo della scuola ha sempre goduto di regole di uscita dal lavoro particolari, modellate sulle esigenze dell’anno scolastico: si lascia il servizio a settembre in corrispondenza dell’inizio delle scuole e non in altri mesi dell’anno.
Così quando nell’autunno del 2011 vennero approvate le nuove regole, molti docenti avevano già fatto domanda per andare in pensione alla fine dell’anno scolastico: nel corso del 2012 avrebbero raggiunto i 61 anni di età e 35 di contributi, oppure rispettivamente 60 e 36, cioè appunto la “quota 96” richiesta per l’accesso alla pensione di anzianità. La riforma ha però stabilito che questa possibilità non era più valida, indistintamente, in caso di maturazione dei requisiti dopo lo spartiacque del 31 dicembre. Anche per chi lavorava nella scuola quindi la data dell’uscita del lavoro era spostata in avanti di alcuni anni.
Immediata la mobilitazione dei docenti e degli altri lavoratori rimasti impigliati nella nuova norma, di certo alcune migliaia anche se le stime non sono univoche. Sono partite le pressioni sul Parlamento ed anche le azioni legali, in nome della specificità del lavoro scolastico. Specificità che a onor del vero negli anni precedenti si era tradotta anche in qualche vantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori, visto che gli insegnanti potevano lasciare il servizio appunto nel settembre dell’anno in cui maturavano i requisiti, senza l’attesa di ulteriori “finestre”.
LA SENTENZA DELLA CONSULTA
In ogni caso una parte consistente del mondo politico si era impegnato in favore delle ragioni dei dipendenti della scuola. Ma tutti i tentativi di intervenire per via legislativa si sono scontrati con l’opposizione della Ragioneria generale dello Stato, che giudica non adeguate le coperture finanziarie proposte. Una nuova proposta di legge è stata recentemente presentata alla Camera da Manuela Ghizzoni (Pd), anche se l’affollamento delle Camere e le prospettive incerte della legislatura non sembrano spingere le cose nella direzione desiderata dai lavoratori di “Quota 96”. Nel frattempo è sfumata la speranza di risolvere la questione per via giudiziaria, perché la Corte costituzionale ha respinto la questione di illegittimità sulla norma della riforma Fornero. Così i mesi passano e per qualcuno, magra consolazione, l’uscita dal lavoro si avvicina comunque con i più restrittivi requisiti della legge Fornero.

Il Messaggero 20.01.14

«Alle europee ci giochiamo tutto. La crisi alimenta nuovi fascismi», di Adriana Comaschi

«Ho l’impressione che ci sia una generale disattenzione, anche a sinistra, sulla gravità del momento e sul valore delle prossime elezioni europee per bloccare l’avanzata di fascismi, nuovi populismi, razzismo». Carlo Smuraglia, presidente nazionale Anpi, è diretto nel bacchettare i partiti, impegnati a discutere di regole piuttosto che su come arginare un crescente disagio sociale e i pericoli che ne derivano. Lo fa dal convegno che si è tenuto ieri in Campidoglio con la Federazione internazionale dei Resistenti (Fir), la principale associazione in difesa dei valori di Resistenza e antifascismo in Europa.
Presidente, perché proprio ora la riunione dell’esecutivo Fir a Roma? L’antifascismo e i suoi valori sono a rischio oblio? «Vogliamo riorganizzare le file dell’antifascismo in Europa in modo che il nuovo Parlamento, quello che uscirà dalle prossime elezioni europee, metta alla sua base antifascismo e difesa della democrazia. Finora l’Europa è stata molto tiepida nel censurare forme rinascenti di quasi dittatura, come nell’Est europeo, o di movimenti che si richiamano al nazismo, il risorgere del razzismo, nuove forme di populismo e fascismo. Per questo chiederemo ai candidati alle europee un impegno preciso per un’Europa non solo unita e attenta al sociale, ma anzitutto democratica. Ci sono pericoli sempre attuali, alcune condizioni che portarono all’affermarsi di fascismo e nazismo purtroppo si ripropongono».
Quali sono le situazioni che vi hanno allarmato?
«L’orribile strage di Utoya, di matrice chiaramente razzista e fascista; l’enorme crescita del movimento di Marine Le Pen in Francia; l’alleanza tra questo e la Lega Nord; situazioni di mancanza di libertà come in Ungheria e Slovacchia. In generale, le destre si stanno spostando da un conservatorismo liberale a nuove forme di populismo e razzismo: e quest’ultimo è sempre la premessa per cose ancora peggiori…»
Diceva del riproporsi di condizioni che hanno portato al fascismo. Occorre intervenire anche su queste? Come?
«Non c’è dubbio che sia così, certi fenomeni in Europa sono sempre nati da situazioni di crisi. Oggi la crisi c’è, crea scontento, spesso può spingere a destra, una destra che appunto sta cambiando. Allora non basta esorcizzare questi effetti, si agisca sulle cause della crisi: una è la politica di intransigenza assoluta sui bilanci, a mio giudizio profondamente sbagliata, seguita finora dall’Europa. Una politica che ha aggravato la crisi sociale, trasformandola in un’emergenza con proteste che i populismi fanno presto a cavalcare. Non basta reprimerli, servono politiche più attente al versante sociale, allo sviluppo. Queste possono essere un grosso antidoto». Le forze politiche stanno agendo in questo senso?
«No. Sul fatto che alle prossime elezioni europee ci si gioca il futuro della Ue e diritti fondamentali vedo una distrazione, anche delle forze di sinistra, più attente al dato sociale: le richiamo in questo senso, perché colgano la gravità di questo momento. Ogni Paese scegliendo i suoi candidati ricordi la posta in gioco, siamo inseriti in un contesto: devono censurare di più certi movimenti e intervenire sulle cause della crisi, contrastando il liberismo sfrenato che ha imperversato finora, serve più attenzione alle esigenze dei lavoratori». Dunque occuparsi del nodo lavoro. Come lo sta affrontando la politica In Italia? E come valuta il Job Act di Renzi? «Vedo un grande affannarsi a discutere di regole, quando si dovrebbe piuttosto creare nuovi posti di lavoro ed espandere la produzione. Altrimenti le disuguaglianze cresceranno ancora, con i rischi di cui dicevo. Anche il Job Act non mi convince, mi pare disciplini e semplifichi più che incentivare le attività per cogliere la “ripresina”».
Schulz, presidente del Parlamento Ue, vi ha inviato un messaggio di sostegno in cui declina l’antifascismo di oggi anche in «battaglie concrete», come quella per evitare che i migranti diventino «capro espiatorio di ogni male»…
«È veramente un punto importante. Non c’è da superare solo la Bossi-Fini, ma anche la legge Maroni. Ricordo poi al centrodestra che anche Alfano è andato a commemorare le vittime di un enorme naufragio: un governo ha il dovere di trovare una soluzione che tenga insieme diritti dei migranti e sicurezza, un punto di incontro. Lo ius soli temperato? Sono favorevolissimo, mi sembra strano persino dover discutere sulla cittadinanza ai figli di chi risiede qui da anni».
Come legge i continui attacchi al ministro Kyenge?
«Ne sono profondamente indignato, non si contesta quello che fa ma quello che è, per il colore della sua pelle. Eppure colgo poco stupore, nonostante si sia superata ampiamente la soglia della tollerabilità, come dimostra la pubblicazione degli appuntamenti del ministro, con l’invito a seguirli per contestarla. Poi c’è il parlamentare che si presenta in aula con il volto dipinto di nero… vorrei più indignazione, anche a sinistra, l’istigazione all’odio razziale è un reato».

L’Unità 19.01.14

"Alla ricerca dell'immunità", di Agnese Codignola

Non capita quasi mai che «Science», nel compilare la lista delle 10 aree più rilevanti dell’anno, ponga in cima alla classifica una disciplina clinica. Quest’anno però è successo, e la vetta è stata assegnata a un approccio che, pur non avendo dispiegato ancora tutte le potenzialità e chiarito tutti i dubbi, potrebbe costituire un autentico punto di svolta nella cura del cancro: l’immunoterapia. Big Pharma ci crede, e sta investendo fiumi di denaro in un campo snobbato fino a pochi anni fa; l’accademia ci si sta buttando a capofitto, e le agenzie regolatorie stanno cercando di seguire i continui avanzamenti senza ripetere gli errori grossolani del passato. Anche per questo, per il mutamento di pelle indiretto che l’approccio immunologico sta causando in una delle aree più importanti della medicina, «Science» ha fatto una scelta così atipica. E l’Italia partecipa al giubilo, visto che è uno dei fulcri della ricerca grazie al lavoro di Michele Maio, direttore dell’unico reparto dedicato proprio al l’immunoterapia dei tumori, all’Ospedale Santa Maria alle Scotte di Siena.
Maio, un passato a Napoli, ad Aviano e in alcuni dei più prestigiosi Cancer Center degli Stati Uniti, che ha iniziato a lavorare sul sistema immunitario e sui suoi rapporti con le cellule trasformate quando era poco più che un laureato, così riassume in che cosa consiste questo modo di pensare la lotta al cancro: «Per anni ci si è chiesti come mai il sistema immunitario non riesca a essere efficace contro il cancro come lo è contro virus e batteri, e a poco a poco il quadro ha iniziato a farsi più chiaro. Si è capito che il tumore attiva dei veri e propri freni che impediscono ai linfociti e ad altre componenti di reagire a dovere. Di lì a pensare di neutralizzare questi freni il passo è stato relativamente breve».
I primi studi, che si devono soprattutto a James Allison, dell’Anderson Cancer Center di Houston, risalgono alla fine degli anni Ottanta: Allison, infatti, ha identificato il primo possibile target, la proteina chiamata Ctla-4, da cytotoxic T-lymphocyte antigen 4, e dimostrato che, nei topi, il suo blocco portava a una riduzione delle masse tumorali. Da allora è iniziata una fase di approfondimenti e verifiche che ha portato a scoprire altri possibili bersagli come la proteina Pd-1 (da Programmed death) e la Pdl-1 (Programmed death ligand) e a molti altri in studio e nelle pipeline delle aziende, il primo dei quali, ipilimumab, è già in clinica anche in Italia, per il melanoma. Molto, tuttavia, resta da chiarire. Spiega Maio: «L’immunoterapia non funziona bene in tutti i pazienti: in alcuni assicura remissioni o stabilizzazioni durature, in altri no. Dobbiamo quindi capire come identificare i malati responder e trovare i marcatori specifici».
Un altro grande punto di domanda riguarda la durata dell’effetto, cioè la riattivazione del sistema immunitario. «Non sappiamo ancora se sia o meno definitiva come avviene, per esempio, per le vaccinazioni contro le malattie infettive». Questi due aspetti, chiarisce ancora l’oncologo, sono cruciali e porteranno a modifiche sostanziali in tutta la ricerca sul cancro. «I protocolli per lo studio di questi farmaci e anticorpi – prosegue infatti Maio – prevedono complesse sequenze di chemioterapici classici, farmaci biologici e immunologici. Nessuna azienda può portare avanti ricerche cliniche di questo tipo da sola, né possiede tutto ciò che occorre. Ciò sta determinando la nascita di inedite forme di collaborazione, che contribuiscono a ridurre i costi e a velocizzare i tempi. Prima tali sinergie erano impensabili».
Ma non solo le aziende si stanno velocemente adeguando: anche il sistema delle agenzie regolatorie, preoccupate dei costi di queste cure (ipilimumab costa in media 120mila euro a paziente), stanno cercando di trovare strumenti nuovi per contenere gli sprechi, obbligando le aziende a investire anche sui marcatori di risposta e coinvolgendo i centri di ricerca pubblici e privati. «Sta cambiando il paradigma, e l’Italia, una volta tanto, è pronta», commenta l’oncologo, che nel 2004 ha dato vita al Nibit ( www.nibit.org), il network italiano per la BioTerapia dei Tumori e, nel 2010, alla fondazione Nibit, per sostenere la ricerca indipendente e l’informazione ( www.fondazionenibit.org).
Nato all’inizio con il coinvolgimento di 4-5 gruppi di ricerca, oggi il Nibit ne annovera 150 sparsi in tutto il Paese, che partecipano a molti studi nazionali e internazionali sia di base che clinici, e che hanno contribuito, per esempio, a fare dell’Italia e di Siena in particolare il centro mondiale di uno studio sull’impiego del tremelimumab (monoclonale anti Ctla-4) nel mesotelioma, tumore associato all’amianto contro il quale c’erano ben poche armi a disposizione. I risultati, pubblicati su «Lancet Oncology» a settembre, hanno mostrato che, dopo due anni, la sopravvivenza dei malati era del 40%, un tasso impensabile con le terapie tentate finora. Altri trial in corso a Siena e in tutta Italia, spesso in collaborazione con altri centri di vari Paesi, stanno verificando l’efficacia dei modulatori immunologici in quasi tutte le forme tumorali. «In futuro – conclude Maio – l’immunoterapia costituirà il quarto approccio alla cura del cancro, insieme alla chirurgia, alla radioterapia e alla chemioterapia. Riattivare il sistema immunitario può infatti consentire all’organismo di guarire da solo o comunque di ottenere una remissione duratura e senza i gravi effetti collaterali delle terapie classiche, cioè di cronicizzare la malattia: un risultato impossibile con gli altri approcci farmacologici».

Il Sole 24 ore 19.01.14