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Cambiamo l'Italia: è la volta buona

Con 111 voti a favore, nessun voto contrario e 34 astenuti è stata approvata la relazione del Segretario.
Riforma del Titolo V della Costituzione
La riforma del Titolo V deve prevedere l’eliminazione della materia concorrente.
Ritornano di competenza statale alcune materie tra cui:
1) Grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione nazionale e relative norme di sicurezza;
2) Produzione, trasporto e distribuzione nazionale di Energia;
3) Programmi strategici nazionali per il turismo.

Per ragioni di sistema si segnala anche che contestualmente alla riforma del titolo V si procederà all’eliminazione dei rimborsi elettorali per i consiglieri regionali e l’equiparazione dell’indennità dei consiglieri regionali a quella del sindaco della città capoluogo di regione.

I relativi provvedimenti devono essere presentati in Parlamento entro il 15 febbraio 2014.

Riforma del Senato

La riforma del Senato deve portare al superamento del bicameralismo perfetto. Il voto di fiducia al Governo spetta solo alla Camera dei Deputati.

Il Senato della Repubblica viene trasformato in Camera delle autonomie, con l’eliminazione di elezione diretta dei suoi membri e di ogni forma di indennità.

La trasformazione del Senato comporterà una significativa riduzione del numero dei Parlamentari.

I relativi provvedimenti devono essere presentati in Parlamento entro il 15 febbraio 2014.

Proposta di modifica del Sistema elettorale
Per la Camera dei Deputati:

Il modello prevede una distribuzione dei seggi con metodo proporzionale, con l’assegnazione di un premio di maggioranza eventuale e limitato e l’attribuzione dei seggi su base nazionale.

In particolare, alla lista o alla coalizione di liste che abbiano conseguito il maggior numero di voti viene attribuito un premio di maggioranza pari al 18% del totale dei seggi in palio.
Tale premio tuttavia viene assegnato esclusivamente se la lista o la coalizione di liste maggiore ha conseguito almeno il 35% dei consensi.

In seguito all’attribuzione del premio di maggioranza una lista o una coalizione di liste non può in ogni modo ottenere un numero di seggi superiore al 55%. L’eventuale parte del premio eccedente viene redistribuita fra le altre liste o coalizioni.

Qualora nessuna lista o coalizione di liste raggiunga la soglia, si svolge un secondo turno di ballottaggio fra le prime due liste o coalizioni di liste. Fra il primo e il secondo turno non sono possibili apparentamenti.
Alla lista o coalizione di liste che risulta vincitrice viene attribuito un premio di maggioranza pari al 53% del totale dei seggi in palio. I restanti seggi vengono distribuiti proporzionalmente a tutte le altre liste e coalizioni di liste.

Le soglie di sbarramento sono pari al 12% per le coalizioni, al 5% per le liste coalizzate e all’8% per le liste non coalizzate.

Sono introdotti criteri per evitare il fenomeno delle c.d. “liste civetta”.

I seggi vengono distribuiti su circoscrizioni molto piccole (da 4 a 5 seggi in palio al massimo), in modo che i nominativi dei candidati possano essere stampati direttamente sulla scheda.

Le liste sono bloccate e corte, per cui vale l’ordine di presentazione in lista ai fini dell’attribuzione dei seggi utilizzando criteri che garantiscano il riequilibrio di genere.

Per il Senato della Repubblica:

Fermo restando l’impegno ad eliminare l’elezione diretta dei membri del Senato, tuttavia, quale “clausola di salvaguardia”, occorre inserire delle disposizioni medio tempore applicabili anche per il Senato.

Per il Senato sono quindi stabilite le medesime modalità di assegnazione dei seggi, con le stesse percentuali e soglie di sbarramento della Camera.

Per garantire l’elezione a base regionale prevista dall’articolo 57 della Costituzione è stabilito un metodo che assicuri l’attribuzione dei seggi anche del premio sul base interamente regionale.

Più in generale, l’impianto delle norme per il Senato è analogo a quello per la Camera.

La discussione sul testo normativo deve essere iniziata in Aula alla Camera entro il 27 gennaio 2014.

www.partitodemocratico.it

"Cocò", di Massimo Gramellini

La mattina di Capodanno del 1926, al comando di ottocento guardie a cavallo, il prefetto Cesare Mori cinge d’assedio Gangi, che in quel momento è la cittadella riconosciuta dei mafiosi. Mori, non per nulla detto “il prefetto di ferro”, procede al rastrellamento casa per casa e sequestra tutte le donne e i bambini, raggruppandoli al centro della piazza principale. Concede ai mafiosi un ultimatum di 12 ore. Non sapremo mai cosa avrebbe fatto davvero di quelle donne e di quei bambini perché allo scoccare dell’undicesima ora Gaetano Ferrarello, il “capo dei capi” dell’epoca, esce a braccia alzate dal suo nascondiglio, che manco a farlo apposta si trova nel sottotetto della stazione locale dei carabinieri.

Se il prefetto Mori era arrivato a usare i bambini di un paese intero come arma di ricatto è perché sapeva che per la mafia del 1926, certo non meno crudele di quella di oggi, esistevano limiti invalicabili, legati a concetti come l’onore, che impedivano di torcere anche solo un capello a un minorenne.

Questa mattina all’alba, nella campagna di Cassano allo Ionio in provincia di Cosenza, alcuni cacciatori hanno trovato nascosta dietro un casale in rovina una station wagon incendiata. Dentro c’erano i cadaveri carbonizzati di due adulti e un altro scheletro più piccolo. Molto più piccolo.

Si chiamava Nicola Campolongo, detto Cocò. Aveva tre anni e il destino di essere nato in una famiglia di spacciatori di droga. Il padre è in carcere, e così la madre. Per qualche tempo Cocò ha abitato dietro le sbarre con lei, ma poi si pensò che era una follia farlo vivere lì. Si pensò bene, intendiamoci, ma il pensiero successivo fu forse meno geniale: affidare Cocò alle cure del nonno Giuseppe Iannicelli, un sorvegliato speciale con precedenti di sequestro di persona, violenza sessuale e associazione per delinquere di stampo mafioso.

Spacciava droga anche lui e probabilmente avrà pestato i piedi a qualche clan più potente che ha decretato, insieme con la sua, la morte della compagna di 27 anni e quella ancora più inconcepibile di Cocò. Dai primi accertamenti delle forze dell’ordine le esecuzioni sarebbero avvenute altrove. Poi, qualcuno che si arroga la pretesa di considerarsi un essere umano ha preso il corpo del bambino, lo ha adagiato accanto agli altri nell’auto del nonno, lo ha cosparso di benzina e gli ha dato fuoco.

Il nome di Cocò va ad aggiungersi a quelli di Valentina, Raffaella, Angelica e Santino, e ad altri ancora, nella lista dei piccoli uccisi dalle mafie senza altra colpa che quella di essere parenti di qualcuno o anche solo testimoni di un delitto.

Ai tempi di Mori, mafiosi camorristi e ndranghetisti avrebbero considerato questo tipo di crimine una macchia indelebile alla loro onorabilità. Ora non è più così e questa certezza, insieme con un grande dolore, ci d à anche una piccola speranza. Una mafia che ammazza impunemente i bambini non potrà mai più essere circondata da quell’alone di rispettabilità e persino di fascino che ha fatto per secoli la sua fortuna tra la gente comune.

Chi ammazza bambini non è un eroe, un avventuriero e nemmeno un protettore credibile. Chi ammazza bambini è solo un assassino da assicurare alla giustizia. Ed è questo messaggio, per fortuna, che sta passando con forza nelle nuove generazioni.

Ci spiace solo che Cocò se ne sia andato all’alba di un mondo che ci auguriamo migliore. Buonanotte.

La Stampa 21.01.14

"Modena, l’argine era stato controllato a dicembre", di Gigi Marcucci

Un argine saltato, la campagna trasformata in un lago, acqua a perdita d’occhio, casolari e stalle trasformati in isole violentemente accarezzate dalla corrente. Un uomo caduto in acqua mentre cercava di aiutare i vicini e ora disperso, centinaia di persone evacuate, oltre mille intrappolate in casa nel centro di Bastiglia, a pochi chilometri da Modena. Aziende bloccate e circa quattromila lavoratori costretti all’inattività. Dopo il terremoto del 2013, la campagna del Lambrusco, tra Sorbara, Bastiglia e Bomporto, subisce l’affronto dell’acqua. Il cielo ha fatto la sua parte. Tra giovedì e domenica, quando il Secchia è letteralmente esploso, sono caduti 400 millimetri di pioggia (dati Arpa), che sommati a quelli caduti nei 20 giorni precedenti innalzano, in alcune zone, il livello delle precipitazioni a quasi un metro e mezzo. Ma ora la Procura di Modena vuole accertare se l’uomo non sia stato da meno e ha aperto un fascicolo contro ignoti. Il cedimento dell’argine in zona San Matteo è stato catastrofico, eppure i lavori per la sua sistemazione erano terminati solo un mese fa. «L’Agenzia interregionale per il fiume Po (Aipo. che si occupa anche degli affluenti ndr) mi aveva assicurato che era tutto in ordine», dice Sandro Fogli, il sindaco di Bastiglia, che dalle 14 di domenica pomeriggio è impegnato nelle operazioni di soccorso ed evacuazione.
La voragine è gigantesca, 70 o 80 metri nel “muro” che delimita il corso del Secchia. Nella zona, la corrente sull’asfalto è talmente forte che le automobili rischiano di essere trascinate via. Ne sa qualcosa Antonio Farné, un giornalista della Rai la cui auto è stata inghiottita dai flutti. Farné si è salvato nuotando fino al primo casolare abitato dopo essere riuscito, con grande fatica, a sbloccare la portiera e a uscire dall’abitacolo.

Aipo accusa le buche scavate da tassi e volpi in un tratto d’argine completamente rettilineo. Pulizie e controlli, afferma sempre l’Agenzia, erano stati fatti anche dopo il sisma «senza che emergessero criticità di rilievo»- «È un’ipotesi, controllare le tane può essere molto problematico. In ogni caso io mi rimetto al giudizio dell’autorità di bacino». dice Fogli mentre va incontro alle ultime persone evacuate a bordo di gommoni dei vigili del fuoco. Dal vicino parcheggio di un supermercato decollano a turno un elicottero dei Vigili del fuoco e uno della Polizia, impegnati nelle ricerche di Giuseppe Salvioli, l’uomo caduto da un gommone mentre cercava di salvare alcune persone rifugiatesi su un tetto. La corrente è fortissima, le speranze di trovarlo vivo diminuiscono di minuto in minuto.

Nel centro di Bastiglia l’acqua è alta circa un metro e mezzo. «Io abito in una laterale», racconta Domenica, 43 anni, mentre indica la centralissima via Marconi trasformata in un corso d’acqua navigabile.

«I vigili del fuoco hanno fatto fatica a raggiungerci – continua- , il gommone non riusciva a navigare contro corrente. Io ho insistito, perché mio figlio ha solo due anni e non avevo più niente da dargli da mangiare, non potevamo più rimanere al freddo e al buio. Io vivo qui da quando sono nata e non avevo mai visto niente del genere».

Solo in serata l’acqua rallenta e comincia a ritirarsi. Qualcuno si prepara però a trascorrere una delle nottate più fredde e umide della sua vita. L’acqua, racconta Fogli, è arrivata da est con grande violenza, non tutti hanno fatto in tempo ad andarsene anche se l’allarme è scattato tempestivamente. «Mio marito è cardiopatico, per fortuna è riuscito a portare i farmaci al piano di sopra, insieme al cane e a tre bottiglie d’acqua potabile». Franca Soncini non si dà pace mentre osserva le operazioni di soccorso. La stanza in cui suo marito sta affrontando questa prova di sopravvivenza è al primo piano, raggiungibile attraverso due rampe di scale, la prima delle quali è completamente sommersa dall’acqua. «Quando è arrivato l’allarme, domenica verso l’ora di pranzo, lui ha mandato via me e mio figlio. Non pensavamo che la cosa potesse essere così grave, altrimenti l’avremmo portato via subito. Ora è lì con il cellulare che si sta scaricando, siamo d’accordo che lo userà solo in caso di estrema urgenza».

Franca Soncini se lo ricorda ancora il mese trascorso dormendo in auto nel periodo del terremoto. Ora la situazione sembra riproporsi.

Corrado Lentin non stacca gli occhi dai vigili del fuoco. «Mia madre è ancora in casa. Io quando è arrivata l’onda ero in macchina, la corrente era spaventosa. Il Doblò ha percorso una trentina di metri, a motore ormai spento, per salvarmi ho dovuto uscire». Anche il pensiero di Massimo corre ai genitori, in particolare al padre, che per sopravvivere ha bisogno di una medicina per il cuore e di contatti frequentio col medico per il dosaggio. La precedenza nell’evacuazione è stata data a persone che non si possono muovere. Mentre si accendono le fotoelettriche, per Bastiglia comincia un’altra notte da incubo, ma forse il peggio è passato. Pioggia permettendo

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«La mia terra abbandonata, che l’uomo non cura più» di Andrea CHiesi

Modena è stretta tra due fiumi, la Secchia verso Reggio Emilia e il Panaro verso Bologna. Lo sapevano bene gli antichi abitanti di Mutina, che impararono a controlarne le acque per fare prosperare la città. Alla caduta dell’impero Romano finì anche la manutenzione dei corsi d’acqua e Mutina fu abbandonata a causa delle alluvioni.

Un ricordo preciso, il racconto dei miei genitori: nei giorni in cui nascevo c’era l’alluvione, quella famosa che colpì anche Firenze, mi evoca immagini sfuocate in bianco e nero di campagne allagate, casolari isolati e solidarietà con la gente che soffre. Ma ero rassicurato, dopo avevano costruito le casse d’espansione che controllano i fiumi, quello che avevano patito i genitori sarebbe stato risparmiato ai figli. Ero tranquillo, sotto il mantello protettivo del modello emiliano.

La Secchia la conosco bene. Ho sempre abitato lì vicino, secca d’estate, gonfia durante le piogge, inquinata dagli scarichi delle ceramiche, eppure bella, con gli alberi matti, la terra e i casolari, gli animali e tutto il resto.

Spesso cammino o vado in bici sull’argine e negli anni ho visto la manutenzione diminuire, non si scava l’alveo, non si rinforzano i bastioni, non si rimuovono i tronchi e lo sporco. E questo è male. L’AIPO fa quello che può, mancano i fondi, certo, ma siamo stretti tra due fiumi, lo ricordate.

Ho presente molto bene il punto in cui si è aperta la breccia, è chiamato il Passo dell’Uccellino. In poche ore si è aperta una rotta arginale di circa 30 metri di lunghezza e profonda 8. Sembra incredibile, ma l’acqua è anche questo. Quando è cattiva non risparmia niente. Ora la statale SS12 detta il Canaletto è sommersa e così Albareto, frazione di Modena, e ha invaso altri comuni tra cui Bastiglia e Bomporto, facendoli apparire come se fossero Venezie della Bassa. Già, la Bassa, quella del terremoto, la stessa. L’acqua va in quella direzione, scende verso il Po e arriva alle zone terremotate. Non c’è pace. Che abbiamo fatto? Tutti se lo chiedono.

Perché è colpa nostra, la Natura non c’entra. Piove di più di prima, sarà il cambiamento climatico, dicono anche che è colpa delle nutrie, questi strani animali un po’ topi e un po’ castori che scavano le tane negli argini, ma sono bastati due giorni di pioggia per provocare tutto questo. Non va bene.

Cosa dire ai contadini che hanno i campi allagati, a chi lavora da queste parti e per un’altra volta è in emergenza, o ha perso tutto, a chi vive qui e ora deve avere paura anche di due giorni di pioggia.

Cosa non ha funzionato? Perché le casse d’espansione della Secchia non evitato a monte il disastro. Perché quelle del Panaro da 40 anni aspettano il collaudo? Perché non si fa un’adeguata manutenzione ai fiumi? Perché da decenni si costruisce troppo e male, case e capannoni che rimangono vuoti, ennesimi centri commerciali, opere faraoniche e imbarazzanti, e non ci si prende cura della terra e delle acque?

Perché questa follia? Sotto quei metri d’acqua non ci sono solo case e coltivazioni, c’è il mio sogno di bambino, c’è il sogno degli abitanti di vivere in uno dei posti più belli del mondo, è stata allagata la speranza di chi si fidava e si credeva tranquillo, protetto da un modello che funzionava e tutti ci invidiavano. Se non si controllano le acque la comunità è in costante pericolo.

Lo sapeva molto bene Leonardo da Vinci, che nel suo trattato Delle Acque scriveva: «Infra li inriparabili e dannosi furori certo la inondazione de’ ruinosi fiumi de’ essere preposta a ogni altro orribile e spaventevole movimento…»
E più avanti: «Ma con quali vocavoli potrò io discrivere le nefande e spaventose inondazione, contro alle quale non vale alcuno umano riparo, ma colle gonfiate e superbe onde ruina li alti monti, deripa le fortissime argine, disvelle le radicate piante; e colle rapaci onde intorbida delle cultivate campagne portando con seco le intollerabili fatiche di miseri e stanchi agrecultori, lascia le valli denudate e vili per la lasciata povertà». Basterebbe ascoltare gli antichi.

L’Unità 21.01.14
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Alluvione nel Modenese, Schena: “Disastro annunciato che si poteva evitare” di Silvia Saracini

«UN DISASTRO annunciato che si poteva evitare». Non ha dubbi il sindaco di Soliera Giuseppe Schena sulle cause che hanno provocato la rottura dell’argine del Secchia. Da anni Schena si lamenta, assieme ad altri sindaci tra cui Stefania Zanni di Campogalliano, della scarsa manutenzione del fiume da parte di Aipo, l’Agenzia che ha la responsabilità del Secchia dall’Appennino a valle, cento chilometri di argine.

Quindi sindaco non è colpa delle nutrie..
Senza dubbio gli animali scavano le tane, ma le tane vanno chiuse. E sugli argini non contano gli sfalci, servono interventi di consolidamento»

Interventi che non sono stati fatti?
«Dal 2009 ad oggi gli interventi di manutenzione sono stati ridicoli, sia in termini di chilometri che di tipologia di intervento. Nel punto della falla Aipo aveva fatto un intervento nel 2010 perchè era visibile un abbassamento dell’argine che fu alzato. Ma questi non sono interventi significativi».

Cosa doveva fare l’Agenzia?
«Tre interventi: il dragaggio del letto del fiume, che negli anni si è ridotto; il consolidamento dell’argine anche alla base, non solo in altezza; ampliamento della casse d’espansione a Campogalliano, negli ultimi anni non sono state pulite e si è ridotta la capacità di tenuta».

Tutti interventi che avete sollecitato all’Aipo
«Sì, perchè nè i sindaci nè la Provincia hanno questa competenza, può farlo solo l’Agenzia per il Po. Dal 2009 noi siandaci della ‘stecca’ diciamo che siamo preoccupati per la tenuta degli argini e ci lamentiamo perchè vengono fatti pochi interventi»

E l’Aipo che cosa risponde?
«Dice che le risorse sono poche, che il progetto è impegnativo perchè sono cento chilometri di asta dall’Appennino al bacino del Po».

Quando vi siete incontrati l’ultima volta?
«Un mese fa, eravamo in Provincia. Aipo diceva di voler iniziare a progettare l’intervento nelle casse di espansione»

Quindi, dopo cinque anni di lamentele, si parla ancora di progettazione?
«Esatto. Noi sindaci eravamo pronti a sottoscrivere una convenzione con Aipo per gestire interventi di manutenzione minori. Non possiamo fare consolidamento degli argini, ma qualcosa potevamo farlo».

Cosa vi hanno detto?
«Che non era possibile. In questi anni i sindaci sono sempre passati per quelli che fanno allarmismo».

Avevate ragione. Quello che è successo si poteva evitare?
«Sì. Adesso siamo tutti concentrati a gestire l’emergenza. Ma quando sarà il momento noi sindaci parleremo».

Il Resto del Carlino 21.01.14

Carpi (mo) – Presentazione del Film-documentario: Crocevia Fossoli

Giorno della Memoria 2014 Sabato 25 gennaio ore 20.45 CARPI Auditorium A. Loria – Biblioteca via Rodolfo Pio Sotto Alto Patronato del Presidente della Repubblica Presentazione del film documentario Crocevia Fossoli regia di Federico Baracchi e Roberto Zampa Saluti Enrico Campedelli, Sindaco di Carpi Lorenzo Bertucelli, Presidente Fondazione Fossoli Introduce Marzia Luppi, Direttrice Fondazione Fossoli

"Norberto Bobbio", di Massimo Novelli

Domani il Centro Gobetti di Torino celebra con un convegno il grande filosofo scomparso dieci anni fa. La sua lezione attuale e profetica emerge anche nel testo di un discorso del 1969 che qui pubblichiamo in parte.
Quando il 4 ottobre del 1969, durante una tavola rotonda alla Fondazione Cini di Venezia, Norberto Bobbio tenne l’intervento sulla crisi di partecipazione politica nella società contemporanea, di cui pubblichiamo ampi stralci grazie al Centro studi Piero Gobetti di Torino, l’Italia stava entrando nel cuore di tenebra della strategia della tensione. Il successivo 12 dicembre, a Milano, le bombe di piazza Fontana lo avrebbero tragicamente dimostrato. Ma la lucidità dell’analisi del filosofo della politica, verrebbe da dire la sua preveggenza, andavano ben oltre la situazione di quel momento, segnato peraltro dalla contestazione studentesca, che Bobbio aveva accolto da uomo del dialogo quale era, e dagli scioperi operai.
Nel delineare quel giorno a Venezia, in occasione dell’ottavo congresso nazionale di filosofia del diritto, il «diffondersi di un certo disinteresse per la politica», la crisi delle ideologie e dei partiti, così come la burocratizzazione
del potere, la manipolazione del consenso «attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa»e le illusioni di risolvere ogni problema con la «democrazia diretta», l’autore del Profilo ideologico del Novecento descrivendo «l’apatia politica» del suo tempo, quella crisi, ne intuiva l’onda lunga, prefigurando sostanzialmente l’Italia odierna. Altrimenti non si potrebbe definire, se non profetico, il passaggio in cui asseriva che «mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale)». Il testo di Bobbio, che uscì poi solo su una rivista destinata a studiosi, terminava con un’affermazione che, riletta adesso, appare egualmente di attualità bruciante: «Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione».
L’eredità di Bobbio, il riascoltare la sua voce nei libri e negli articoli, caratterizzano il nutrito programma di seminari, di incontri, di mostre, di ristampe delle opere, con cui la famiglia Bobbio e il Centro studi Gobetti gli rendono omaggio per tutto il 2014, a cominciare dalla celebrazione torinese di domani, nella ricorrenza del decennale della scomparsa, avvenuta il 9 gennaio del 2004 all’età di 94 anni. Proprio all’appuntamento di Torino, che avrà luogo nella sala del Consiglio comunale della città, il professor Luigi Bonanate, uno dei suoi allievi, rammenterà nella sua relazione che «di fronte alla crisi morale o addirittura esistenziale che il mondo attuale conosce, Bobbio ha un’infinità di cose da dirci». Per Bonanate, soprattutto, «sostanzialmente sicuro che Bobbio consentirebbe», s’impone il tema della democrazia. Come scriveva il filosofo ne L’età dei diritti, ricordando che i diritti umani, la democrazia e la pace sono «i tre momenti necessari dello stesso movimento storco: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti».

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“Manipolare la democrazia uccide la politica”, di NORBERTO BOBBIO
COME tutte le espressioni correnti del linguaggio politico, anche l’espressione “crisi di partecipazione politica” viene comunemente adoperata in diversi significati. Credo che il miglior modo d’avviare una discussione sul tema sia quello di cominciare a fare qualche distinzione. A mio parere, conviene distinguere tre usi diversi dell’espressione. Il che val quanto dire che il fenomeno di cui intendiamo occuparci ha (almeno) tre diverse manifestazioni.
Nel senso più generale e anche più facile, quando si parla di crisi di partecipazione, s’intende fare riferimento al fenomeno dell’apatia politica, cioè al diffondersi di un certo disinteresse per la politica, che sembra una delle caratteristiche della società di massa. L’apatia politica è un aspetto del fenomeno più ampio della “depoliticizzazione”. La quale, a sua volta, sembra connessa, da un lato, allo sviluppo della società tecnocratica, dall’altro, all’ingigantirsi e al rafforzarsi, nella società delle grandi organizzazioni, degli apparati burocratici.
Come tutte le espressioni correnti del linguaggio politico, anche l’espressione “crisi di partecipazione politica” viene comunemente adoperata in diversi significati. Credo che il miglior modo d’avviare una discussione sul tema sia quello di cominciare a fare qualche distinzione. A mio parere, conviene distinguere tre usi diversi dell’espressione. Il che val quanto dire che il fenomeno di cui intendiamo occuparci ha (almeno) tre diverse manifestazioni.
Nel senso più generale e anche più facile, quando si parla di crisi di partecipazione, s’intende fare riferimento
al fenomeno dell’apatia politica, cioè al diffondersi di un certo disinteresse per la politica, che sembra una delle caratteristiche della società di massa. L’apatia politica è un aspetto del fenomeno più ampio della “depoliticizzazione”. La quale, a sua volta, sembra connessa, da un lato, allo sviluppo della società tecnocratica, dall’altro, all’ingigantirsi e al rafforzarsi, nella società delle grandi organizzazioni, degli apparati burocratici. E infatti, una delle caratteristiche dell’ideologia tecnocratica è di credere e di far credere che le grandi decisioni siano di natura tecnica e non politica. Orbene: se le grandi decisioni possono essere prese con
strumenti tecnici, non c’è più bisogno dei politici generici e tanto meno della partecipazione popolare ancor più generica; bastano i competenti specifici. […] Tecnocrazia e burocrazia si congiungono al di sopra della sfera tradizionale riservata alla politica. La conseguenza di questa congiunzione è appunto la depoliticizzazione. Un’altra variante di questa crisi della partecipazione politica come crisi della politica tout court è il fenomeno della crisi delle ideologie: in genere si crede che alla depoliticizzazione si accompagni la deideologizzazione come sua ombra. Volendo stringere in un solo nesso tecnocrazia, burocrazia e crisi delle ideologie, si può dire così: più si tecnicizza il processo di decisione, più si burocratizza il processo di potere; più si burocratizza il processo di potere, più si de-ideologizza il processo delle scelte fondamentali.
In un secondo senso si parla di crisi di partecipazione per indicare non già il fenomeno della mancanza di partecipazione bensì il fenomeno della partecipazione distorta o deformata. […] La partecipazione distorta o deformata è la partecipazione ottenuta con le tecniche della manipolazione del consenso. È una partecipazione non attiva ma passiva, non libera ma coatta, non spontanea ma forzata, non autodiretta ma eterodiretta. Ci si domanda se si possa ancora parlare appropriatamente di partecipazione: alcuni vorrebbero chiamarla piuttosto mobilitazione, usando un termine con un evidente significato emotivo negativo che serva a metterne immediatamente in luce il carattere di fenomeno deviante. Sotto questo aspetto, crisi di partecipazione vuol dire risoluzione della partecipazione in mobilitazione. Questa crisi di partecipazione è l’effetto del sempre maggior rilievo che nella moltiplicazione e nella diffusione delle comunicazioni di massa acquista il potere ideologico accanto ai tradizionali poteri economico e politico. Intendo per potere ideologico il potere che si esercita attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, cioè dei mezzi con cui chi detiene il potere cerca di ottenere il consenso dei soggetti ad esso sottoposti. […] Vi è infine un terzo significato in cui si parla di crisi di partecipazione politica: la partecipazione ha luogo, e quindi non vi è mancanza di partecipazione; si può anche ammettere che sia libera e quindi non manipolata, cioè sia vera e propria partecipazione (e non, per esempio, mobilitazione). Ma vi può essere un’altra ragione per cui la partecipazione sia insoddisfacente, e pertanto sia legittimo parlare di crisi: la partecipazione non produce gli effetti che da essa ci si attende, cioè è inefficace e quindi inutile. Si partecipa e quindi non si resta assenti dalla competizione politica; ci si può anche muovere nell’ambito delle scelte politiche con una certa libertà, e quindi non si può parlare di vera e propria manipolazione (dove vi è concorrenza tra le varie parti che si contendono il potere, rimane sempre un certo spazio per il formarsi di una opinione personale). Ma la partecipazione non raggiunge il proprio scopo che è quello di dare all’individuo partecipante una parte effettiva nel processo al cui termine c’è la decisione politica. È un fatto che nella misura in cui aumenta il numero degli elettori nelle società di massa sembra che le grandi decisioni vengano prese indipendentemente dalla maggiore o minore partecipazione di coloro al cui interesse quelle decisioni sono rivolte. […] Appare subito chiaro che una soluzione adatta per risolvere la crisi di partecipazione politica nel primo senso non è detto che sia adatta per risolvere anche il problema aperto dalla crisi di partecipazione politica nel secondo senso, e così di seguito. […] Tanto per cominciare, è noto che uno dei grandi rimedi proposti per risolvere l’attuale crisi della partecipazione politica è l’estensione della partecipazione dai centri di potere politico ai centri di potere economico. Giustamente si osserva che nelle società industriali avanzate le grandi imprese sono Stati nello Stato, e le loro scelte hanno un valore condizionante per tutta la collettività: se per decisioni politiche s’intendono quelle decisioni che incidono sulla redistribuzione delle risorse nazionali, non c’è dubbio che le decisioni delle grandi imprese sono decisioni politiche. Perché ci sia corresponsabilità di tutti alle grandi decisioni non basta la partecipazione al potere politico, come avviene nelle democrazie di tipo tradizionale, occorre anche una qualche partecipazione, nelle forme più convenienti ed efficaci, al potere economico. L’allargamento della democrazia dalla sfera politica alla sfera economica è uno dei temi ricorrenti della pubblicistica di sinistra. Benissimo. Però è subito evidente che una riforma di questo genere può risolvere il problema dell’assenteismo o
dell’apatia ma non certo quello della manipolazione né quello dell’inefficacia della partecipazione. […] L’altro grande rimedio — un vero e proprio toccasana dal modo con cui è presentato — è quello della democrazia diretta. In ogni discussione sulla crisi della partecipazione, gira gira, si torna sempre alla riproposta della democrazia diretta. I regimi democratici non funzionano perché sono fondati sulla democrazia rappresentativa, che è un inganno cui non crede più nessuno, e così via discorrendo. Eppure, a ben guardare, anche la democrazia diretta, posto che sia attuabile, e nei limiti in cui è attuabile, non è un rimedio universale. Delle tre malattie della partecipazione essa è in grado di curare quasi esclusivamente la terza, cioè la partecipazione inutile. […] Non vedo invece come possa venir meno, per il solo fatto che la democrazia diventi diretta, l’inconveniente della manipolazione. I plebisciti ne sono una prova. […] Il problema della partecipazione — lo vediamo sempre più chiaramente — non è un problema di quantità ma di qua-lità: o per lo meno non è soltanto un problema di quantità. Non si tratta tanto di sapere chi partecipa (problema dell’apatia) e neppure riguardo a che cosa (problema dell’efficacia della partecipazione); ma come. […] Mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale). […] Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione.

La Repubblica 20.01.14

"Farmaci e morale, a volte viaggiano su binari diversi", di Carlo Flamigni

In materia di salute è un errore comune quello di considerare gli addetti ai lavori non solo i medici, ma anche chi sperimenta i farmaci, chi li produce e chi li vende come persone coinvolte in una attività nella quale prevale la dimensione morale, e come se questo forte coinvolgimento impedisse loro di ragionare, agire e pianificare il proprio lavoro secondo altre possibili considerazioni.
L’ultima considerazione, in ogni caso, sarebbe sempre quella del profitto, una vera e propria eresia. Eppure leggo sul Corriere della Sera di venerdì scorso che in Italia ci sono 150 farmaci, alcuni dei quali appartenenti alla categoria dei cosiddetti «salvavita» che non sono facilmente reperibili in farmacia, perché il farmacista o il grossista che dovrebbe provvedere alla loro distribuzione trova economicamente vantaggioso dirottarli sui mercati di alcuni Paesi stranieri, nei quali costano persino tre volte di più. Federfarma ha commentato questa notizia sottolineando che non c’è niente di illegale, mi piacerebbe avere un suo giudizio sulla moralità di queste scelte.
Ma i farmacisti e i grossisti non sono certamente gli unici a fare scelte moralmente eccepibili nel campo della farmacologia. Scelgo a caso qualche esempio tra i più significativi.
Il mifepristone, il farmaco che si usa in tutto il mondo (un po’ meno in Italia) per interrompere le gravidanze, è stato sintetizzato dai ricercatori francesi della Roussel Uclaf nel 1980 nel corso di studi sugli antagonisti dei recettori per i glucocorticoidi. Ottenuta la licenza, ma prima che il farmaco fosse messo in vendita, la Roussel Uclaf ne annunciò il ritiro, motivandolo con le forti pressioni subite da parte dei movimenti pro-vita che minacciavano di boicottare tutti i farmaci prodotti dall’industria. Due giorni dopo il governo francese, comproprietario della Roussel Uclaf, intervenne in favore della ripresa della produzione e della distribuzione del farmaco. Il ministro della salute (Claude Evin, un socialista) in quella occasione, dichiarò: «Non posso permettere che il dibattito sull’aborto privi le donne di un prodotto che rappresenta un progresso della medicina. Dal momento in cui il governo francese ne ha approvato l’impiego, l’Ru486 è diventato di proprietà morale delle donne».
Ancora un esempio. Negli Stati Uniti (ma la stessa cosa poteva accadere in molti Paesi europei) lo scorso secolo è stato segnato da una grande numero di scandali relativi alla sperimentazione di nuovi farmaci su persone inconsapevoli. Vittime di questi indegni soprusi sono stati soprattutto i bambini, e in particolare i bambini che vivevano negli orfanotrofi o erano ricoverati in ospedali per bambini senza famiglia, e ciò perché questi soggetti erano considerati ideali per sperimentare i nuovi vaccini. Ho letto la dichiarazione di uno dei medici chiamati in causa che si giustificava dicendo che quei bambini avevano ricevuto molto dalla società e che era giusto che questa generosità fosse ripagata in qualche modo.
Gli scandali hanno frenato, ma non hanno del tutto impedito che la ricerca continuasse nelle società industrializzate, e contemporaneamente ne hanno spostato una buona parte nei Paesi più poveri, in Africa e in Asia. Scrive a questo proposito Carl Elliott (Better than Well. American Medicine Meets American Dream, Beacon Press, Boston 2008) che la ricerca sperimentale sull’uomo sta cambiando, anche perché inseguita dalle critiche e dalle proteste: abbandonate in buona parte le ricerche eseguite nelle università, si svolge nei Paesi del terzo mondo, in Istituzioni private, controllate da Comitati etici «for profit», sovvenzionati dall’industria del farmaco. In questi luoghi si arruolano pazienti attirandoli con somme di denaro importanti e offrendo loro ulteriori bonus se sono in grado di convincere qualche amico a farsi arruolare nella ricerca.
Il fatto che la sperimentazione farmacologica si sia spostata almeno prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo, è stato oggetto di analisi anche da parte del Comitato Nazionale per la bioetica (La sperimentazione farmacologica nei Paesi invia di sviluppo, approvato il 27 maggio 2011). Scrive il documento: «Purtroppo è emersa, con sempre maggiore frequenza a livello internazionale, la preoccupazione che la globalizzazione degli studi clinici nasconda soltanto una delocalizzazione o esternalizzazione della sperimentazione, per ridurre i costi e semplificare le formalità burocratiche, per reperire con maggior facilità e rapidità “corpi” da utilizzare, per penetrare in nuovi mercati».
Appelli, documenti, richiami all’ordine, proteste su questo problema ne sono giunte da tutte le parti ma, a quanto ci consta, hanno ottenuto risultati mol-
to modesti. Del resto anche le richieste, alcune delle quali presentate dallo stesso Comitato di bioetica italiano, relative alla rinunzia al segreto nelle procedure riguardanti il sistema regolatorio dei farmaci, segreto che continua a essere un privilegio dell’industria farmaceutica europea sono rimaste senza risposta; e lo stesso si può dire per la richiesta di rinunciare ai protocolli di ricerca basati anche sulla somministrazione di placebo o svalutazione dell’attività dei farmaci basata anche sul principio di «non inferiorità», tutte metodologie altrettanto astute quanto scorrette. Nel documento che ho già citato il Cnb ha scritto testualmente: «Da tutto ciò nasce il timore, di cui si fa interprete il Cnb, che gli interessi commerciali possano nascondersi dietro gli interessi scientifici e possano prevalere sul rispetto dei diritti umani fondamentali, traducendosi in forme di colonialismo e imperialismo bioetico, di indebito sfruttamento e strumentalizzazione a causa della differenza nelle conoscenze scientifico-tecnologiche e delle diseguaglianze economico-sociali oltre che culturali».
Il problema è che nella maggior parte dei casi chi si occupa dei farmaci della produzione e del commercio agisce all’interno della legalità, anche se abbiamo tutti l’impressione che alcune delle norme che li contengono gli vadano un po’ strette e che altre siano state approvate con il loro diretto contributo. Comportamenti legalmente amorali. Solo che non è vero che noi dobbiamo subire supinamente questi soprusi: se il mondo, brutto com’è, ci viene venduto senza apparenti alternative, proviamo a dire di no. C’è un po’ di dignità nazionale da difendere; c’è l’esempio di Claude Evin; e avete mai sentito parlare del boicottaggio?

L’Unità 20.01.14

"La libertà dei piccoli per difendersi dal mondo adulto", di Mariapia Veladiano

«Quanto libero può essere un bambino a scuola» è ovviamente una domanda tendenziosa. Di quelle che vogliono scatenare risse. Perché a scuola si va per imparare, e se una bambina si rifiuta di fare il disegno delle foglie il lunedì mattina dalle dieci alle undici, in qualche modo disturba la propensione più o meno spontanea degli altri bambini a obbedire alla consegna, e in una interpretazione piuttosto circoscritta del suo bene, disturba anche il suo processo di apprendimento dell’arte del disegno e quindi è una libertà solo apparentemente innocua la sua e a scuola diventa un problema da affrontare se si ripresenta.
E se poi è lo studente delle superiori a mancare un giorno sì e uno no dalle lezioni, anche questa è una libertà pericolosa, il perché qui non è così evidente e luminoso, ma il fatto è tanto grave da farlo escludere dallo scrutinio per legge, bocciato d’ufficio. Quali che siano i risultati scolastici.
Poi ci sono le emozioni. Anche la domanda “quali emozioni possono abitare a buon diritto le aule di scuola” è tendenziosa. Fare un elenco è stupido, entrano tutte, insieme alle persone che la frequentano. Sollevare un mare di distinguo, tipo: amichevole sì, affettuoso sì, grato sì, ribelle meglio di no, o con moderazione, odioso forse, però solo in privato, amichevole sì anche in pubblico purché si agisca poco poco, e già ci si trova sommersi dal politicamente scivoloso. Ma da Daniel Goleman in poi anche i non addetti sono più o meno informati circa l’esistenza dell’intelligenza emotiva, che ha a che fare con la capacità di affrontare con successo la vita e anche la scuola, e infatti la tesi che le abilità emozionali siano strategiche per i risultati scolastici ha portato a un investimento importante sui programmi di Social Emotional Learning (SEL) all’interno dell’istruzione in ambito anglosassone. Con risultati, dopo decenni di monitoraggio, sconfortantemente diseguali, discussi, eclatanti e deludenti a seconda dell’indagine o dell’esperienza che si va a scegliere per parlarne.
Ci son questioni così grandi dentro. C’è il punto di vista bambino ad esempio: la sua individualità, se sconfina la composta vita d’aula, va coltivata oppure normalizzata? E poi, un’educazione alle emozioni corre sempre il rischio di esprimere una visione standardizzata di gestione delle emozioni, addirittura funzionale banalmente al mondo di scuola, dove i tagli di organico rendono più conveniente la disciplina e quasi ingestibile le diversità. Picchiare, far danni alle cose, dire parolacce e impedire la lezione, per semplicità e un po’ all’ingrosso si può dire che non sono problemi né di libertà né di emozione, ma di maleducazione, almeno fino a una certa età. Poi è delinquenza e basta, sempre parlando all’ingrosso, perché a pensarci poi la scuola raccoglie quel che il mondo le consegna e a volte è proprio difficile mettere il confine fra la reazione adolescenzialmente sgangherata a situazioni di vita ferita e il reato ben deliberato.
Di sicuro le emozioni sono tema di scuola, insieme alla libertà che ciascuno, fin da bambina e da bambino, ha il diritto di vedere riconosciuta, libertà di essere unico e di difendersi. E di ribellarsi a manipolazione, depressione, frustrazione, stanchezza, sfiducia del mondo adulto come ce lo descrivono le indagini e come ce lo consegna la letteratura oggi. Perché è evidente che le emozioni a scuola sono anche quelle degli adulti, eppure non c’è programma di formazione dei docenti che preveda un lavoro sulle proprie emozioni d’aula e su come fare a fidarsi e affidarsi all’empatia, che è sentire quel che sente chi ci sta davanti, e così entrare in relazione, senza perdersi. Bisogna non perdersi quando si è in aula.
Sulla scuola tutti hanno da dire ed è giusto, perché la scuola è il bene di tutti. Però in virtù dell’essere stati studenti o di avere figli studenti, il dire di scuola è spesso un dire (troppo) assertivo.
Beati quelli che son sicuri di quel che si deve fare.
Pazzi quelli che son sicuri di quel che si deve fare.

La Repubblica 20.01.14

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La scuola delle emozioni. Bambini Lezione e sentimento
di Massimo Vincenzi

Bambini a lezione di sentimenti. Succede in America, dove gli alunni possono imparare a riconoscere e gestire felicità e rabbia Rabbia, felicità, malinconia o amore. Come riconoscerli, gestirli e infine usarli per migliorare. Un compito arduo per gli alunni e gli insegnanti che da qualche tempo in America si trovano alle prese con una materia in più, forse la più difficile: l’educazione emotiva
È mezzogiorno, c’è finalmente un bel sole quasi caldo, dopo i giorni della tempesta polare i bambini possono mettere il naso fuori dalle loro classi. Sono una ventina, stanno in cerchio tenendosi la mano nel cortile della Corlears School a Chelsea nella parte bassa di Manhattan. In mezzo a loro LaTasha, la maestra, parla con tono quasi musicale: «C’è qualcosa che volete raccontare? Qualcosa che non va come vorreste a casa o a scuola? O con i vostri amici?». Tim è intabarrato dentro un giubbino troppo largo, ha otto anni, abbassa lo sguardo e alza un filo di voce: «A me non piace mio fratello più grande: mi ruba sempre i giochi».
Vengono assegnati i ruoli: uno più alto degli altri interpreta il “cattivo” e in mezzo al cerchio va in scena la riproduzione del “furto”. La maestra guida tutte le fasi sino a quando Tim non ritrova il sorriso, il finto fratello chiede scusa e tutti si dondolano avanti e indietro nel loro palcoscenico immaginario.
Quello di La Tasha non è un esperimento empirico ma segue alla lettera uno dei tanti programmi per “quella materia fondamentale che ancora mancava nelle scuole americane”: l’educazione emotiva. Ovvero insegnare ai bambini a gestire quello che capita loro attorno, comprendere i propri sentimenti, quelli degli altri, sviluppare l’empatia, domare rabbia e nervosismo. La piccola rivoluzione che mette al centro della didattica l’intelligenza emotiva, secondo la definizione del best seller dello psicologo Daniel Goleman, si appoggia su basi scientifiche e sta conquistando sempre più consensi. Marc Brackett, dell’università di Yale, è uno dei più attenti studiosi del fenomeno: “Dopo anni di ricerche ed esperimenti non ci sono pi ù dubbi: sappiamo che le emozioni possono migliorare o ostacolare la capacità di apprendimento”, spiega ad un convegno. Il concetto è semplice ma non scontato: se un alunno ha problemi a casa certo faticherà a concentrarsi sui libri, se litiga con i compagni non riuscirà a stare attento, se è sospinto dall’euforia o zavorrato dalla tristezza sarà impossibile farlo progredire negli studi. La scuola è un’enorme pentolone che ribolle, dall’infanzia all’adolescenza le emozioni viaggiano alla velocità della luce: imparare a governarle diventa decisivo. Per molto tempo gli insegnanti (e pure i genitori) non si sono preoccupati di questo aspetto: l’idea generale era che queste capacità si sviluppano naturalmente con il tempo, attraverso l’esperienza. Ma gli studi confermano che non è affatto così: molti non riescono mai a controllare i propri stati d’animo, attraversano in una sorta di altalena emotiva tutta la loro carriera scolastica sino a diventare giovani uomini e donne problematici. “Sono percezioni naturali mi ripete ancora qualcuno, i bimbi le apprendono guardandosi attorno in famiglia. È un’assurdità: come tutte le doti vanno allenate”, dice ancora Brackett, che poi aggiunge: “Non basta urlare calmati per ottenere l’effetto sperato, bisogna spiegargli come fare a riprendere il controllo: va riconosciuto il problema, affrontato, risolto”.
I benefici sono assicurati, giurano gli esperti. Non solo nell’immediata carriera da studenti ma anche nel futuro: secondo uno studio dell’università della Virginia l’educazione emotiva è la chiave per avere successo nella vita e nel lavoro, poi ci guadagnano le relazioni di coppia e persino la salute. “Gli effetti positivi vanno ben al di là di un bel voto in un test: so-no talmente tanti da dare quasi le vertigini”, esulta Maurice Elias della Rutgers University.
Nascono molti siti dove si trovano manuali di comportamento, nei blog padri e madri smarriti davanti ad un terreno sconosciuto trovano le risposte che cercano, su Google ci sono più di 8mila link collegati (ce n’era uno nel 1981). Edutopia, la fondazione di George Lucas, quello di Guerre Stellari, stanzia milioni di dollari ogni anno per promuovere questi programmi, altre organizzazioni no profit fanno pressione sul Congresso e sui singoli Stati perché la materia diventi obbligatoria per legge. L’Illinois, dal 2003, è il primo stato ad averla adottata, adesso si muovono anche altri: dalla California a New York. Tutti convinti che questa sia la strada per prevenire l’incubo dei professori americani: il bullismo, compreso la sua versione cyber: “Se riusciremo ad insegnare ai nostri ragazzi l’autocontrollo, tra vent’anni avremmo un mondo migliore”, assicura Jessica che insegna anche lei alla Corlears. La fiducia nella prevenzione conquista anche la politica: tanto che da Washington parte la direttiva di cambiare linea sulla “tolleranza zero” a scuola.
Sino ad ora gli studenti indisciplinati venivano puniti con severità, dall’espulsione sino al carcere nei casi di reati violenti: adesso si mettono in atto corsi di recupero, non perdere ragazzi per strada diventa prioritario e nelle ore passate con gli insegnanti di sostegno, va da sé, l’educazione emotiva è la materia regina.
Billy fa il preside in una scuola di Sacramento, racconta la sua esperienza al New York Times, che dedica al tema una copertina del suo magazine: “Andava tutto male, pessimi risultati, indisciplina, risse e guai simili. Allora ho cambiato molti professori, rifatto i programmi didattici ma ancora niente: le cose non miglioravano. Poi ho messo nella didattica il corso e dopo pochissimo la situazione è migliorata. Anche io sto meglio,me lo dice pure mia moglie”.
Gli esercizi e le tecniche di insegnamento variano: il tratto comune è la fisicità, il tentativo di far visualizzare ai bambini le loro emozioni in modo da imparare a riconoscerle dunque a domarle. Gli alunni devono ricordarsi che faccia avevano quando si sono arrabbiati con la mamma, oppure quando hanno fatto festa per un bel voto: ritrovata quell’espressione la ricreano e stanno immobili per un po’. Oppure devono colorare quadrati con diverse tonalità, ognuna legata ad uno stato d’animo particolare e poi incollarli al muro in modo da avere un grafico aggiornato del proprio umore. E anche viene chiesto di animare i libri, di recitare quello che hanno letto o i temi che hanno scritto. La respirazione è l’altro filo che li tiene assieme: passa da qui infatti molta della nostra capacità di gestire i diversi stati animi, soprattutto la paura. Poi i vari programmi lasciano molto libertà ai professori, che devono capire quale tipo di bambino hanno davanti: c’è chi dimentica una sensazione dopo pochi secondi e chi se la porta dietro per mesi. “Bisogna fare attenzione, si cammina in un campo delicato: addestrare bene i docenti diventa decisivo”, avvertono gli psicologi.
Ma non tutti applaudono la novità. La scrittrice Elizabeth Weil lancia l’allarme su New Republic: “Vogliono uniformare i nostri figli. Io difendo il loro diritto di essere esuberanti, originali, anticonformisti anche a costo di farsi male. Già le nostre scuole non brillano per fantasia: adesso andiamo incontro al rischio di un’ortodossia emotiva”. E una attenta studiosa delle scuole americane, Diane Ravitch le dà ragione: “Il guaio del nostro sistema educativo è che non abitua alla libertà di pensiero, altro che controllare le emozioni: andrebbero scatenate”.
L’ombra si allunga sul cortile della scuola di Chelsea. Fa freddo e i bambini rientrano in fretta, si spingono e urlano nella strettoia della porta, LaTasha li sgrida sorridendo: “Non penso che creiamo dei robot, offriamo uno strumento per aiutarli a stare meglio. Prendi l’inglese, insegniamo la grammatica poi ognuno di loro, grazie a Dio, in quello che scrive ci mette il cuore, la vita e la propria personalità”.

La Repubblica 20.01.14