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"Scatti, un bel passo avanti ma non basta", di A.G. da La Tecnica della Scuola

I fondi necessari a ripristinare gli scatti d’anzianità mancanti, ma non tutti perchè rimane il “buco” del 2013, verranno prelevati dal 30% di risparmi derivanti dai tagli dell’era Gelmini (sono stati accantonati 120 milioni di euro) e poi, per la restante parte probabilmente come in passato dal Mof. I commenti dei sindacati di categoria sono in agro-dolce. E quello di polizia Silp-Cgil avverte: ora tocca a noi.
Un bel passo in avanti sulla “vertenza” sugli automatismi stipendiali del personale della scuola. Il decreto legge varato il 17 gennaio dal consiglio dei ministri conferma quanto annunciato dal premier Letta nei giorni scorsi e cioè che dalle buste paga non verrà prelevata la tranche di 150 euro come restituzione degli ‘scatti’ già pagati dal primo gennaio 2013, ripristina gli scatti d’anzianità per il 2014 e consente di recuperare quelli del 2012 e 2013. Il provvedimento demanda, infatti, a un’apposita sessione negoziale il riconoscimento dell’anno 2012 ai fini della progressione stipendiale dei dipendenti della scuola (insegnanti e personale non docente). E assicura che nelle more della conclusione di questa sessione (“e comunque non oltre il 30 giugno 2014”) “al personale interessato verrà mantenuto il trattamento economico corrisposto nell’anno 2013”.
La procedura negoziale per il recupero dei mancati scatti è stata già utilizzata per gli anni precedenti al 2012 e – si spiega – viene finanziata con risparmi e risorse provenienti dal settore scolastico senza alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato. Si attingerà dunque senz’altro al 30% di risparmi derivanti dai tagli dell’era Gelmini (sono stati accantonati 120 milioni di euro) e poi, per la restante parte probabilmente come in passato dal Mof, il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa.
Commenti in agro-dolce tra sindacati, che continuano a chiedere con urgenza di un confronto con il ministro Carrozza. Il decreto “risolve solo in parte le questioni” afferma il segretario generale della Cisl scuola, Francesco Scrima, secondo il quale “resta indispensabile e risolutivo, come avvenuto negli anni scorsi, un passaggio negoziale di cui torniamo a chiedere che siano accelerati i tempi”. Scrima lamenta poi che nel provvedimento “nulla si dice sull’altra questione in campo, quella delle posizioni economiche del personale Ata” (al quale era stata chiesta la restituzione, poi sospesa, dell’incentivo economico, stabilito con un accordo del 2011, per mansioni che vanno oltre i normali compiti). “Contrariamente a quanto affermato dal Ministro nei giorni scorsi il governo non ha stanziato le risorse necessarie a evitare il prelievo fondo per il miglioramento dell’offerta formativa” accusa il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo che ritiene “gravissimo non aver previsto alcuna soluzione strutturale per le posizioni economiche del personale Ata”.
Della stessa idea il leader della Gilda, Rino Di Meglio: “adesso chiediamo al ministro Carrozza, di convocare con urgenza i sindacati per riavviare in tempi rapidi la trattativa all’Aran e risolvere la questione definitivamente”. Se gli insegnanti, come ha detto il ministro Mauro lasciando stamani Palazzo Chigi, possono stare tranquilli, cominciano ad agitarsi altri dipendenti pubblici. Il sindacato di polizia Silp-Cgil auspica un provvedimento analogo a quello della scuola anche per il personale di polizia e chiede ai ministri D’Alia e Alfano “un impegno reale su questo delicato versante al fine di non mortificare operatori che contribuiscono, ogni giorno, alla tenuta democratica del nostro Paese”. Come dire: dopo i docenti tocca a noi bypassare il blocco degli aumenti in busta paga.
Mentre il leader della Uil Scuola, Massimo Di Menna, ricorda che viene sì “ripristinata la progressione economica per anzianità prevista dal contratto vigente”, ma” contemporaneamente “viene per tutti rallentata per il mancato riconoscimento del 2013”. Ed individua nel “blocco del contratto, oltre agli errori commessi dai ministri e dai ministeri, alla base del pasticcio a cui oggi il decreto ha posto rimedio”.

La Tecnica della Scuola 18.01.14

"Scuola, l'eclissi dei progetti", di Benedetto Vertecchi

C’è qualcosa di anomalo nel confronto in atto sull’educazione, che si manifesta con maggiore evidenza in quei contesti, come quello italiano, nei quali da troppo tempo si è rinunciato a sviluppare una riflessione originale ed autonoma circa il profilo culturale che si vorrebbe fosse generalmente posseduto dalla generalità della popolazione e le soluzioni educative che potrebbero consentire il conseguimento di tale intento. Nello sviluppo storico dell’educazione occidentale l’indicazione di traguardi ha anticipato l’assunzione di determinate caratteristiche dell’organizzazione educativa e delle pratiche didattiche. Ciò non significa che fossero enunciati principi, e tantomeno regole, uniformemente seguiti, né che vi fosse da parte degli educatori la medesima consapevolezza degli effetti che sarebbero potuti derivare dalla loro attività,ma che all’educazione si riconosceva una funzione di concausa nei processi di trasformazione sociale. Il grande sviluppo dell’educazione scolastica che ha consentito negli ultimi secoli di assicurare crescenti opportunità d’istruzione per i bambini e i ragazzi, considerato dal punto di vista che prima s’indicava, quello dell’elaborazione di un profilo culturale diffuso, appare come la realizzazione di scenari delineati nelle grandi utopie che hanno rappresentato una parte importante del pensiero europeo dalla metà del secondo millennio. Attraverso l’utopia ci si poteva riferire a una realtà costruita per negazione di quella che costituiva la comune esperienza: se l’analfabetismo rappresentava la condizione più frequente, gli abitanti dei non-luoghi dell’utopia si distinguevano per il possesso di una cultura alfabetica; se l’educazione formale era per lo più rivolta a strati favoriti della popolazione maschile, nell’utopia tutti potevano fruirne, senza distinzione di classe o di genere;se il tempo della vita era in massima misura assorbito dal lavoro, si affermava l’idea che una uguale rilevanza dovessero avere il riposo e le attività rivolte a coltivare la sensibilità e l’intelligenza di ciascuno; se la conoscenza era considerata una prerogativa individuale,se ne affermava l’utilità per il miglioramento delle condizioni di vita; e così via. Ciò che interessa rilevare riflettendo sull’anomalia del confronto educativo in corso è che mentre negli scenari utopistici determinate caratteristiche della popolazione erano considerate necessarie per la coerenza dell’insieme della proposta di assetto sociale, da qualche tempo si tende ad affermare il contrario, e cioè che gli indirizzi dell’attività educativa devono essere congruenti a scelte che sono già operanti nei diversi contesti sociali,in particolar modo nelle attività produttive. Risulta evidente che è cambiata sostanzialmente la concezione del tempo: mentre il grande sviluppo dell’educazione formale è da considerarsi l’effetto di progetti per il lungo periodo, da qualche tempo sembra essere stato abbandonato l’intento progettuale, e sostituito da una nozione funzionalista dell’offerta di apprendimento. In altre parole, le scelte educative non sono più coerenti con un disegno a lungo termine volto a definire il profilo della popolazione, ma rispondono alle esigenze di breve periodo che si manifestano nel sistema produttivo. Le concezioni educative elaborate nell’ambito dell’utopia classica hanno anticipato il corso di eventi che si sarebbero osservati nei secoli successivi, mentre nelle condizioni attuali si vorrebbe realizzare un’improbabile concomitanza tra le richieste del mercato del lavoro e l’offerta di apprendimento del sistema d’istruzione formale. La rinuncia a interpretare l’educazione secondo una logica autonoma non è l’ultima ragione della crisi che, in varia misura, ha investito i sistemi scolastici dei Paesi industrializzati. Anche quando i dati derivanti da rilevazioni comparative sembrano segnalare l’esistenza di condizioni migliori, ci si dovrebbe chiedere se a posizioni più favorevoli in graduatoria corrispondano risultati educativi capaci di configurare un profilo innovativo di cultura della popolazione, o se i livelli più elevati siano da porre in relazione solo a migliori condizioni organizzative e ad apparati ideologici più coinvolgenti. Non sarebbe inutile chiedersi, per esempio, quanta parte abbiano avuto le condizioni organizzative e la pressione ideologica nel consentire ai sistemi scolastici di alcuni Paesi dell’estremo oriente di scalare le posizioni più elevate nelle graduatorie dell’ultima indagine Ocse-Pisa. E, soprattutto, ci si dovrebbe chiedere se una competitività così spinta da far accettare, oltre a un orario scolastico lungo, alcune ore ulteriori di pre e di post scuola, con quel che ne consegue in termini di resistenza allo sforzo prolungato, corrisponda a una concezione educativa che si è disposti a riconoscere come preferibile o solo ad accettare come selezione de facto. Ma, in un caso e nell’altro,non si capisce quale sia il disegno culturale, se non per ciò che riguarda l’utilità che dagli studi si può trarre nel breve termine. In Italia la crisi è più grave non solo per l’eclissi di progettualità che da troppo tempo caratterizza il sistema educativo, ma anche per il crescere della distanza tra le soluzioni didattiche e organizzative del nostro sistema scolastico rispetto a quello degli atri paesi industrializzati. Mentre si discetta in un latinorum da Don Abbondio di soluzioni tecniche per questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema, sembra che nessuno si preoccupi di capire che cosa stia accadendo nelle scuole, quali siano le difficoltà che gli insegnanti incontrano nel loro lavoro quotidiano, di che cosa ci sia realmente bisogno in un disegno di lungo termine, che cosa di culturalmente significativo bambini e ragazzi dovrebbero saper fare non solo al momento, ma nella lunga prospettiva di vita che li attende.

L’Unità 18.01.14

"L’orrore della Siria negli occhi di una bimba", di Adriano Sofri

Considerate se questa è una bambina… Era una bambina, si chiamava Israa al Masri. È stata filmata, secondo quello che se ne sa, lo scorso sabato, pochi minuti prima di morire di fame. La fotografia è stata inoltrata, con il video da cui è tratta, all’Associated Press da Sami Alhamzawi, un venticinquenne abitante del campo di Yarmuk, a sud di Damasco. Quattro giorni fa era stata pubblicata dal Times of India
e da altri siti, ieri l’Independent l’ha ripubblicata con un lungo servizio sulla morte per inedia nella località siriana assediata. Yarmuk è da più di mezzo secolo un insediamento di profughi palestinesi, e vi abitavano poco meno di 200 mila persone. Allo scoppio della guerra civile, benché la maggioranza dei suoi abitanti cercasse di tenere una neutralità, ci furono scontri armati fra fazioni di fautori e di nemici di Assad, e le condizioni si fecero così dure che, dopo tre anni, solo in 18 mila, i più poveri di risorse, soprattutto vecchi donne e bambini, sono rimasti. A loro si sono aggiunti, in un numero incalcolabile ma di decine di migliaia, siriani a loro volta fuggiti da città e case distrutte e
minacciate.
Yarmuk è stretta in un assedio spietato dall’esercito “lealista”, che impedisce l’ingresso di aiuti umanitari, di cibo, coperte, medicine, bombarda le case, tiene sotto il tiro dei cecchini le radure in cui madri disperate si attentano a strappare erba, malva, foglie di ibisco! Da novembre, dicono, sono morte di fame e disidratazione 50 persone. Donne sono morte di parto, non c’è elettricità, l’ospedale non può lavorare.
L’esercito di Assad denuncia la presenza nel campo di milizie ribelli e islamiste, e i negoziati per il cessate il fuoco o per aprire un corridoio umanitario vedono paradossalmente contrapposti i dirigenti di Hamas a quelli di Hezbollah e iraniani. Gli abitanti hanno mangiato gli animali domestici, hanno bruciato gli infissi per scaldarsi, si sono rassegnati, si dice, a sacrifici più terribili e indicibili, perché qualcuno sopravvivesse. Del resto non ci sono testimoni
esterni in un luogo destinato deliberatamente allo sterminio e precluso anche ai convogli sanitari impegnati a portare il vaccino contro la polio, ritornata in Siria, com’è appena successo. Ho letto che a Yarmuk ci sono insegnanti che insistono a fare scuola a bambini, smunti e sfiniti gli uni e gli altri.
Yarmuk è una voragine, ma anche nel resto della Siria, dove il conto delle vittime è salito di altre migliaia dopo la crisi delle armi chimiche, si muore oltre che di bombe e proiettili, di fame freddo e malattie curabili che diventano fatali, e gelo e fame sono sfruttate deliberatamente come armi di una guerra che non vuole tregua. A metà dicembre, il medio oriente è stato colpito da una tormenta di neve eccezionale, che ha infierito su un popolo di sfollati ed esausti. Bambini e vecchi sono morti di freddo perfino nei campi dei rifugiati fuori dal paese, in Giordania, in Libano, in Egitto. La Siria, alla vigilia di una trattativa patrocinata internazionalmente, il 22 gennaio a Montreux, sul lago di Ginevra, è più che mai in
preda a una guerra a oltranza di tutti contro tutti che travolge la popolazione civile. Nell’ultimo periodo, in coincidenza con una recrudescenza del terrore in Iraq, dove lo scontro ingovernato fra sciiti e sunniti si è tramutato, nel centro del paese, in quello fra governo e qaedismo, è divampata in Siria la guerra fra i ribelli islamo-nazionali e le armate del jihadismo internazionale, soprattutto dell’ISIL, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. La moltiplicazione dei contendenti e il richiamo che la Siria dilaniata esercita su bande e uomini dell’universo islamista, oltre agli interessi di innumerevoli potenze di ogni rango che vi giocano e vi vengono giocate, hanno messo al bando la pietà. L’Unicef stima che siano più di 5 milioni e mezzo i bambini bisognosi di aiuto. A dicembre, Amnesty International ha reso noto che «gli stati europei hanno dato la disponibilità per accogliere solo lo 0,5 % dei profughi (12.000 persone rispetto ai 2.300.000 che hanno lasciato il paese)». Poi ha aggiunto che «dovrebbero abbassare la testa per la vergogna».
Tutte queste parole, e le altre che occorrerebbe dire e accompagnare con le mappe, le cifre, il dizionario dei barili esplosivi e il registro delle decapitazioni di musulmani di un’altra affiliazione e di cristiani cui viene conficcato il crocifisso sul cadavere — sono necessarie e insieme superflue, non appena torniamo a guardare la fotografia. Lì si dice tutto questo, e qualcosa d’altro, che non si può dire. Ci sono alcuni di noi che, quasi per professione, o per averlo fatto altre volte, o per chissà quale altra combinazione, si trovano a commentare immagini come questa, e a interrogarsi sulla sincerità propria e di chiunque guardi con loro. Se la si fosse studiata, questa rappresentazione dell’infanzia tradita e violata, non avrebbe saputo essere più eloquente. Uso a posta questo termine, eloquenza, che è una perversione del dolore, della commozione e della rivolta. Gli occhi della bambina, la bocca riarsa e la lingua gonfia, il doppio cerchio del copricapo e della maglia che la avvolgono preparandosi a restarne vuoti: è un manifesto formidabile. Lo stiamo guardando così? E non è vero che i manifesti formidabili del male, del dolore e dell’ingiustizia sono ormai destinati a restare tali, per noi spettatori, a inumidire forse i nostri occhi, ma a tenere ferme le nostre mani? E la bambina Israa, per giunta, non ci sta chiedendo aiuto, non ci sta chiedendo niente. E poi è morta. Guardiamo lei, non la prossima. Lei, anche in questa foto, anche quando è ancora viva, dagli occhi spalancati e le ciglia diventate troppo lunghe, come se non fossero state avvertite della fine, non guarda noi. E caso mai ci guarda da molto lontano, sapendo una cosa che noi non sappiamo del tutto, e che comunque non ci sembra tutto. Ci sembra un’esagerazione, se davvero si pretenda che ne diamo un giudizio. Quella cosa è che il mondo ha raccolto tutte le sue forze, il suo passato e il suo presente, per raggiungere e colpire la piccola Israa al Masri, nel campo di Yarmuk, il 14 gennaio del 2014. Questa esagerazione è la verità, se solo per un momento sappiamo toglierci dal cospetto della fotografia e scivolarle dietro, e guardare anche noi da lì. Poi torniamo al nostro divano e ai nostri affari: era un’esagerazione.

La Repubblica 18.01.14

Immigrazione, Taurasi “Grazie a Cécile il Paese sta cambiando”

Il presidente della Direzione del Pd modenese sugli attacchi al ministro Cécile Kyenge. Dopo i ripetuti attacchi di cui è stato oggetto il ministro modenese per l’Integrazione Cécile Kyenge, il presidente della Direzione del Pd modenese Giovanni Taurasi si interroga sul grado di razzismo presente nel nostro Paese. Ecco le sue considerazioni:

«Non ho mai pensato che la Lega fosse un partito razzista, e tanto meno chi la vota(va), e nemmeno che l’Italia fosse un Paese razzista. Nel passato l’Italia si è macchiata di gravi crimini contro l’umanità ed è stata complice durante il fascismo del nazismo. Altro che italiani brava gente. Di crimini, anche a sfondo razziale, ne hanno compiuti anche gli italiani nella loro storia: pensiamo alla pulizia etnica in Libia, all’uso di gas in Etiopia, alla deportazione di ebrei, omosessuali, dissidenti, ai massacri perpetrati sul confine orientale… Ma anche se il noto Manifesto del Fascismo aveva annunciato che «è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti», in realtà, nei sentimenti più profondi degli italiani, non albergava un sentimento razzista, perlomeno in base a come va inteso il termine scientificamente. Peraltro il Manifesto della razza, che contava, non dimentichiamolo, tra i dieci firmatari ben tre docenti che insegnarono all’Università di Modena, abbracciava teorie razziali di tipo biologico, basate sulla pretesa purezza del sangue, che non erano diffuse nemmeno tra i razzisti italiani, legati prevalentemente alla componente «spiritualistica» del razzismo. Certo, era presente nella società italiana un sentimento xenofobo, emerso significativamente quando anche il nostro Paese è stato toccato, in ritardo rispetto agli altri, dal fenomeno dell’immigrazione, e nonostante noi italiani fossimo stati storicamente un popolo di migranti. Oggi ci sono molte inquietudini e paure nei confronti dell’immigrazione. Che riguardano italiani di destra, di sinistra, di centro e di nessun orientamento politico. Inquietudini che a volte sono anche comprensibili. Perché l’immigrazione è un fenomeno complesso, che va governato. Un fenomeno che può offrire anche opportunità al nostro Paese. E ne sta offrendo. Si vadano a vedere i dati della Camera di Commercio di Modena sulle imprese condotte da stranieri, il contributo che danno i lavoratori immigrati all’economia e alla società modenese o quello delle famiglie straniere per contrastare la bassa natalità italiana: ogni anno in Italia nascono 70 mila bambini in meno, una città delle dimensioni di Carpi, e ciò condanna il nostro Paese ad un invecchiamento senza futuro. Ma l’immigrazione, va detto, presenta anche problemi. Le soluzioni sono difficili da trovare e passano necessariamente attraverso l’integrazione (poi possiamo discutere del modello: multiculturalismo, assimilazione, mix di modelli o nuove modalità di integrazione), ma è indubbio che è un tema che non si può eludere da una parte e non si può banalizzare dall’altra. Detto questo, quando vedo le provocazioni delle destre e della Lega sul tema dell’immigrazione e i volgari attacchi al ministro Kyenge, mi rendo conto che si vuole scavare e far emergere quel residuo razzismo presente in tutte le società. La sua nomina a ministro è stata una cartina di tornasole. Al di là di ciò che sta facendo come ministro, e di progetti per l’integrazione ne segue e ne realizza molti, e al di là di come si concluderà la battaglia per lo Ius Soli, che mi vede favorevole, anche solo per il fatto che sta facendo emergere con il colore della sua pelle questi vergognosi sentimenti razzisti, il ministro Kyenge sta cambiando, in meglio, questo Paese. Perché le malattie si sconfiggono solo conoscendole. E il razzismo è una malattia, che se non viene affrontata può essere anche letale per le democrazie, come accaduto in passato.

Grazie Cécile.

Non ne hai bisogno, ma coraggio. E avanti!»

"Gli enti lirici tentano la riscossa", di di Giovanna Mancini

Difficile distinguere tra vincitori e vinti in una vicenda complessa come quella del Teatro San Carlo di Napoli, con il sindaco della città (presidente della Fondazione che lo gestisce) che insiste nella proposta di mettere in ordine i conti puntando sulle risorse interne e, sul fronte opposto, il ministero dei Beni culturali che richiama la fondazione al rispetto della legge «Valore cultura».
Comunque lo si voglia giudicare, il caso di Napoli è emblematico della frattura creata, nel mondo della lirica italiana, dalle regole introdotte con la legge Bray, approvata lo scorso ottobre per sanare la disastrosa situazione economica delle fondazioni liriche. Il ministero ha previsto, per il 2014, un fondo a rotazione di 75 milioni, per la concessione di finanziamenti di durata massima trentennale, oltre a un altro fondo di 25 milioni. Il tutto però, a condizione che gli enti presentassero dei «credibili» piani industriali di ristrutturazione.
La definizione di questi piani ha scatenato l’inferno nei teatri, sollevando in particolare le proteste dei sindacati, preoccupati per possibili tagli o ridefinizioni delle condizioni lavorative ed esasperando conflitti (talora anche di natura politica) già in essere. Lo scenario non è dei più confortanti: tre delle 14 fondazioni liriche italiane sono attualmente commissariate (Bari, Firenze e Palermo) e due sono fortemente a rischio – lo stesso San Carlo e il Lirico di Cagliari, dove proprio oggi è previsto il cda per esaminare le candidature alla sovintendenza, dopo l’addio di Marcella Crivellenti, la cui nomina era stata giudicata non valida dal Tar, lo scorso novembre.
Ma le note più dolorose riguardano la situazione economica, con un indebitamento lordo che, complessivamente ammonta a circa 340 milioni di euro (l’indebitamento netto è di 100 milioni). Non mancano le situazioni virtuose di realtà (come l’Accademia Santa Cecilia di Roma o la Scala di Milano, ma anche Venezia e Torino) che riescono a far quadrare i conti, magari ricorrendo a risorse private. In base alla legge Bray, i soggetti che nel triennio 2011-2013 hanno raggiunto il pareggio di bilancio avranno in dote una quota aggiuntiva (del 5%) sul Fondo unico dello spettacolo, che per il 2014 ammonta a circa 410 milioni di euro (per tutti i settori) e che da quest’anno sarà assegnato ai beneficiari non più «a pioggia», ma in base ai risultati raggiunti.
Una logica premiante che finora in Italia è mancata. Aveva quest’ambizione il processo di privatizzazione avviato a metà degli anni 90, che ha trasformato gli enti lirici in fondazioni, ma che dopo quasi vent’anni sembra sostanzialmente fallito (salvo i casi di Scala e Santa Cecilia). A incidere sui bilanci è soprattutto la spesa per il personale, che assorbe mediamente il 70% delle risorse. Una situazione insostenibile, che va risolta razionalizzando la forza lavoro. Il che non significa soltanto ridurre il personale (attraverso pensionamenti, ricollocamenti, esternalizzazioni…), ma anche aumentare la produttività e gli introiti. In questa direzione dovrebbero muoversi i piani di rilancio presentati il 9 gennaio al commissario straordinario Pier Francesco Pinelli, scelto dal Governo per risanare il sistema delle fondazioni. È il caso del Maggio Fiorentino, che un anno fa era a rischio liquidazione, mentre oggi cerca il rilancio con un piano che prevede risparmi per 4 milioni sul lavoro. O del Carlo Felice di Genova, che punta a razionalizzare il costo del lavoro senza ricorrere a licenziamenti.
Sul tavolo del commissario sono arrivati i fascicoli di sette fondazioni: le tre attualmente commissariate, Trieste (commissariata nei due esercizi precedenti, come Napoli), ma anche Genova, Bologna e Opera di Roma, che hanno aderito autonomamente alla possibilità di accedere ai finanziamenti. Ora spetta a Pinelli valutarne la singola efficacia e agire con rapidità. Per sanare una situazione così disastrata occorre però muoversi in una logica di sistema e sinergia: i teatri lirici italiani sono tanti, forse troppi rispetto al pubblico potenziale. Ma se siamo convinti – e lo siamo – che il loro numero e la loro storia siano una ricchezza per il Paese, è necessario che producano «meglio» e spendendo meno, avviando co-produzioni e collaborazioni.

Il Sole 24 Ore 17.01.15

«L'Emilia sia da esempio per il Paese», di Ilaria Vesentini

Una palestra che sembra un covone di fieno e diventa faro che illumina la notte nella campagna ferrarese. Residenze protette nel Modenese che con i loro muri bianchi a gelosia richiamano i fienili archetipo dei film di Don Camillo e Peppone. Una casa della musica nel Bolognese che ricorda un alveare in cui nove bolle-favo in legno diventano salette acustiche per i bambini delle scuole. Sono sti tre progetti-plastici presentati ieri in viale dell’Astronomia a Roma che entro il prossimo anno diventeranno cinque innovative opere architettoniche a disposizione delle comunità emiliane terremotate, grazie ai 7,766 milioni di euro raccolti dal fondo di solidarietà interconfederale di Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Confservizi per aiutare la ricostruzione post sisma.
«Un fondo partito il 30 maggio 2012, il giorno dopo la seconda scossa, e chiuso a metà 2013 che ha raccolto una cifra andata ben oltre le nostre aspettative – dice il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi – e che conferma la solidarietà e la comunanza di intenti tra imprese e lavoratori in questo Paese. Un’unitarietà, una coesione sociale e una cultura pragmatica da trasferire a livello nazionale perché è il collante fondamentale per tornare a creare ricchezza e far ripartire l’Italia. Progetti architettonici frutto di uno straordinario lavoro di confronto e condivisione nel territorio e con il territorio di cui raramente si è avuta testimonianza. È grazie a questa coesione che le multinazionali hanno deciso non solo di restare nell’Emilia terremotata ma di potenziarsi. E la riflessione da trarre – conclude Squinzi – è che nel Paese si può fare impresa e farla bene, attraendo investimenti, ma bisogna alleggerirci dalla soma di complicazioni normativo-burocratiche».
Le stesse con cui ora si dovranno misurare i cinque progetti – il centro sportivo-ricreativo di Bondeno che sarà replicato con variazioni anche a Concordia e Reggiolo, la struttura sanitaria a San felice sul Panaro, l’auditorium musicale a Pieve di Cento – diventati il simbolo della generosità di lavoratori e imprenditori italiani e della capacità di una terra di trasformare una disgrazia in opportunità, in riqualificazione ambientale e sociale, «in un approccio innovativo in cui si ragiona su area vasta, senza logiche campanilistiche, in cui il pubblico mette a disposizione gratuitamente le aree e si fa garante di iter rapidi e in cambio il privato finanzia e condivide idee e progetti per aiutare la collettività concretamente senza creare doppioni o strutture poco utili», racconta il presidente di Confindustria Emilia-Romagna, Maurizio Marchesini che la prossima settimana porterà queste «pillole di bellezza» (come ha definito i progetti il loro creatore, l’architetto bolognese Mario Cucinella) ad Arte Fiera a Bologna.
Dalla distruzione l’Emilia terremotata si è rialzata subito, ha iniziato a ricostruire dopo poche settimane, è oggi ripartita economicamente e ora guarda al futuro, per lasciare un marchio architettonico che diventa monumento alla memoria e simbolo di un ritrovato connubio tra «bellezza, utilità, identità locale che si coniugano in luoghi polifunzionali della socialità e della cultura», spiega Cucinella, che sta lavorato gratuitamente da sei mesi ai progetti assieme a sei giovani professionisti under 30 delle aree terremotate (selezionati tra 160 curriculum e stipendiati grazie al fondo di solidarietà, altro esempio di come la ricostruzione si possa tradurre in opportunità di lavoro e crescita professionale). «Contiamo di depositare i progetti esecutivi tra un paio di mesi – prevede l’architetto – e di andare in appalto prima dell’estate. Puntiamo a coinvolgere imprese locali e ad attivare ulteriori donazioni di materiali e prestazioni, dopodiché ci vorrà un anno per completare i cantieri».
Ottimista forse, ma i plastici presentati ieri nella sede di Confindustria vogliono essere un inno all’ottimismo, i nuovi campanili «ad alto impatto sociale e basso impatto ambientale» (parole di Cucinella) cui il Paese guarderà per ricordare la potenza della solidarietà di fronte a quasi 12 miliardi di danni, 28 morti, 300 feriti, 16mila persone senza casa, 14mila edifici danneggiati, nel cuore manifatturiero della pianura padana, dove si producono ogni anno 19,6 miliardi di ricchezza (quasi il 2% del Pil dell’Italia) e 12,2 miliardi di export.

Il Sole 24 Ore 17.01.14

"I cattolici democratici. Vent’anni fa moriva la Dc ma non ha lasciato eredi", di Claudio Sardo

Era il 18 gennaio 1994. Mino Martinazzoli annunciò la rifondazione del Partito popolare nella sede storica dell’Istituto Sturzo, a Palazzo Baldassini. Poco distante, nell’hotel Minerva di Roma, la mattina di quella stessa giornata, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio avevano dato vita al Ccd. La Democrazia cristiana il partito che aveva governato per quasi mezzo secolo, guidando la ricostruzione, l’industrializzazione, la crescita democratica del Paese e poi anche la degenerazione del potere chiuse così i battenti. Era appena iniziata la campagna elettorale che avrebbe portato Berlusconi al clamoroso successo. I referendum di Segni avevano imposto la svolta maggioritaria. E il ciclone di Tangentopoli aveva azzerato un’intera classe dirigente. Tuttavia entrambe le filiazioni della Dc, benché in compitizione tra loro, andavano incontro alla sconfitta.
Sì, perché anche Casini, che pure accettò da subito la sfida bipolare e uscì dalle urne del ’94 tra i vincitori, si ritrovò in posizione subalterna rispetto a quel Berlusconi, che alla Dc aveva strappato tanti elettori, ma della Dc non aveva neppure un cromosoma. La convivenza col Cavaliere è durata dieci anni: poi la rottura ha ulteriormente marcato lo spostamento a destra e la deriva populista di quella che fu la rappresentanza dei «moderati» italiani.
La sconfitta più significativa fu comunque quella di Martinazzoli. Lui, generosamente, interpretò la ri-costituzione del Ppi come «la terza fase» del cattolicesimo democratico. Quella «terza fase» che Aldo Moro aveva intravisto, auspicato, ma che venne travolta dalla mano assassina dei brigatisti. Il moroteo Martinazzoli sperò che in quei primi anni Novanta dal male della corruzione, dal blocco politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), dalla crisi di sistema in cui il Paese era sprofondato dopo l’adesione al trattato di Maastricht, potesse scattare una redenzione. I valori «buoni» della Dc, in fondo, avevano vinto e l’economia sociale di mercato era anche per la sinistra la sola difesa disponibile a fronte del liberismo arrembante: perché da quelle radici non poteva nascere una nuova pianta? Peraltro, il ritorno al Ppi era anche un riconoscimento della novità del Concilio: l’unità politica dei credenti non aveva più un fondamento teologico e la proposta «popolare» si sarebbe misurata con il pluralismo delle opzioni politiche nella stessa Chiesa.
Il maggioritario nostrano, però, prima ridusse il Ppi a una terza forza minoritaria, poi lo costrinse alla scelta: o con i progressisti o con Berlusconi. E il paradosso maggiore è che i cattolici che scelsero più convintamente la sinistra, lo fecero accettando l’oblio della raffinata cultura costituzionale della Dc, di quella capacità di usare le istituzioni per includere, di concepire la mediazione come valore, di distinguere i poteri per evitarne l’eccessiva verticalizzazione. La Dc non sarebbe stata se stessa senza la filiera di giuristi che va da Costantino Mortati a Leopoldo Elia. Non avrebbe avuto i tratti originali che abbiamo conosciuto con De Gasperi, con Fanfani, con Moro e con lo stesso De Mita, il quale compì l’ultimo serio tentativo di rigenerazione democristiana, pur dentro l’impraticabile blindatura pentapartita.
LA CULTURA COSTITUZIONALE
La spinta forte dei cattolici democratici verso l’Ulivo fu quella dei referendum e della «religione» del maggioritario. In fondo in Romano Prodi c’era uno spirito di rottura non dissimile da quello di Mario Segni: la percezione di una necessaria, radicale innovazione nelle forme della competizione politica. Un bipolarismo quasi angosassone, che non solo punisse (giustamente) l’occupazione dei partiti nella società ma anche (discutibilmente) la responsabilità dei partiti nella formazione dei governi e nella vita delle istituzioni.
La Dc nasce, prospera, dà il meglio di sé nella società divisa dalla Guerra fredda, nell’Italia che si emancipa dalla povertà, nel sistema proporzionale, nella Chiesa che protegge l’unità politica dei credenti. Le gabbie dei blocchi sociali le assegnano la rappresentanza dell’elettorato conservatore e anti-comunista, ma la Dc tenta sempre di superare se stessa e si concepisce sin dalle origini come «un centro che guarda a sinistra». Il no di De Gasperi al Papa che gli chiedeva di aderire all’«operazione Sturzo» è un vero e proprio atto fondativo della Dc, della sua laicità e della sua fedeltà alla Costituzione. In fondo De Gasperi si rifiutò di fare cio che Berlusconi fece quarant’anni dopo: un’alleanza senza confini a destra.
Ovviamente la Dc ebbe diversi sbandamenti a destra: negli anni 50 fino alle pagine nere del governo Tambroni, poi ancora negli primi anni 70. La sua vita interna è stata piena di battaglie. Spesso decisive per il Paese. Era il partito della nazione. Nel bene e nel male. E con Moro, che rispettava il radicamento e la cultura nazionale del Pci, arrivò fino a tentare un salto democratico non compatibile con i rapporti di forza internazionali del tempo.
Oggi non sentiamo più alcuna nostalgia della Guerra fredda, né dell’unità politica dei cattolici. La Dc non ha più ragion d’essere. Eppure quella cultura personalista sedimentata nei corpi intermedi e nella Costituzione, quel senso del limite della politica e dei poteri, quell’idea delle istituzioni come mediazione (e non negazione) dei conflitti, sarebbe oggi utile. Anche a sinistra. Se il Pd vuol essere il partito della ricostruzione nazionale, non ha interesse ad azzerare la storia. Il nuovismo è effimero: la parabola di Berlusconi l’ha dimostrato. Non è un caso che, seppure la Dc non abbia veri eredi, i leader più giovani ed emergenti abbiano una discendenza proprio da quella storia.

L’Unità 17.01.14

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“Togliatti – e noi! non abbiamo sbagliato mai niente! Parola di marxista ratzingheriano…”, di Giuseppe Vacca

Il giudizio del Pci sulla Dc durante la Prima Repubblica fu molto oscillante. Si può dire, però, che fino alla fine degli anni Settanta le oscillazioni corrispondevano a modalità diverse di far leva sulla sua ispirazione antifascista, mentre negli anni Ottanta, con la crisi del paradigma antifascista, l’avvicinamento al socialismo europeo e la scelta della «democrazia dell’alternanza», il Pci se ne fece un’altra immagine e cercò di spingere la Dc ad assumere il ruolo di un grande partito di destra di stampo europeo.
Fino all’inizio degli anni 70 la definizione predominante della Dc era nel Pci quella di «partito di governo della borghesia», risalente a Palmiro Togliatti. Ma conviene ricordare che Togliatti fu interprete di fasi molto diverse dei rapporti fra Pci e Dc. Nel triennio dei governi di unità antifascista (1944-47) favorì l’avvento di De Gasperi alla presidenza del Consiglio e l’assunzione di un ruolo preminente della Dc nella compagine di governo. Queste scelte erano dettate non solo da realismo politico o da calcoli di partito. Certo, Togliatti sapeva che nella sfera d’influenza occidentale, in cui era collocata l’Italia, non potevano essere le sinistre a primeggiare nel governo e d’altro canto la crescita del ruolo della Dc favoriva quella del Pci nella sinistra, essendo i due partiti di massa più dotati di risorse militanti e adesioni popolari. Ma la scelta di favorire l’ascesa di De Gasperi era legata anche al convincimento di poter contare sul fatto che la Dc non avrebbe potuto facilmente rinunciare alla sua ispirazione antifascista senza mettere in crisi l’«unità politica dei cattolici», necessaria a vincolare la Chiesa alla democrazia repubblicana.
Dopo il quinquennio più aspro della guerra fredda e la sconfitta del centrismo nelle elezioni del 1953, la Dc decise di raccogliere la sfida delle sinistre e questo consentì al Pci di inserirsi nella nuova fase politica favorendo l’apertura ai socialisti e giuocando la carta della sinistra democristiana per ricostruire l’arco delle forze che avevano collaborato alla stesura della Costituzione e potevano sostenere un programma di riforme che si proponesse di attuarla. Secondo Togliatti, questa politica doveva mirare a mettere in crisi la centralità democristiana e per questo coniò un’immagine negativa della Dc degasperiana con l’ambizione di influire sulla lotta delle sinistre al suo interno. Quell’immagine della Dc «partito della restaurazione capitalistica» e «partito americano», inaffidabile anche sul terreno dell’antifascismo, rimase uno stereotipo della cultura politica del Pci fino ai primi anni 70, per essere poi incrinata ma non sradicata dalla mentalità delle sinistre in cui è fortemente presente anche ai giorni nostri.
Fu incrinata negli anni in cui i protagonisti della scena politica divennero Moro e Berlinguer: gli anni della «strategia dell’attenzione» e del «compromesso storico». Alla base delle loro politiche vi era l’intuizione condivisa che l’instabilità internazionale e il «conflitto economico mondiale», seguiti alla fine del sistema di Bretton Woods e del «trentennio d’oro» della crescita mondiale e dello Stato sociale, riproponesse acutamente il problema della fragilità interna e della debolezza internazionale dell’Italia; perciò le due principali forze politiche dovevano cercare di convergere e di rafforzarne la coesione interna. Moro e Berlinguer condividevano una visione del problema italiano ereditata da De Gasperi e Togliatti, fondata sull’esperienza del fascismo. Quindi erano convinti che in un periodo storico di
instabilità internazionale e di acuti conflitti sociali una polarizzazione radicale secondo lo schema destra-sinistra avrebbe ridato fiato allo «spessore reazionario» della società italiana, consegnando «i moderati» all’egemonia di una destra antidemocratica e spingendo la Chiesa a fare blocco con essa. Moro e Berlinguer condividevano, perciò, anche l’idea che la crisi della democrazia repubblicana, insidiata dalla «strategia della tensione», dallo stragismo neofascista e dal terrorismo di sinistra, colpisse innanzitutto la Dc, che oltre a essere il perno del sistema politico era anche la principale garanzia della sua evoluzione. Questo indusse Moro ad adoperarsi per spostare tutta la Dc sul terreno del «confronto» col Pci e Berlinguer a spingere il Pci a mutare l’immagine della Dc riconoscendone il carattere di partito nazionale e popolare.
LA DEMOCRAZIA BLOCCATA
Il fallimento della «solidarietà nazionale», l’assassinio di Moro e l’inizio della «nuova guerra fredda» mutarono drasticamente lo scenario politico. L’anticomunismo dei neoconservatori che avevano assunto la guida degli Usa e della Gran Bretagna era molto più assertivi del passato, mentre l’opzione europea della politica italiana era ormai condizionata dal progetto di integrazione a egemonia tedesca avviato da Helmut Schmidt. Nel regime di «democrazia bloccata» che né Moro, né il Pci, avevano avuto la forza di superare, il Pci era una forza ormai isolata che rischiava un inarrestabile declino. La nuova generazione che prese in consegna le sorti del partito fra l’88 e l’89 fece quindi l’unica cosa vitale che si potesse fare: avviò un ricambio della sua cultura politica e ne decretò la fine. Il gruppo dirigente occhettiano era consapevole che eliminando il supporto dell’anticomunismo alla «costituzione materiale» del sistema di governo si apriva una voragine e cercò di colmarla con risorse culturali e politiche che non avevano avuto una sedimentazione adeguata.
Per limitarmi al tema che sto trattando, concepì il passaggio alla democrazie dell’alternanza come una semplificazione tendenzialmente bipartitica del sistema politico secondo uno schema sinistra-destra e, per giustificare la sua scelta propose una banalizzazione della storia della Prima Repubblica che, per farmi capire, rendo di proposito caricaturale: quarant’anni di consociativismo e di malgoverno democristiano. L’unico riferimento consolidato di questa visione era la «cultura radicale» e si può capire perché, da queste premesse, fosse difficile provare interesse per i tentativi di rifondare politicamente il cattolicesimo democratico. Sulle ceneri della Prima Repubblica aleggiava il fantasma del «nuovo inizio» che favorì l’avvento di Forza Italia.

L’Unità 17.01.14