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"Musei e servizi: cambiare si può", di Vittorio Emiliani

Lo Stato può incassare più soldi senza spendere un euro? Sì, basta che si decida a emanare i nuovi bandi di gara (fermi da quattro anni) per l’appalto dei servizi nei musei. La legge Ronchey n.4/1993 cominciò a risolvere un annoso problema consentendo finalmente l’ingresso di società private per creare guardaroba, librerie, caffetterie, ristoranti, audioguide, visite guidate e servizi simili.

Con una crescita promettente: fra il 2000 e il 2002 i musei coinvolti erano passati da 41 a 139. Col tempo però, come succede da noi, 7-8 società hanno finito per spartirsi la parte più ghiotta dei servizi, evitando investimenti troppo impegnativi (la ristorazione) e ritagliandosi «comode» rendite. Nel 2006 soltanto il 10% dei Musei statali risultava offrire servizi di caffetteria e di ristorante. Mentre le librerie (pardon, Bookshop) c’erano nel 41,2 % dei casi e le mostre temporanee nel 48-49% .

Perché? Perché sulle ultime le concessionarie lucrano un’alta quota (anche il 70 % secondo la Corte dei conti) sul biglietto aggiuntivo rispetto a quello di ingresso al museo condizionando la gestione di quest’ultimo. Oppure sono società esterne che propongono con pochissimo anticipo (due mesi, poniamo) mostre discutibili, ottengono, senza concorsi di sorta, dal Polo Museale di realizzarle in un museo e si prendono i 2 euro in più e buonasera. Quel 70% vale per le mostre al Colosseo dove l’afflusso dei visitatori – mostra o non mostra – è tale che si son dovuti bloccare, dopo la Pasqua 2012, gli ingressi a 6.000 unità al giorno.

APPALTI OPACHI

Perché lo Stato rinuncia a centinaia di migliaia di euro lasciando tutto l’incasso ai privati? Perché le conces- sioni di servizi museali e monumentali a società private restano opache e sono ferme alla fine del 2009. I bandi di gara messi a punto dall’allora direttore generale alla Valorizzazione, Mario Resca, in forma di «spezzatino», sono stati, uno dopo
l’altro, «fucilati» come gli omini di gesso delle fiere dai vari Tar regionali perché non ispirati a validi e trasparenti criteri di concorrenza. Risultato: gli appalti restano quelli – già «grassi» per le società concessionarie – di quattro anni fa e le Soprintendenze o i Poli Museali, cioè lo Stato, rinunciano a pacchi di milioni.

Vediamo un po’ di dati nazionali: gli introiti lordi da servizi aggiuntivi sono passati da 29,6 milioni del 2001 ai 44,6 del 2011 (con un picco di 46,2 l’anno prima). Quindi + 50,56%. La quota andata allo Stato è salita da 4,6 a 6,1 milioni (+32,0%), ma quella andata ai privati ha conosciuto ben altri incrementi: da 25,0 a 38,4, + 54,0 %. Va tutto bene? Gli incrementi percentuali pongono seri dubbi. Nel decennio la quota dello Stato è scesa dal 15,7 al 13,7 %, 2 punti in meno che sul totale di 44,5 milioni fanno pur sempre 1,2 milioni in meno. Non sono briciole. Ma c’è ben altro. Nelle tre regioni dove si incassa di più e cioè Toscana (18,0 milioni), Lazio (17,2) e Campania (4,7), le percentuali dello Stato oscillano fra il 15,8 della Campania e il modesto 10,8 del Lazio, in mezzo la Toscana. Nel Lazio, cioè a Roma, la quota media della Soprintendenza per bookshop e gadget è sul 23% ed è la quota massima. Le altre sono tutte a ribassare: 9,5% sulla caffetteria, 7,5 su self service e ristoranti, 2,7 sulle visite guidate, fino al misero 0,5 sulle audio guide. Del resto, nulla incassa la Soprintendenza sui biglietti delle visite notturne ai sotterranei del Colosseo (20 euro), nulla sulle visite diurne (9 euro). Sarebbe interessante sapere quanto incassa l’ascensore del Vittoriano (8 euro di biglietto) e quanto va al gestore del Vitto- riano (gara d’appalto annullata anche questa) e quanto allo Stato. È orrendo, però visto che c’è, che almeno sia redditizio anche
per l’Erario.
Invece di implorare soldi dai privati o di mandare in giro per il mondo opere delicatissime (la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca a New York, 35 Raffaello in Giappone) per impinguare i magri fondi statali, perché, ministro Bray, non dà subito corso alle linee-guida dei bandi di gara attese e date per pronte, anzi prontissime, dalla primavera 2013? Perché perdere altri mesi senza incassare somme preziosissime in più per un Ministero allo stremo? La sua decisione non costa un euro e può renderne tanti senza alzare un dito, pretendendo il giusto.

I PIANI PAESAGGISTICI

L’altra riforma senza spesa riguarda i piani paesaggistici. Nel 1985 il Parlamento – sconfessando nei fatti le Regioni titolari inadempienti della tutela sul paesaggio – approvò quasi alla unanimità la legge n. 431, voluta fortemente dal sottosegretario, lo storico Giuseppe Galasso, la quale prescriveva alle Regioni di elaborare e varare entro un anno i piani paesaggistici. Lo fecero soltanto tre o quattro. Altre poi si aggiunsero. Ma il Mi- BACT deve considerare i vincoli della Galasso confinati in una sorta di limbo se nel suo calepino «Minicifre della Cultura» (2012) espone soltanto le percentuali di aree vinco- late, regione per regione, in base alla legge n.1497 (Bottai) del 1939 e quelle protette da parchi nazionali, regionali, da riserve naturali, marine, ecc. per un totale di 3,2 milioni di ettari su terra e 2,8 milioni in mare. Nulla invece sui vincoli della legge Galasso che, sommati a questi, ci danno un 46,9 per cento delle aree terrestri soggetto a vincolo paesaggistico o ambientale.
Disattese le prescrizioni della legge n. 431, è arrivato il Codice per il Paesaggio, nelle versioni Urbani, Buttiglione e Rutelli. Fonda- to sulla co-pianificazione Ministero-Regioni. A che punto è questa dopo vari anni? Essa eviterebbe ulteriori dissipazioni di bellezza, di attrattività, di fascino (oltre che di utilità sociale). Darebbe più chance al nostro turismo culturale e naturalistico e, in generale, ossigeno a tutto il turismo che ormai rappresenta una quota elevata del Pil. Il sonno colpevole delle Regioni ha generato eco-mostri nel paesaggio. Ministro Bray, anche questo sarebbe un segnale forte, sul piano nazionale e internazionale. Lo dia, per favore. Al più presto. Le Regioni riluttano, resistono, vogliono fare da sé? Codice (del Paesaggio) e Costituzione alla mano ricordi loro cosa devono fare, cosa deve fare la Repubblica nel suo complesso se vuol salvare quanto resta del Belpaese «dove fioriscono i limoni».

Invece di piangere sulle sorti del nostro turismo (così male organizzato, così spesso arretrato), smettiamo di manomettere, di sfregiare, ma anzi preserviamo e restauriamo tutto ciò che lo alimenta, che lo rende affascinante, da secoli e secoli, nel mondo, il paesaggio appunto, quel «palinsesto millena- rio» in cui tutto si tiene, come disse trent’anni fa Giulio Carlo Argan al Senato sostenendo a fondo l’approvazione urgente della le ge Galasso (poi approvata nel 1985) sui piani paesaggistici invece quasi subito lasciata impolverare dalle Regioni, con la complicità dei vari governi.

L’Unità 17.01.14

"Anno costituente o tutti a casa, Renzi strattona governo e Pd", di Mario Lavia

Bando agli indugi, è il messaggio che Matteo Renzi ha insufflato nelle orecchie dei membri della direzione del Pd, la prima da quando è segretario, nella medesima sala che vide le relazioni di Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, le polemiche di D’Alema e Bindi, le argomentazioni della Finocchiaro, le frecciate di Fioroni, la vis oratoria di Marini. Un’altra éra. Renzi ha fatto Renzi. Ha avvolto la platea con un discorso a braccio, “tecnologico” e al tempo stesso pane al pane e vino al vino: ha strattonato il suo partito e soprattutto il governo.

Il senso politico è tutto qui: o portiamo a casa le riforme o la gente ci spazzerà via. Tutti, mica solo io. Perché è esattamente questo – è la sua convinzione – il senso delle primarie, l’urlo di quei 3 milioni di elettori ai gazebo, abbiano votato essi «per me, per Gianni o per Pippo». Non vanno traditi, adesso.

E allora datemi il via libera per trattare, trattare e ancora trattare, come dicevano un tempo i sindacalisti. Trattare con tutti, certo, perché « è surreale» la polemica sull’incontrare o meno il Cavaliere. Certo che lo vedrà. Probabilmente domani pomeriggio (e non al Nazareno – lo avevamo scritto già ieri – ma in un luogo “neutro”), a conclusione di questa ricognizione generale (tutti tranne i “marziani” M5S e Lega) che Renzi ha intrapreso e di cui fornirà i risultati lunedì in una nuova riunione della direzione. Nella quale chiederà «un mandato» su un modello preciso fra i tre che sono tuttora sul tavolo.

Il segretario dunque non chiarisce ancora quale sistema preferisce. E in questa situazione, certo Epifani non dice una cosa priva di senso quando sottolinea il rischio che la proposta finale «la scelgano gli altri». Ma la cosa importante per Renzi è portare a casa il risultato tenendo assieme legge elettoarle, superamento del senato e riforma del titolo V della Costituzione. Senza veti. Alfano, per capirci, è d’accordo?

La sinistra interna (nella quale ormai c’è un abisso fra le posizoni di Orfini e quelle dei bersaniani alla Fassina-D’Attorre, abbastanza sostenuti da Cuperlo) ha scelto una precisa linea d’attacco: quella di stanare Renzi sulla questione del governo.

Perché il leader era stato ancora una volta duro, non discostandosi dalla sua posizione già nota (il governo deve muoversi – finora ha fatto poco, addirittura ha parlato di «10 mesi di fallimenti» – e solo così potrà andare avanti), e Cuperlo gli ha opposto l’idea di un nuovo governo, un Letta bis, per sgombrare il campo da ambiguità. Fassina ha fatto un passo in più: un Letta bis in cui entrino esponenti renziani. Per vincolare il leader, legarlo alle sorti di Letta. Il quale con una dichiarazione si è detto fiducioso sull’operazione-riforme però dissentendo sul giudizio «sui primi 9 mesi di lavoro». L’altro ha controreplicato: «Nei mercati rionali il giudizio sul governo è questo, il gradimento è al minimo». Polemica apertissima e non ovattata.

Alla fine, la direzione ha approvato la relazione con 35 astenuti (anche Cuperlo). Comunque corre, il segretario, volendo travolgere resistenze e furbizie che si annidano ovunque, nella melmosa politica italiana. Anche nel Partito democratico.

da EuropaQuotidiano 17.01.14

"Prezzi e redditi ancora in picchiata in Europa è l’Italia a rischiare di più", di Federico Fubini

Certi scorci del panorama urbano a volte possono lasciare una sensazione di déjà vu che gela il sangue. L’altro giorno un bar della Garbatella, a Roma, ha messo fuori un cartello: abbonamenti da 15 euro per dieci cappuccini e cornetti. Prezzi quasi dimezzati per una colazione. Nel 1934, anche Mussolini annunciò una decisione che oggi suona curiosamente simile: decretò che i commercianti che non avessero ridotto i prezzi sarebbero stati espulsi dal partito fascista.
Quando la grande depressione iniziò a mordere in Italia nel 1930, il duce impose un taglio ai salari del 12% lasciando sperare che sarebbe stato l’ultimo. Nel gennaio del ‘32 i disoccupati erano 640 mila, un anno dopo erano raddoppiati. Nel ‘34 il fascismo impose una nuova riduzione di tutte le remunerazioni, quando ormai il prezzo dell’abbigliamento o della spesa al mercato erano dimezzati o quasi. Prezzi e redditi si stavano avvitando, gli uni all’inseguimento circolare degli altri. Solo i debiti continuavano a salire per effetto dei tassi d’interesse, fino a quando il regime decise ciò che allora fu definito «ammortamento» e oggi chiameremmo un ordinato default.
Sono pochissimi ormai gli italiani che ricordano cosa vuol dire vivere in una trappola del genere. L’Italia di oggi non è quella di 80 anni fa, se non altro perché può riflettere a voce alta al pericolo di sottovalutare le sabbie mobili in cui sta scivolando se non le riconosce e non reagisce in fretta. Dopo una progressiva erosione nell’ultimo anno, il carovita quest’inverno in Italia viaggia appena allo 0,7%, in Irlanda allo 0,4%, in Spagna allo 0,3%, in Portogallo allo 0,2%, mentre la Grecia è già in deflazione con un calo del listino dell’1,8%. Anche in Eurolandia nel suo complesso la dinamica dei prezzi è gelida, allo 0,8%.
Se gli esperti del Sistema europeo delle banche centrali e della stessa Bce sbaglieranno le loro «proiezioni» del 2014 come hanno fatto nel 2013, una larga parte d’Europa fra un anno potrebbe trovarsi direttamente in deflazione. Nel marzo scorso, gli economisti dell’Eurotower avevano fissato il punto medio delle loro attese sulla crescita dei prezzi all’1,6% per il 2014. Nove mesi dopo quella «proiezione» per l’area euro era stata già ridotta del 30%, all’1,1% in media d’anno. Questa correzione in corsa può far pensare che la banca centrale negli ultimi mesi si sia mossa (o abbia evitato di farlo) sulla base di giudizi rivelatisi in realtà troppo ottimistici.
Non che manchino i motivi per spiegare perché la dinamica dei prezzi è così debole. Durante la fase acuta della crisi ci sono stati mesi in cui le banche nell’area euro tagliavano i prestiti all’economia di centinaia di miliardi ogni mese, stima Alberto Gallo di Rbs. In Italia il credito alle imprese è crollato in questi anni di oltre cento miliardi. L’aumento della disoccupazione ha ridotto il potere d’acquisto e costretto i commercianti a praticare sconti sempre più
profondi, mentre un’austerità fatta di troppi aumenti delle tasse ha schiacciato il sistema produttivo fino alla paralisi e ai licenziamenti di massa.
Il problema adesso è l’impatto che centinaia di milioni di piccole scelte come quelle del bar della Garbatella possono avere sul debito pubblico e privato in Italia. È come se un corpo sempre più gracile dovesse trasportare un masso il cui peso non smette di aumentare. Paul De Grauwe, della London School of Economics, lo spiega con una certa brutalità: «Quando i prezzi scendono anche i redditi del governo e dei privati lo fanno, ma gli interessi sul debiti restano uguali — ha scritto di recente sull’Economist — . Ciò obbliga il governo e i privati a spendere una proporzione crescente delle loro entrate per pagare il debito e gli interessi relativi, riducendo le altre spese in beni e servizi». A sua volta questi nuovi tagli aggravano la deflazione delle merci e dei salari, rendendo ancora più pesante l’onere del debito.
Mussolini cadde nella trappola, benché Irving Fischer di Harvard l’avesse capita e descritta fin dagli anni ‘30. La domanda ora è se i suoi successori al governo del Paese 80 anni più tardi saranno meno ottusi. La loro speranza, quanto a questo, è che una ripresa europea e globale alzi tutte le banche e trascini anche l’Italia fuori dalle secche. I dati più recenti dicono che essa per il Paese non appare all’orizzonte: il prodotto lordo ha sì smesso di contrarsi ai ritmi rapidissimi degli ultimi due anni, ma niente di più. I dati sui consumi elettrici nel Paese a dicembre sono in caduta del 2% su un anno fa e, dice il gestore della rete Terna, «il trend prosegue su un andamento negativo» che rivela come la produzione ristagni. Anche i dati dell’export non vanno bene come in troppi proclamano: le vendite del
made in Italy all’estero hanno fatturato meno di un anno prima in nove degli ultimi undici mesi, dice Eurostat, con una tendenza nettamente peggiore rispetto a Irlanda, Portogallo e Spagna.
Se non si cura, l’Italia resta un corpo incapace di trasportare il fardello del suo debito e riprendere a camminare. Ora avrebbe il tempo di mettersi a posto, perché l’enorme liquidità immessa dalle grandi banche centrali permette al Tesoro di collocare facilmente i suoi titoli anche se l’inflazione zero continua a far salire a livelli astronomici il rapporto debito-Pil. Una delle misure riguarderebbe le banche medie e piccole, da ripulire al più presto dei crediti inesigibili, ristrutturare e ricapitalizzare per permettere al credito di ripartire. Un intervento così può sconfiggere la deflazione, eppure le esitazioni sul Monte dei Paschi dimostrano quanto ancora il rapporto fra la politica, le fondazioni e il mondo bancario rallenti ogni svolta in Italia. La riduzione dello spread sembra aver tolto l’urgenza di agire, quasi che l’aiuto della Federal Reserve possa durare all’infinito.
Così l’Italia si prepara a celebrare la fine della crisi sopra un deserto chiamato pace.

La Repubblica 17.01.14

"Quelle indulgenze ai razzisti padani", di Piero Ignazi

La Lega ha infranto ogni dubbio e dissolto ogni ambiguità. Non è più quel movimento, osservato con troppa comprensione anche da sinistra, che rappresentava i bisogni del popolo ed esprimeva le pulsioni, confuse ma fattive, della classe produttiva della mitica padania. È un partito che è entrato a pieno titolo nel circolo del neopopulismo xenofobo di estrema destra. L’incontro del segretario leghista Matteo Salvini con Marine Le Pen azzera la speranza-illusione che la Lega post-Bossi sia un partito più “istituzionalizzato”.
La virata estremistica del Carroccio, per ora non contestata in alcun modo nemmeno dalle espressioni più moderate del leghismo, in primis il sindaco di Verona Flavio Tosi, non solo radicalizza in maniera vistosa il discorso politico (e gli attacchi razzisti al ministro Cécile Kyenge ne sono la prova), ma pone un problema “sistemico”. Come è possibile infatti che un partito che si sta alleando con l’estrema destra di tutta Europa governi il cuore produttivo del nostro paese, Piemonte, Lombardia e Veneto. Il semplice fatto che un partitino del 4% abbia in mano le chiavi di queste Regioni è un insulto al buon senso prima che a criteri di equa rappresentanza. Passi per il Veneto dove nel lontano 2010, un’altra era geologica ormai, la Lega aveva strappato la prima posizione con il 35% dei voti; ma il controllo del Piemonte (farlocco in quanto ottenuto grazie al supporto di una lista falsa e fantasma) e della Lombardia, dove un anno fa il Carroccio ha preso metà dei voti del Pd, offende ogni logica.
Questo sfondamento è stato possibile grazie alla sintonia, profonda e di pelle, che si è stabilita negli anni tra Berlusconi e Bossi, tanto da dar vita a quello che Edmondo Berselli definì il «forzaleghismo». La sintonia tra Lega e Pdl non è mai venuta meno nonostante l’opposizione leghista al governo Letta-Berlusconi. Ora, alla destra in tutte le sue componenti — Forza Italia, Nuovo centrodestra di Alfano, e anche Fratelli d’Italia — spetta prender posizione sull’abbraccio del Carroccio con il Front National francese.
In Francia nessun leader politico di destra, nonostante ricorrenti tentazioni, si sognerebbe mai di incontrare Marine Le Pen e di avviare accordi con lei. Già nel lontano 1998 il presidente Jacques Chirac, leader del partito gollista, non esitò a espellere tutti quei dirigenti che dopo le elezioni regionali vendettero l’anima al Front National di Le Pen padre pur di salvare la poltrona. Con quella scelta i gollisti rinunciarono a molte posizioni di potere, però l’onore politico fu salvo. Questo perché esiste in Francia una “destra repubblicana” che non transige sui valori fondanti del regime democratico. In Italia, l’indulgenza per le mille sfumature del “razzismo differenzialista” — quella riformulazione del razzismo che ha abbandonato l’idea di razze superiori e inferiori per sostituirla con il rifiuto del contatto e della convivenza tra etnie e nazionalità diverse — ha attraversato tutto il campo del centro-destra storico. Si ricorderà quante urla di sdegno tra i suoi alleati sollevò Gianfranco Fini quando nel 2003 propose il voto agli immigrati nelle elezioni locali. E quanta comprensione per le volgarità bossiane perché «non aveva studiato a Oxford» ripetevano in coro Berlusconi & Co.
Con le elezioni europee che incombono non è più tempo di indulgenze. Già il passaggio della Lega, nel novembre scorso, all’eurogruppo dell’Alleanza Europea per la Libertà, insieme all’Fpö austriaca del fu Jörg Haider, al Vlaams Belang fiammingo e, ovviamente, al Fn della Le Pen, aveva indicato la direzione di marcia. Se ora la Lega sceglie definitivamente di apparentarsi con l’estrema destra europea, tutti partiti devono trarne le conseguenze ed esprimersi, con parole nette e precise: con i nemici della liberal-democrazia, con i revisionisti soft, con i cantori del razzismo differenzialista, con gli emuli del principio del capo, il
Führerprinzip, (una sottile tentazione che attraversa anche terreni democratici di questi tempi) non ci possono essere intese. I governi delle grandi regioni del Nord in quelle mani sfregiano l’immagine dell’Italia. Quel che resta del Pdl, da una parte o dall’altra, è chiamato a un gesto di responsabilità e chiarezza. Isolare gli estremismi in un contesto di tensioni economiche sociali che finora, per fortuna, non sono mai degenerate è una priorità sistemica.

La Repubblica 17.01.14

"L'Aquila, la scossa della corruzione cinque anni dopo il sisma", di Claudia Valtattorni

L’Aquila non è una città morta. Cinque anni dopo il terremoto del 6 aprile, cinque anni dopo quella scossa Richter 5.8 che ha stravolto per sempre una città, cinque anni dopo macerie, zone rosse, militari, passerelle politiche, inchieste, processi, promesse e delusioni, L’Aquila prova a rialzare la testa. Oltre 60 i cantieri aperti nel centro storico: si vedono gru, camion, carriole che portano via calcinacci, sacchi di calce e cemento, operai al lavoro. E si rompe quel silenzio surreale che per anni ha caratterizzato il quinto centro storico più grande d’Italia. Le prime facciate dei palazzi antichi sono tornate a splendere. A fianco di edifici meno blasonati e fortunati che invece ancora per molto tempo saranno ingabbiati da travi di ferro ormai arrugginite. «L’Aquila rinasce» si legge sui teloni stesi sui ponteggi. Un mantra che si ripete un po’ ovunque nel cuore della città. Ma non è facile. I più ottimisti prevedono almeno 10 anni di lavori prima di rivedere rinato il capoluogo abruzzese. I pessimisti ne ipotizzano almeno 25. Ma oltre ai palazzi da ricostruire c’è una città fatta di persone. Il terremoto ha picconato l’intero tessuto sociale, economico e culturale dell’Aquila. E dopo cinque anni di impegno, fatica e speranze, oggi un’altra scossa abbatte la città. L’inchiesta sulle tangenti con l’arresto del vicesindaco, la corruzione ipotizzata fin nelle stanze più alte del Comune e infine le dimissioni irrevocabili del sindaco Massimo Cialente: l’Aquila ci prova a rinascere. Ma sul volto degli aquilani la rassegnazione ha preso il posto della speranza. E la rabbia diventa disillusione.

UN ALTRO SISMA – «È un altro terremoto – dice Betti Leone vice sindaco gerente -: la magistratura dovrà accertare, ma questo fa male all’immagine della città, agli aquilani che si stavano rialzando: L’Aquila non è una città fantasma né morta, è una città ferita e oggi scoraggiata». Sono 5 anni. Il ciclone giudiziario rischia di bloccare tutto quello che finalmente con fatica era partito nell’ultimo anno. «E chi ha combattuto finora – spiega un’aquilana disillusa -, o va via, o smette di combattere, sopravvive e pensa solo a sé». C’è da capirla. Se è vero che il 60% degli aquilani è tornato in casa, non significa che la sua abitazione sia stata rimessa in piedi. Oggi oltre 12mila persone vivono ancora nei quartieri C.A.S.E., quelli costruiti in tempo record intorno alla città subito dopo il sisma. E nelle piccole frazioni la ricostruzione non è mai partita. «Ma i progetti ci sono, mancano i soldi». Un crono-programma del Comune, prevede un miliardo e 200 milioni di euro all’anno per 5 anni. Ma nel 2014 dal governo ne arriverà solo la metà. Con il ministro per la Coesione territoriale Carlo Trigilia che dice: «Il governo non è il bancomat dell’Aquila». Ma, risponde la Leone, «questo è il luogo da cui può ripartire l’economia nazionale».

LA FUGA DALLA CITTÀ – Intanto, la gente va via. I giovani non vogliono restare all’Aquila. E molti anche meno giovani. Sono rassegnati convinti che quella vita prima del 6 aprile 2009 non ci sarà più. Il centro della città segnava la giornata degli aquilani. Il lavoro, i negozi, il caffè, la passeggiata sotto i portici, gli incontri. Oggi i portici sono deserti. In piazza Duomo si contano tre negozi, chi ha potuto si è trasferito lungo le strade di grande passaggio ai piedi della città storica. Gli altri hanno dovuto mollare, schiacciati dai centri commerciali lontani dal centro. Daniele, 28 anni, dice che tutto questo manca e non ritornerà. Ma lui non è scappato. E anzi ha scelto di aprire un locale, proprio nel centro storico,«Lo Zio» che ha appena compiuto un anno. «Non sarei mai andato via anche se qui non c’è più niente, però per questo c’è tanto da fare, tutto. L’Aquila è una città difficilissima, ma se la ami non la puoi lasciare». Di Daniele non ce ne sono molti. Ma intanto qualche piccola vetrina illuminata si scopre, tra un ponteggio e una rovina. Oggi la vita aquilana gira intorno alla città’, sugli stradoni ai piedi del centro storico, lungo le strade verso la periferia. Le auto ingolfano il traffico in cerchi concentrici e fanno chilometri e chilometri da una parte all’altra dell’Aquila senza attraversarla mai. Francesco Nurzia però da piazza Duomo non si è mai spostato: il suo storico bar della famiglia produttrice di torroni ha riaperto pochissimo tempo dopo il terremoto. È ancora lì, in mezzo a decine di serrande chiuse. Coraggioso resiste, «non so per quanto, perché poi leggi i giornali e ti crollano le braccia». I pochi che entrano nel locale nel tardo pomeriggio scrollano la testa, «questa città non si rialzerà più».

Il Corriere della Sera 17.01.14

"Sanità. Nella classifica della mobilità il Sud perde pazienti in favore del Nord", di Roberto Turno

Sono 770mila gli italiani che fanno la valigia in cerca di cure, soprattutto di ricoveri, in un’altra regione. Come se tutti gli abitanti della provincia di Cagliari emigrassero per curarsi fuori dalla Sardegna. Un esercito che ha perso pezzi da un anno all’altro (-5%), ma che in dodici mesi ha generato quasi 2 mld di spese nel dare/avere tra regioni. Una spesa cresciuta di oltre 250 mln (+6%), paradosso solo apparente: le cure più gettonate sono infatti sempre più quelle di alta specialità, l’eccellenza, le cure più ricercate e dunque costose. Non a caso il grande buco nero del Sud d’Italia. Perché è proprio da Roma in giù che si continua a lasciare sempre di più la propria città a caccia di cure migliori e più rapide: dalla Campania fuggono 82mila, 59mila abbandonano la Calabria, 58mila la Puglia, 49mila se ne vanno dalla Sicilia. Viceversa la Lombardia “incassa” 143mila italiani da altre regioni, 111mila l’Emilia Romagna, 90mila il Lazio e 70mila la Toscana.
Ecco l’altra (e la solita) faccia dell’Italia delle cure. Mai abbastanza nota, mai abbastanza considerata dalle politiche nazionali e soprattutto locali, a partire dal Sud quasi tutto sotto lo schiaffo dei commissariamenti e dei piani di rientro dai maxi debiti di asl e ospedali. Quei piani “lacrime e sangue”, spesso in ritardo a dispetto dei super ticket e delle maxi addizionali fiscali, che tra l’altro, tagliando l’assistenza, fanno lievitare la mobilità degli assistiti di quelle regioni. L’ultimo check degli italiani in fuga dall’ospedale sotto casa arriva dal mega rapporto sull’attività ospedaliera 2012, appena elaborato dal ministero della Salute (si veda www.24oresanita.com). Una foto di gruppo – 10,2 mln di schede e 461 mln di informazioni elaborate – che però riserva anche note di miglioramento per la sanità pubblica: il calo dei ricoveri ordinari (6,8 mln, -2,9%) e la riduzione di 300mila di ricoveri inappropriati, dunque evitabili. Dunque fonte di spreco. Perfino la riduzione di 39 strutture di ricovero in genere. Anche se poi non mancano le “perle” di quel Far West delle cure nella solita forbice Nord-Sud: il 36,5% di nascite col bisturi sul totale dei parti, dal 61% della Campania al 21% del Friuli; o le 212 infezioni post chirurgiche contratte ogni 100mila dimissioni, dalle 356 della Basilicata alle 54 del Molise. Altro particolare non da poco: il costo medio di ogni ricovero è di 3.500 euro (3.800 per i maschi), ma quelli fuori regione, spesso per prestazioni di alta specialità, valgono oltre 5.200 euro, segnale ulteriore dell’appesantimento finanziario per il Sud, più sguarnito di eccellenze. E che così paga di più.
L’analisi della mobilità sanitaria, intanto, è impietosa. La spunta il Nord fino alla Toscana, perde il Sud. Tra pazienti in uscita e in entrata, la Lombardia ha “guadagnato” 76.367 ingressi extra regione e 555 mln di euro, l’Emilia Romagna 67.194 assistiti e 336 mln, la Toscana 34mila pazienti e 132 mln. All’opposto, nel saldo della mobilità passiva e attiva la Campania (anche se in miglioramento) ha “perso” 55.716 pazienti e 402 mln di euro, la Sicilia ha un risultato negativo di 34mila pazienti e di 189 mln, la Puglia di 32mila assistiti e di 180 mln. Ma attenzione ai risultati di Lazio e Molise: nel primo caso sono condizionati dalla presenza del Bambin Gesù, dove per il Lazio i ricoveri sono considerati in uscita; nell’altro, dalla forte attrazione esercitata nel Molise dall’istituto Neuromed di Isernia. In ogni caso, poco più di 8 ricoveri ordinari per acuti ogni mille abitanti avvengono fuori regione e la mobilità vale il 7,5% di tutti i ricoveri per acuti: 505mila su 6,7 mln.
Numeri che danno l’esatta dimensione della profonda frattura anche sanitaria che spacca l’Italia. E che farebbero passare quasi in secondo piano le note positive elencate nel rapporto ministeriale. I ricoveri per acuti (6,8 mln) sono scesi del 2,9% e le giornate di degenza (46,4 mln) del 3,2%. In forte calo del 10,3% i cicli di hospital (2,5 mln), con le punte minime in Basilicata, Lombardia e Puglia quelle massime tra Campania, Friuli e Lazio. Delle 10,2 milioni di giornate di degenza totali, il 75% sono erogate dagli istituti pubblici, il 25% da quelli privati. I giorni di degenza media dei ricoveri per acuti negli istituti pubblici sono stati 7,2, contro i 5,5 del privato accreditato, con le punte massime nel pubblico del Veneto (8,3 giorni) e della Liguria (8,1) e quelle minime di Umbria (6,2 giorni) e Toscana (6,5).
Ma attenzione: negli ospedali pubblici c’è anche chi paga. I “solventi” nel 2012 sono stati oltre 82mila, più della metà solo in Lombardia. Per non dire dei ricoveri per avere un medico in libera professione intramuraria: sono stati 34mila, di cui 8.100 in Campania. Proprio la Lombardia ha fatto segnare la diminuzione più elevata dei ricoveri totali (-124mila), la Basilicata il crollo in percentuale più forte (-13%). Il Lazio – regione commissariata – ha fatto peggio di tutti: ricoveri pressoché stabili. Chissà se la cura da cavallo post Monti ha cambiato le cose. L’ultima verifica all’economia ha detto che il ritardo resta gravissimo. Ma intanto i cittadini, che pagano addizionali al massimo, vengono respinti dagli ospedali.

Il Sole 24 Ore 16.01.14

"La battaglia di Vera contro oblio e ingiustizia" di Antonio Ferrari e Alessia Rastelli

La storia di Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana che fuggì in Argentina dopo le leggi razziali, attraversa il Novecento: il nonno morì ad Auschwitz; la figlia Franca, 18 anni, fu sequestrata e gettata in mare da un aereo della morte del dittatore argentino Videla. Vera aveva un desiderio: «Un viaggio nella memoria».
Lager e torture, il viaggio di Vera nel buio La storia di un’ebrea italiana: nonno ad Auschwitz, figlia desaparecida in Argentina Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana che vive in Argentina, aveva un desiderio. Il «Corriere della Sera» l’ha aiutata a realizzarlo. Questa donna di ottantacinque anni, giornalista per quattro decenni all’ufficio dell’«Ansa » di Buenos Aires, ha attraversato, nel Novecento, due tragedie che l’hanno segnata per sempre: ha perso il nonno materno, Ettore Felice Camerino, mandato al gas ad Auschwitz dagli aguzzini nazisti; e ha perso la figlia Franca, di diciotto anni, sequestrata, torturata e gettata in mare (viva) da un aereo della morte del dittatore Videla. «Non ho tombe sulle quali piangere. Mio nonno è diventato il fumo di un camino, mia figlia riposa in fondo al mare», racconta Vera, che si definisce «militante della memoria».
In visita l’anno scorso al Binario 21 della stazione Centrale di Milano, da cui partivano i treni dei deportati ebrei, diretti ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Vera racconta di aver avuto uno «schianto». Una folgorazione diventata il desiderio imperativo di «fare un viaggio nella mia memoria».
La proposta è arrivata al «Corriere» attraverso il cugino di Vera, Marco Vigevani. Il direttore Ferruccio de Bortoli l’ha accolta e ci ha incaricato di realizzarla. Ci siamo così messi in viaggio con Vera. E la sua storia è il nostro tributo a quella che non è soltanto una «giornata» ma è ormai diventata «la settimana della memoria».
L’idea è stata di realizzare il lavoro in due tempi, coinvolgendo l’intero sistema del «Corriere della Sera». Dal 20 gennaio il nostro sito Corriere.it trasmetterà la web serie in sei puntate Il rumore della memoria. Il viaggio di Vera dalla Shoah ai desaparecidos . Il giornale di carta accompagnerà ogni puntata con storie e approfondimenti raccolti nel percorso con Vera.
I contenuti, sia scritti sia multimediali, saranno disponibili sulle nostre piattaforme per tablet e smartphone e si apriranno alla condivisione e al dialogo con i lettori attraverso gli account del «Corriere» sui social network. Nelle prossime settimane, inoltre, sarà prodotto un film-documentario.
Per fare tutto questo avevamo bisogno di un grande regista. La scelta si è concentrata su Marco Bechis, che firma sia la web serie sia il film. Direttore di opere importanti come Garage Olimpo , che riguarda proprio le detenzioni clandestine volute dalla dittatura argentina, lui stesso desaparecido negli anni Settanta, arrestato, torturato, e fortunatamente liberato, Bechis era la persona più adatta a entrare fino in fondo nel mondo di Vera.
Come autori del progetto, insieme allo stesso Bechis e a Caterina Giargia, abbiamo scelto di seguire linearmente il viaggio di Vera. Abbiamo iniziato incontrandola nella sua casa di Buenos Aires e raccontando le vicende e lo stato d’animo di una madre cui hanno sottratto e ucciso l’unica figlia.
Con lei siamo entrati nella Esma, la scuola ufficiali della Marina militare, nel sotterraneo e nella mansarda usati come luoghi di prigionia e di tortura. Ai tempi della giunta, uno dei principali responsabili dell’operazione desaparecidos era l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, direttore della Esma ed iscritto dal 1976 alla loggia massonica P2 di Licio Gelli (tessera numero 1755). Siamo stati al Parco della memoria di Buenos Aires, tra i banchi di scuola di Franca, nella cabina telefonica (poi trasformata dai militari in un improbabile bagno) usata dalla figlia di Vera, e dagli altri prigionieri, per chiamare i genitori e rassicurarli. Ovviamente sotto la pressione dei militari.
Dall’Argentina siamo poi tornati con Vera in Italia, in primo luogo a Milano, dove la donna visse da bambina sperimentando la persecuzione antiebraica e da dove suo nonno fu deportato ad Auschwitz.
Abbiamo visitato la scuola elementare «Morosini», dalla quale nel 1938 Vera fu espulsa. Le leggi razziali, promulgate dal governo di Mussolini, per compiacere i nazisti di Adolf Hitler, privavano infatti i genitori del lavoro e i figli del diritto all’istruzione. Ma l’Italia non fu un blocco granitico, e non lontano dalla «Morosini», in via della Spiga, nel cuore di Milano, vi era (e vi è ancora) un’altra scuola dove nel ‘38 lavorava il professor Bronzino. Docente che andava a scuola in orbace e con la camicia nera, ma che rifiutava l’idea che vi fossero bambini privati della possibilità di studiare. Contribuì quindi ad aprire la scuola, al pomeriggio, per i bambini ebrei, con insegnanti israeliti. Vera ha incontrato gli alunni di oggi sia nell’istituto da cui fu espulsa sia in quello dove fu accolta.
A questo punto, la testimone si è concentrata su quanto accadde al nonno, appunto Ettore Felice Camerino. Mentre tutta la famiglia aveva deciso di partire da Genova per Buenos Aires, all’inizio del 1939, il nonno, che all’epoca aveva 68 anni, si era rifiutato. Per due ragioni: aveva un negozio di mobili antichi e si riteneva troppo anziano per rifarsi una vita; era assolutamente convinto che, in Italia, agli ebrei non sarebbe successo nulla di irreparabile. Invece, alla fine del ‘43, dopo l’8 settembre, la situazione divenne drammatica. Il nonno cercò di fuggire in Svizzera. Insieme con lo storico della Resistenza Franco Giannantoni, abbiamo accompagnato Vera nel punto dove Camerino tentò di attraversare il confine, attivando però i campanelli della rete che separava i due Paesi. Arrestato dalla Guardia di finanza, fu consegnato ai nazisti, rinchiuso nel carcere di Varese, poi a Milano a San Vittore.
Il 30 gennaio 1944, dal Binario 21, fu scaraventato in un vagone del convoglio numero 6, sul quale si trovava — poco più che bambina — anche Liliana Segre. Arrivarono entrambi ad Auschwitz il 6 febbraio: Camerino fu mandato subito «al gas», la Segre è sopravvissuta ed è diventata una testimone. È stata lei ad accompagnare Vera a visitare il Memoriale della Shoah sorto al Binario 21, dove, in grande, è stata impressa sulla pietra la parola «Indifferenza». L’indifferenza che ha accompagnato le sofferenze dei deportati. A San Vittore erano stati salutati con affetto dagli altri prigionieri ma per le strade di Milano, molti tra coloro che sapevano si girarono dall’altra pare.
Il viaggio ha fatto tappa alla risiera di San Sabba a Trieste. Poi abbiamo trascorso con Vera, cui non mancano coraggio e determinazione, due giorni nei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau.
«Continuo a chiedermi come sia stato possibile. — riflette lei ad alta voce —. Non mi vengano a dire che i nazisti erano pazzi. No, non erano pazzi, ma lucidissimi nella loro ferocia. Voglio incontrare i ragazzi dappertutto. Mi sento viva, mi sento appunto una militante della memoria».

Corriere della Sera 16.01.14