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«Governo avanti ma non così. Sono leale, quindici giorni decisivi» di Aldo Cazzullo

Osteria d’Oltrarno, il sindaco arriva in bicicletta, è il suo compleanno, i passanti fiorentini gli fanno gli auguri.
Renzi, il quadro emerso dal suo incontro con Letta è univoco: accordo fatto, nel 2014 si lavora insieme, rimpasto e codice di comportamento. È davvero così? O si rischia ancora una rottura?
«Non si rischia nessuna rottura. Ma guardiamo la realtà: la popolarità del governo è ai minimi, non ci sono più le larghe intese, né l’emergenza finanziaria. Se uno mi chiede cosa ho fatto da sindaco in questi undici mesi, so cosa rispondere: piazze, asili, pedonalizzazioni. Se mi chiedono cos’ha fatto il governo in questi undici mesi faccio più fatica a rispondere. Per questo motivo bisogna cambiare passo».
Lei stesso riconosce che l’emergenza finanziaria è passata.
«Ma la disoccupazione è aumentata. Su twitter ho visto un vecchio manifesto del Pd. Dicevamo allora: “La disoccupazione giovanile è al 29%; Berlusconi dimettiti!”. Oggi siamo al 42 e governiamo noi. Quindi bisogna avere il coraggio di dire che qualcosa non funziona. Il mondo sta correndo. Nell’ultimo trimestre del 2013 gli Stati Uniti sono cresciuti del 4%. L’Italia è ferma».
Letta rivendica di aver diviso la destra.
«Mi pare che abbiano fatto tutto da soli. E comunque lei è sicuro che Alfano abbia rotto con Berlusconi? In Piemonte, Basilicata, Sardegna si presentano alle elezioni insieme, come in quasi tutti i quasi quattromila Comuni in cui si voterà in primavera. Non basta dividere la destra, bisogna governare il Paese. E io voglio dare una mano a Enrico. Mi sento legato a un vincolo di lealtà: diamo l’ultima chance alla politica di fare le cose. Le mie ambizioni personali sono meno importanti delle ambizioni del Paese: io sono in squadra».
Come sono davvero i rapporti tra lei e Letta?
«Enrico non si fida di me, gliel’ho detto l’altro giorno. Ma sbaglia. Io le cose le dico in faccia. E sono le stesse che dico in pubblico: non uso due registri diversi. Impareremo a conoscerci. Ma ora è importante finalmente mantenere gli impegni e realizzare le promesse».
Allora il governo andrà avanti per tutto il 2014?
«Andare avanti significa non stare fermi. Quindi, sì, certo, il governo proseguirà per tutto il 2014. Ma non può andare avanti così. Più decisi, più concreti, più rapidi nelle scelte. Anche per questo il Pd proporrà che il contratto di coalizione, Impegno 2014, non sia un documento scritto in democristianese, con il preambolo e frasi arzigogolate. No, noi in direzione proporremo che il patto di coalizione sia un file Excel».
Spiega anche a noi over 39 cos’è un file Excel?
«Nella prima casella si indica la cosa da fare, nella seconda i tempi in cui la si fa, nella terza il responsabile che la fa. Un esempio? Tagliamo del 10% il costo dell’energia per le piccole e medie imprese: chi lo fa, entro quando; poi si comunica. Le rendite finanziarie sono tassate al 20%, il lavoro praticamente al 50: riequilibriamo? Bene: quando, come e chi. Cose concrete. Il primo che mi parla di “semplificare la pubblica amministrazione” lo rincorro; noi dobbiamo mettere on line in qualche settimana tutte le spese della pubblica amministrazione. Vivo l’urgenza come un dramma e mi stupisco che a Roma non si rendano conto della necessità di correre. Saranno quindici giorni decisivi. Dobbiamo votare la legge elettorale. Trasformare il Senato nella Camera delle autonomie, senza elezione e senza indennità. Abolire le province. Tagliare un miliardo di costi della politica: un tema su cui sto ancora aspettando la risposta di Grillo. Se avviamo queste riforme, la politica italiana darà il buon esempio. Allora si potrà anche pensare di andare oltre il vincolo del 3%, per far ripartire l’economia o modificare il lavoro. E si può allentare il patto di stabilità interno: perché i Comuni virtuosi non possono spendere per l’edilizia scolastica? Mi interessa di più la stabilità di una scuola che la stabilità burocratica».
Pensa anche lei, come il suo braccio destro Nardella, che il ministro dell’Economia debba essere un politico?
«Il problema non è Saccomanni. Il problema è la forma mentis burocratica. È la politica che non decide e non agisce. Chiarezza di obiettivi, rapidità di esecuzione. Sulla legge elettorale abbiamo fatto più in questo mese che negli ultimi tre anni. Venendo qui ho incontrato una signora che mi ha preso in giro per il Jobs act: “Oh Renzi, falla finita con questi nomi strambi!”. Ha ragione: basta anglicismi. Però abbiamo sottratto la discussione sul lavoro agli “esperti” e l’abbiamo portata in pubblico. I dilettanti hanno fatto l’arca. Gli “esperti” hanno fatto il Titanic».
È segretario da un mese e già si celebra?
«Per carità, ancora non abbiamo fatto nulla. L’unico Matteo che emoziona gli italiani è il don Matteo di Terence Hill. Ma abbiamo dato una bella scossa, vedrà che i risultati arriveranno».
Il Jobs act o come si chiama adesso a Giovannini non è piaciuto.
«È sicuramente migliorabile. Compito dei ministri però non è dare giudizi o opinioni, come i professori o gli ospiti dei talk show. Compito dei ministri è fare le cose. Che abbiamo fatto in questi mesi? Perché la disoccupazione è cresciuta? Giovannini dovrebbe rispondere su questo».
Mattarellum, sindaco d’Italia, spagnolo: tra le sue proposte quale passerà?
«Quella che avrà il consenso più ampio. Che però dovrà comprendere le altre riforme, a cominciare da Senato, titolo V, taglio di un miliardo dei costi della politica. Facciamo un pacchetto unico…».
Incontrerà Berlusconi? Non teme che si tiri indietro a un passo dall’accordo, come in passato?
«Berlusconi è il leader del principale partito d’opposizione insieme a Grillo. Se serve, lo incontrerò. Per il momento non ne vedo la necessità, proprio perché ancora non ci siamo. Ma non accetto di escludere Forza Italia dalle riforme. Le regole si scrivono insieme anche alle opposizioni e non hanno senso i veti. Di solito mette i veti chi non ha i voti».
Alfano mette il veto sulle nozze gay.
«Ognuno di noi, quando a scuola il professore lo interrogava e non aveva studiato, aveva il suo argomento a piacere. Il mio era la seconda guerra mondiale. Quello di Alfano sono le nozze gay: se si trova in difficoltà su qualcosa lancia un’agenzia su questo tema e “mette in guardia” da questa sinistra pericolosa. Io non parlo di matrimonio gay. Parlo di unioni civili. Siamo l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che le riconosca. La faremo».
Esiste l’ipotesi che lei vada a Palazzo Chigi prima delle elezioni?
«A Palazzo Chigi c’è Enrico Letta».
Il sindaco di Bologna Merola, di Bari Emiliano, di Brescia Del Bono, di Salerno De Luca si sono espressi per il voto anticipato a maggio. Cosa risponde?
«I sindaci sono arrabbiati e hanno ragione. Ci sono troppi burocrati che pensano di risolvere i problemi scaricandoli su di loro. Il balletto delle tasse sulla casa è indecente. Si finge di togliere l’Imu a Roma per far contenti Brunetta e Alfano e si costringono i sindaci a prendersi gli insulti dei cittadini. Ma le elezioni non sono la soluzione. Alcuni di loro mi hanno mandato sms: “Matteo, è il tuo turno”. No, non è così: io faccio un passo indietro sul piano delle ambizioni personali, purché sia una rincorsa per fare quel che serve al Paese».
Come sono davvero i suoi rapporti con Napolitano?
«Buoni. Per il presidente ho grande rispetto umano, personale, politico e istituzionale. In questi anni, nel rispetto delle sue prerogative, ha supplito alle mancanze della politica. Credo che il suo vero obiettivo sia lasciare il Quirinale una volta che le riforme siano fatte; e credo che ne abbia diritto. Il miglior modo per rispettarlo non è fare comunicati per elogiare il suo discorso di fine anno; è fare le riforme che ci chiede. A partire dalla legge elettorale».
Vorrebbe Vendola nel Pd?
«Perché no? Io sono per il bipartitismo. Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, lo stesso Vendola in Puglia governano con la stessa coalizione con cui governiamo Fassino, Emiliano e io».
Il caso Fassina le ha attirato molti rimproveri sul suo stile arrogante.
«Potevo risparmiarmi la battuta, certo. Ma un viceministro dell’economia si dimette per i dati della disoccupazione, o per il pasticcio dei 150 euro dati, tolti e ridati agli insegnanti; non per una Chi? Non siamo all’asilo. Io non rinuncio a essere me stesso, alla mia bicicletta, e anche alle battute. Ma chiedo di essere giudicato sui fatti. Se mi fossi dimesso tutte le volte che Fassina mi ha insultato…».
Guardi che c’è il codice di comportamento.
«Ho visto che Letta lo ha proposto in una intervista. Non so di preciso cosa intenda. Escludo che si parli di galateo. Suggerisco il primo articolo: è vietato combinare guai come quello dell’Imu o degli insegnanti o delle slot machine. Questo mi sembra il codice di comportamento migliore: smettere con i pasticci. Però il codice di comportamento a qualche ministro effettivamente servirebbe: occorre più stile».
Non teme una scissione a sinistra del Pd?
«E perché dovrebbero andarsene? Perché hanno perso? Non abbiamo cambiato i capigruppo, Cuperlo è presidente. Quando andai io in minoranza, diedi una mano; mi aspetto che l’attuale minoranza faccia altrettanto. Magari la prossima volta tornerò in minoranza e toccherà a un altro. Noi siamo una comunità, e l’abbiamo capito ritrovandoci impauriti e preoccupati davanti all’ospedale in cui è ricoverato Pier Luigi Bersani. Siamo una comunità di persone con idee e storie diverse, ma unite da valori comuni e dall’obiettivo di cambiare l’Italia».

Il Corriere della Sera 12.01.14

"Il piacere dal barbiere", di Francesco Guccini

Erano aperti anche la domenica mattina, i barbieri, per quelli che si azzimavano in vista delle imprese pomeridiane, andare a ballare, portare la morosa al cine, fare bella figura al bar con gli amici aspettando l’ora delle partite. Stavano poi chiusi il lunedì, come oggi, ma non aprono più la domenica mattina. Non ci sono più clienti domenicali?
Oggi molti barbieri si sono trasformati in parrucchieri, per uomo e per donna; il salone è unisex, si dice. Tu entri e, se non sei cliente abituale, uno di casa, ti muovi imbarazzato fra signore che, mentre rifanno la tintura (accompagnate dalle frasi da piccolo chimico delle inservienti), si fanno acconciare, applicare le “extension” o altre diavolerie, ti guardano con sospetto come se tu fossi capitato, volgare intruso, in un proibito gineceo. Tu stesso, una volta preso posto, devi stare molto attento, perché in quei locali il parrucchiere non si accontenterà di un normale shampoo o di un banale taglio («Mi raccomando, solo una spuntatina!»), ma vorrà farti provare il “peeling” col nuovo magico prodotto («Rivitalizza il cuoio capelluto!»), o la lozione che ridà lucentezza («Vede come sono opachi i suoi capelli?») e rinvigorisce il bulbo. Sul taglio, poi, non devi rilassarti un secondo («Ma cosa taglia?», «Non si preoccupi, solo una sfoltitina», «Sfoltitina un cavolo, mi sta pelando!») per non correre il rischio di ritrovarti coi capelli alla mohicana o ritti sulla testa con ciuffetti intrisi di gel più o meno profumato. Quando poi, con faccia improntata a profondo disgusto, l’«hair stylist» osa la domanda: «Scusi, non dovrei dirlo, ma chi è che le ha tagliato i capelli prima?», rispondo come rispondo all’idraulico o all’elettricista capitati per caso la prima volta in casa mia. Se chiedono, scuotendo mestamente il capo: «Scusi sa, non dovrei dirlo, ma chi è che le ha fatto questo impianto?», io rispondo sempre: «Un pastore sardo. Appena ho un rubinetto che perde o un cortocircuito io chiamo sempre un pastore sardo a metterci una mano».
So benissimo che esistono anche oggi barbieri normali, come quelli di un tempo. Bisogna forse cercarli in periferia, o nei piccoli paesi, ma ci sono, pure se nessuno usa più la gloriosa macchinetta per tosarti. Perché una volta, quando si andava dal barbiere, lo scopo era farsi tosare, in modo che tutti potessero dire: «Ve’, sei andato dal barbiere, oggi?».
Ci sono. Solo l’atmosfera e l’arredamento sono un po’ diversi. Già le sedie. Adesso, se il barbiere tiene alla modernità del suo negozio, ha certe sedie che sembrano quelle – tragiche, da un certo punto di vista – che trovi dal dentista, plastica ceramica e acciaio, e la cosa non ti lascia tranquillo. Le sedie di un tempo erano più casalinghe, più familiari, di legno, con qualche ghirigoro liberty, qualche imbottitura ai braccioli, l’appoggiatesta in pelle, reclinabili e girevoli. Le puoi scovare ancora, dopo essere state svendute dal barbiere in vena di modernità e recuperate da un astuto antiquario, nello studio di un artista alla moda o nell’atelier di un famoso architetto.
È cambiata anche la stampa offerta dal negozio. Nei saloni unisex, oltre al quotidiano locale, sono a disposizione tutte le riviste di gossip esistenti sul piano nazionale, quelle riviste che faranno esclamare a una signora informatissima sul figlio segreto dell’ultima divetta o sul divorzio della coppia famosa: «Come lo so? L’ho letto dal parrucchiere», mentendo per la gola sul fatto che ne è una ghiotta divoratrice a casa, perché nessuna donna ammetterà mai di averle golosamente comperate.
Dal barbiere normale, invece, una volta si trovava pure il quotidiano sportivo, perché il salone era spesso luogo di maschi sfaccendati, o che aspettavano il proprio turno; infatti non si prendevano appuntamenti come dal dentista (celebre la frase: «Arrivo subito da lei, solo cinque minuti!». I famosi cinque minuti da barbiere), e anche era un posto come un altro per oziare, discutere di calcio, di politica, di donne. A questo proposito alcuni tenevano delle riviste osé, tirate fuori solo a richiesta del cliente, perché ogni tanto poteva entrare un bambino con relativa madre.
Oggi nessun figaro fa più la barba; mi hanno detto che non vale la pena per il tempo che si deve usare e il prezzo che si può esigere. Ma ci sono ancora barbieri che sanno radere una barba? Personalmente, per ragioni di onor del mento, la cosa non mi tocca, ma era bello vedere tutte le complesse operazioni che precedevano la rasatura.
Lo sbarbando si accomodava sulla sedia e appoggiava mollemente il capo sull’appoggiatesta, offrendo viso e soprattutto gola con la stoica sicurezza che avrebbe esibito un imperatore romano esposto al rischio dello sgolamento da parte di uno schiavo impazzito o partecipante a un complotto. Nei saloni più raffinati sul volto del, diciamo così, paziente, veniva applicato un pannicello tiepido e umido, che serviva a dilatare i pori, chiamando in superficie anche i peli più nascosti e restii. A parte si preparava l’acqua per la saponata, scaldata sulla stufa, in inverno, o sul fornelletto a resistenza elettrica, in estate. Si procedeva quindi all’insaponatura. Il pennello veniva tuffato nell’acqua e con esso si vellicava uno stick, oppure lo si immergeva in una scatola metallica contenente una misteriosa miscela galenica e traslucida di saponi. La schiuma così ottenuta passava e ripassava sul viso del cliente per rendere quella pelle, a volte rugosa e impervia come un sentiero di campagna, più morbida ed elastica di quella di un bambino o di una giovinetta impubere. Il barbiere allora, con gesto sapiente e ieratico, da chirurgo, afferrava il rasoio a mano libera e ne rifaceva il filo passandolo e ripassandolo con elegante energia sulla correggia di cuoio appesa al muro o addirittura sul palmo della mano. La schiuma levata dal viso e intrisa di peluzzi di barba veniva poi depositata con grazia su quadratini di carta di giornale approntati all’uopo o su schedine vecchie della Sisal. A richiesta si procedeva al contropelo. Finita l’operazione, dopo aver cauterizzato un’eventuale piccola ferita con l’allume di rocca, si irrorava il viso dello sbarbato con una profumata soluzione alcolica conservata in una preziosa ampolla e spruzzata con una pompetta, spesso terminante con un vezzoso fiocco.
Per Natale i barbieri regalavano un oggetto di grande importanza, un calendarietto, oggi ricercato dai collezionisti. Detto così, calendarietto, sembra roba da poco. Ma solo per chi non lo ha visto mai, perché era un cimelio quanto mai prezioso.
Anzitutto, avvolto in una carta semitrasparente, veniva alluvionato da un profumo di incerta e inquietante provenienza (Notti d’Oriente? Fascino slavo?) e di straordinaria e testarda persistenza, tale da dare contezza di sé anche secoli dopo. Messo nel portafoglio da rudi mediatori di bestiame, olezzava non solo nel portafoglio stesso, ma nei vestimenti tutti e nella persona dell’individuo, che profumava fino al Natale successivo come una ballerina d’avanspettacolo di quart’ordine.
I calendarietti erano colmi di immagini le più varie: scene di opere liriche, di film famosi, ritratti di attrici, ma i più portavano disegni o foto di ragazze discinte, discinte come si può pensare a una ragazza discinta negli anni Cinquanta, oggi quindi ragionevolmente casta come appena uscita da un collegio delle Orsoline. Ma pare che, proprio per questa ragione – la fama osé per quei tempi –, si gridò allo scandalo e i calendarietti furono aboliti. Io però credo invece che siano scomparsi per quella ventata di assurdo modernismo che ha colpito l’Italia alla fine di quegli anni, e quei piccoli calendari, profumati, protetti dal cellophane, spesso anche cosparsi di porporina dorata che si attaccava dappertutto, furono ritenuti cosa vile, di un passato da dimenticare.
Però, il prossimo Natale, mi piacerebbe riceverne ancora uno e, alzandomi dalla poltrona, sentire il barbiere che dice: «Il signore è servito. Ragazzo, spazzola» e vedere il cinno che premuroso si avvicina, ti spazzola e attende, fiducioso, una lauta mancia.

Il Sole 24 Ore 11.01.14

"Bobbio, non c'è politica senza cultura", di Mario Ricciardi

Norberto Bobbio se ne è andato in silenzio, con discrezione, come era nel suo stile, il 9 gennaio del 2004. Che fosse anziano e di salute cagionevole era noto. Forse meno conosciuta, se non alle persone intime, era la stanchezza che da alcuni anni lo aveva assalito, evoluzione di un’indole incline alla malinconia. Lo stesso Bobbio ne aveva parlato con la consueta lucidità a un corrispondente alcuni anni prima: «la mia vita ormai è vissuta al rallentatore. Lente nei movimenti le gambe e le mani. Lenti tutti i movimenti del corpo. Deboli gli occhi e quindi lenta la lettura. Faticoso anche il solo alzarmi per prendere un libro. Sempre più rapido invece questo processo di indebolimento. Da qualche tempo provo in maniera sempre più penosa la fatica di vivere, che, del resto, conosco, in forma leggera, naturalmente, sin dall’infanzia. Non viaggio più». Non che viaggiare fosse una passione per Bobbio. Scherzando, si descriveva come un provinciale. Bogianen, come si dice nella sua Torino. Uno che sta nel suo buco, che non si muove. Certo un buco confortevole, nel centro di quella che un concittadino della stessa generazione paragonava a una guarnigione, ma che mostrava ancora il suo volto di piccola capitale di un regno subalpino preservando con caparbietà e orgoglio la dignità che altre ex capitali della penisola faticavano a difendere. Pochi passi separavano via Sacchi, dove Bobbio abitava, dalla Facoltà di Scienze Politiche, dove si era trasferito lasciando l’insegnamento di filosofia del diritto per prendere quello di filosofia politica. Ma in mezzo c’era un mondo. Quello delle idee e dei pensatori che lo avevano accompagnato per anni: Locke, Hobbes, Kant, Hegel, Marx, Cattaneo, Kelsen, Weber e tanti altri, noti e meno noti, cui Bobbio si dedicava con pazienza e rigore, sezionandone le opere per esibirne l’anatomia a generazioni di studenti. Quello dei tanti corrispondenti, da Hart a Oppenheim fino a Scarpelli, con cui tesseva un fitto dialogo epistolare. In molti, tra chi ne frequentava le lezioni, sono diventati a loro volta professori. Non solo nelle “sue” materie, ma in tante altre. Perché quella di Bobbio era una “scuola” nell’unico senso rispettabile che questa espressione può avere quando si usa a proposito dell’accademia: un posto dove si impara. Si apprende come si ragiona, che bisogna aver rispetto dei fatti, della verità e degli interlocutori.
Sotto questo profilo Bobbio era un esempio. Nel 1996, lo stesso anno in cui scrisse la lettera a Danilo Zolo da cui ho ripreso la descrizione della sua «fatica di vivere», lo studioso torinese era al lavoro su un libro – fortemente voluto da Carmine Donzelli, che alcuni anni prima di Bobbio aveva pubblicato il fortunatissimo Destra e sinistra (1994) – che raccoglieva alcuni suoi scritti del periodo immediatamente seguente alla fine della seconda guerra mondiale, accompagnati da un commento retrospettivo dell’autore. Ritornando agli anni del fascismo, Bobbio scriveva: «non è difficile ricostruire lo stato d’animo di chi, come me e tutti gli appartenenti alla mia generazione, era arrivato agli anni della maturità senza aver mai votato, e avendo cercato, se mai, di sottrarsi a quelle forme di partecipazione forzata che erano le adunate e le altre messe in scena che non riuscivamo più a prendere sul serio».
In effetti, colpisce, in questi scritti del dopoguerra l’insistenza sull’eccesso di politica che molti vedevano nell’esperienza recente del regime fascista, cui c’era chi reagiva rivendicando l’apoliticismo come valore e la separazione tra tecnica e politica. Una chimera che, nel 1945, Bobbio liquidava con parole che oggi appaiono profetiche: «tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s’intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica». Dietro l’illusione della tecnica apolitica, Bobbio vedeva all’opera il politico incompetente che non è in condizione di prendere buone decisioni perché è privo delle conoscenze necessarie. Non ha idea di come procurarsele, e non se ne cura perché è soltanto un politicante. Un tema, come si vede, di schiacciante attualità nel dibattito in corso sulla riforma del parlamento. Proprio al compito di rendere la politica consapevole dell’importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell’argomentazione Bobbio avrebbe dedicato una parte consistente delle sue energie nei decenni del dopoguerra, fino alla crisi della prima repubblica. Così, ad esempio, scriveva nei primi anni cinquanta, in polemica con i comunisti che proponevano una “politica culturale”, difendendo una “politica della cultura” che fosse: «oltre che la difesa della libertà, anche la difesa della verità. Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. (…) Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti». C’è da chiedersi quanto, dello scoramento che Bobbio confessava alla fine degli anni novanta, fosse dovuto alla sensazione di aver combattuto questa battaglia invano.
Del rispetto per i fatti e per la verità, Bobbio è stato un esempio anche se lo riguardavano, dolorosamente, da vicino. Fu così, quando, nel 1992, emerse una lettera in cui si rivolgeva direttamente a Mussolini per evitare le conseguenze cui sarebbe probabilmente andato incontro per via delle sue frequentazioni nell’ambiente dell’antifascismo torinese. Bobbio non fece nulla per sottrarsi alle critiche virulente di cui fu oggetto: «non voglio aver l’aria di mendicare giustificazioni. Ci sono pur stati coloro che non hanno fatto compromessi». Vale la pena di notare che nessuno, tra quelli che compromessi non fecero – nemmeno tra gli avversari comunisti – si unì al coro delle critiche. Forse perché l’esperienza diretta di una dittatura affina la sensibilità delle persone, e le spinge a diffidare dei moralisti che rifiutano di vedere le sfumature.

Il Sole 24 Ore 12.01.14

"Gli xenofobi del Palazzo", di Michele Serra

Perchè l’assessore per l’immigrazione della Lombardia non vuole partecipare a un incontro sull’immigrazione con il ministro per l’immigrazione? La risposta è dello stesso assessore, la leghista Simona Bordonali: “Ritengo le tematiche non prioritarie”. Può essere anche divertente domandarsi quali tematiche, se non l’immigrazione, siano “prioritarie” per un assessore all’immigrazione. Ma è più interessante notare come la poco partecipata ma molto dura contestazione di ieri, a Brescia, contro il ministro Kyenge, forse per la prima volta abbia compattato i rappresentanti politici e in qualche caso istituzionali di tutta la destra nazionale, da Forza Nuova alle camicie verdi ai neomissini di Fratelli d’Italia a militanti della rinata Forza Italia (che, a prenderli in parola, sarebbero i veri eredi dei “moderati”).
La ministra “congolese”, si sa, è il bersaglio prediletto, oltre che il più ovvio, degli umori xenofobi del nostro Paese. In quanto italiana figlia dell’immigrazione e in quanto nera è ritenuta, piuttosto che una persona a conoscenza dei fatti, una provocazione vivente, un insulto a un’idea di “italianità” puramente virtuale, al pari di ogni astrazione razzista, ma violentemente ribadita, al pari di ogni astrazione razzista. Quanto al fatto che proprio nelle scorse settimane la rivista americana Foreign Policy abbia inserito la Kyenge tra le cento personalità mondiali più influenti in funzione del cambiamento può valere, negli ambienti dell’isolazionismo italiano, solo come conferma del complotto “mondialista” ai danni della retta conduzione di ogni nazione.
Ieri a Brescia si è rischiato che la gazzarra trascendesse in botte da orbi, essendo il presidio anti-Kyenge venuto quasi a contatto con gruppi di immigrati e “militanti dei centri sociali” non meglio identificati, gli uni e gli altri. È stata una breve e intensa rappresentazione di strada, in carne e ossa, dell’odio e degli insulti che dilagano sui social network, per una volta avvantaggiati dalla loro virtualità, nel senso che, almeno, sul web le parole grevi e i concetti violenti non hanno il supporto delle urla stridule, e dei volti trasfigurati dall’eccitazione, che i telegiornali della sera ci hanno documentato. Tenuti a bada dalle forze dell’ordine (accusate da un signore quasi apoplettico per la rabbia di “proteggere solo i negri e i comuni-sti”), gli xenofobi di popolo e di Palazzo (c’erano anche l’assessore Beccalossi e il consigliere regionale Rolfi) si sono allontanati furibondi, e certamente convinti di essere stati discriminati nonostante incarnino la voce popolare.
Nei fatti, sempre che i fatti contino, il vero problema, per loro, non è certo uno spintone di troppo da parte della polizia; né i loro veri antagonisti coincidono, se non in piccola parte, con i ragazzi antirazzisti e gli immigrati che ieri gli si sono opposti in strada, avendo uguale diritto di manifestare. Il vero problema, per la destra lombarda e italiana, è che Kyenge era stata invitata, oltre che da un paio di enti locali, dall’Azione Cattolica di Brescia, vale a dire da quel cattolicesimo sociale che in Lombardia è molto presente e molto influente; ed è, soprattutto, profondamente “popolare”, non certo riducibile alle detestate lobby mondialiste o salottiere o comuniste o bancarie o gay o altro che, nella visione piuttosto paranoica della destra xenofoba, regola le cose del mondo con subdola protervia. Mentre la Beccalossi, la Bordonali e Rolfi (e Maroni? ha un’opinione in proposito, Maroni?) vorrebbero dare alla Kyenge il foglio di via, e il loro manipolo di ripulitori etnici sventolava un grande biglietto di aereo “Italia-Congo” da consegnare al ministro, Azione Cattolica la invita a Brescia e le mette a disposizione un microfono e un vasto pubblico, in una delle città più cattoliche e più ex democristiane di Italia.
Specie sotto un papato come questo, antifondamentalista ed ecumenico (mondialista?), i veri grattacapi, per gli xenofobi padani e italiani, non verranno dai “comunisti” dei centri sociali.

La Repubblica 11.01.14

"L’alleanza dei distruttori", di Michele Prospero

La battaglia in vista delle elezioni europee si rivela ogni giorno più dura. La drammatizzazione dello scontro non è una novità. Sono ormai vent’anni che la politica italiana è gettata in un infinito processo costituente. Senza un approdo stabile, una cronica eccitazione febbrile rende ogni cammino compiuto provvisorio, destinato all’oblio. E ogni volta compaiono un scena nuovi attori, ad affiancare i vecchi arnesi che non demordono, in una radicalizzazione della contesa che non trova mai una misura. Il populismo non è un semplice stile eccentrico della protesta.

È diventato un dato di sistema. Non solo la novella formazione grillina, ma anche le forze che più a lungo hanno occupato le stanze del governo nel corso della seconda repubblica, e cioè la Lega e Forza Italia, adottano un profilo dichiaratamente antisistema. Il populismo si propone cioè come la blasfema grammatica comune di una politica che ha smarrito solidi confini.

In una tale situazione fluida, Matteo Salvini cerca di contenere l’estinzione del Carroccio. E lo fa attraverso la maschera di un radicale soggetto antagonista. Va in piazza con il governatore piemontese per difenderlo dalle sentenze dei giudici amministrativi (la legalità delle firme apposte in calce alle liste andrebbe comunque vagliata prima della sopraggiunta prova di legittimità offerta da una consultazione elettorale già svolta). E con la ripulsa dell’euro, vile strumento del piano di dominio tedesco che ha impoverito i produttori, con il grido dell’insubordinazione contro le potenze tecnico-finanziarie di Bruxelles, con il sostegno alla guerra santa dei forconi ostili agli aumenti dei pedaggi stradali, con gli affondi di sapore xenofobo, la Lega tenta la carta della rivolta e dell’intolleranza per non perire.

Giudici, euro, tasse, forconi sono anche per Berlusconi il cavallo di una battaglia estrema per tentare una disperata risalita nei consensi smarriti. L’annuncio della sua impossibile candidatura come capolista alle europee, è solo una mossa per accentuare la portata simbolica dello scontro. Il disegno è quello di indossare ad ogni occasione gli abiti sgualciti del leader che è sempre in

campo e che però viene sempre azzannato al momento cruciale dal complotto dei giudici. Sono le Procure che gli impediscono il sublime rito della riconferma della fiducia carismatica tramite l’unzione elettorale del suo popolo rimasto fedele.

Su un piano diverso, anche Grillo enfatizza la disperazione sociale e parla di delegittimazione degli equilibri istituzionali. Le simbologie aggressive del comico non sono però la causa della malattia, sono il sintomo di una crisi sociale che ancora non trova efficaci risposte di governo. La battaglia contro le intemperanze, gli eccessi, i dialettismi del populismo trionfante è vana se si limita alla richiesta di un più ragionevole esercizio dell’arte della critica misurata. Quello che serve è anche la costruzione materiale di una combattiva coalizione sociale indispensabile per imporre delle politiche di radicale svolta rispetto al binomio rigore e austerità.

Già nel febbraio scorso le tre forze dell’antipolitica raggiunsero nel complesso il 55 per cento dei consensi. Il progetto di contenimento della slavina populista attra- verso un programma massimo di stabilità, risanamento, revisione elettorale e costituzionale è però naufragato. E bisogna ricostruire un altro piano di intervento. Il governo Letta può ancora svolgere una qualche funzione positiva ma solo se assume consapevolmente il raggio d’azione di una missione limitata (con un cammino incerto e contraddittorio, tra mille agguati) e però verificabile nel suo impatto reale.

L’errore più grave che potrebbe commettere il Pd è quello di sbagliare nella valutazione dei reali rapporti di forza oggi esistenti. Il rischio viene da un possibile sviamento cognitivo determinato da una copertura mediatica «amica», che rende difficile decodificare in maniera puntuale gli spostamenti molecolari di opinione. Una complicità quasi totale dei media crea finti spostamenti di consenso, superficiali tendenze di sostegno che danno al leader l’illusoria sensazione di onnipotenza.

Nulla è più pericoloso di questa strana ebbrezza. La fonte dell’alienazione politica di massa continua a risiedere nella frustrazione dei ceti medi impoveriti, nel risentimento dei giovani senza canali di inserimento. E per mutare gli umori resistenti di queste forze sociali reali catturate dai populismi, l’arma di sfondamento predisposta dai media amici con l’industria del marketing di sicuro non basta. Alla fenomenologia della rabbia reale, che la destra agita con una spregiudicata arte, si risponde con un’altra idea di Italia, con la rifondazione di una comunità.

L’Unità 12.01.14

"In gioco la credibilità dello Stato", di Vladimiro Zagrebelsky

Le «cure compassionevoli» sono quelle che possono intervenire quando ci ò che è normalmente autorizzato e praticato, è ormai inutile. Si chiamano cure compassionevoli. Compassionevoli, ma pur sempre cure. E cure, che si vogliono somministrate in strutture del Servizio sanitario nazionale.

Il caso Stamina ha aspetti che giustificano gravi sospetti. Esistono però problemi che sono presenti nell’attività ordinaria di medici e di strutture ospedaliere, che non emergono nei media e che tuttavia mettono a dura prova le regole routinarie, il senso di responsabilità dei medici, il dolore dei malati e di chi sta loro vicino. La patologia di una vicenda, intendo dire, non deve mettere in ombra l’esistenza di una normalità di casi difficili.

Una normalità in cui l’integrità dei protagonisti è fuori discussione e le decisioni da prendere sono ardue e rischiose.

Le deviazioni deontologiche, ipotizzabili in questa o quella vicenda particolare, consentono analisi semplici e chiedono rimedi noti. Sono più difficili i problemi di cui non ci si può liberare identificando colpevoli. La domanda di «cure compassionevoli» è uno di questi. Le regole ordinarie sono impraticabili e quelle eccezionali, che pur esistono, lasciano largo spazio a scelte discrezionali difficili, rischiose; scelte discutibili a priori e discusse a posteriori, quando l’esito sia negativo.

Le cure compassionevoli sono praticate e regolamentate in Italia come altrove nel mondo. Ed anche l’Unione Europea con i suoi organi vigila e promuove l’armonizzazione delle regole. Si tratta di regole che riguardano i medici e gli ospedali. Dopo l’opera dei medici, talora sono chiamati a decidere i giudici e il loro ruolo è controverso.

Con l’espressione «cure compassionevoli» si intende l’uso di farmaci «off-label», non (ancora) autorizzati o non autorizzati per quello specifico uso: farmaci cui ricorre il medico, in assenza di terapie autorizzate, con il consenso del paziente. Naturalmente ciascuno e libero di curarsi come vuole, ma il problema nasce quando si pretende che sia una struttura pubblica, lo Stato dunque, a praticare una terapia non autorizzata in situazioni normali. Il problema non si presenta solo in Italia. Recentemente la Corte europea dei diritti umani ha esaminato un ricorso contro la Bulgaria, le cui autorità amministrative e i cui giudici avevano rifiutato di autorizzare la somministrazione a malati terminali di cancro di un farmaco non registrato in quello Stato. La Corte ha affermato che il diritto alla salute non implica un dovere assoluto dello Stato di agire, anche in violazione delle regole che si è dato in materia di sicurezza sanitaria. E in effetti una cosa è il diritto a non essere oggetto di attentati alla propria salute, altro è la pretesa che non vi siano limiti al dovere dello Stato di provvedere. Ed anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto alla salute, pur fondamentale, trova limiti in considerazione di altri diritti e principi costituzionali.

Le regole italiane ammettono l’uso dei farmaci riconosciuti per le cure compassionevoli dalla Commissione unica del farmaco del ministero della Salute, in considerazione del fatto che sono stati già registrati in altri Stati o sono in corso di sperimentazione per quella patologia. L’uso di tali farmaci è ammesso a condizione che la procedura di sperimentazione sia già in stadio avanzato o esistano pubblicazioni scientifiche, accreditate in campo internazionale, da cui se ne possa desumere l’affidabilità. E il ricorso a tale tipo di terapia deve essere eccezionale e legato alla specificità della concreta situazione del paziente. Il pericolo è infatti che una applicazione generalizzata diventi una via per sottrarsi alle rigide regole della sperimentazione clinica dei nuovi farmaci. Solo in tal modo si può ritenere che il medico, conformemente al giuramento prestato, abbia agito secondo «scienza e coscienza».

Come si vede, ad ogni passo il medico deve compiere valutazioni impegnative, in cui il confine tra il giusto e lo sbagliato è discutibile e l’errore sempre possibile. Esistono casi in cui l’adozione da parte del medico di una terapia non autorizzata ha portato quel medico davanti al giudice penale, imputato per avere cagionato l’aggravamento o la morte del paziente. Ma – ed ecco il problema esploso ora nella vicenda Stamina – al giudice si richiede anche di prender decisioni quando la cura non è praticata, ma impedita. A chi, se non a un giudice, può il paziente richiedere che sia garantito il suo diritto alla salute? Che si tratti di un diritto è fuori discussione, donde la competenza del giudice. Ciò che invece è discutibile sono i limiti e le condizioni per l’applicazione al paziente delle regole esistenti. Ecco allora che le incertezze, le valutazioni, i rischi entro i quali si muove il medico, si trasferiscono al giudice. E la similitudine delle posizioni del medico e del giudice si vede anche nel fatto che l’uno e l’altro non possono evitare di prendere una decisione; con la differenza però che quella del giudice è l’ultima, definitiva. Il giudice, in più deve ricorrere alla perizia di un esperto, poiché egli tutto ignora della specifica disciplina medica. In molti casi i veri esperti sono pochissimi e difficilmente raggiungibili. E le valutazioni di un perito sono spesso smentite dal giudizio di altri. Donde decisioni difformi e lo scandalo di cure ordinate e di cure negate da giudici diversi in casi che sembrano eguali. Come quello di due fratelli affetti dallo stesso male, per l’uno dei quali un giudice ordinò la cura e per l’altro un altro giudice la negò.

La Stampa 12.01.13

Da tutto ciò potrebbe trarsi la conclusione che in un campo così difficile, tutto quello che è avvenuto non è che il prodotto inevitabile della difficile natura del problema. E rassegnarsi a dire che si sia nel migliore – ancorché penoso – mondo possibile. Non è così. Si poteva far meglio. In questa vicenda il governo nel corso del tempo ha dato segnali contraddittori, equivoci, come quando ha vietato le cure Stamina, ma ha autorizzato la continuazione di quelle già in corso. Il parlamento – lo ha ammesso la presidente della Commissione sanità del Senato – ha legiferato senza le conoscenze necessarie. E per far chiarezza si è dovuto attendere – come è ormai abitudine – che si attivasse un’indagine penale. E i giudici? I giudici, con decisioni molto argomentate e palesemente meditate, hanno dato risposte in contrasto l’una con l’altra. La funzione della giustizia è di decidere i casi singoli, ma è anche quella di assicurare stabilità e prevedibilità del diritto che i giudici enunciano. Il sistema giudiziario nel suo complesso non ha dato buona prova. La cattiva prova anzi è venuta dall’insieme del sistema istituzionale. Conclusioni di organi scientificamente attrezzati, cui la legge rimette valutazioni altamente tecniche, dovrebbero essere rispettate, anche dai giudici. La ricerca, per distaccarsene, di possibili vizi formali dei provvedimenti amministrativi rischia di condurre a distorsioni dei ruoli reciproci; a scapito dell’osservanza delle regole stabilite, sulla serietà della «cura» prevale l’umana «compassione». Ma è questa la funzione dei giudici? Il conflitto con la comunità scientifica accreditata, non mette in discussione la credibilità di uno Stato di cui anche l’istituzione giudiziaria è parte?

"La bellezza italiana e il sonno del reame", di Giovanni Valentini

La nostra immensa ricchezza è anche il nostro principale ostacolo alla crescita. (da “Più uguali, più ricchi” di Yoram Gutgeld – Rizzoli, 2013 – pag. 185). Siamo passati da un anno all’altro nel segno dell’austerità, con il numero dei poveri che raddoppia e quello dei disoccupati che continua ad aumentare. Ma non riusciamo ancora a valorizzare adeguatamente la nostra principale ricchezza nazionale: la bellezza dell’ambiente e della natura, delle città e dei paesaggi, dei beni artistici e culturali. È come se l’Italia disponesse di un immenso giacimento d’oro e non fosse capace di sfruttarlo a pieno, come dimostrano anche i casi recenti dell’isola di Budelli (Sardegna) e della Reggia di Carditello (Caserta) acquistate nei giorni scorsi dallo Stato.
Può darsi, come suggerisce l’autore del libro citato all’inizio, che tutto questo dipenda dal paradosso che la nostra ricchezza è eccessiva, che possediamo cioè troppi beni da conservare e tutelare. E perciò, le risorse economiche e umane a disposizione non bastano mai. Oppure, questa dissipazione deriva dal fatto che non abbiamo la piena consapevolezza del patrimonio di cui siamo dotati. O ancora, dalla nostra incapacità di organizzare un sistema turistico e culturale integrato e quindi di comunicarlo in modo più moderno ed efficace.
Fatto sta che l’Italia ha il più alto numero al mondo di siti classificati dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, 49 contro i 38 dei francesi, ma riceviamo 44 milioni di stranieri all’anno: poco più della metà di quanti visitano la Francia. Eppure, il turismo resta un settore fondamentale per la nostra economia, con un fatturato complessivo di 130 miliardi di euro, pari a circa il 9% del Prodotto interno lordo. E ciò significa che in questo comparto lavora un italiano su dieci.
Ma — come scrive nel suo saggio Yoram Gutgeld, israeliano, già socio e partner della McKinsey, oggi deputato del Pd e consigliere economico di Matteo Renzi — «un numero quasi illimitato di attrazioni da promuovere rende quasi impossibile riuscire a sostenerle complessivamente e a fornire a esse infrastrutture inadeguate». Da qui, appunto, la necessità di «fissare delle priorità e fare delle scelte». Contro l’immobilismo dominante, occorre dunque una “regia nazionale” che la riforma del Titolo V della Costituzione introdotta a suo tempo dal centrosinistra, avendo delegato alle Regioni la responsabilità esclusiva in materia di turismo, oggi di fatto impedisce.
Bisognerebbe cominciare magari a riorganizzare la rete delle Soprintendenze artistiche e archeologiche che troppo spesso diventano fattori di conservazione e protezionismo in senso stretto: cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo e dell’economia. O anche, in alcuni casi, centri di potere personale pressoché assoluto. La Penisola è piena purtroppo di sfregi alla sua bellezza, al suo patrimonio e al suo paesaggio; ma anche di opere bloccate o incompiute, a causa di ritardi, pastoie e lungaggini burocratiche.
Nella sua favola intitolata “Il sonno del Reame” (Oscar Mondadori), Annarosa Mattei racconta a questo proposito lo scontro tra potere e cultura che negli ultimi anni ha provocato la deriva “economicistica” del sistema di tutela del patrimonio storico e artistico, l’impoverimento di ogni forma del sapere e la conseguente espulsione degli operatori più esperti e qualificati. È una suggestiva allegoria su un’Italia immemore e incolta, dominata dall’assolutismo di un Principe che non tollera il libero pensiero.
Sarebbe fuori luogo azzardare qui analogie o paragoni con i protagonisti della storia nazionale più recente. Ma, tra le righe del romanzo, si legge in controluce la parabola del degrado e della desertificazione culturale che avviliscono il nostro Paese, sotto l’effetto narcotizzante di un’omologazione televisiva al ribasso sul modello della tv commerciale. Anche questo è un “sonno” della ragione e della memoria, di cui è rimasto vittima il popolo italiano.
Soltanto la riscoperta della bellezza, intesa come qualità e risorsa collettiva, può invertire la tendenza per risalire la china. Non ci sarà ripresa in Italia, né economica né sociale, se non si partirà proprio dalla cultura; da quel grande patrimonio d’arte, musica e letteratura che integra e arricchisce il nostro patrimonio naturale, paesaggistico, turistico. E nonostante tutto, fa del Belpaese un “unicum” al mondo.

La Repubblica 11.01.14