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Faraone: «Nel patto di governo riforma dei ticket e riordino delle asl», di Roberto Turno

Ticket, asl, responsabilità dei medici: la sanità irrompe nel Patto di Governo.Davide Faraone, responsabile welfare di stretta osservanza renziana, annuncia le proposte del Pd. Basta con un federalismo che non ha funzionato, coi governatori commissari di sé stessi. E stop agli sprechi: la “cura Cottarelli” sulla spending è fin troppo leggera.

Ma che voto darebbe al Governo?

«Non classificabile, ha lavorato con l`impostazione tecnica di chi lo ha preceduto, anche se è tutto politico. Ora bisogna cambiare».

Faraone, alle primarie non s`è parlato di sanità: paura di toccare il filo spinato?

“La scelta di parcellizzare il Ssn in tante piccole unità, ha creato una deriva negativa. Smarrendo l`unicità di un servizio che deve essere nazionale, con un ruolo forte del Governo e del ministero”.

Basta allora con un federalismo che non ha funzionato?

“Basta. Ma salvando quanto di utile c`è stato nel delegare alle regioni alcune competenze. Ora recuperiamo tanto dal punto di vista nazionale. Le regioni a volte non hanno la maturità ad esempio per accorpare le asl. O per selezionare il management, dove servirebbero strutture esterne di valutazione, con un albo unico dei manager”.

Troppo potere alle regioni?

“Credo di sì. Può un governatore essere commissario di sé stesso nel piano di rientro? È stato un grave errore. Nei piani di rientro ci sono a volte parametri che con la salute hanno poco a che fare. Il Ssn è molto collegato al Pil, ma troppo poco alla salute. Ci sta, però è diventato un fatto quasi solo di conti”.

C`è un problema di sostenibilità del Ssn?

“Sicuramente. Ma partendo dal fatto che i tagli lineari non hanno funzionato. Il problema è che spendiamo malissimo senza una selezione di merito della spesa. Un Governo intelligente sa distinguere sprechi e spese indispensabili”.

A quali sprechi si riferisce?

“Ai privilegi professionali, allo strapotere della politica, all’autoreferenzialità dei manager. E alle gare d`appalto, ai servizi asl, alle cure fuori regione, alla spesa privata ché gli italiani devono subire. Alla corruzione da stroncare davvero. È un elenco incredibile. Serve un intervento straordinario, ci darebbe anche servizi migliori”.

Ma presto ci sarà la spending di Cottarelli.

“Cottarelli ha fatto una previsione fin troppo bassa: 32 miliardi di risparmi in tre anni sono pochini. Sulla sanità, a patto che i risparmi restino al Ssn, si può intervenire anche pesantemente. Ma attenti: con noi l`universalità non si tocca”.

Nel Patto di maggioranza ci sarà la sanità?

“Il Pd sta preparando le sue proposte. Il rischio professionale: si può fare in 3 mesi con risparmi notevoli.
La riorganizzazione delle asl, che si può fare nell’anno del patto di Governo. In 6 mesi la riforma dei ticket secondo i redditi e l`Isee”.

Operazione complicata.

“Non è semplice. Ma va fatta, se è vero che si può pagare di più il ticket che la prestazione nel privato. E se è vero che le fasce deboli non sono abbastanza tutelate. Per una forza di sinistra è un tema da agenda di Governo. Come Pd lo faremo”.

In sanità la filiera delle imprese vale il 12% del Pil: come valorizzarla?

“È vero: è un motore dell`economia L`unico livello da garantire è che ogni accreditato è parte del sistema e deve funzionare con criteri efficaci. E i cittadini devono avere on line la possibilità di vedere come tutto è svolto, e rispetto a questo scegliere. Non ho preclusioni verso il privato se funziona come, o magari meglio, del pubblico. Quanto alle industrie, rientrano nella discussione sul job act e nelle linee di sviluppo per l`Italia come parte del sistema di sviluppo complessivo del Paese”.

Un voto alla Lorenzin?

“Nessun voto “personale”. Questo Governo può essere finora giudicato come «nc»: non classificabile. La situazione è difficile, ma ha avuto la tendenza a interpretare il suo ruolo con l`impostazione tecnica di quelli precedenti. Mentre ha un presidente politico, ministri politici e pur essendo nato “di larghe intese”, non vuol dire che dovesse procedere coi tecnicismi. Bisogna cambiare”.

Il Sole 24 Ore 11.01.14

"L’italiano vero non esiste Gli italiani? Sono 57 tipi diversi", di Stefano Rizzato

A tenerli insieme ci sono il passaporto e una bandiera. A dividerli quasi tutto il resto. Lingua e tradizioni, ostacoli naturali e colore degli occhi. E, più in profondità, anche il patrimonio genetico: tutto il codice nascosto tra le eliche del Dna e destinato a passare di padre in figlio. Eccoli qua, i 57 diversi tipi di italiani. Diversi tra loro più di quanto lo siano uno spagnolo e un ungherese. Siamo il Paese con la biodiversità umana più estesa d’Europa e a ricordarcelo ora c’è uno studio specifico, che ha coinvolto quattro atenei: la Sapienza di Roma insieme alle università di Bologna, Cagliari e Pisa.
Il lavoro è partito nel 2007 e ha unito genetica e antropologia. Da una parte, la raccolta di campioni di saliva, poi catalogati e confrontati, nei luoghi più isolati d’Italia. Dall’altra, di pari passo e incrociato, un meticoloso studio linguistico, culturale ed etnografico. «Abbiamo sfruttato l’aspetto genetico per mostrare in tutta la sua ricchezza la diversità umana del nostro Paese», spiega Giovanni Destro Bisol, antropologo della Sapienza che ha coordinato il team di scienziati.
«In pochi sono a conoscenza di questo patrimonio. Pochi sanno che esistono comunità d’origine croata tra Abruzzo e Molise, oppure che ci sono dodici minoranze linguistiche italiane tutelate dalla Costituzione».
Guardando ai geni, i ricercatori hanno posato la loro lente su due elementi: il Dna mitocondriale, ereditato esclusivamente per via materna, e il cromosoma Y, localizzato nel nucleo delle cellule ma ereditato solo nella linea maschile. «Sono due indicatori molto sensibili, che tengono traccia anche di variazioni ed evoluzioni recenti spiega l’esperto ma l’unicità italiana dipende molto dalla geografia: in un Paese lungo e stretto, con una miriade di habitat diversi, la biodiversità umana non è meno accentuata di quella che riguarda piante e animali».
In gran parte dei casi, è stata la combinazione tra isolamento geografico e linguistico a proteggere l’unicità di popolazioni che ancora oggi risultano diversissime persino da quelle confinanti.
«In Europa – conclude Destro Bisol – un melting pot comparabile c’è solo nei Paesi balcanici. Pensi che, messe insieme, le minoranze presenti sul territorio sono il cinque per cento degli italiani. Sono comunità sempre più piccole, che tendono a spopolarsi e vivono la loro identità con intensità e orgoglio. Ma anche con la profonda consapevolezza di essere parte della stessa nazione».

La Stampa 11.01.14

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“Un’eredità genetica che ci fa ricchi”, di Marco Malvaldi

La biodiversità tra le diverse popolazioni italiane è il segnale di un passato glorioso: un passato in cui, favorito dalla geografia, il Paese era un autentico crocevia dei popoli, delle culture e delle ricchezze del mondo. Così, un tempo, forti della nostra importanza, importavamo ricchezza genetica, con i metodi più diversi.
Talvolta accoglievamo, talvolta schiavizzavamo, altre volte ci invadevano. Spero sinceramente che
noi italiani tutti, eredi di questo rutilante patrimonio genetico, non facciamo l’errore di fare sfoggio in modo molto italico di tale diadema: facendo vedere al resto d’Europa la nostra incredibile varietà genotipica, frutto come si diceva di un glorioso tempo che fu, mentre intanto il presente va a rotoli. Avere un patrimonio intrinseco così vasto è un’ottima base di partenza; però, a chi fosse convinto che la genetica basti a garantire ottime prospettive, vorrei rammentare un piccolo esempio.
Nel 2003, alcuni ricercatori annunciarono di aver scoperto il segreto della velocità degli sprinter giamaicani. Il nocciolo della scoperta risiedeva nel fatto che particolari variazioni in un gene chiamato Actn3 favorivano la funzionalità delle fibre muscolari «veloci», e che il 98% circa della popolazione giamaicana mostrava tale variazione. Molto interessante, no? Peccato che ulteriori ricerche abbiano mostrato che i keniani (i quali, pur mietendo allori da decenni nelle competizioni di lunga durata, non hanno mai vinto nemmeno una gara condominiale sulle gare veloci) hanno una frequenza di tale variazione superiore a quella dei giamaicani stessi. Il fatto che gran parte della popolazione keniana corra più di dieci chilometri al giorno tutti i giorni per andare a scuola, evidentemente, deve avere qualche importanza. (Attenzione: le righe che precedono sono ispirate dalla convinzione che la diversità genetica sia ricchezza e che nella biodiversità risieda intrinsecamente la robustezza di un ecosistema. Se qualcuno pensasse il contrario, temo ci voglia ben altro che un articoletto del Malvaldi per cambiare idea).

La Stampa 11.01.14

"Cognome e pastoie", di Chiara Saraceno

L’idea che ci debba essere un privilegio paterno, almeno nella continuità del cognome, continua a prevalere tra i nostri legislatori. Il disegno di legge sul cognome che può essere attribuito ai figli approvato dal Consiglio dei ministri sembra partire con il piede sbagliato, rischiando così di incorrere di nuovo nella censura della Corte di Strasburgo. Secondo le notizie di agenzia, il disegno di legge prevede che il figlio «assume il cognome del padre ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori». Questa formulazione ancora una volta privilegia il cognome paterno, che verrebbe attribuito di default, mentre per attribuire il cognome materno o quello di entrambi i genitori occorrerebbe una esplicita richiesta e dichiarazione di consenso. In ottemperanza al principio di libertà di scelta nelle questioni che riguardano la vita privata e della uguaglianza tra madri e padri, la norma dovrebbe essere formulata in modo da non privilegiare alcuna delle tre soluzioni, chiedendo che all’atto della dichiarazione di nascita, eventualmente prima che essa avvenga, i genitori dichiarino quale cognome vogliono attribuire al figlio. La procedura sarebbe simile a quella richiesta oggi quando il padre non coniugato con la madre vuole riconoscere il figlio dandogli il proprio cognome.
Non è, inoltre, chiaro perché non dovrebbe essere possibile almeno aggiungere il cognome della madre ai figli nati prima dell’entrata in vigore della legge. Capisco le difficoltà burocratiche, ma anche di continuità della riconoscibilità sociale di un individuo, a prevedere un cambiamento radicale di cognome. Ma la possibilità di aggiungerlo senza dover fare lunghissime trafile burocratiche come avviene attualmente non dovrebbe presentare problemi insormontabili e soddisferebbe coloro che avrebbero desiderato farlo, ma ne sono stati scoraggiati, quando non impediti. Contestualmente si dovrebbe modificare la norma che stabilisce che all’atto del matrimonio la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito, lasciando liberi entrambi i coniugi di aggiungere o meno il cognome dell’altro e di definire quale sia il cognome di famiglia.
Giacciono in Parlamento diverse proposte di legge che toccano questi temi, ma sembra che la presidenza del Consiglio, o chi ha formulato il disegno di legge, li ignorino. Temo che anche in questo caso siamo di fronte alla logica consueta che entra in azione in Italia quando si toccano questioni che hanno a che fare con la famiglia: si arriva con ritardo a regolare ciò che altrove da tempo fa parte dei diritti di libertà e in nome di questo ritardo si pretende di procedere lentamente, perché la società “non sarebbe pronta”. È successo con il divorzio, arrivato tardi e con vincoli (processo a due stadi, con lungo periodo di attesa intermedio) sconosciuti in altri Paesi. È successo con l’equiparazione piena tra figli naturali e legittimi, per cui ci sono voluti oltre quarant’anni, più un anno tra la modifica della legge e i decreti attuativi. È successo con la riproduzione assistita, che è regolata da una delle leggi più restrittive al mondo. Sta succedendo con il riconoscimento delle coppie omosessuali, per le quali si inizia, tra molte resistenze, a discutere di unioni civili, mentre i Paesi che le hanno introdotte da più tempo stanno passando al matrimonio. E sembra stia succedendo anche con il cognome. Nel frattempo, in società, le famiglie, i rapporti tra uomini e donne, il modo in cui si decide di generare, i rapporti tra le generazioni cambiano e in molti casi rischiano di rimanere fuori, non solo dalle regole, ma dalle protezioni. Fino alla prossima sentenza di una Corte.

La Repubblica 11.01.14

"Il Pd alla sfida del Nord", di Claudio Sardo

Non poteva finire peggio la pessima presidenza del leghista Roberto Cota alla Regione Piemonte. Dopo lo scandalo dei rimborsi – il cui emblema resteranno le mutande verdi del Cota medesimo, pagate con i fondi pubblici destinati all’attività politica del Carroccio – il Tar ha deciso di annullare le elezioni del 2010 per le firme false di una lista Pensionati, che con i suoi 27 mila voti fu decisiva per la vittoria del centrodestra.

La Lega usa ora toni berlusconiani contro la magistratura. E minaccia di mobilitare la piazza contro la sentenza: è la logica populista, che accompagna questa de- riva lepenista e anti-sistema delle opposizioni italiane. Bisognerebbe arrabbiarsi non con la sentenza, ma con il suo drammatico ritardo. Non con i giudici, ma con le legge sbagliate o lacunose. Le firme false in Piemonte sono state accertate molti mesi fa. E Cota ha pensato di difendersi con ostruzionismi e rinvii. Comunque, è inaccettabile sul piano democratico che le firme false si ripetano a ogni latitudine e non si trovi un modo per giudicare preventivamente la legittimità delle liste. Lo stesso maggioritario di coalizione, che ispira quasi tutte le leggi elettorali regionali, dovrebbe essere rivisto quantomeno per limitare, o disincentivare, la polverizzazione delle liste minori. Sono indecenti le coalizioni con dieci, quindici li- ste, la maggior parte delle quale hanno il solo scopo di raccattare poche migliaia di voti e arrotondare così il bottino del candidato-presidente. Bisognerebbe fissare una soglia di sbarramento e impedire che le liste «sotto la soglia» portino acqua al mulino del candidato: anche perché il discutibile iper-presidenzialismo delle nostre Regioni è ormai sempre più corrotto dalla frammentazione dei gruppi consiliari, fino allo scandalo dei molteplici gruppi costituiti da un solo consigliere.

La Lega vuole fare ricorso al Consiglio di Stato. È un suo diritto. Ma sarebbe grave se l’obiettivo non fosse quello di ottenere un rapido e definitivo giudizio, ben- sì di prolungare l’ostruzionismo dei mesi passati. Il rischio è che la già scarsa credibilità delle istituzioni venga travolta e che si cancelli così anche la speranza di un rinnovamento. Leghisti e berlusconiani avrebbero potuto accelerare lo sciogli- mento del consiglio regionale dopo lo scandalo dei rimborsi: non ci sarebbe sta-a la sentenza del Tar e il centrodestra si sarebbe presentato agli elettori del Pie- monte con un’ammissione di colpa, ma anche con una credenziale. Adesso invece l’alleanza Forza Italia-Lega è spinta ancor più sulla direttrice anti-istituziona- le: competerà con Grillo nel delegittima- re ogni cosa, e la campagna anti-euro amplificherà lo scontro con effetti che al mo- mento è persino difficile immaginare.

Per il Pd e per la sinistra la sfida del Piemonte sarà molto importante. Il Pie- monte è una delle tre grandi Regioni del Nord: la vittoria di misura del 2010 garantì un’area di resistenza al centrodestra, pur in una stagione dove ormai erano evidenti i segni del declino di Berlusconi. Senza una vittoria significativa al Nord non si può governare l’Italia con il consenso e la legittimazione necessaria. Per questo le elezioni di primavera saranno per la segreteria di Renzi un banco di pro- va cruciale, assai più di quanto non si potesse immaginare alcuni mesi fa. Le probabili elezioni in Piemonte, unite alle europee di maggio, comporranno una tornata politicamente decisiva anche se il rinnovo del Parlamento dovesse avvenire, come si augura Letta, nel marzo del 2015.

Matteo Renzi ha deciso di ricandidarsi a Firenze. Ma, al di là delle tante elezioni amministrative, è altrove che il nuovo Pd si gioca una parte vitale del suo progetto. Anzitutto se lo gioca alle europee, il cui segno rischia di cambiare proprio a causa della rincorsa anti-euro di Grillo, di Berlusconi e della Lega. Il Cavaliere offre patti a Renzi sulla riforma elettorale, ma in cambio vuole l’anticipo delle politiche al 2014. Se Renzi lo riaccreditasse come interlocutore, forse Berlusconi potrebbe lasciare alla Lega (e a Grillo) l’insegui- mento di Le Pen. Senza elezioni immediate, invece, Forza Italia userà l’anti-europeismo come arma contro il governo Letta, contro il Pd e contro il «traditore» Alfano. Per il Pd la battaglia delle europee sarà perciò durissima, e inedita nella sua pericolosità.

Ma non sarà da meno la sfida del Pie- monte. Una sfida in quel Nord, che per il centrosinistra è sempre stato ostico nel ventennio passato. Il Pd ha un vantaggio, disponendo già di un candidato forte e autorevole. È Sergio Chiamparino, 65 anni, già sindaco di Torino e oggi presidente dell’Istituto San Paolo: per fortuna, il criterio del merito stavolta sembra prevalere sulla meccanica della rottamazione anagrafica. C’è anche da dire che il Piemonte è, nel Nord, la Regione dove il radicamento della sinistra è storicamente più forte e dove i governi riformisti delle città hanno prodotto risultati apprezzati. Ma nulla è scontato in questo clima, con una crisi che dilania la società e il tessuto produttivo, con una politica che fatica a ricostruire un equilibrio nelle istituzioni, con la destra che reagisce al proprio fallimento ricorrendo al populismo anziché aprendosi a un rinnovamento. Nella partita il Pd uscito dalle primarie dovrà dimostrare chi è davvero e cosa vale, oltre all’indubbia forza comunicativa del suo leader. Si metterà alla prova la sua innovazione, la sua idea di un nuovo sviluppo, ma anche il suo europeismo e la capacità di declinare in chiave di modernità i valori della sinistra. Senza una corposità sociale, non sarà comunque una brillante strategia di marketing a dare risposte a una società in sofferenza.

L’Unità 11.01.14

"I tempi di un paese poco normale", di Luigi La Spina

C’è un Paese, nel civile e democratico occidente, in cui l’organo dello Stato più importante, quello che rappresenta la volontà popolare, il Parlamento, è composto, da quasi un anno, da senatori e deputati eletti con una legge contraria alla Costituzione. Nello stesso Paese, una delle più grandi regioni del nord, il Piemonte, è governata, da quasi quattro anni, da un presidente e da una giunta eletti illegittimamente. Questo Paese è l’Italia.

La decisione con la quale il tribunale amministrativo piemontese, ieri, ha dichiarato nulle le elezioni che, nella primavera 2010, avevano deciso, per poche migliaia di voti, la vittoria dello sfidante leghista, Roberto Cota, sull’ex presidente Mercedes Bresso, ricandidata dal centrosinistra, non è certo sorprendente nel merito della questione. Dopo l’accertamento della falsità di alcune firme su una lista d’appoggio al candidato di centrodestra, la sentenza era prevedibile. Ma il verdetto è sconvolgente perché arriva quasi alla fine di una legislatura regionale e, per di più, non è ancora definitivo, dal momento che il ricorso dei perdenti al Consiglio di Stato sicuramente allungherà ancora questi tempi infiniti, con il rischio pure di un annullamento del giudizio del Tar.

Si può ancora definire «normale» un Paese nel quale ci vogliono quattro anni per verificare la regolarità di una elezione importante, come quella per una Regione? Si può ammettere che per quasi un’intera legislatura il presidente del Piemonte e la sua giunta abbiano esercitato un potere illegittimo, abbiano emanato leggi illegittime, abbiano deciso nomine illegittime? L’Italia ha dimostrato di sopravvivere, con il sacrificio dei suoi cittadini, a una crisi economica devastante per molte famiglie. Come può sopravvivere l’immagine di questo Paese quando le sue istituzioni sono esposte al rischio peggiore, quello del ridicolo? Come si può pretendere di esigere il rispetto che l’Italia dovrebbe riscuotere all’estero, quando una disputa elettorale non viene decisa nel giro di un mese, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma si trascina fino a quando la soluzione diventa sostanzialmente inutile. Perché la politica, come la vita degli uomini, non si può «resettare» come si dice nei linguaggi informatici.

La gravità del caso Piemonte è proprio quella dell’assoluta osservanza di leggi e procedure. Non si possono imputare speciali pigrizie ai giudici amministrativi, né particolari atteggiamenti ostruzionistici agli avvocati delle parti. Tutti hanno compiuto, con scrupolo e competenza professionale, i doveri imposti dal loro ruolo. L’inaccettabile ritardo del verdetto (quasi) definitivo dimostra, in maniera simbolicamente molto efficace, la paralisi in cui l’Italia è sprofondata da almeno vent’anni. Vent’anni perduti in dispute inconcludenti, in cui alla vicende giudiziarie di Berlusconi sono state sacrificate riforme della giustizia indispensabili, quelle che interessano davvero i cittadini. Quelli che aspettano da decenni che si concluda una causa civile, quelli che sono costretti a rinviare o a cancellare investimenti che darebbero preziosa occupazione perché ad ogni passo s’imbattono in ricorsi ostativi dalle parti più disparate, con le pretese più improbabili. Quelli che, in attesa di giudizio e magari innocenti, affollano per anni le carceri, le cui condizioni vergognose ci espongono alle condanne delle corti internazionali.

Una classe politica del tutto inadeguata come quella che ci ha governato nella cosiddetta seconda Repubblica ha condannato il nostro Paese all’immobilismo più assoluto. Una nazione in cui le decisioni, anche le più importanti, vengono delegate ai ritmi lenti e tortuosi della giustizia italiana. Così, del tutto regolarmente per carità, la Corte Costituzionale scopre, solo dopo quasi dieci anni, che la legge con la quale si elegge il Parlamento ha portato alla Camera e al Senato illegittimi rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano. Così, dopo quattro anni, (forse) si stabilir à che Cota e la sua giunta hanno esercitato in Piemonte un potere abusivo, occupando abusivamente poltrone che sarebbero spettate ad altri.

Non servono agli italiani facili e demagogiche proteste, né ricette miracolistiche e dall’applicazione impossibile, ma una riflessione seria e severa sulle responsabilità collettive in questi anni di sciagurata dilapidazione del patrimonio nazionale non solo economico, ma soprattutto morale e civile. La battaglia di tutti contro tutti, corporazione contro corporazione a colpi di veti reciproci, ha impedito nel nostro Paese il varo di tutte quelle riforme, radicali e urgenti, indispensabili perché l’Italia torni a essere una normale democrazia dell’Occidente. A cominciare da quella sui tempi della giustizia.

La Stampa 11.01.14

"Dalle fiaccole alle mutande verdi", di Sara Strippoli

Il Governo di Roberto Cota inizia con una fiaccolata e con una fiaccolata potrebbe finire. Oggi il presidente del Piemonte torna in strada raccogliendo l’urlo di golpe lanciato da Matteo Salvini. Quattro anni fa, era il 28 giugno 2010, una delle piazze del centro storico di Torino si illuminava.
EL’EX-presidente del centrosinistra Mercedes Bresso veniva rappresentata nei cartelli come la “mummia” da abbattere, la zarina ossessiva che aveva osato mettere in discussione la vittoria. In piazza le camicie verdi del Carroccio si erano mescolate alle cravatte del Pdl: «Cota presidente, l’ha scelto la gente».
Questo pomeriggio invece le fiaccole saranno alzate davanti alla sede del Consiglio regionale, protagonista dell’inchiesta sui rimborsi dei gruppi consiliari, con 43 consiglieri su 61 che attendono di sapere se saranno rinviati a giudizio. Fra loro il governatore della Lega. Le mutande verdi comprate in un viaggio a Boston e inserite fra le spese del gruppo della Lega sono diventate la bandiera di questa Rimborsopoli piemontese. I boxer verde-muschio trasformati in simbolo del territorio ben più della Mole Antonelliana.
Fra una fiaccolata e l’altra sono trascorsi quattro anni. Cota e la sua maggioranza hanno amministrato sempre sul filo del rasoio: quattro assessori caduti durante il percorso e uno sforzo continuo per mostrare efficienza a dispetto di un debito di nove miliardi che blocca l’annunciata rivoluzione leghista. Al centro una sanità che vale l’ottanta per cento del bilancio regionale (12 miliardi) sempre ad un passo dal commissariamento. Medici in rivolta per tagli che ritengono insostenibili e che stridono non poco con l’allegra gestione del budget dei partiti.
Dietro le quinte anche una guerra senza esclusione di colpi combattuta all’interno del Carroccio, nel cerchio magico di Cota che da tempo ha perso la tutela del suo padrino politico Umberto Bossi. Mentre dal maroniano Matteo Salvini, l’avvocato di Novara riceve solo una difesa d’ufficio. Non sono pochi gli examici fraterni del governatore ad aver fatto le valigie. L’assessore all’innovazione Massimo Giordano è costretto a lasciare coinvolto in un’inchiesta per fatti che risalgono al 2006; il fedelissimo ex-capo di Gabinetto Giuseppe Cortese viene prima allontanato con un incarico a Expo 2015 e poi lasciato a casa definitivamente, anche lui coinvolto nelle indagini giudiziarie.
L’impressione in questi quattro anni è quella di aver assistito ad un rodeo: ricorsi e controricorsi, lotte interne alla maggioranza. Se non bastasse, la Finanza arriva nelle sedi dei gruppi consiliari, con l’assemblea di Palazzo Lascaris che reagisce sdegnata all’idea di essere paragonata al caso Lazio: «Siamo in Piemonte. Qui Fioriti non ce ne sono».
Le crepe si fanno vedere da subito: il 7 maggio del 2010 viene depositato il ricorso di Mercedes Bresso e il 26 maggio il governo comincia già a scricchiolare. Il primo a lasciare è il vicepresidente della giunta Roberto Rosso, che prima lascia per andare in Parlamento e poi riappare nei panni di un improbabile fustigatore. Rosso si lascia andare in tv: commenta le vicende del Lazio e racconta di un consigliere regionale piemontese del Popolo della libertà in vacanza in montagna a spese del contribuente. Il colpevole non sarà mai trovato ma la valanga è partita e la magistratura comincia ad indagare sulle spese pazze della Regione.
Prosegue intanto la guerra del voto, mentre le indagini giudiziarie fanno scattare le manette per l’assessore alla sanità Caterina Ferrero, Pdl, con l’accusa di turbativa d’asta. Il processo è ancora in corso. A guidare il turbolen-
to assessorato arriva il manager ex-Fiat Iveco Paolo Monferino, alle cui mani Cota affiderà il tassello più importante del suo programma di governo, le sorti della riforma sanitaria. Peccato che anche questa strategia si rivelerà un flop. Monferino lascerà a marzo dello scorso anno accusando la politica di osteggiare ogni cambiamento.
Il 28 settembre del 2012 la Finanza irrompe nella sede dei gruppi consiliari. Si acquisiscono le carte sui rendiconti del gruppi, si fotocopia tutta la documentazione su gettoni di presenza e rimborsi chilometrici. Si scopre che consiglieri globetrotter sono stati capaci di firmare tremila
chilometri al mese. L’11 dicembre i primi indagati, fra i quali la stessa presidente Bresso per finanziamento illecito ai partiti. Il conto finale sarà drammatico: 56 indagati su 61, Cota compreso.
Sullo sfondo sempre la guerra del voto. Fra Tar, Consiglio di Stato e Cassazione si inserisce anche la Corte dei Conti che vorrebbe andare a controllare le spese indietro nel tempo, fino al 2003. Per l’assemblea di Palazzo Lascaris un incubo. A metà novembre la sentenza della Cassazione: l’alleato Michele Giovine è condannato per le firme false. Roberto Cota attacca i giornali: «Questa non è una notizia».

La Repubblica 11.01.14

"Smentita dal Mef la notizia del blocco delle assunzioni di sostegno", da Tuttoscuola

Bufala targata M5S quella che ha tenuto per un giorno con il fiato sospeso 4.447 docenti di sostegno, sindacati della scuola e ministero dell’istruzione. L’on. Luigi Gallo, grillino, aveva diffuso la notizia che il Ministero dell’Economia e la Ragioneria generale dello Stato non intendevano dare il via libera all’assunzione in ruolo della prima trance dei 26.684 docenti di sostegno da stabilizzare.

L’allarme era stato raccolto prontamente dai sindacati Gilda e Anief che, in particolare quest’ultimo, avevano espresso un severo giudizio sul governo.

Tuttoscuola aveva raccolto la notizia con qualche riserva e aveva riferito che i funzionari del Miur ignoravano la questione e si erano dichiarati increduli, anche perch é la stabilizzazione fermamente voluta dal ministro Carrozza nella sua legge dell’ istruzione riparte, aveva trovato la necessaria copertura finanziaria proprio grazie al Mef.

E proprio il MEF nel tardo pomeriggio di oggi, venerdì 10 gennaio, con un proprio comunicato, ha smentito la notizia, dichiarandola priva di qualsiasi fondamento.

Il comunicato di Via XX Settembre precisa che “ Il Ministero dell’Istruzione ha inviato al Ministero dell’Economia il decreto interministeriale Miur-Mef di rideterminazione delle dotazioni organiche dei posti di sostegno in data 19 dicembre 2013, insieme alla richiesta di autorizzazione all’assunzione del primo nucleo di insegnanti. Nei dieci giorni lavorativi successivi, inclusi quelli tra Natale, Capodanno ed Epifania, la Ragioneria Generale dello Stato ha effettuato le verifiche prescritte ed espresso parere positivo tanto sul decreto quanto sulla richiesta di assunzione, fatti salvi gli ulteriori adempimenti del Miur.

Nelle prossime ore il decreto, controfirmato dal Ministro Fabrizio Saccomanni, verrà restituito al Miur, mentre il parere favorevole all’assunzione verrà trasmesso agli uffici del Ministro per la Pubblica Amministrazione. Il Dipartimento della Funzione Pubblica predisporrà lo schema del Decreto del Presidente della Repubblica necessario per il completamento dell’iter di assunzione che potrà essere sottoposto quanto prima al Consiglio dei Ministri».

Tuttoscuola.it

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“Scuola, in sospeso l’assunzione di 27mila insegnanti di sostegno”, di Salvo Intravaia

Si profila un altro scontro tra Saccomanni e Carrozza dopo quello sulla restituzione degli scatti stipendiali, vinto dal ministro dell’Istruzione: si tratta della sull’assunzione di circa 27mila docenti di sostegno prevista dal decreto-scuola, di cui 4.447 per l’anno scolastico in corso. A denunciare la situazione è l’onorevole del M5S Luigi Gallo che attraverso un massaggio su Facebook accusa via XX settembre di non volere “firmare neanche la prima tranche di assunzioni di insegnanti di sostegno. Il motivo – spiega – è che la Ragioneria di stato e il ministero dell’Economia disconoscono i 26.684 docenti di sostegno di nuova costituzione previsti dal decreto”.

Una denuncia che adesso viene raccolta anche da Anief e Gilda. Il sindacato guidato da Marcello Pacifico parla di “bluff sui docenti di sostegno” puntando il dito contro il “Mef che si mette di traverso sulle assunzioni stabilite per legge”. “Sarebbe una vera beffa – continua il leader dell’Anief – perché il contingente era stato già dimezzato rispetto al reale fabbisogno. Evidentemente viene reputata troppo alta la spesa di 4 miliardi di euro l’anno per garantire la didattica ad oltre 220mila alunni, le cui Asl chiedono il docente specializzato”. “Ma che scuola è – si chiede pacifico – quella dove le logiche di risparmio prevalgono pure sui disabili, che così ogni anno continueranno a cambiare insegnante?”.

L’assunzione dei 27mila docenti di sostegno prevista dal decreto dello scorso settembre è in effetti una stabilizzazione, perché attualmente su oltre 110mila docenti specializzati che seguono i portatori di handicap soltanto 63mila sono a tempo indeterminato. La restante parte, circa 47mila insegnanti vengo reclutati ogni anno dalle liste dei precari. E vengono quindi pagati ugualmente. Non si tratta di assunzioni ex novo, insomma. L’effetto della stabilizzazione è quello di garantire la continuità didattica ad una grossa fetta degli alunni più deboli della scuola: i disabili. Anche la Gilda degli insegnanti insorge contro lo stop di Saccomanni alla richiesta inviata da viale Trastevere, ancora disattesa.

“Dopo gli scatti automatici le indennità al personale Ata e ai dirigenti scolastici – conclude Pacifico – anche le immissioni in ruolo dei docenti di sostegno rischiano di trasformarsi in una telenovela”. La vicenda degli scatti – che 90mila lavoratori della scuola avrebbero dovuto restituire, dopo averli percepiti, con minirate da 150 euro al mese prelevate direttamente dallo stipendio – harichiesto l’intervento del premier Enrico Letta che ha affrontato il difficile punto nel Consiglio dei ministri di due giorni fa.

E adesso? Sull’organico di sostegno starebbe lavorando – per “armonizzarlo” – anche il commissario Carlo Cottarelli, nominato da Letta per la revisione della spesa pubblica: la cosiddetta Spending review. Forse per questa ragione Saccomanni temporeggia sulla firma del decreto di assunzione dei 27mila docenti di sostegno.

da repubblica.it di ieri 10.01.2014