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«Sulla strage di piazza Fontana non si smetta di cercare la verità», di Luigi Ferrarella

«Chi è nato dopo il 12 dicembre 1969 non sa praticamente niente della strage di piazza Fontana, e i meno giovani hanno la tendenza a dimenticare o a ritenere che sia qualcosa che appartiene solo al passato. Invece — avverte il professor Carlo Smuraglia, ex senatore, ex Csm, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia — tenere viva la memoria di cosa questa strage abbia significato nella vita del Paese è un compito che sarà sempre attuale finché non avremo raggiunto, se non la giustizia, almeno la verità sulla strage. Ogni anno noi abbiamo questo dovere».
«Noi» chi?
«I mezzi di informazione, per cominciare. Poi soprattutto la scuola, per evitare che accada che alla domanda su piazza Fontana capiti di ascoltare dai ragazzi le risposte più astruse. E le istituzioni, che devono sottrarre all’oblio la memoria viva di fatti di questa gravità, anche per garantire che lo Stato venga sottratto a rinnovati rischi antidemocratici che può correre in taluni frangenti».
Altrimenti?
«Altrimenti resta una cosa giusta ma non basta il semplice ricordo: portare la corona di fiori o fare la manifestazione e il corteo sono iniziative preziose, che vanno però accompagnate da qualcosa che attualizzi la memoria della madre di tutte le stragi».
È stata appena archiviata l’ultima indagine, che ha escluso la fondatezza di taluni spunti (come la teoria della doppia bomba) molto gettonati nella pubblicistica. È come se si dimenticasse sempre che in realtà una verità processuale, pur nel travaglio di tanti filoni, esiste già.
«Almeno in Cassazione, seppure non si è potuti giungere (anche per tutta una serie di questioni giuridiche) a condanne di responsabilità individuali, i giudici hanno affermato che la matrice fascista della strage è inequivocabile. Ma nel corso dei processi sono emersi anche tanti comportamenti di parti dello Stato che si collocarono, se facessimo riferimento al confronto tra “guardie e ladri”, dalla parte non certo delle guardie: spostamenti di competenze che complicarono gli accertamenti, depistaggi, atteggiamenti di questori e persino ministri per orientare le indagini verso piste infondate, e poi l’intero caso Pinelli… E tutto questo va tenuto vivo, in maniera tutt’altro che retorica ma attualizzata, anche con elementi nuovi provenienti magari in futuro da studi e ricerche».
Tocca un nervo scoperto: è ormai dagli storici o è ancora dai magistrati che ci si deve aspettare qualche ulteriore frammento di verità? L’ex giudice istruttore Salvini da tempo accusa i pm milanesi di «non aver fatto» o di «aver fatto poco e con la mano sinistra». Ma la recente minuziosa archiviazione del giudice D’Arcangelo documenta che gli strumenti giudiziari hanno ormai setacciato tutto il possibile.
«Non voglio entrare nel merito di queste polemiche. Dico però che è importante attualizzare il ricordo e scavare sempre perché non c’è mai un momento in cui si possa dire la parola “fine” alla ricerca della verità. Con l’aiuto di tutti quelli che hanno buona volontà potranno magari emergere anche fatti nuovi o elementi per rivalutare quelli vecchi».

Il corriere della Sera 11.12.13

«Madiba ci ha insegnato cosa significhi dignità e giustizia», di Umberto De Giovannangeli

«Per la sua lotta contro ogni forma di sfruttamento, per essere stato ogni giorno della sua vita dalla parte dei più deboli, degli esclusi, Nelson Mandela è stato un punto di riferimento, una inesauribile fonte di speranza e di coraggio per i popoli oppressi dell’America latina». Ad affermarlo è Rigoberta Menchù Tum, 54 anni, pacifista guatemalteca, premio Nobel per la Pace 1992, assegnatole «in riconoscimento dei suoi sforzi per la giustizia sociale e la riconciliazione». Giustizia e riconciliazione: valori che, rimarca la Nobel, «hanno accompagnato “Madiba” per tutta la sua lunga, straordinaria vita».

I grandi della Terra hanno dato ieri l’ultimo saluto a Nelson Mandela. Cosa ha rappresentato Mandela per le lotte di liberazione dei popoli latinoamericani?

«Ha rappresentato uno straordinario punto di riferimento, un moltiplicatore di coraggio e di speranza. Nelson Mandela è stato un leader che ha saputo dare voce ai tanti a cui veniva impedito. “Madiba” non ha lottato solo contro l’odiosa discriminazione razziale, ma si è sempre speso, con intelligenza, determinazione e generosità, contro tutte le forme di apartheid che segnano quella gran parte del mondo in cui la giustizia non è di casa. I popoli dell’America latina hanno conosciuto sulla loro pelle le varie forme di apartheid…».

A cosa si riferisce in particolare?

«Alle popolazioni indigene espropriate dei loro territori da regimi corrotti e dispotici al servizio delle grandi multinazionali; lo sfruttamento brutale del lavoro minorile… Mandela ha lottato contro queste pratiche di sfruttamento, contro questo saccheggio di ricchezze e di libertà, tanto quanto si è battuto contro il razzismo, comunque mascherato. Per i po- poli latinoamericani, Mandela ha rap- presentato un eroe vero, un simbolo che è entrato nell’immaginario collettivo di milioni e milioni di persone, come in pochi sono riusciti a fare. Per molti di noi è stato un modello, un punto di riferimento prezioso perché ci ha mostrato come lottare contro il razzismo e il neocolonialismo. “Madiba” ci ha dimostrato che vi sono degli uomini che non hanno un momento della propria vita, anche se sono incarcerati per 27 anni, anche se sono perseguitati per le loro idee».

Cosa ha provato all’annuncio che «Madiba» era morto?
«Grande tristezza, certamente, ma una tristezza in parte mitigata dal pensiero che nessuno ha potuto sconfiggerlo in vita. Nelson Mandela vivrà per sempre per le sue lotte».

Qual è stato, a sua avviso, il tratto distintivo della leadership di Nelson Mandela? «La sua leadership è stata improntata alla pazienza e alla tolleranza. Mandel non ha mai fatto la vittima ma è sempre stato un protagonista: si è sempre impegnato per favorire la riconciliazione, il dialogo, e per raggiungere la pace. Una pace non di facciata ma densa di contenuti sociali. E per questo, una pace vera. Mandela è stato un leader inclusivo, che ha fatto della riconciliazione un faro della sua azione politica. Ed è riuscito a farlo perché forte delle idee, dei principi che lo hanno ispirato».

Barack Obama ha ricordato Nelson Mandela come «l’ultimo grande liberatore del XX secolo».
«Mandela è stato questo ma anche di più. Perché non ha liberato solo il suo popolo da uno dei più odiosi regimi, quello dell’apartheid. Mandela ha indicato ad altri popoli le vie della liberazione da praticare. In questo, è stato il più grande leader globale che il mondo ha conosciuto e amato. E lo ha fatto con la forza delle idee che ha praticato e non certo con le armate che non ha mai posseduto. Mandela è stato un combattente per le libertà, ma un combattente che non ha mai preteso di imporre un suo modello ideologico, una sua visione politica. Sta anche in questa la sua inarrivabile grandezza. E per questo la sua lotta resterà impressa nella nostra memoria collettiva. Mandela è stato un sognatore che ha saputo realizzare il sogno della sua vita: liberare la sua gente dalle catene dell’apartheid».

Anche lei è una «sognatrice»…

«Il “sogno” che i popoli indigeni non debbano essere più considerati manodopera a basso costo, oggetti di studio, nativi da catechizzare, soldati costretti ad assassinare la propria gente, cittadini di seconda classe. Non sono padrona della mia vita, e ho deciso di offrirla per una causa. Mi possono ammazzare in qualsiasi momento, purché sia a causa di qualcosa per cui so che il mio sangue non sarà inutile, ma sarà anzi di esempio per gli altri. La mia causa ha le radici nella miseria in cui vive il mio popolo. Nelson Mandela mi è stato buon insegnante».

L’Unità 11.12.13

“Cnel, Italia in notevole ritardo nella scuola; abbandoni in aumento”, da Tuttoscuola

I dati presentati nella relazione annuale del Cnel sull’efficienza della Pubblica amministrazione evidenziano complessivamente dei “notevoli ritardi del nostro Paese rispetto a quelli industrializzati o europei in tutti gli indicatori esaminati” che riguardano il sistema scolastico. Tali ritardi persistono soprattutto nelle aree italiane più svantaggiate, prevalentemente concentrate nel Mezzogiorno e nelle isole.

Considerando la spesa pubblica in istruzione in percentuale sul totale della spesa pubblica, l’Italia si classifica addirittura all’ultimo posto tra i Paesi Ocse, attestandosi mediamente al di sotto del 10% nel decennio 2000-2010. L’abbandono precoce degli studi “costituisce una seria minaccia al benessere individuale e sociale”, come dimostrano numerosi studi in questo campo. Per quanto concerne il confronto internazionale, l’Italia è nel gruppo di Paesi Ocse che presenta un’alta percentuale di giovani Neet (non occupati o impegnati in percorsi formativi), superiore al 10% nel 2011, e questo dato è peggiorato di 1,8 punti percentuali rispetto al 2008.

Con oltre il 18% di giovani in condizioni di abbandono scolastico e con un basso titolo di studio, l’Italia è quartultima tra i Paesi europei nel 2011.

Il fenomeno abbandoni pare riguardare quasi tutta Italia, con una minore accentuazione nelle regioni centrali e nella provincia di Trento. La porzione di popolazione di 15enni al di sotto del livello 3 in lettura è molto consistente in Italia in tutti i cicli Pisa (ben al di sopra del 40%), ed è sistematicamente maggiore della media Ocse. Anche per la matematica, i risultati non sono confortanti: gli studenti italiani al di sotto del livello 3 sono all’incirca il 50% nel 2009. Il Sud e le Isole registrano punteggi sistematicamente inferiori alla media nazionale, già a partire dalla scuola primaria. Tali divari si amplificano al crescere del livello scolastico. Questi andamenti sono confermati anche dalle rilevazioni annuali Invalsi sugli apprendimenti degli studenti dei diversi ordini scolastici.

“Programma annuale, è il solito rebus”, di Reginaldo Palermo

Per il Programma Annuale siamo alle solite: le disposizioni in vigore, contenute nel DI 44/2001, prevedono che le istituzioni scolastiche debbano approvarlo entro il 15 dicembre, ma è da sempre che questa scadenza non viene rispettata soprattutto perché entro quella data il Ministero non è mai riuscito a comunicare alle scuole l’entità delle risorse disponibili per la redazione del documento contabile.
E’ vero che le scuole potrebbero (e forse dovrebbero) approvare comunque il Programma facendo riferimento al solo avanzo di amministrazione (peraltro presunto, visto che a metà dicembre non si può neppure conoscere l’avanzo definitivo) ma è del tutto evidente che una simile procedura comporterebbe solo lavoro aggiuntivo pergli uffici e per gli stessi organici collegiali(giunta esecutiva e consiglio di istituto).
Sta di fatto che a anche quest’anno la “regola” del rinvio sarà rigorosamente rispettata e quindi le scuole potranno adottare il Programma annuale entro il 15 febbraio.
Dopo quella data il dirigente scolastico dovrebbe comunicare la situazione all’USR che, a sua volta, dovrebbe designare un commissario ad acta.
Ma, negli ultimi anni, ci sono state deroghe anche su questa scadenza perentoria e in più di un caso le scuole hanno approvato il Programma anche nel mese di marzo e oltre.
Il punto è che molto spesso le risorse disponibili per le scuole sono legate o a stanziamenti previsti nella legge finanziaria (ora detta di stabilità) o ad altri atti previsti da norme di legge o contrattuale.
Per esempio l’entità dei (pochi) fondi ancora legati alla legge 440/97 sull’ampliamento dell’offerta formativa si conosce quasi sempre nelle ultime settimane dell’anno mentre i fondi contrattuali vengono definiti in accordo fra Ministero e sindacati.
Peraltro quest’anno si sta verificando un ritardo poco comprensibile perché il Ministero sta legando la nota sul Programma 2014 alla definizione delle risorse del FIS e MOF, che però nulla hanno a che vedere con il documento contabile in quanto non sono più gestite all’interno del bilancio della scuola ma transitano esclusivamente attraverso il cosiddetto “cedolino unico”.
Resta poi sempre irrisolto il gravissimo problema dei residui attivi delle scuole e cioè dei crediti che esse vantano nei confronti del Ministero (si parla di circa un miliardo di euro). Ogni volta che i sindacati chiedono di affrontare l’argomento l’Amministrazione propone un ennesimo monitoraggio che senza però provvedere a restituire alle scuole le somme anticipate negli anni per il pagamento di compensi dovuti al personale.
C’è comunque attesa sulla nota ministeriale perché molti sono curiosi di sapere se la “promessa” del ministro Carrozza di aumentare le risorse destinate alle spese di funzionamento verrà mantenuta o meno. Attualmente per questa voce le scuole ricevono mediamente 8 euro per alunno, il Ministro aveva annunciato che la somma andrebbe almeno triplicata. Poi, resasi conto della impossibilità di raggiungere questo obiettivo, ha parlato di un aumento del 15-20%. Vedremo se ci sarà almeno questo.

La Tecnica della Scuola 11.12.13

“Quella strana alleanza tra il comico e il Cavaliere”, di Alberto D’Argenio e Carmelo Lo Papa

La temìntazione incendiaria. E dell’abbraccio finale con Grillo. «È la volta buona che mettiamo Letta e Alfano spalle al muro, dobbiamo schierarci con quei disperati che li vogliono tutti a casa». È la svolta nella strategia di Berlusconi. Versare altra benzina e soffiare sul braciere, cavalcare la protesta, anzi di più. Il leader di Forza Italia non vuole cedere soprattutto a Grillo la copertura politica di quanto si sta muovendo nella pancia del Paese, dal Piemonte alla Sicilia. Il dossier lo ha studiato per bene. Ha voluto sapere tutto di loro, dei Forconi, dei loro leaderini, degli agricoltori in rivolta, delle sigle dei disoccupati e di chi anima la protesta dai toni sempre più minacciosi. Quindi, nelle ultime 48 ore — questa la svolta — ha cercato un contatto diretto proprio con Beppe Grillo. Per stringere Palazzo Chigi in un abbraccio asfissiante.
Se il leader del Movimento cinque stelle è già venuto allo scoperto sul suo blog, fino all’appello senza precedenti rivolto a poliziotti e militari, il Cavaliere fino a ieri sera ha preferito muoversi sotto traccia, lavorando da Arcore, prima di raggiungere Roma solo in serata. Ma le conclusioni sono già tratte: «Alfano e Lupi lavorano per reprimere la rivolta, noi dobbiamo ascoltare cosa ha da dire questo movimento, quanto meno la sua ala presentabile ». Marcare la distanza dai governativi, fare opposizione fuori dal Palazzo, insomma. È il leader sempre più extraparlamentare.
Il ponte per tentare un approccio con l’ex comico è il professore Paolo Becchi, ideologo dei Cinque stelle, docente all’Università di Genova, ricevuto proprio a Villa San Martino non più tardi di due settimane fa. «Io e Grillo vogliamo la stessa cosa, far cadere questo governo» erano state le parole col quale il padrone di casa ha corteggiato l’insolito ospite. Lasciando balenare in quell’occasione anche la possibilità che Forza Italia sostenga l’impeachment nei confronti del presidente Napolitano. E Becchi si sarebbe in effetti mosso per accendere un link tra i due leader, anche se non sembra che Grillo finora abbia abboccato. Intanto, Berlusconi continua a lanciare segnali. Come la convocazione dei rappresentanti degli autotrasportatori oggi pomeriggio nella sede del partito. Sortita sulla quale non poco ascendente sembra abbia avuto Daniela Santanché, convinta più di altri, tra i falchi interni, che occorra montare senza indugi sulla protesta. Ancora, l’ex premier sta sondando anche altre carte per completare la manovra di avvicinamento al guru del M5s. Al lavoro sarebbero anche un paio di figure di spicco del mondo Mediaset, vecchie conoscenze del Grillo uomo di tv e spettacoli.
Tutto un movimento che il governo osserva non senza apprensione. Enrico Letta ha appena varcato la soglia dell’ambasciata italiana di Pretoria quando gli consegnano il foglietto con le agenzie che riportano l’appello di Grillo alle forze dell’ordine e all’esercito. Passare dai funerali di Mandela a Johannesburg al quasi incitamento alla diserzione del leader cinquestelle per il presidente del Consiglio è uno choc. «Grillo e chi strumentalizza le proteste, chi cavalca i forconi è un vero irresponsabile. Chi va manifesta va sempre ascoltato, ma sul rispetto della legalità non si transige», è la reazione a caldo del premier. Che si attacca al telefono e si mette in contatto con Roma. Parla con il ministro dell’interno Angelino Alfano e con quello della Difesa Mario Mauro. Si decide che Letta dedicherà un passaggio molto duro del suo discorso di oggi sulla fiducia proprio per stigmatizzare chi per tornaconto politico soffia sul fuoco. E non vale solo per il leader pentastellato. E nel governo c’è anche timore che la protesta dei forconi dilatata dalla politica possa avere ripercussioni sulla crescita che solo inizia ad affacciarsi sul Paese schiacciato dalla crisi: «Sono toni che non aiutano l’Italia a ritrovare fiducia — ragiona un ministro — e la fiducia oggi è la merce più rara e preziosa».
«Grillo sta facendo un salto di qualità — ragiona Mauro dopo avere parlato con Letta — sta passando dal terreno delle polemica politica, per quanto hard e animosa nei confronti delle istituzioni, ad affermazioni che hanno dell’eversivo». E ancora, per il titolare della Difesa «se il senso della presenza dei grillini in Parlamento era proprio quello di dare maggiore partecipazione al dissenso, ora ci ritroviamo all’anticamera degli anni Settanta. Questa volta è il caso di dirlo, chi semina vento raccoglie tempesta. E anche Berlusconi sta scivolando verso derive pericolose». Un ragionamento che si inquadra con lo svelarsi della nuova strategia d’attacco di un Berlusconi che, benché decaduto, non molla la presa e gioca senza riserve la sua campagna elettorale anzitempo.
Un occhio all’opposizione dentro e fuori il Parlamento, un altro al partito, per il leader di Forza Italia. Le acque interne restano agitate. Troppi mugugni tra i big che temono il repulisti a vantaggio dei club e dei giovani lanciati domenica. Ed ecco allora che oggi a Palazzo Grazioli è in agenda una processione di dirigenti. Per tutti gli ex ministri e i personaggi di primo piano è pronta una nomina nel Comitato di presidenza di una trentina di nomi (forse 36 addirittura). Ma un solo presidente, un uomo solo al comando.

La Repubblica 11.12.13

“Il mio Madiba, Lincoln dell’Africa”, di Barack Obama

È difficile fare l’elogio di qualsiasi uomo, racchiudere nelle parole non soltanto i fatti e le date che ne hanno segnato la vita, ma la verità fondamentale e intima di quella persona.Le sue gioie profonde e i suoi dolori; i momenti di pace e le qualità che ne hanno illuminato l’anima. Quanto maggiormente è difficile farlo nel caso di un gigante della storia, che ha messo una nazione intera in marcia verso la giustizia e così facendo ha messo in marcia miliardi di persone in tutto il mondo!
Nato durante la Prima guerra mondiale, molto lontano dai corridoi del potere, dopo un’infanzia trascorsa a fare il pastore di bestiame e a imparare dagli anziani della sua tribù Thembu, Madiba sarebbe emerso come l’ultimo grande liberatore del XX secolo. Come Gandhi, egli avrebbe guidato un movimento di resistenza, un movimento che agli esordi aveva ben poche prospettive di successo. Come King, egli avrebbe dato voce forte e potente alle richieste degli oppressi e alla necessità morale di giustizia razziale. Avrebbe affrontato una prigionia disumana, iniziata all’epoca di Kennedy e Krusciov e conclusasi nel periodo finale della Guerra Fredda. Uscendo dalla prigione, senza la forza delle armi, al pari di Lincoln avrebbe unificato il Paese proprio mentre esso rischiava di lacerarsi.
Tenuto conto della sua incredibile vita e dell’adorazione che si è guadagnato così meritatamente, si sarebbe tentati di ricordare Nelson Mandela come un’icona, sorridente e serena, distaccata dalle occupazioni ordinarie di uomini comuni. Ma Madiba stesso si è sempre opposto strenuamente a questo ritratto senza vita. Al contrario, egli ha sempre insistito per condividere con noi i suoi dubbi e i suoi timori; i suoi errori di valutazione insieme alle sue vittorie. «Non sono un santo — diceva — a meno che non si pensi che un santo è un peccatore che continua a mettersi alla prova».
È proprio perché egli riusciva ad ammettere di non essere perfetto — e perché sapeva essere così pieno di buonumore, addirittura di furbizia, malgrado il pesante fardello che trasportava — che noi lo abbiamo amato. Non era un busto di marmo. Era un uomo fatto di carne e di sangue, un figlio e un marito, un padre e un amico. Ecco perché abbiamo appreso così tante cose da lui. Ecco perché possiamo apprenderne ancora molte altre da lui. Perché niente di ciò che egli è riuscito a raggiungere era scontato. Nell’arco della sua vita abbiamo visto un uomo guadagnarsi un posto nella storia lottando, con avvedutezza, persistenza e fede. Egli ci dice che cosa è possibile non soltanto nelle pagine di polverosi libri di storia, ma anche nelle nostre stesse vite.
Mandela ci ha insegnato il potere dell’azione, ma anche delle idee; l’importanza della ragione e delle giuste argomentazioni; la necessit à di studiare non soltanto coloro con i quali vai d’accordo, ma anche coloro con i quali non vai d’accordo. Mandela ha capito che le idee non possono essere imprigionate tra le mura di un carcere, né messe a tacere dalla pallottola di un cecchino. Egli ha trasformato il suo processo nella denuncia dell’apartheid grazie alla sua eloquenza e alla sua passione, ma anche grazie ai suoi studi e alla sua formazione di avvocato. Ha trascorso i decenni passati in prigione a rendere più affilati i suoi ragionamenti, ma anche a diffondere la sua sete di sapere agli altri del movimento. E ha appreso la lingua e le usanze dei suoi oppressori, così da poter riuscire meglio un giorno a comunicare loro in che modo la loro libert à dipendesse dalla sua.
Infine, Mandela ha compreso lo spirito umano e come esso sia legato a quello di tutti. C’è una parola in Sudafrica, Ubuntu, che descrive e condensa questo suo immenso dono: egli ha saputo vedere che siamo tutti legati gli uni agli altri in modi invisibili e che sfuggono allo sguardo; che esiste unione nel genere umano; che possiamo conseguire il nostro pieno successo condividendolo con gli altri e prendendoci cura di chi abbiamo attorno. Non possiamo sapere quanto di ciò fosse già innato in lui, o quanto si sia plasmato e forgiato nella sua buia cella solitaria. Ma ne ricordiamo i gesti, piccoli e grandi, come presentare i suoi carcerieri come ospiti d’onore alla sua cerimonia di insediamento come presidente; scendere in campo indossando l’uniforme degli Springbok; aver trasformato una tragedia della sua famiglia nell’invito a lottare contro l’Hiv/Aids. Questi suoi gesti piccoli e grandi hanno svelato tutta la sua profonda empatia e comprensione. Egli non soltanto ha incarnato l’Ubuntu, il senso di umanità. Ha insegnato a milioni di persone a trovare dentro di sé quella stessa verità. C’è stato bisogno di un uomo come Madiba per liberare non soltanto il carcerato, ma anche il carceriere; per dimostrare che ci si deve fidare degli altri così che gli altri si fidino di te; per insegnare che riconciliarsi non significa ignorare un passato crudele, ma che riconciliarsi è un mezzo per opporre a quel crudele passato l’inclusione, la generosità e la verità. Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori.
Per il popolo sudafricano, per coloro che egli ha ispirato in tutto il pianeta, il trapasso di Madiba è giustamente motivo di lutto, e occasione per celebrarne la vita eroica, ma io credo che la sua morte debba anche invogliare ciascuno di noi a un’autoriflessione. Con onestà, e indipendentemente dalla nostra posizione o dalle circostanze della nostra vita, dobbiamo chiederci: quanto bene ho applicato queste lezioni nella mia stessa vita?
Questa è una domanda che io rivolgo a me stesso, come uomo e come presidente. Sappiamo che come il Sudafrica anche gli Stati Uniti hanno dovuto superare secoli di oppressione razziale. Come è stato vero qui, ci sono voluti i sacrifici di un numero incalcolabile di persone, note e ignote, per vedere l’alba di un giorno nuovo. Michelle e io abbiamo beneficiato di quella lotta. Ma in America e in Sudafrica, e in molti Paesi di tutto il pianeta, non possiamo permettere che il progresso oscuri il fatto che il nostro compito non può dirsi concluso. Le lotte che puntano alla vittoria dell’eguaglianza e al suffragio universale possono non essere caratterizzate da quella stessa drammaticità e limpidezza morale di quelle combattute in precedenza, ma non per questo sono meno importanti. Perché ancora oggi in tutto il mondo vediamo bambini patire la fame e soffrire per le malattie, vediamo scuole fatiscenti e scarse prospettive per il futuro. Ancora oggi in tutto il mondo uomini e donne sono messi in prigione per le loro idee politiche e sono perseguitati per il loro aspetto fisico, per la loro pratica devozionale, per la persona che amano.
Anche noi dobbiamo agire per il bene della giustizia. Anche noi dobbiamo agire perché la pace prevalga. Troppi di noi sono pronti ad abbracciare con gioia l’eredità di Madiba della riconciliazione razziale ma oppongono una strenua resistenza a riforme anche modeste che potrebbero porre fine alla povertà cronica e alle crescenti ineguaglianze. Ci sono troppi leader che si dichiarano solidali con la lotta di Madiba per la libertà, ma che non tollerano il dissenso dei loro stessi popoli. E ci sono troppi di noi che ancora restano in disparte, comodamente compiacenti o cinici quando dovrebbero far ascoltare la loro voce.
Non esistono facili soluzioni per i problemi con i quali siamo alle prese oggi: come promuovere l’eguaglianza e la giustizia, come affermare la libertà e i diritti umani; come porre fine ai conflitti e alle guerre settarie. Ma neppure per quel bambino di Qunu c’erano facili risposte.
Nelson Mandela ci rammenta che ogni cosa può sembrare impossibile finché non la si realizza. Il Sudafrica ci dimostra che questa è la verità. Il Sudafrica ci mostra che possiamo cambiare.
Non vedremo mai altri Nelson Mandela. Ma permettetemi di dire ai giovani africani e ai giovani di tutto il mondo che voi potete fare vostre le lotte e le conquiste della sua vita. Oltre trenta anni fa, quando ero ancora uno studente, appresi chi era Madiba e quali fossero i conflitti della sua terra. Conoscerlo scosse qualcosa dentro di me, nel profondo. Mi risvegliò e mi mise in grado di far fronte alle mie responsabilità nei confronti degli altri e di me stesso, e mi avviò lungo la strada che mi avrebbe portato dove mi trovo oggi. Se da un lato so che non riuscirò a eguagliare l’esempio di Madiba, dall’altro so che egli vuole che io voglia migliorare. Egli fa appello a ciò che di meglio c’è dentro di noi. Quando questo grande liberatore sarà sepolto per riposare in pace; quando saremo ritornati nelle nostre città e nei nostri villaggi e avremo ripreso le nostre routine quotidiane, proviamo a cercare dentro di noi, nel profondo di noi stessi, la sua grande forza, la sua grandezza d’animo. E quando la notte si farà scura, quando l’ingiustizia renderà pesante i nostri cuori, o quando i nostri piani ben delineati ci sembreranno irraggiungibili, pensiamo a Madiba, pensiamo alle parole che nelle quattro mura della sua cella gli arrecarono tanto conforto: »Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanto piena di castighi la vita: io sono il padrone del mio destino; io sono il capitano della mia anima».
(Traduzione di Anna Bissanti)

la Repubblica 11.12.13

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Stretta di mano tra Barack e Castro Jr. ecco l’ultimo miracolo di Madiba. Il saluto allo stadio tra i due “nemici” è un segnale di disgelo, di VITTORIO ZUCCONI

CON quel suo sorrisetto un po’ ironico, gentile e diffidente. Lungo le mani dell’Uomo passa la corrente della storia e fa cadere muri che sembravano infrangibili, rende possibile quello che fino a ieri era inconcepibile e scavalca rancori, anche in una stretta di mano, come quella che proprio Madiba Nelson Mandela offrì nel maggio del 1990 a F. W. DeKlerk, all’ultimo pretoriano all’Apartheid, sotto lo sguardo estatico e sbigottito dei bianchi e dei neri.
E’ stato l’ultimo successo di Mandela. Ma ciò che lui avrebbe subito spiegato ai due uomini, a Obama e a Castro Jr, è che il gesto di pace, il segnale che da migliaia di anni offre la mano nuda alla mano nuda del nemico per mostrarla disarmata, vale soltanto come l’intenzione di chi la allunga e la stringe. Nella storia essa è servita tanto a nascondere quanto a rivelare, a ingannare quanto a confessare. Tra le mani intrecciate di Hitler e Neville Chamberlain a Monaco 1938, come fra quelle, addirittura a tre, fra Stalin, Churchill e Truman nella Potsdam del 1945, correva già il veleno delle cattive intenzioni. O delle cattive conseguenze, come la stretta di mano nel 1977 fra Jimmy Carter e uno Scià Palhavi che gi à la Casa Bianca sapeva essere in agonia politica e si preparava a scaricare.
Eppure c’è un segnale antico, e irresistibile per noi “civili”, nell’immagine di un gesto che da urne funerarie greche di secoli avanti Cristo ci manda speranze di quella pace che si vorrebbe raggiungere in vita, prima che in morte, e non si ottiene mai del tutto. E se le mani che brevemente si intrecciano appartengono a nemici fino a quel momento mortali, metaforicamente e letteralmente, ancora più intenso è il desiderio di credere alla loro sincerità. In pochi centimetri, Richard Nixon, il falco irriducibile della “caccia ai Rossi”, colmò distanze di continenti ideologici e di cimiteri di guerra in Corea, stringendo la mano del detestato Mao Zedong nel 1972, garantendo quel mezzo secolo di pace fra i due colossi che ancora, barcollando, regge. E sotto le mani di Ulysses Grant, generale vittorioso del Nord, e Robert E Lee, generale sconfitto del Sud, scorreva nel 1865, invisibile ma possente, il fiume del sangue dei 600 mila morti che la loro guerra civile aveva fatto sgorgare.
Si può soltanto sperare, allora, che la stretta chiuda un passaggio e ne apra un altro, che non sia soltanto un trucco di prestidigitazione nel quale i due illusionisti si ritrovano, dopo la cerimonia, uno con il portafoglio e l’anello dell’altro, sfilato nella manipolazione. Il lunghissimo momento di sospensione del tempo che vedemmo a Camp David, millimetro dopo millimetro di esitazione, allacciare le dita di Ytzak Rabin e di Yasser Arafat preparò il martirio del premier israeliano senza davvero produrre pace nella dignità per i palestinesi, esattamente come la stretta di mano fra Menachem Begin e Anwar Sadat sigillò la pace fra Israele ed Egitto, buona cosa, ma firm ò la condanna a morte di Sadat, pessimo esito. Eppure nulla di meglio fu da allora raggiunto, e quel poco di bene fu sigillato fra le dita di quegli uomini. O di donne, come la manina guantata che la regina Elisabetta graziosamente offrì all’irlandese Martin McGuiness, per segnare la fine della guerriglia e della repressione che
i leali soldati di Sua Maestà avevano inflitto ai ribelli dell’IRA.
C’è sempre, anche nella stretta più sincera, un retrogusto di ipocrisia, un fondo di pensieri non detti e di riserve, in quei gesti, che non guardiamo con la speranza che esprimano davvero svolte nel corso della storia. Ci possono essere effetti paradossali, come nel primo “handshake”, nella prima stretta fra un presidente americano e un leader sovietico, Kennedy e Krusciov, nella Vienna del 1961, quando Jfk pretese di accogliere l’ucraino restando sul gradino più alto, in un atteggiamento di condiscendenza che irritò molto l’uomo del Cremlino. E lo convinse che Kennedy fosse un peso leggero, un giovanotto impreparato, che non avrebbe reagito all’invio di missili a testata nucleare a Cuba.
Le strette di mano funzionano oltre la simbologia se arrivano alla conclusione, o nel processo, di un reciproco ravvedimento o almeno della reciproca accettazione.
Reagan, il crociato contro l’Impero del Male strinse la mano di Gorbaciov nella Ginevra del 1985 e da quello si capì che tutto era cambiato, e sarebbe cambiato ancor più velocemente, dopo che i due uomini avevano riconosciuto, se non le ragioni, almeno l’umanità comune di un avversario sempre descritto come una caricatura da cartoon ideologico.
E tra Cuba e gli Stati Uniti, che già avevano visto una prima stretta di mano fra Clinton e Castro Sr, Fidel, l’incontro sulla bara di Mandela avviene mentre tutto l’apparato del “bloqueo”, dell’embargo, del boicottaggio, si sta sbriciolando come le mura di una fortezza inutile e anacronistica, ormai puntellata soltanto dal morente fanatismo dei vecchi “boia chi molla” tra la Florida e l’Avana. La loro, al funerale di Mandela, è una di quelle strette di mano che improvvisamente fanno chiedere ai protagonisti: ma perché tu e io siamo ancora nemici? Ma perché abbiamo sprecato tanto tempo e tanto odio? Esattamente come avrebbe detto Mandela.

La Repubblica 11.12.13

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Gospel, vip e presidenti per l’addio a Mandela “Un gigante della Storia” di PIETRO VERONESE
E così, per la terza, l’ultima, volta, lo spirito di Nelson Mandela ha riempito il grande stadio alle porte di Soweto, ha attirato a sé come un magnete decine di migliaia di persone venute da ogni parte del mondo, riunite al richiamo del suo nome. La prima fu all’indomani della sua liberazione, quando tutti vennero a vedere che era proprio vero, Mandela era tornato, e lui proclamò: «Noi ci opponiamo al dominio dei bianchi, così come ci opponiamo al dominio dei neri». La seconda fu il suo addio alla scena pubblica, l’ultima sera dei Mondiali di calcio, luglio 2010, abbracciato da un’ovazione planetaria. Ieri infine, in questo dicembre di nebbia e di pioggia, lo FNB Stadium è risuonato del suo nome proclamato dalle gradinate e dal podio, da Barack Obama, di gran lunga l’oratore più applaudito, dal segretario generale delle Nazioni Unite, dai nipoti, da presidenti, dignitari, vescovi e cori gospel. Nelson Mandela, questo «gigante della Storia », «l’ultimo grande liberatore del XX secolo» come lo ha definito Obama, è morto, un altro capitolo, un altro Sudafrica comincia.
Si stava appena levando un’alba grigia e bagnata e già la gente cominciava ad affluire nel grande anello, occupandolo dall’alto — dove la copertura proteggeva dalla pioggia — verso il basso. Soltanto molte ore dopo si sono fatte strada le prime delegazioni, un centinaio di capi di Stato e di governo, un vero vertice mondiale, praticamente l’intera Africa salvo poche eccezioni, e poi l’America Latina dall’Argentina al Brasile al Venezuela, Cuba, l’India, la Cina e un’infinita di Paesi dell’Oriente Estremo e Medio, Afghanistan compreso, David Cameron, Hollande e con loro mezza Europa, sovrani, principi e principesse, alti prelati, gli “ex” più famosi da Kofi Annan a Clinton a Blair, e poi Bono Vox, Charlize Theron, Naomi Campbell con la mamma. Per l’Italia il presidente del Consiglio Letta («la figura di Mandela è una lezione di unità per l’Europa») e la presidente della Camera Boldrini («ha trasformato la rabbia e l’odio in qualcosa di costruttivo»).
E intanto lo stadio si andava riempiendo e colorando e risuonava di canti, balli, grida, marce, slogan. La famiglia in gramaglie formava una vasta macchia nera nella tribuna speciale che le era stata assegnata, la vedova Graça una statua di pietra, unico segno di vita il lungo abbraccio con la seconda moglie di Mandela, Winnie. Un crescendo di arrivi e di folla, culminato nell’inno nazionale, uno dei pi ù belli e solenni che il mondo abbia mai udito e che non manca mai il suo effetto.
Ma poi qualcosa è andato storto. Quando il presidente sudafricano Jacob Zuma è salito sulla tribuna d’onore, è stato accolto da una salva di fischi e di «buuuh».
Ogni volta che il suo nome veniva citato da un oratore, la cosa si è ripetuta sempre più forte, sempre più inequivocabile e imbarazzante davanti agli ospiti stranieri. Per lunghi tratti le parole degli oratori sono andate perdute in un frastuono di canti e di balli: la folla andava per conto suo. Più volte il maestro delle cerimonie, il vicepresidente dell’ANC Cyril Ramaphosa, ha richiamato lo stadio all’ordine e alla fine l’arcivescovo Tutu ha dovuto minacciare di negargli la sua benedizione per costringerlo a zittirsi («Voglio sentire cadere uno spillo!», ha gridato il vecchio ottantaduenne).
Solo Barack Obama ha riportato il visibilio, per la sua sola presenza
ancor più che per il suo discorso, pure applauditissimo: «La
sua lotta è stata la nostra lotta, il suo trionfo, il nostro trionfo… C’è voluto un uomo come Madiba per liberare non solo il prigioniero, ma anche il carceriere… Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori». Nella classifica delle ovazioni è stato seguito dal segretario generale dell’Onu, dal presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe inquadrato a un certo punto sul maxischermo e da Winnie Madikizela Mandela, più volte citata.
L’ultimo a parlare è stato Zuma, di nuovo accolto da fischi. Si era già alzato e avvicinato al podio ma gli organizzatori hanno fatto intervenire un coro gospel, come per prendere tempo. Poi il presidente ha pronunciato il suo discorso, neanche brutto, ma ormai lo stadio aveva cominciato a svuotarsi e sempre più larghe si facevano le macchie arancioni dei sedili liberi. Di quelli che restavano sugli spalti, molti rivolgevano al suo indirizzo il gesto eloquente che si fa da bordo campo nelle partite di calcio, per indicare all’arbitro che si vuole sostituire un giocatore, una veloce rotazione degli avambracci l’uno intorno all’altro.
Così il Sudafrica è entrato formalmente, ufficialmente, nel dopo Mandela, mettendo sotto gli occhi del mondo le sue e divisioni interne e l’impopolarità del suo presidente. Prima del giorno in cui Madiba se n’è andato, la notizia che da settimane e mesi campeggiava sulle pagine dei giornali (e presto ci ritornerà) è lo “Nkand-lagate”, lo scandalo della faraonica ristrutturazione della residenza privata di Zuma nel suo villaggio, Nkandla, a spese dell’erario. Una commissione d’inchiesta è al lavoro e il suo rapporto è atteso fra non molto, certo prima delle elezioni in programma tra sei mesi. Quel giorno Zuma sarà solo, l’ombra protettiva di Mandela si sarà dileguata da tempo.

La Repubblica 11.12.13

“Separazione fra scuola e lavoro, uno stereotipo che va superato”, di Gianni Trovati

Quello della separazione netta tra il tempo della scuola e quello del lavoro è uno stereotipo da superare, perché il 48% dei ragazzi che si sono diplomati la scorsa estate ha svolto almeno un periodo di stage durante le superiori, e il 61% di loro ha avuto anche un’esperienza di lavoro vera e propria, ovviamente stagionale nella stragrande maggioranza dei casi.
Il problema vero è quello dell’orientamento, perché il 44% dei neo-diplomati si dice almeno in parte pentito delle scelte fatte e specifica che, se potesse tornare indietro, cambierebbero indirizzo o scuola (e spesso entrambi). Altri numeri preoccupanti arrivano quando si guarda al futuro immediato: meno di sei neo-diplomati su dieci puntano con sicurezza all’università, e il 16% dei ragazzi dichiara di non avere idea di che cosa fare, una preoccupante quota di «incerti» che sale al 25% negli istituti tecnici.
Sono questi i numeri chiave del nuovo rapporto AlmaDiploma, presentato ieri a Roma dal Consorzio AlmaLaurea che da anni ha esteso le proprie rilevazioni al mondo della scuola superiore, e abbraccia ormai poco meno di 50mila diplomati in 347 istituti da Nord a Sud. «Quello che un Paese avanzato non può permettersi – riflette Andrea Cammelli, presidente di AlmaLaurea – è lo spreco di risorse umane, in particolare dei giovani: solo il 30% dei 19enni si iscrive all’università: quante risorse potenziali sprecate».

Il deficit è prima di tutto nell’orientamento, la cui mancanza contribuisce a mantenere bloccato un ascensore sociale in un Paese che sembra perpetuare le condizioni di partenza della famiglia. I figli di laureati continuano a concentrarsi nei licei classici e scientifici, la loro presenza si affievolisce negli istituti tecnici e diventa minima nei professionali, mentre naturalmente la distribuzione dei figli di genitori senza titoli di studio elevati è speculare. Se il contesto famigliare ha questo peso nella scelta della scuola, si spiegano anche le percentuali elevate di diplomati “delusi” dall’esperienza fatta e “incerti” sul futuro prossimo. In media, il peso dei «pienamente soddisfatti», che rifarebbero lo stesso corso nella stessa scuola, si ferma al 55%, si rivela un po’ più alta negli istituti tecnici e nei licei classici (entrambi gli indirizzi sono al 60%) e scende al liceo linguistico (44%).
Tra le tendenze positive, e in parte innovative rispetto al passato, spicca l’apertura delle scuole a esperienze di stage, con un tasso medio del 48% che si mantiene alto in quasi tutti gli indirizzi con la sola eccezione del liceo classico (15%). L’estensione di questi collegamenti alla generalità degli studenti aiuterebbe sicuramente ad abbattere una delle barriere che complicano il passaggio dai banchi al lavoro.

48% – Stage
Studenti che nel 2012 hanno svolto un periodo di stage durante le superiori

61%- Lavoro
Percentuale di studenti delle superiori che ha avuto un’esperienza occupazionale

44% – Orientamento
Neo-diplomati almeno in parte pentiti delle scelte scolastiche

50% – Niente Università
Quasi uno su due dei diplomati non si iscrive all’Università

25% – Incertezza
Uno studente su quattro degli Istituti tecnici non ha idea su cosa fare

Il Sole 24 Ore 10.12.13