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Da classe media a quasi-poveri ecco l’Italia degli sprofondati”, di Maurizio Ricci

L’Italia che sprofonda. Precipita, in caduta libera, lungo la scala sociale e si ritrova alle soglie della povertà. L’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati, altri milioni che non riescono ugualmente a pagare le bollette.
Che hanno prosciugato il conto in banca e adesso si sentono chiedere di rientrare dallo scoperto, che tirano giù per l’ultima volta la saracinesca del negozio o si rassegnano a far fallire l’impresa. L’Italia che è povera e disperata da sempre, al Sud, e l’Italia che, invece, si ritrova, improvvisamente e senza sapere come, impoverita e impaurita, al Nord Est, come al Nord Ovest. L’Italia che, piegata da cinque anni di crisi e di austerità, si ritrova in piazza — o vorrebbe andarci — spinta solo dalla rabbia e non dalla speranza di ottenere risposte a domande che non riesce a formulare. Forse anche per questo, in piazza, più che i poveri, ci sono quelli che si guardano alle spalle, con i nervi a fior di pelle, perché sentono i poveri, di colpo, sempre più vicini.
La mappa del disagio sociale dice, infatti, che l’Italia è un Paese con sempre più poveri: ormai, quasi una famiglia su cinque. Oltre un milione 700 mila famiglie non raggiunge «uno standard di vita minimamente accettabile», secondo la definizione dell’Istat: lo standard varia a seconda del numero di componenti e della città, ma, in quattrini, oscilla fra i 600 e i 1000 euro al mese. Questi poverissimi, solo un anno fa, erano un quarto di meno. Tuttavia, in un Paese del mondo avanzato, che fa parte del G8, si è poveri anche se si riesce a mangiare, ma non si tiene il passo con il resto della società. I calcoli statistici dicono che, per non essere povera in un Paese ricco, una famiglia di due persone deve disporre almeno di mille euro al mese. Giusto lo stipendio di un precario fortunato,
con moglie a carico, ma senza figli. Anche qui, in fondo alla scala sociale, le fila si ingrossano. Nel 2009, questa povertà relativa coinvolgeva quasi l’11 per cento delle famiglie italiane, oggi sono più di 3 milioni, cioè vicini al 13 per cento. Altrettanto male, però, sta chi rischia, ogni mese, di slittare sotto quella soglia, chi guadagna 1100, 1200 euro. Sono i “quasi poveri”, un altro 6 per cento di famiglie, perennemente in bilico.
Chi sono questi poveri? In Italia, ci sono ormai più di 3 milioni di disoccupati, di cui solo 2 milioni e mezzo ricevono il sussidio. Poi ci sono più di un milione e mezzo di cassintegrati. Soprattutto, ci sono oltre 7 milioni di pensionati che, ogni mese, vedono arrivare dall’Inps meno di quei mille euro della soglia di povertà. Di loro, più di 2 milioni non arriva neanche a 500 euro. Praticamente, quasi un pensionato su due vivrebbe ai limiti della sussistenza, se il suo assegno fosse l’unico reddito di casa. Così, spesso, non è. Ma il discorso vale anche a rovescio. Quei mille euro di pensione sono, spesso, l’unica fonte di reddito stabile e sicura della famiglia, intorno a cui ruotano altri introiti volatili, precari, anche occasionali, portati a casa da membri più giovani, ancora a caccia di un posto fisso. Anzi, di un posto qualsiasi. Solo un terzo degli italiani under 30, in effetti, lavora o cerca lavoro. Il grosso, d’altra parte, studia. Ma uno su dieci cerca lavoro e non lo trova.
E’ questa situazione di incertezza, casualità, fragilità, fra alti e bassi imprevedibili che gli sprofondati, caduti dalle certezze e dalle sicurezze delle classi medie, sentono sempre più vicina o stanno imparando a conoscere in questi mesi. Le statistiche cominciano solo ora a dare conto della mazzata della crisi. Fra il 2008 e il 2011 il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto del 5 per cento: quando prima si faceva la spesa al supermercato per 100 euro, poi ci si è dovuti accontentare di una spesa di 95 euro. Ma il vero colpo è arrivato fra il 2011 e il 2012, con l’avvitarsi della crisi e dello spread: il potere d’acquisto è sceso in un solo anno di un altro 5 per cento. La spesa di 100 euro del 2008, ora è più magra di 10 euro. Le bollette della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un incubo: il Censis dice che un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle. Non ci sono più neanche le riserve a cui attingere. Conti in banca e risparmi vengono progressivamente
prosciugati e mai rimpolpati. Negli anni ‘90, il Paese poteva permettersi di mettere da parte, in media, quasi un quarto del suo reddito. Erano gli anni in cui le Giornate del risparmio erano grandi feste trionfalistiche. Oggi, su 100 euro di reddito, in media (ricchi compresi, quindi) nel salvadanaio per i tempi bui ne vanno meno di dieci.
Getta la spugna e sprofonda soprattutto quella parte del ceto medio che, prima della crisi, più si era fatta largo nelle gerarchie sociali ed economiche: imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi. Fra gennaio e settembre di quest’anno quasi 10 mila società hanno dichiarato fallimento, il grosso nel corso dell’estate. Molte erano solo scatole vuote, aziende che non avevano mai presentato bilanci negli ultimi tre anni: semplici progetti o terminali di operazioni più complicate. Ma chiudono i battenti, senza l’onta del fallimento, migliaia di aziende vere. In Italia, secondo le elaborazioni della Fondazione Nord Est, in meno di due anni, dalla fine del 2011 allo scorso settembre, hanno cessato l’attività quasi 80 mila imprese, dai campi alle fabbriche, ai negozi. Nell’ultimo anno, sono sparite 12 mila fabbriche, oltre 20 mila imprese edili, 5 mila aziende di trasporto. A cui bisogna aggiungere 17 mila fra bar e ristoranti, 11 mila negozi di moda e abbigliamento. Un gelo che ha investito anche le zone più dinamiche del paese. Il Nord Est ha perso oltre 3 mila aziende manifatturiere, 5 mila imprese edili, fra la fine del 2011 ed oggi, ad un ritmo di chiusure superiore a quello nazionale.
Troppe tasse, troppe bollette, ma, soprattutto, a spegnere la luce sono state le banche, preoccupate di rientrare dei loro prestiti. Il termometro della caduta di una parte di società che, fino a ieri, veniva accolta in banca con sorrisi e pacche sulle spalle lo danno le statistiche sulle sofferenze, ovvero i crediti incagliati, che le banche disperano di recuperare. All’ultimo conto, i prestiti, probabilmente, svaniti, sfiorano i 150 miliardi di euro: rispetto all’anno scorso, c’è un aumento del 22,9 per cento. Ma, se si prende a confronto il 2010, quando la crisi era ancora strisciante, i soldi che gli sprofondati, ormai, non sembrano in grado di restituire, sono raddoppiati.

La Repubblica 12.12.13

“Le relazioni che salvano la scuola”, di Alessandro D’Avena

Spesso i docenti perdono l’amore originario per il loro mestiere a causa delle condizioni del sistema. Burocrazia. Famiglie assenti o aggressive. Ragazzi più o meno sdraiati. Stipendio. Questi sono i demoni che infestano la nostra professione e sembrano trasformare un docente in un in-docente (neologismo, ci tengo a ribadirlo, da prendere alla lettera: colui che non riesce più a trasmettere). L’in-docente, pur rimanendo competente nella materia, perde gradualmente le sue «abilità relazionali ». Capita a tutti (anche solo a tratti) in questo mestiere, ma siamo sicuri che le cause ultime siano quelle segnalate? O quelle segnalate sono solo conseguenze di cui si traveste la vera causa? La risposta è nella lettera di una docente di istituiti professionali che mi ha scritto a proposito del primo articolo: In un professionale mi sono trovata benissimo, perché lì c’era un nucleo stabile di insegnanti e un vice-preside che avevano a cuore la scuola e quei ragazzi. Mi sono sempre confrontata con i colleghi di scienze e di fisica sui contenuti e su come proporli, su come gestire alcune situazioni in classe; questo è stato molto importante e mi ha dato la possibilità di raccogliere qualche frutto. Il collega di scienze mi ripeteva sempre che per quei ragazzi era importante avere di fronte degli adulti che credono in quello che fanno; lì, pure in modi diversi, ci credevano (quasi) tutti. Di conseguenza i ragazzi avevano comunque il senso della scuola, di come fosse giusto comportarsi. Spesso si comportavano male lo stesso, ma c’era la consapevolezza di questo «male». Ho avuto sì delle sconfitte (insegnare a un professionale è come per un medico lavorare in oncologia: sai in partenza che il più delle volte non vinci tu), ma anche delle soddisfazioni. Ben diversa è stata l’esperienza in un altro professionale. Il problema maggiore è stata la mancanza di coesione fra gli insegnanti: la maggior parte dei miei colleghi aveva letteralmente alzato «bandiera bianca », si era arresa e puntava alla sopravvivenza personale. I pochi che provavano ad affrontare i problemi si trovavano perciò di fronte a un muro. È stato un anno duro, perché non mi sono mai sentita appoggiata. Docenti e dirigente si perdevano in una burocrazia puntigliosa, mentre alcuni problemi enormi venivano ignorati perché «la scuola non ha gli strumenti». Venivano approvati progetti che prevedevano gli interventi (purtroppo inutili) di alcuni pedagogisti ed educatori. Sicuramente, in condizioni diverse (con insegnanti che vogliono insegnare e mantenere vivo il «senso della scuola»), molti problemi sarebbero rimasti irrisolti, perché enormi, ma almeno la scuola si sarebbe offerta per quello che è, una scuola appunto, e non un contenitore, in cui i ragazzi bivaccano allo scopo di conseguire (immeritatamente) un titolo di qualifica professionale, senza la minima intenzione di alzarsi dalla sedia a sdraio. Che cosa è ciò che la docente chiama il senso della scuola»? Mettendo a confronto le due situazioni risulta chiaro: le relazioni tra docenti. Posso essere il più esperto della materia, ma se non amo più comunicarla, non amo più le persone a cui devo comunicarla, non amo più le persone con cui devo comunicarla, non passa niente di quello che conosco. Il sistema scuola è costituito da relazioni: con gli altri docenti, con i ragazzi, con i genitori. In un mondo ormai basato sulla rete di persone e di saperi, la scuola è ancora fondata sul «broadcasting»: la «cattedra» emette messaggi indifferenziati ad un pubblico passivo. Per un cervello del 2013-14, che ha un modo di ascoltare e apprendere reticolare e partecipativo, e sempre meno analogico e frontale, è come essere sintonizzati su frequenze diverse. La scuola deve passare dall’età della radio-tv a quella della rete. La rete costringe a tornare all’elemento umano della macchina. La lettera evidenzia che la differenza tra le due scuole non sono lemura,ma le relazioni tra docenti. Una scuola è a immagine delle relazioni dei docenti fra loro: funziona se funzionano queste relazioni. E quando funziona una relazione? Quando è reale. E quando è tale? Quando produce effetti, perch é reale, insegna la scienza, è ciò che produce un effetto. La relazione docente-studente che effetti produce se reale? La curiosità, il metodo, l’amore per la materia e quindi la conoscenza, la crescita reciproca. Se non ci sono questi effetti è perché non c’è la relazione. Perché non carichiamo le lezioni su youtube dove i ragazzi potrebbero comodamente guardarle quando vogliono e noi evitare ogni fatica? Perché prepariamo «quella» lezione per «quella» classe per «quel» giorno? Perché è nella relazione curata in modo unico che si comunica. La relazione docente-docente che effetti produce se reale? Il sostegno reciproco, l’approfondimento di passioni comuni, l’arricchimento di porzioni di sapere che ci sfuggono, in alcuni casi l’amicizia. I docenti però spesso si fanno la guerra per invidia, per paura, per stupidità, o semplicemente si lasciano succhiare la vita da quei demoni di cui parlavo all’inizio. Il docente si spegne per solitudine preceduta dal velenoso «silenzio degli in-docenti». Solo l’umano rinnova i sistemi, non la tecnologia, e l’umano nella scuola è un intreccio di relazioni, ciascuna con beni specifici in gioco. Sparita la relazione sparisce il senso della scuola, statale o non, vecchia o nuova, di periferia o di centro che sia. Senza relazione emergono solo mura e funzionari (la fase terminale dell’in-docente è il funzionario). C’è scuola dove c’è relazione e costruzione di beni relazionali che senza quella relazione sarebbero irraggiungibili, come pretendere dall’acqua di fare a meno dell’idrogeno o dell’ossigeno: il senso della scuola è questo, il bene relazionale che solo la reciprocità educativa può produrre. Non sono un donchisciotte a caccia di docenti ideali, ma di docenti nascosti dentro il loro silenzio, che possano ritrovare luce attraverso pratiche virtuose, come accade in tante scuole che ho visitato (professionali, tecnici, alberghieri, licei…) e che sarebbero da imitare: docenti che lavorano in équipe con attenzione rivolta non solo alla loro materia, ma ai colleghi e agli alunni come persone. Docenti che continueranno a fallire come ci capita tutti i giorni nonostante gli sforzi, perché fallire è proprio dell’umano e delle relazioni. Ma docenti che, singolarmente e insieme, oltre a fallire, porteranno i ragazzi a scegliere: stare al gioco relazionale e creare insieme qualcosa di buono o lasciarsi andare? La responsabilità dei ragazzi è una risposta non un presupposto. Propongo per l’ultimo giorno di scuola di dicembre un’occupazione fatta dagli insegnanti. Tutti i docenti di una classe la occuperanno e terranno una lezione di mezz’ora sull’argomento che amano di più. Dovranno solo raccontarlo a studenti e colleghi seduti nella stessa classe, insieme. Si magnificherà il sapere e la propria passione di comunicarlo a colleghi e alunni, riuniti per quel che sono: una comunità di ricerca di ciò che ha valore. Assisteremo all’assenza degli in-decenti, al fiorire degli in-docenti, alla gioia dei docenti. Sognare una scuola per tutti in cui sarà possibile scegliere chi è capace di dare senso alla scuola è forse prematuro, ma sognare un giorno di scuola veramente libera nella scuola dell’obbligo è solo questione di scelte.

La Stampa 12.12.13

“Una nuova partita”, di Claudio Sardo

Il Governo Letta va avanti. L’obiettivo di completare il 2014, con il semestre di presidenza Ue, è stato confermato dal voto di fiducia di Camera e Senato. Eppure quella che comincia oggi è una partita nuova. Il plebiscito, tributato a Renzi nelle prima- rie Pd, ha segnato una rottura dei pre- cedenti equilibri. In fondo, il passaggio di Forza Italia all’opposizione era già stato metabolizzato. Né si può definire una sorpresa la competizione tra Grillo e Berlusconi per sponsorizzare le proteste dei forconi. La vera novità politica con la quale il governo deve misurarsi si chiama Pd, proprio il partito del presidente del Consiglio, il partito sul quale poggiano quasi per intero la tenuta e l’attività della legislatura.

Per certi aspetti è un paradosso che Renzi si trovi in questa situazione. La sua ambizione, in tutta evidenza, è candidarsi al più presto alla guida del governo: se non ci fosse stata la sentenza della Consulta, se non avessimo di nuovo una legge proporzionale, il voto anticipato sarebbe stato la conseguenza inesorabile delle primarie. Peraltro, al sindaco di Firenze è sempre stato rimproverato uno scarso interesse per il partito e per la sua rifondazione organizzativa e culturale: e lui ha risposto accettando la sfida. Ma il paradosso sta proprio nel fatto che né il governo, né il partito sono oggi la sua priorità. La priorità di Renzi è la costruzione del nuovo sistema politico, nel quale inserire il suo Pd e la sua leadership. Una questione enormemente complicata. Tuttavia, anche un’opportunità. Siamo ad un passaggio storico della Repubblica. Di fronte ad una crisi di regime si può, si deve plasmare un nuovo schema democratico, ma ovviamente si può anche restare schiacciati sotto le macerie del ventennio morente.

La partita nuova richiede molta forza. E il neosegretario vuole dimostrare di possederla: in questo senso lo scontro aperto sul trasferimento della legge elettorale dal Senato alla Camera non vale molto sul piano dei con- tenuti, ma indica simbolicamente che Renzi ha avocato a sé la trattativa di «sistema». Per vincere la partita però occorre anche capacità, visione e discernimento. Stiamo parlando della democrazia di tutti, del sistemaItalia, non solo di una contesa tra leader. Renzi intende giocare in prima persona, senza deleghe al governo: e questa è una giusta assunzione di responsabilità. L’obiettivo però non può essere solo quello di aprirsi la strada per Palazzo Chigi, ma di far compiere un salto al Paese, di restituire ai cittadini il potere loro sottratto e all’Italia quella capacità di decisione democratica che è condizione per uscire dal declino.

L’impressione è che i margini di manovra del neosegretario del Pd siano stretti. Berlusconi e Grillo hanno avanzato a Renzi offerte tra loro molto simili: siamo pronti a un accordo su una riforma elettorale maggioritaria, ma solo a condizione che cada il governo Letta e che si voti a primavera. La disponibilità di Grillo riguarda il Mattarellum, quella di Berlusconi forse è più ampia. Ma vi fidereste di chi, contemporaneamente, minaccia di inasprire il carattere anti-sistema della propria opposizione, di chi grida al Parlamento delegittimato, di chi annuncia addirittura l’impeachment contro il Capo del- lo Stato? E, soprattutto, che garanzie di governabilità darebbe una nuova legge elettorale senza alcuna modifica del bicameralismo e senza riforme in grado di incide- re sulla forma di governo? Non si tratta di rinverdire la pregiudiziale anti-berlusconiana: il problema è che l’uomo che nel ventennio ha fatto saltare tutti i compromessi possibili, oggi non mostra più neppure il minimo interesse a costruire un sistema che funzioni. Come Grillo, punta all’ingovernabilità. Sperando così di condizionare l’assetto di potere futuro. Renzi, insomma, si trova un Cavaliere ancora meno affidabile di quello che si sono trovati di fronte Prodi, D’Alema e Veltroni.

Per queste ragioni il leader del Pd non può che parti- re, come gli ha chiesto Letta, dalla maggioranza che oggi sostiene il governo e da Sel (che sta lanciando segnali di dialogo al nuovo segretario). Ma il terreno di una possibile convergenza con Alfano, Casini e Vendola sembra essere quello del doppio turno di coalizione (proporziona- le con voto di lista al primo turno, ballottaggio tra le prime due liste, o coalizioni, se nessuno raggiunge il 40%). Può essere spacciata come la legge del «sindaco d’Italia», anche se il suo antenato più famoso è in realtà il «patto della crostata» (l’intesa raggiunta in casa di Gianni Letta alla fine dei lavori della Bicamerale verteva esattamente sul doppio turno di coalizione). Il problema è che il sindaco d’Italia ripropone quel mito presidenziali- sta, che è inconciliabile con il nostro impianto costituzionale. Inoltre, sia pure su due turni, conferma lo schema e molti difetti del Porcellum. La seconda Repubblica è fallita per questo: perché ha usato il maggioritario di coalizione per violare il sistema parlamentare, ma ha prodotto trasformismo e leader impotenti invece di vera governabilità. L’aspetto più positivo di questo avvio di trattati- va sta invece nella disponibilità della maggioranza e di Sel a lavorare per una modifica del bicameralismo, in modo da affidare alla sola Camera il rapporto di fiducia con il governo. Alcuni correttivi alla forma di governo possono dare molto di più di una legge elettorale. Ma siamo sicuri che si possa arrivare a una riforma costituzionale con l’opposizione frontale di Forza Italia e M5S? Renzi fa capire che, se le riforme rallenteranno, la legislatura finirà. Ma di quale deterrenza dispone nel nuovo scenario proporzionale? Probabilmente oggi è portato a dividere il mondo tra i nemici che vogliono imbrigliarlo e gli amici che vogliono liberarlo dagli attuali legacci: la speranza è che la forza di cui ora dispone aiuti il Paese ad uscire dalla palude e che non si ricada nell’illusione di correggere una stortura con un’ulteriore stortura.

L’Unità 12.12.13

“Manovra, salvi altri 20 mila esodati fondi da evasione e capitali in Svizzera”, di Roberto Petrini

Il cuneo fiscale si rafforza e arriva un «salvagente» per altri 20 mila esodati. Il viceministro dell’Economia Stefano Fassina ha confermato ieri che l’esecutivo è al lavoro per presentare un emendamento alla legge di Stabilità per costituire un Fondo unico destinato alla riduzione delle tasse sul lavoro in cui confluiscano «le risorse aggiuntive e straordinarie» che arriveranno, oltre che dalla spending review e
dalla lotta all’evasione, anche dal rientro dei capitali dalla Svizzera. «Il governo — ha spiegato Fassina — sta lavorando a un Fondo unico che in modo automatico riesca ogni anno a utilizzare le risorse che vengono dalla lotta all’evasione ». Le risorse, secondo il viceministro, non verranno «solo dalla Svizzera, ma anche da interventi sui capitale illecitamente esportati più in generale» e saranno destinate a «ridurre le tasse sui lavoratori sulle imprese, con interventi immediati». Il governo studia inoltre una web-tax che imponga la partita Iva a chi compra e vende servizi in rete in Italia.
Affondo anche sulla vicenda degli «esodati» provocati dalla legge Fornero. E’ in arrivo infatti un emendamento alla legge di Stabilità, che oggi avvia le prime votazioni in Commissione e martedì arriverà in aula alla Camera,
per salvaguardare altri 20 mila lavoratori esodati. L’intervento, ha sempre annunciato Fassina, sarà volto a «salvaguardare circa 20 mila lavoratori che avrebbero dovuto andare in pensione nel 2014». La nuova quota si aggiunge ai 6 mila «esodati» che sono stati ripescati dal testo della «Stabilità » approvato dal Senato.
Intanto dopo la fiducia l’attività del governo sul fronte dell’economia riprende. Il premier Letta ha annunciato ieri che il consiglio dei ministri di domani approverà il provvedimento «Destinazione Italia», con un credito di imposta per la ricerca e fondi per la digitalizzazione delle piccole e medie imprese. Inoltre l’esecutivo varerà un intervento per ridurre le tariffe della Rc auto e un intervento di 600 milioni per mitigare il caro bollette dell’energia.
Resta in movimento la questione dell’Imu, mentre la Corte dei Conti che la pressione fiscale è al 45 per cento. Il calendario prevede che lunedì prossimo scade la seconda rata per la seconda casa, mentre non si pagherà per la prima. Per la mini-Imu, cioè la differenza tra l’aliquota base e l’incremento applicato dai Comuni, che il governo non ha cancellato, prende corpo invece l’emendamento alla Stabilità del Pd Rughetti. La proposta prevede per i Comuni la possibilità di portare in detrazione dall’imposta dovuta per l’anno 2014 a titolo di Tasi il pagamento dell’Imu sulla prima casa. Sul tema, mentre inizia l’iter del decreto che abolisce la seconda rata al Senato, c’è da registrare una presa di posizione del nuovo responsabile dell’Economia del Pd Filippo Taddei secondo il quale bisogna «reintrodurre l’Imu sulla prima casa per abbassare le tasse sul lavoro».
Infine via libera definitivo del Senato al decreto legge manovrina per mantenere il deficit-Pil sotto il 3 per cento nel 2013 e che contiene anche misure per l’immigrazione. I voti favorevoli sono stati 150, i «no» 122 e 4 gli astenuti.

La Repubblica 12.12.13

“Due Paesi troppo lontani”, di Massimo Giannini

In questo clima velenoso e confuso da piccola Weimer tricolore, vediamo agire due Italie distinte e destinate fatalmente a confliggere. In Parlamento, il luogo in cui la democrazia rappresentativa celebra i suoi riti e il popolo sovrano elegge i suoi rappresentati, il premier delle Intese Ristrette Enrico Letta ottiene la sua seconda fiducia e scommette su un «nuovo inizio» che dovrebbe portarlo senza traumi al traguardo del 2015.
Nelle piazze, il luogo in cui si esplica la sociologia e la psicologia delle masse, un popolo smarrito senza sovranità e senza rappresentanza urla la sua rabbia cieca e sorda e azzarda l’assedio all’odiato Palazzo d’Inverno della politica. Queste due Italie reagiscono in modi diversi alla stessa Grande Crisi che le ha travolte negli ultimi sei anni. La prima si difende, secondo le regole codificate della Costituzione. La seconda sfascia, secondo le logiche disperate del forcone. Il risultato è un conflitto drammatico, e apparentemente senza sbocchi. Non c’è dialogo possibile, tra questi due Paesi lontani. Il Parlamento, delegittimato, non lo riesce a creare. Le piazze, esasperate, non lo vogliono cercare. L’unico “raccordo”, improprio e irresponsabile, lo pratica il Movimento 5 Stelle: i grillini “abitano” sia le Camere sia le piazze, e tra le une e le altre non fanno differenza, affrontandole entrambe con lo stesso, truce opportunismo di una forza sempre e comunque “extra-parlamentare”.
Quando le rivolte si fanno violente, quando mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini e l’efficienza dei servizi, e quando i cattivi maestri alla Grillo le cavalcano con un cinismo che rasenta l’eversione, non può esserci dubbio su quale sia la parte giusta della “barricata”. La protesta civile è un diritto irrinunciabile, ma lo Stato di diritto è un presidio inviolabile. Dunque è giusto impedire che i mille focolai che infiammano le città italiane in questi giorni si trasformino in guerriglia urbana, che i valichi di frontiera siano bloccati, che gli snodi ferroviari o stradali siano paralizzati. E ha fatto bene il presidente del Consiglio a ribadire il primato della legge, sfidando a viso aperto deputati e senatori pentastellati, nell’intervento con il quale ha ottenuto il nuovo via libera al suo governo da Montecitorio e da Palazzo Madama.
Nella moderna, desolata jacquerie che da giorni agita le piazze c’è molto di più dei semplici forconi nati in Sicilia nel 2012. Dai “padroncini” protestati del Nord-Est ai commercianti semi-falliti del Nord-Ovest, dal Movimento Autonomo Trasportatori ai Cobas del latte, dagli ambulanti di Porta Palazzo a Torino ai tassisti di Roma, dagli autotrasportatori di Genova agli agricoltori dell’Agro Pontino e del Veneto. Una sommossa trasversale, che ha i tratti forti del poujadismo francese del 1953, di cui per ironia della storia ricorrono proprio ora i 60 anni. Come il movimento transalpino fondato da Pierre Poujade a Saint Cérè, anche quello italiano nato spontaneamente in questi giorni mette insieme la collera di un ceto medio ormai polverizzato e inafferrabile nel quale, insieme ai dipendenti, convivono i lavoratori autonomi che la recessione ha fatto scivolare all’ultimo gradino della scala sociale. Negozianti e artigiani, contadini e imprenditori.
Una buona metà di quella che un tempo avremmo chiamato la “borghesia”, la più piccola e la più povera, che dopo sei anni di crisi feroce indotta dall’austerità e dalla globalizzazione vive ormai ai margini, senza tetto né legge, senza speranza e senza rappresentanza. Un pezzo consistente di società che non è “classe” (perché non ha mai avuto alcuna coscienza del suo ruolo), e non è neanche “categoria” (perché non si riconosce più in alcuna forma associativa). Una scheggia di Paese, come sostiene Aldo Bonomi, che è il prodotto di una rottura (quella del capitalismo molecolare) e di una frattura (quella del modello post-fordista). Una scheggia di Paese che inaridisce e impoverisce, in aree produttive ormai quasi desertificate: non a caso l’epicentro della rivolta è in zone come il Piemonte (dove un tempo prosperavano la Fiat e il suo indotto) e la Liguria (dove un tempo dominavano la siderurgia e la sua filiera).
Con un modello economico e industriale in via di estinzione, sta sparendo anche la borghesia minuta che gli era cresciuta intorno. E così questa massa critica ha fatto “condensa”, ed è diventata una “moltitudine rancorosa”. Unita solo dall’odio contro lo Stato prevaricatore, il Parlamento corrotto, il fisco assassino. Votata solo al populismo, al corporativismo, alla demagogia. Per questo, come nel poujadismo classico, questo frammento sociale composito è così vasto, tende ad allargarsi, ed è insensibile ad ogni “mediazione”. Tutti i partiti vanno distrutti, tutti i politici vanno cacciati. Una deriva che, proprio come in Francia sessant’anni fa, da un lato sollecita pericolosi processi emulativi nella sinistra radicale (dai centri sociali ai drop-out metropolitani), ma dall’altro porta naturalmente a sbocchi di destra estremista. La conferma è che a guidare le manifestazioni più dure, a Roma come a Milano, sono i militanti di Casapound e di Forza Nuova.
Per questo, se Letta ha ragione a ripetere che queste forme di ribellione esagitata «non rappresentano il Paese», non può incappare nel torto di sottovalutare la portata di questa Vandea che scuote la Penisola, da Palermo ad Aosta. Oggi più che mai, leggere il fenomeno solo con gli occhi dell’ordine pubblico sarebbe un tragico errore. Al di là delle degenerazioni violente, da perseguire senza se e senza ma, il disagio delle piazze ha radici che affondano in un terreno socio-economico intossicato molto prima della spregiudicata semina grillista. Quel disagio è reale, ed esige risposte dall’unico soggetto che le può e le deve dare: la politica. Qui sta la sfida di Letta, che incassata la nuova fiducia deve fare davvero ciò che promette, fugando ogni dubbio sulla sua volontà di galleggiamento. E qui sta anche la sfida di Renzi, che assunta la guida del Pd deve spiegare davvero cos’è «il governo secondo Matteo», fugando ogni dubbio sulla sua capacità di cambiamento.
Dopo cinque anni di sconquassi, in Francia fu la nascita della Quinta Repubblica nel ’58 a cancellare il poujadismo di Saint Cérè. Quanto dobbiamo aspettare perché in Italia la nascita della Terza Repubblica spazzi via il populismo di Berlusconi e quello dei forconi?

La Repubblica 12.12.13

Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri sulla situazione politica generale

Si riporta la replica alle dichiarazioni di voto di tutti i gruppi di Enrico Letta, Presidente del Consiglio dei ministri.
“Io voglio partire proprio da quello che ha detto l’onorevole Carfagna poco fa, quando ha detto quali erano gli obiettivi per cui il Governo è nato ad aprile, perché ho l’impressione che almeno su questo ci sia un punto sul quale c’è stato probabilmente un equivoco, perché nel mio discorso di aprile era chiarissimo – invito ad andare a rileggere quel discorso – che la separazione tra le vicende giudiziarie e le vicende politiche era un punto che io non avrei mai oltrepassato (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico. Scelta Civica per l’Italia, Nuovo Centrodestra, Per L’Italia e di deputati del gruppo Misto).
  Venire, quindi, oggi a dire che tutto è saltato perché non c’è stata una pacificazione, che doveva essere riconnessa a quei passaggi, è un modo a mio avviso sbagliato di impostare una vicenda, rispetto alla quale – ripeto ai colleghi che hanno espresso prima quei concetti negativi rispetto alla situazione – io invece voglio dire con grande franchezza – e l’ho detto nel discorso, ma lo voglio ribadire adesso in modo molto più semplice – che noi abbiamo cominciato a lavorare a fine aprile nella situazione che tutti conoscevamo: è inutile che io la racconti, perché ce la ricordiamo benissimo, sia la situazione politico-istituzionale sia la situazione economica.
  Sulla situazione economica avevamo immediatamente tre obiettivi e tre inversioni di tendenza, che erano necessarie. Le voglio citare, perché su alcune di queste si sono raggiunti i risultati, su altre devono essere ancora raggiunti i risultati e, quindi, io non sono contento di come sono andate le cose su queste altre.
  Noi avevamo bisogno innanzitutto di arrestare la caduta del nostro Paese dal punto di vista della crescita. Avevamo bisogno di far scendere a un livello più fisiologico possibile i tassi di interesse, quindi lo spread, e avevamo bisogno di fermare la crescita della disoccupazione. Queste erano le tre immediate e sono le tre immediate esigenze, sulle quali con urgenza e senso di emergenza dobbiamo e dovevamo lavorare.
  Io voglio dire che in sette mesi, non soltanto oggi, proprio oggi, tocchiamo il livello minimo dello spread da due anni e mezzo a questa parte, cioè dal 7 luglio del 2011, quando iniziò, sotto il Governo Berlusconi, quell’avvitamento che ha portato il nostro Paese alla situazione che conosciamo nell’autunno successivo.
  Oggi possiamo dire che un percorso che è stato fatto in questi due anni e mezzo ci riporta in una condizione in cui siamo arrivati al 4 per cento sui tassi di interesse a dieci anni. Questo rappresenta – lo so benissimo – non il massimo risultato, né un toccasana, ma state tranquilli che quando le imprese devono andare a chiedere dei mutui, quando le famiglie devono chiedere dei mutui, quando noi dobbiamo fare una legge di stabilità in cui mettiamo gli interessi che paghiamo sul nostro debito, la differenza tra avere interessi al 7 per cento, come erano in quel periodo dell’autunno del 2011, e averli al 4 per cento vuol dire la differenza fra la vita o la morte, per le imprese, per il bilancio pubblico, per le famiglie (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico. Scelta Civica per l’Italia, Nuovo Centrodestra e Per L’Italia e di deputati del gruppo Misto).
  Oggi questo è il primo risultato importante che noi consegniamo: avere riportato al 4 per cento i tassi di interesse – ancora non al 4 per cento, ma al 4,0… – è il primo risultato importante, fondamentale.

  Il secondo risultato importante e fondamentale lo abbiamo letto sui giornali di oggi, devo dire la verità, seminascosto, come spesso capita quando ci sono delle buone notizie da dare. Ma è successo che il nostro Paese ha arrestato la caduta in modo anche ufficiale, non soltanto dal punto di vista delle previsioni. Nel senso che il terzo trimestre di quest’anno – quindi il trimestre da luglio a settembre – è un trimestre che ha consentito al nostro Paese di terminare due anni di decrescita ininterrotta, due anni di calo ininterrotto del PIL. Siamo arrivati nel trimestre scorso ad interrompere tutto questo.
  Ieri sera a Time Square, a New York, tra le notizie che giravano sui grattacieli di New York, c’era la notizia: «L’Italia ufficialmente fuori dalla recessione», con quel dato del trimestre ultimo. Oggi ci troviamo in una condizione….
Questa era la semplificazione giornalistica che lì è stata fatta. So benissimo che gli esperti sono in grado di dire cose migliori, ma la semplificazione giornalistica è stata quella (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia e di deputati del gruppo Misto).
  In questo trimestre, i cui dati finali avremo a fine gennaio – ci troveremo qui a fine gennaio e a fine gennaio tireremo le conclusioni –, l’Italia finalmente ha il segno «più» sulla crescita e l’anno prossimo il segno «più» sulla crescita sarà stabile, strutturale, arriveremo all’1 per cento di crescita e cercheremo di far sì che questa crescita possa portare al 2015.
  Questi non sono dati astratti. È ovvio che aver arrestato la decrescita, aver arrestato il crollo del nostro PIL non può essere portato come un miracolo: siamo passati dalla luna al sole. Però, io mi chiedo e chiedo ad ognuno di noi: ma qualcuno pensa che in quest’Aula qualcuno abbia la bacchetta magica e che, in un attimo, sposta il terreno del PIL da una parte all’altra e fa crescere di due punti il nostro Paese in tre mesi (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia e di deputati del gruppo Misto) ? Sappiamo benissimo che è impossibile e sappiamo, invece, che è necessario fare le scelte, una dopo l’altra, e arrivare a quei risultati. E quei risultati sono arrivati. Lo rivendico, lo rivendico con forza, perché è a partire da quello che consentiremo, l’anno prossimo, di avere un anno stabilmente con la crescita e il recupero, che è assolutamente necessario.
  Sulla disoccupazione i risultati, purtroppo, sono inferiori a quelli che tutti speravamo. E qui è la grande sfida che ho cercato di mettere nel discorso. La ripresa e la crescita ci sono, ci saranno, rischiano di essere, se facciamo scelte sbagliate, una crescita e una ripresa senza occupazione e questo oggi è, per un Paese come l’Italia, il rischio forse più grande.
  Ecco perché le misure che ho citato prima – che sono state riprese da tanti interventi: ne ha parlato l’onorevole Madia, prima, ne hanno parlato l’onorevole Balduzzi, l’onorevole Formisano e altri –, il tema del lavoro, dell’occupazione, le misure da mettere in cantiere subito hanno bisogno di continuare a supportare quello sforzo per incentivare il lavoro per i giovani, per far sì che chi perde un lavoro e non è più giovane trovi quelle incentivazioni, che abbiamo cominciato a mettere e che dobbiamo rafforzare. Quella scelta fondamentale – l’onorevole Madia la citava prima –, il 1o gennaio scatta la garanzia per i giovani, credo che sarà un punto essenziale, fondamentale. È un punto che consente di usare uno strumento europeo e consente di usare, accanto a questo strumento europeo, iniziative anche nazionali.
  Quello che è certo – e lo so assolutamente – è che questo dato è un dato sul quale dovremmo misurarci con tutte le nostre energie e con tutte le nostre forze: il dato per il quale non possiamo arrestarci a vedere dati buoni sulla crescita, dati buoni sullo spreed e vedere, invece, una disoccupazione che continua a crescere. Questo è insostenibile, lo so, e questi sono il tema e il motivo per i quali tanta enfasi ho messo – e abbiamo messo – attorno a questi fondamentali obiettivi.
  Però, perché tutto questo accada – mi dispiace dirlo in contraddizione con l’intervento della collega Nicchi di prima – c’è bisogno anche di stabilità, c’è bisogno di stabilità che faccia le riforme.
Ma se noi ci trovassimo o ci fossimo trovati, nei sette mesi che abbiamo dietro le spalle, nella condizione in cui qualcuno in quest’aula ha voluto farci trovare ? Perché l’intervento dell’onorevole Costa è stato un intervento lineare e preciso, sfido chiunque a dire, su questo intervento, che c’è un passaggio logicamente sbagliato. Su questa crisi – che oggi risolviamo spero con un voto di fiducia favorevole e annunzio già adesso, signor Presidente, che pongo la fiducia sull’approvazione della risoluzione 6-00041, a prima firma Speranza – il passaggio chiave, l’onorevole Costa l’ha detto bene prima, è il seguente: se un mese fa, due mesi fa, quando è cominciato il cannoneggiamento che voleva tirare giù il Governo da parte di una parte della maggioranza che lo ha sostenuto – parte della maggioranza che io ringrazio per il sostegno che nei setti mesi c’è stato e che in molte persone è stato un sostegno convinto, fattivo, pieno di contenuti molto importanti, sono io il primo ad essere dispiaciuto di quello che oggi andiamo a certificare – che voleva portare giù il Governo, due mesi fa, precipitare il Paese al voto, sapendo quello che tutti sapevamo – che portare il Paese al voto in una condizione in cui non si è riusciti ancora a completare il percorso di riforme, di riforme costituzionali, la legge elettorale incostituzionale nel premio di maggioranza, tutte cose che sappiamo benissimo, oggi obbligano a fare tutto ciò che ho indicato – io lascio solo immaginare cosa sarebbe stato per la fiducia del Paese, degli investitori, di coloro che oggi ci guardano e dicono: se questo percorso va avanti, si può tornare ad investire sull’Italia.
  Ha ragione l’onorevole Costa, è stato un passaggio drammatico e io ringrazio chi ha avuto il coraggio di fare scelte faticose, anche sul piano personale e vi assicuro che sento tutta la responsabilità sulle mie spalle di sapere che una parte di quelle scelte così faticose sul piano personale, di dividersi rispetto a compagni di viaggio di una vita per dare la fiducia al mio Governo e quindi la responsabilità la sento sulle spalle completamente, è una scelta che mi carica ancora di più di impegno. Io credo carichi di impegno ancora di più tutti noi rispetto alle scelte che abbiamo di fronte (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia, Nuovo Centrodestra e di deputati del gruppo Misto).

  E d’altronde il percorso costituzionale che abbiamo di fronte, collega Pilozzi, è un discorso rispetto al quale lei ha detto alcune cose. Io colgo, perché voglio sempre cercare il bicchiere mezzo pieno – purtroppo è una caratteristica che mi porto dietro da sempre – che però c’è, non so se lei sarà contento, ma insomma c’è una parte di bicchiere mezzo pieno, perché il passaggio nel quale lei ha detto: «Comunque noi ci saremo nella discussione adesso, sul 138 della Carta costituzionale, attraverso lo strumento del 138», è un’apertura che io voglio cogliere e lei sappia che troverà nel Governo oggi la volontà di andare a riforme costituzionali che, nella nostra intenzione, sono rivolte ad una discussione e possibilmente ad un’approvazione di tutto il Parlamento, perché le riforme istituzionali riguardano la nostra casa, la casa degli italiani, che sono le istituzioni e come tali devono essere considerate da tutti noi. Quindi, in questo colgo il suo intervento e le dico che da parte nostra ci sarà il massimo di impegno in questa direzione.
  E qui però voglio anche dire, collega Nicchi: non mi faccia dire cose che non ho detto, perché non funziona così. Io non ho detto: chi non vota la fiducia è populista. Non l’ho detto né mai l’avrei pensato, vada a trovare il discorso. Io ho detto un’altra cosa, che logicamente è tutto l’opposto, è tutta un’altra storia. Ho detto: i populisti non votino la fiducia al mio Governo e lo ribadisco anche qui adesso (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia, Nuovo Centrodestra e di deputati del gruppo Misto).
  Aggiungo…(Commenti dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle)… è totalmente… purtroppo… (Commenti dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle), comunque tanto la gente ci ascolta e sa fare la differenza tra le cose (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia, Nuovo Centrodestra e di deputati del gruppo Misto – Commenti dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
  Comunque il tema di fondo che voglio dire e che voglio usare è che non bisogna stravolgere il senso delle cose rispetto a quello che si è detto.
Per esempio, ho sentito discorsi sulle province che non ho capito, confesso. Io ho parlato – leggetelo – del disegno di legge costituzionale che toglie la parola «province» dalla Costituzione. Questo ho detto. E io penso che sappiamo tutti che questo è un aspetto determinante. Torniamo indietro, infatti. Tutto il caos che c’è stato sulla vicenda delle province è figlio del fatto che si è tentato di risolvere la questione in questi anni, quindi di togliere le province, senza, però, toglierle dalla Costituzione. Finché non si toglie dalla Costituzione, il tema delle province non è risolvibile. Ecco perché, come ho detto e come ho ribadito, il Governo ha già presentato il disegno di legge costituzionale che è lì, è in I Commissione. Ho chiesto, con questo intervento, di andare avanti in questa direzione perché potrebbe consentirci finalmente di raggiungere il risultato che è quello fondamentale.
  E non ho condiviso – lo dico proprio francamente – i toni e i contenuti dell’intervento del collega Nuti. Non li ho condivisi su diversi passaggi. Il primo passaggio non l’ho condiviso su un punto. Voglio esprimere solidarietà al collega Faraone per le cose ingiuriose che sono state dette qui (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Questa logica della delazione, dell’accusa sempre, è una logica inaccettabile, inaccettabile. Aggiungo che non l’ho condiviso per un altro passaggio. Io onestamente pensavo che, dopo la gaffe di Grillo sui giornalisti, la giornalista de L’Unità Oppo, il giornalista, il suo collega, de La Repubblica Francesco Merlo, si fosse reso conto, Grillo, di aver fatto una gaffe. Immaginavo, quindi, che il discorso si chiudesse. Invece vedo, collega Nuti, che lei ha rilanciato addirittura e ha rilanciato, spiegando che o i giornalisti dicono e scrivono le cose che piacciono a voi, oppure vengono messi alla gogna (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Sinistra Ecologia Libertà, Nuovo Centrodestra, Per l’Italia e di deputati del gruppo Misto). È inaccettabile questa cosa, è inaccettabile questo, è inaccettabile (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Sinistra Ecologia Libertà, Nuovo Centrodestra, Per l’Italia e di deputati del gruppo Misto – Proteste dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) !
PRESIDENTE. Colleghi, per favore !

  RICCARDO NUTI. Sei un bugiardo !

  PRESIDENTE. Colleghi, per favore (Dai banchi del Partito Democratico si grida: «fascisti, fascisti» – Proteste dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle) ! Per favore !

  ENRICO LETTA, Presidente del Consiglio dei ministri. E mi spiego meglio…

  PRESIDENTE. Colleghi, per favore !

  ENRICO LETTA, Presidente del Consiglio dei ministri. E mi spiego meglio. Nel momento nel quale lei dice che una giornalista ha raccontato vicende che hanno a che vedere con il vostro partito in un modo che non è giusto e corretto, io le dico: che cosa dovrei (Commenti dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle)…

  PRESIDENTE. Lasciate finire la replica.

  ENRICO LETTA, Presidente del Consiglio dei ministri. ..io le dico e le do un consiglio…

  PRESIDENTE. Sta parlando.

  ENRICO LETTA, Presidente del Consiglio dei ministri. …cosa dovrei fare io che, ogni mattina, nella lettura dei giornali, leggo, ogni mattina, le cose più strampalate, incredibili, scorrette, ingiuste, dal mio punto di vista, rispetto a quello che accade ? Ma, collega Nuti, è il mio punto di vista (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Sinistra Ecologia Libertà, Nuovo Centrodestra, Per l’Italia e di deputati del gruppo Misto). E c’è una differenza di fondo: se lei ritiene che un giornalista leda le regole delle nostre istituzioni, lei può rivolgersi alla magistratura per avere ragione rispetto a quello che chiede, ma il resto fa parte della dialettica e del normale dibattito politico e democratico. E rimango esterrefatto dal fatto che lei abbia voluto rilanciare oggi nel suo intervento su questo punto. E aggiungo che ha totalmente ragione il collega, che adesso è fuori dall’Aula, che ha fatto un discorso che io condivido completamente. Qui siamo tutti cittadini, parliamo tutti a nome dei cittadini e io credo che questo tema di dare agli altri dell’essere disonesti, è un tema in quest’Aula inaccettabile (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Sinistra Ecologia Libertà, Nuovo Centrodestra, Per l’Italia e di deputati del gruppo Misto) !
  Noi abbiamo vissuto in questi giorni e in queste settimane dei passaggi politici molto complessi e molto faticosi. Se siamo qui oggi, avendo passato molti giorni dietro a cercare di trovare la soluzione che oggi qui presentiamo, è anche perché siamo convinti che il nostro Paese ha bisogno di ritrovare fiducia anche nelle istituzioni. Siamo convinti e sono personalmente convinto che le forme di partecipazione che hanno portato, ad esempio, tre milioni di cittadini a votare domenica scorsa alle primarie – ero anch’io tra questi – sono la dimostrazione che la politica è ancora viva oggi in Italia (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia).
  E aggiungo, per quanto mi riguarda, io e noi siamo i più rispettosi delle forme di partecipazione e di consenso che portano i cittadini a partecipare e a portare le persone a lavorare, a operare, a fare tutto quello che stanno facendo in opposizione al mio Governo, al nostro Governo perché sono convinto che questa è la democrazia e sono convinto che una democrazia si basa sul fatto che ci sia la migliore delle dialettiche possibili, che è il modo migliore per obbligarci a fare cose. Ad esempio, ho sentito prima delle cose anche sul tema del finanziamento pubblico dei partiti: ma voi volete che si risolva o volete continuare ad accusare gli altri e le istituzioni di non averlo risolto ? È una differenza di fondo questa qua (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Per l’Italia – Proteste dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle). È una differenza di fondo ! Perché se volete che si risolva, allora la discussione che faremo, la discussione che faremo nei prossimi giorni per chiudere questa vicenda entro la fine dell’anno dovrà essere una discussione in cui ognuno di noi darà atto…

  IVAN DELLA VALLE. Li avete presi voi ! Dovete restituirli !

  PRESIDENTE. Colleghi, può terminare senza interruzioni ? Poi sarà il vostro turno. Ci sono delle regole, colleghi ! Per favore…colleghi…

  ENRICO LETTA, Presidente del Consiglio dei ministri. …ognuno di noi darà atto e in questo caso io non ho dubbi che dare atto al MoVimento 5 Stelle di avere agito su questo tema con determinazione è un fatto assolutamente normale e giusto. Ma tutto questo se si riesce poi ad arrivare a riconoscere che approvare definitivamente è molto meglio che discutere di tutte queste cose: responsabilità che ci dobbiamo prendere noi e che prenderemo. Così come ho trovato anche la discussione che, riprendo, della collega Nicchi prima, il passaggio che ha fatto sul tema delle disuguaglianze, perché lo ritengo uno dei passaggi e uno dei temi, oggi, che abbiamo di fronte più complicati. Per un motivo molto semplice. Noi dobbiamo raggiungere quei risultati di far ripartire il Paese ma, ho detto prima, il grande rischio è di avere la ripresa senza occupazione e il grande rischio è che quella forbice di disuguaglianze che si è aperta nei cinque anni della crisi rischia di trovarci sempre lì ferma. Ecco perché nel discorso che ho fatto e negli impegni che ho preso abbiamo citato non promesse generiche. Il sostegno inclusivo, ad esempio, è un tema che è già presente nelle sperimentazioni che verranno poi attuate nel 2014 e che dobbiamo rendere stabile nel 2015, come ho detto, così come il tema del diritto allo studio che è una delle questioni chiave con la quale si batte la disuguaglianza e si fa ripartire l’ascensore sociale.
  Finalmente si è ricominciato a investire sul diritto allo studio e continueremo a fare esattamente in quella dimensione perché sono straconvinto del fatto che la lotta alle disuguaglianze è uno dei grandi e fondamentali obiettivi che noi abbiamo di fronte ma tutto questo, colleghi, ha senso e tutte queste cose noi riusciremo a farle se, oggi, con questa fiducia, il nuovo inizio ci consente effettivamente di lasciarci dietro le spalle tanti litigi, tante discussioni e tanti stop and go completamente inutili e frenanti.

  Oggi abbiamo da applicare rapidamente e di corsa tutte queste misure che in parte sono già qui, in parte dobbiamo mettere in campo. Per quanto mi riguarda, sappiate che tutto farò, tranne che arrendermi alle tentazioni di chi dice: il caos è troppo, non ce la faremo. Io son convinto che ce la faremo e, per quanto mi riguarda, combatterò come un leone (Vivi applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Nuovo Centrodestra, Per l’Italia, e di deputati del gruppo Misto – I deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l’Italia, Nuovo Centrodestra, Per l’Italia e Misto si levano in piedi).”

da www.camera.it

“Ma troppi ricevono già soldi pubblici”, di Stefano Lepri

E’ difficile guardare dentro a una protesta caotica, somma di rabbie disparate. Ma alcuni focolai da dove si grida contro «i politici che rubano i soldi delle nostre tasse» hanno una sorprendente caratteristica in comune: nascono dentro categorie ben assuefatte a ricevere denaro pubblico.
Una frangia ribelle di autotrasportatori anima la protesta dei «forconi»: nell’ultimo decennio il settore ha ricevuto a vario titolo sussidi per circa 500 milioni di euro l’anno. Due settimane fa, Genova era stata bloccata dagli autoferrotranvieri contrari a una inesistente «privatizzazione», quando nel trasporto locale fino a tre quarti dei costi sono coperti con denaro del contribuente.

La crisi esaspera; la rabbia spinge a schierarsi dietro i più determinati a battersi. Il guaio è che, nel crescente dissesto del sistema italiano, i più determinati spesso hanno esperienza nello sfruttarne i benefici. Poi per ricucire tutto si inveisce contro Equitalia, che ha vessato a torto parecchie persone perbene, ma tra i cui nemici gli evasori è probabile siano in maggioranza.

E’ una protesta che guarda al passato, già tenta di riassumere il Censis; anzi è un passato che si rivolta contro sé stesso. Nelle sessioni di bilancio parlamentari come di fronte ai consigli comunali da anni prevalgono, a svantaggio degli elettori, gruppi di interesse piccoli e compatti, capaci non soltanto di gestire pacchetti di voti ma di bloccare il Paese con le loro agitazioni.

Ora scontenti di ogni tipo sono tentati di mettersi al loro traino nelle piazze, con effetti paradossali. Possono alcuni autotrasportatori, insoddisfatti dei 330 milioni di specifiche agevolazioni tributarie per il 2014 già ottenuti dalle associazioni di categoria, ergersi a simbolo del malcontento antifisco di tutti? Forse si tratta solo della speranza che almeno loro riescano ad ottenere qualcosa.

Nel trasporto cittadino invece è normale che si spenda denaro pubblico, perché il mezzo collettivo è un risparmio per tutti; ma in altri Paesi lo Stato copre una parte inferiore dei costi, circa metà, e i servizi funzionano meglio. La «privatizzazione» sarebbe in realtà l’ingresso di altri operatori pubblici, come Trenitalia, Deutsche Bahn (Stato tedesco), Ratp (Stato francese), non legati – a differenza dei sindaci – all’immediato tornaconto elettorale.

Insomma il Paese per non poterne più rischia rimedi peggiori del male: ulteriori aumenti della spesa pubblica oppure delle agevolazioni fiscali mirate qui o là, in un do ut des imbarbarito tra piazza e politica. Mentre, ad esempio, la vita del camionista migliorerebbe facendo rispettare la legge sulle strade, limiti di velocità, carichi, orari, reprimendo le intermediazioni più o meno malavitose, evitando che il lavoro nero prevalga sull’impresa in regola.

Vediamo l’esito estremo di una politica che ha cercato di immischiarsi in tutto, mancando invece al dovere di far funzionare le strutture basilari dello Stato. Il sospetto della corruzione, in più casi fondato, dilaga fino a diventare un pretesto invocando il quale chiunque può sottrarsi alla legge (quanti romani salgono ora in autobus senza pagare giustificandosi con lo scandalo dei biglietti falsi?).

L’unica via è ritracciare in modo trasparente il confine tra ciò che lo Stato fa e non fa. Una parte della responsabilità deve ritornare ai cittadini: se un servizio comunale è gestito male, perché non lasciarlo organizzare in proprio a associazioni di luogo o di categoria? Ridurre i costi della politica e revisionare la spesa pubblica da cima a fondo sono le due parti inseparabili di un compito urgentissimo: ridurre l’uso clientelare dello Stato. Purché non sia troppo tardi.