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Immigrazione, deputati Pd “Ripensare la legislazione e i Cie”

Approvata alla Camera mozione firmata dai modenesi Baruffi, Galli, Ghizzoni e Patriarca. La legislazione formulata dal centro-destra ha fallito, non ha né diminuito il numero dei clandestini né aumentato quello delle espulsioni: occorre ripensare completamente la normativa in materia di immigrazione. E’ questa la richiesta contenuta nella mozione di indirizzo al Governo, approvata lunedì 9 dicembre alla Camera, che porta anche la firma dei deputati modenesi Baruffi, Galli, Ghizzoni e Patriarca. “Occorre abrogare il reato di clandestinità – dicono i deputati modenesi – trasformare i Cie e riscriverne completamente le regole di gestione”.

A più riprese i parlamentari Pd hanno, in questi anni, visitato il Cie modenese, l’ultima visita in ordine di tempo è stata quella effettuata, nel luglio scorso, dal senatore Vaccari e dai deputati Baruffi e Patriarca: è proprio partendo dall’approfondita conoscenza della situazione modenese, e delle altre realtà in cui sono presenti centri di trattenimento, che è nata la mozione di indirizzo al Governo in materia di immigrazione approvata, lunedì 9 dicembre, alla Camera dei deputati che chiede il complessivo riordino della materia. La mozione portava la firma anche dei deputati modenesi Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni ed Edoardo Patriarca. Hanno votato a favore Pd, Scelta civica e Nuovo centro destra, si sono astenuti M5s e Sel, mentre contrari si sono dichiarati Forza Italia e Lega Nord. Con la mozione si chiede, in sostanza, all’Esecutivo di rivedere completamente la normativa in materia di ingressi, soggiorno ed espulsione degli stranieri. “L’attuale legislazione, frutto delle politiche del centro-destra. ha fallito – spiegano Baruffi, Galli, Ghizzoni e Patriarca – Dalla legge Bossi-Fini all’introduzione del reato di clandestinità, passando per la trasformazione degli ex Cpt in Cie e all’allungamento fino a 18 mesi del tempo di permanenza in queste strutture: sono tutte misure propagandate come “forti”, ma che non sono state in grado né di contenere il numero degli immigrati clandestini, né di aumentare le espulsioni, salvo appesantire e congestionare la macchina della giustizia e della burocrazia. Si tratta, inoltre, di una normativa non rispettosa dei diritti delle persone, siano essi migranti o trattenuti, tanto che ha fatto dell’Italia l’oggetto di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea”. I deputati modenesi Pd propongono l’abolizione del reato di clandestinità e la trasformazione dei Cie, riportandoli alla loro funzione originaria di luogo di permanenza temporanea che consente l’identificazione degli immigrati. “Prima però di pensare alla riapertura delle tante strutture chiuse in questi mesi, come è accaduto a Modena – ribadiscono Baruffi, Galli, Ghizzoni e Patriarca – occorre una nuova regolamentazione della loro gestione, più omogenea per tutto il territorio nazionale e, soprattutto, più rispettosa dei diritti elementari delle persone. In questi ultimi tempi sono state riscontrate gravissime carenze gestionali, aggravate dal selvaggio taglio dei costi”. Basta, insomma, appalti al massimo ribasso, ma aggiudicazioni che tengano conto delle offerte davvero più vantaggiose non solo in termini economici. “Non potrà più essere – concludono i parlamentari modenesi del Pd – che in una stessa struttura convivano pregiudicati che hanno finito di scontare la loro pena, richiedenti asilo, e persone che non hanno mai commesso alcun reato se non quello di aver perso il lavoro ed essere così caduti nella clandestinità”. Il Pd ha presentato una proposta complessiva di riordino della materia immigrazione, a partire dal diritto d’asilo: la riforma è già stata calendarizzata per la discussione alla Camera.

“Il team del rottamatore. I ruoli e gli equilibri nella segreteria di Renzi”, di Rudy Francesco Calvo

Dodici dirigenti più un portavoce affiancheranno il nuovo segretario nella gestione del Pd. Gli uomini forti sono soprattutto tre, altri incarichi pensati per obiettivi specifici. C’è un civatiano, prosegue il dialogo con Cuperlo. Non c’è un vicesegretario, così come manca un coordinatore della segreteria. Ma la squadra presentata ieri da Matteo Renzi nella sua prima conferenza stampa al Nazareno («Ma è sempre così?», ha chiesto sottovoce, davanti ai flash dei numerosissimo fotografi presenti, a Guglielmo Epifani accanto a lui, che però non gli ha risposto) ha già due uomini forti ben individuati: Luca Lotti, responsabile organizzazione, e Stefano Bonaccini, al quale sono stati affidati gli enti locali. A questi, si affianca Lorenzo Guerini, che nel ruolo di portavoce si occuperà dei rapporti con l’esterno del partito, dopo aver curato quelli con le altre componenti interne nella faticosa battaglia per definire le regole congressuali. Quando il sindaco di Firenze diventerà anche formalmente segretario del Pd, cioè domenica dopo l’ufficializzazione dell’esito delle primarie in assemblea nazionale, saranno loro ad occuparsi della gestione day by day del partito, mentre Renzi riserverà per sé tutto ciò che contribuirà a definire il profilo politico dei Democratici.

Colpisce la nomina all’economia di Filippo Taddei, sostenitore di Pippo Civati, che rappresenta l’unico innesto extra-mozione nella squadra renziana. Ma il candidato giunto terzo alle primarie ha subito precisato: «Sono contento per Filippo, ma non è un accordo tra me e Renzi. Non è un patto per una gestione unitaria, come dicevano una volta».

Alcuni incarichi sembrano pensati ad hoc per alcune battaglie che segneranno anche il rapporto del nuovo segretario con il governo guidato da Enrico Letta: l’impegno dello stesso Taddei e della responsabile lavoro Marianna Madia a favore delle tutele per i lavoratori atipici e precari, quello della fedelissima Maria Elena Boschi (riforme) per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, i rapporti di Federica Mogherini (esteri) con il Pse, l’allargamento dell’incarico di Pina Picierno, che oltre alla legalità assume anche il sud.

Per quanto riguarda gli equilibri politici interni al partito, ai renziani doc si affiancano ben tre esponenti di AreaDem (la fassiniana Mogherini, che ha buoni rapporti anche con Veltroni, Braga e Picierno), oltre alla più “eterodossa” Serracchiani. Due sono gli ex bersaniani convertiti al renzismo (Bonaccini e Morani), mentre Madia, che non fa riferimento a una componente specifica, può fare da ponte sia con i Giovani turchi, tra i quali ha molti amici (alle parlamentarie di un anno fa, fece campagna in ticket con Fassina), sia con il premier Letta.

Resta da capire se riceverà incarichi anche qualche esponente della mozione Cuperlo. Quest’ultimo ha incontrato a lungo ieri il neo segretario prima della sua conferenza stampa, ma non è stato raggiunto un accordo. L’opzione più probabile rimane quella di affidare la presidenza dell’assemblea nazionale, che si riunirà domenica prossima a Milano, a un padre nobile come Alfredo Reichlin, ma le trattative si prolungheranno ancora nei prossimi giorni.

da Europa Quotidiano 10.12.13

“Scuola, c’è poco da essere ottimisti”, di Andrea Gavosto

Molto rumore per nulla? La scorsa settimana sono stati resi noti i risultati per il 2012 che l’indagine internazionale PISA dell’Ocse fornisce ogni tre anni sulle competenze degli studenti di 15 anni. La comunicazione dei risultati dell’Italia e i resoconti dei media nazionali hanno dato grande enfasi al miglioramento che sarebbe avvenuto negli ultimi anni, in matematica – focus dell’ultima rilevazione – come pure in lettura e scienze, le altre aree regolarmente sotto osservazione. Tale miglioramento, pur non evitando ai risultati del nostro Paese di restare in aggregato significativamente al di sotto della media Ocse, andrebbe accolto con soddisfazione. «L’Italia ha migliorato i suoi risultati senza rinunciare al principio di equità nel sistema di istruzione» ha dichiarato il ministro Carrozza. Alla luce di questa lettura dei dati, è possibile che l’opinione pubblica si sia fatta l’idea di una scuola italiana infine avviata sulla giusta strada.
Le cose non vanno proprio così. In attesa di ulteriori approfondimenti, per rendersene conto basta leggere il rapporto e la sintesi che l’Invalsi ha pubblicato sugli esiti di PISA 2012 per l’Italia. Già dalla prima pagina ci si accorge che, pure con qualche equilibrismo lessicale, il tono è più avvertito. In primo luogo, nel collocare temporalmente il miglioramento. In effetti, fra il 2006 e il 2009, ossia fra le due tornate di PISA precedenti a quest’ultima, i risultati italiani erano cresciuti in modo piuttosto cospicuo. Di tale crescita si potevano dare diverse spiegazioni, compresa la verosimile ipotesi che nel 2009 forse per la prima volta la scuola italiana avesse preso sul serio l’importanza e l’utilità della rilevazione: le polemiche suscitate dallo sfavorevole confronto internazionale avevano, infatti, spinto docenti e presidi a prendere coscienza e a reagire a una situazione insoddisfacente. La progressiva diffusione delle prove Invalsi cominciava, inoltre, a formare negli studenti la consuetudine a modalità di misurazione delle competenze finora estranee alla nostra scuola. Purtroppo, però, fra il 2009 e il 2012 il trend di miglioramento avviato tre anni prima non si è confermato con l’intensità precedente (si veda il grafico). I pochi ulteriori punti guadagnati fanno sì che l’incremento sia «piccolo e statisticamente non significativo»: espressione che gli statistici, memori degli inevitabili margini di imprecisione degli strumenti di misura, usano per dire che il miglioramento negli ultimi tre anni potrebbe anche non esserci stato affatto. Di certo, nella migliore delle ipotesi, dal 2009 al 2012 ha rallentato vistosamente.
A fronte di un ottimismo non giustificato, non si è dato sufficiente rilievo ad altre informazioni di PISA 2012, alcune delle quali non rassicurano su un percorso della scuola italiana nel segno dell’equità. Certo, molti commentatori e lo stesso sottosegretario Rossi Doria si sono detti preoccupati del permanere in Italia di divari territoriali, che vedono la qualità della scuola del Sud a distanze purtroppo siderali da quella del Nord e, in particolare, del Nord Est, oggi al livello delle migliori europee. Ma pochissimi – ci pare – si sono mostrati consapevoli che, sotto alcuni aspetti, i divari territoriali d’istruzione dal 2009 a oggi si sono addirittura acuiti. PISA, ad esempio, classifica le competenze degli studenti in sei livelli; chi si colloca sotto il livello 2 si ritiene non abbia risorse sufficienti per sostenere il proprio futuro professionale ed esercitare un ruolo attivo nella società. Ebbene, nel 2009 il Sud e le Isole avevano in matematica una percentuale di studenti sotto il livello 2 pari, rispettivamente, a 31% e 35,9%. Questo dato, già allora disastroso, nel 2012 è ulteriormente peggiorato, passando rispettivamente a 31,6% e 38,1%, mentre nel contempo a Nord è migliorato e al Centro in sostanza non è mutato. Dal 2009 al 2012 sembrano, inoltre, aumentate anche le distanze fra i diversi indirizzi scolastici – licei, tecnici, professionali – con questi ultimi sempre più ultimi: in molte parti d’Italia iscriversi a un istituto professionale significa la quasi certezza di non acquisire le competenze adeguate alla costruzione del proprio ruolo sociale.
Guardare al nostro sistema d’istruzione come a un paziente convalescente, ma ben avviato alla guarigione, abbassando la guardia sulle terapie, sarebbe un errore. Purtroppo, qualche indizio in questa direzione c’è. Ad esempio, tanto più alla luce delle permanenti criticità, sarebbe necessario accelerare la costruzione del sistema nazionale di valutazione, per ora solo sulla carta, rendendola solida dal punto di vista degli strumenti e condivisa, con un grande sforzo per convincere della sua utilità i tanti insegnanti ancora ostili. Questo processo negli ultimi mesi ha frenato. Non solo: aiutata da alcune scelte del vertice autolesionistiche per lo stesso istituto, la recente decisione del ministro di affidare l’indicazione della persona più adatta a presiedere l’Invalsi a una commissione di saggi, la maggioranza dei quali è scettica, se non sfavorevole alla valutazione esterna e alle prove standardizzate, è un segnale di arretramento che non può non preoccupare.
L’autore è direttore della Fondazione Giovanni Agnelli

Il Sole 24 ore 10.12.13

“Coppie di fatto boom”, di Mariagrazia Gerina

Istantanee di coppia. Francesco e Marco vivono insieme da anni e si sentono vittime di un paradosso: «Gli altri si scambiano una promessa per la vita, noi per ora possiamo solo nominarci nel testamento». Cosa che hanno fatto da tempo. Poi è arrivata la bimba, che nella vita di tutti i giorni li chiama papà ma all’anagrafe è figlia di uno solo dei due. E di nuovo sono stati costretti a celebrare l’evento cambiando il testamento. Giovanna e Fabrizio sono una giovane coppia, vivono insieme da due anni, dividendo spese di affitto e bollette, senza troppi problemi. Però vogliono essere sicuri di potersi prendere cura l’uno dell’altro, anche in caso di malattia o di un incidente. Valeria è già rimasta scottata una volta: lavorava al negozio del marito, ma senza contratto. Ora convive con un nuovo compagno che vuole rassicurarla, garantendole nero su bianco un sostegno economico anche se si dovessero lasciare. Desideri e paure quotidiane delle coppie di fatto. Erano 500mila nel 2007, sono diventate quasi un milione. Nel 2007 erano soprattutto famiglie ricostituite, con un matrimonio alle spalle (55%), ora la maggior parte sono famiglie di nuova generazione (60%). Un popolo che avanza, anche senza l’aiuto del parlamento italiano, che da venticinque anni promette unioni civili, Pacs, Dico, matrimoni gay, senza riuscire a battere un colpo. Solo in questa legislatura sono state presentate 16 proposte di legge: per le unioni civili, per l’eguaglianza di accesso al matrimonio, per i diritti e doveri dei conviventi, contro la discriminazione matrimoniale. Nessuna, per ora, è stata calendarizzata in aula. E l’intera matassa è in questo momento all’esame della commissione giustizia del senato. Anche i Registri delle unioni civili, istituiti in molti Comuni d’Italia sono a una empasse. Dovevano aprire le porte a una nuova stagione legislativa. Rischiano di rimanere, per lo più, uno strumento spuntato. Soprattutto se le amministrazioni locali, invece di andare avanti, si fermano ad aspettare la politica nazionale.
Tradite dalla politica, le coppie di fatto però sono diventate oggetto di grande attenzione da parte dei liberi professionisti. I notai, in particolare, fiutata l’aria, hanno lanciato nelle ultime settimane una campagna di comunicazione senza precedenti.
Open day, battage informativo, «porte aperte» ai cittadini in 93 Comuni d’Italia. E la promesa che «dal 2 dicembre» le coppie che convivono avrebbero potuto veder tutelati i propri interessi rivolgendosi a un notaio. «Due cuori e una capanna», ma «noi vi diciamo a chi spetta la capanna se i cuori si infrangono».
In tanti sono andati a informarsi. Circa un migliaio, secondo una stima non ancora ufficiale. «Persone con cultura medio-alta, già molto informate», spiega il presidente del Consiglio notarile di Milano, Arrigo Roveda: «La domanda più frequente: come farò a garantire il mio convivente quando non ci sarò più?». In realtà, chi sperava che fosse cambiato qualcosa nell’ordinamento italiano è rimasto deluso. Tutto è rimasto come prima. Quello che i notai ripropongono sono i contratti di convivenza, la possibilità di stabilire come dividere spese e beni in comune, quella di fare testamento, con i limiti imposti dalla legge. Strumenti che esistevano già. La novità è un vademecum per addetti ai lavori che il notariato ha distribuito a tutti i suoi iscritti. Da lunedì scorso, quindi, gli studi notarili di tutta Italia dovrebbero essere più preparati ad andare incontro alle esigenze delle coppie di fatto. Ovviamente, a pagamento.
Sulle tariffe, la categoria è un po’ abbottonata. «Non sentirà mai da me una cifra, non posso: l’antitrust mi sanzionerebbe», avverte Roveda: «In Italia, le tariffe sono state abolite». Nel resto d’Europa no. Ma, pazienza: con l’ausilio di qualche professionista volenteroso, tentiamo una stima a spanne. Una giovane coppia, senza grandi proprietà può cavarsela con qualche centinaio di euro. Molto più salato il conto per chi ha una storia patrimoniale più articolata, magari con alle spalle un matrimonio e dei figli. «Si può andare da mille euro a qualche migliaia di euro», dice Domenico Cambareri, del Consiglio nazionale notai.
«Una iniziativa commerciale», replica Laura Logli, avvocato matrimonialista che per conto del Comune di Milano alcuni mesi fa ha redatto un vademecum per le coppie di fatto, scaricabile dal sito di Palazzo Marino. Gli strumenti indicati sono gli stessi a cui rimanda il Consiglio nazionale dei notai. Con una differenza. Che alcune cose si possono mettere in chiaro anche gratis. Quelli patrimoniali sono gli unici interessi tutelati in via esclusiva dai notai, spiega Logli. Tentativo di andare oltre la semplice istituzione del Registro delle Unioni civili. Non a caso, a Milano le iscrizioni sono state più alte che nel resto d’Italia: 750 coppie registrate. Contro le 157 di Torino, che pure ha alle spalle più anni di vita.
A Roma, invece, il Registro non c’è. Il passo successivo per Milano doveva essere l’apertura di sportelli gratuiti rivolti alle coppie di fatto. «Ci stiamo ragionando», spiega l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Ma c’è il problema delle risorse. Quindi l’idea resta nel cassetto. E intanto proprio da Palazzo Marino sabato scorso i notai hanno lanciato la loro campagna.

L’Unità 10.12.13

“Radiografia del gazebo”, di Ilvo Diamanti

Le primarie del Pd hanno garantito a Matteo Renzi un successo ampio e netto — quasi il 70% dei consensi. Legittimato da una mobilitazione larga quanto inattesa. Circa 3 milioni. Più o meno come nel 2009 e nel secondo turno dell’anno scorso. Quando, però, si trattava di primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del Centrosinistra. Un’affluenza tanto ampia non era scontata.
Due settimane fa, infatti, la quota di elettori del Pd e del Centrosinistra che dichiarava l’intenzione di partecipare alle primarie era, di circa un terzo, inferiore alle occasioni precedenti (Sondaggio Demos). Effetto, soprattutto, della delusione, in seguito al risultato delle elezioni di febbraio. Quando il centrosinistra non è riuscito a vincere, nonostante la mobilitazione e le attese alimentate dalle primarie svolte in novembre. Invece, anche in questa occasione, molti elettori hanno messo da parte disincanto e frustrazione.
Così, per una volta di più, domenica sono tornati ai seggi allestiti dal Pd. Ci hanno ripensato per diverse ragioni. Anzitutto, il vizio della partecipazione. La convinzione democratica. La convinzione che la “volontà popolare” sia importante. E vada sostenuta comunque. Nonostante tutto. Tanto più se avviene “di persona”. E permette di incontrare — e, prima ancora, discutere con — altre persone. In tempi nei quali la “partecipazione” è stata sostituita dalla televisione. Oppure dalla rete. A cui, però, molti non accedono. Mentre quelli che sono “connessi” — in numero, peraltro, crescente — comunicano senza incontrarsi “di persona”. Così, alla fine, molti “delusi” hanno ceduto alla convinzione “democratica”. In entrambi i sensi: alla partecipazione democratica — offline — promossa dal Partito Democratico. Al quale è stata concessa un’altra occasione. Per realizzare, davvero, il cambiamento. E per cambiare — esso stesso. Come ha sottolineato Romano Prodi, per spiegare la sua “sofferta” decisione di votare, dopo aver annunciato, in precedenza, che non l’avrebbe fatto (con molte ragionevoli ragioni).
Ad alimentare la partecipazione ha contribuito, in misura importante, la competizione tra i candidati. Accesa, malgrado l’esito apparisse largamente scontato. Nell’insieme, ha dato l’idea di un “cambio di generazione”. La diversa storia politica personale dei due “sfidanti” di Renzi ha, infatti, integrato e allargato l’offerta politica proposta agli elettori. All’interno e all’esterno del Pd. Come emerge, in modo particolarmente chiaro, dai dati dell’indagine condotta da C&LS. Circa 3600 interviste effettuate (e coordinate dalle Università di Cagliari e Milano) durante le primarie, fuori dai seggi, presso un campione nazionale significativo. Mettono in evidenza, anzitutto, le differenze generazionali degli elettori dei tre candidati. Pippo Civati, infatti, raccoglie i suoi consensi soprattutto fra i più giovani (circa il 30% fra 16 e 34 anni), Gianni Cuperlo fra i più anziani (35% oltre i 65 anni). Matteo Renzi, invece, attinge, in modo trasversale, da tutti gli strati d’età. Non a caso, visto che rappresenta la larga maggioranza della base del Pd — coinvolta e potenziale.
Per questo, però, il contributo di Cuperlo e Civati è utile a Renzi e al Pd. Perché i due sfidanti intercettano componenti, per quanto delimitate, molto diverse e lontane fra loro; difficili, soprattutto, da saldare insieme. Cuperlo: il retroterra dei partiti tradizionali. Civati: gli elettori insoddisfatti della politica, che guardano “oltre” il Pd.
D’altra parte, quasi metà degli elettori di Cuperlo (il 48%) è composta da iscritti al Pd, mentre più di tre quarti di quelli di Renzi e di Civati si dichiarano non-iscritti.
Le differenze fra i candidati appaiono evidenti dagli orientamenti politici. Gli elettori di Cuperlo sono concentrati a centrosinistra e a sinistra (90%, distribuiti quasi equamente tra le due aree dello spazio politico), quelli di Civati soprattutto a sinistra (57%). Dove si colloca una componente significativa di elettori di Sel. Renzi, invece, è saldamente ancorato a centrosinistra (50% dei voti), ma attinge consensi anche al centro (18%). Nella sua base, non per caso, appare ampia (31%) la quota dei cattolici praticanti.
Gli elettori delle primarie si differenziano anche negli atteggiamenti verso il governo guidato da Letta. Coerentemente con l’orientamento dei candidati. Oltre il 60% degli elettori di Cuperlo esprime un giudizio “favorevole”. La stessa quota di “contrari” che si osserva tra quelli di Civati. Mentre la base di Renzi appare, di nuovo, equamente divisa. Ciò significa, però, che quasi metà dei suoi elettori valuta negativamente l’azione del governo. Il che costituisce un segnale significativo — e preoccupante — per Letta e per la sua maggioranza.
D’altronde, per gli elettori del Pd che hanno votato alle primarie, la scelta di Renzi appare un investimento esplicito in vista delle elezioni. Non a caso, il 94% dei partecipanti al voto delle primarie si dicono convinti che Renzi sia in grado, più di ogni altro candidato,
di battere il Centrodestra alle prossime elezioni. Lo pensano, in larghissima maggioranza, anche gli elettori di Cuperlo (80%) e, ancor più, di Civati (90%).
Ciò chiarisce il significato di un’affluenza tanto estesa. E di un consenso così ampio a favore di Renzi. A sinistra e a centrosinistra. Vincere e durare. Senza governi tecnici. Senza larghe intese. Ma, piuttosto, con una maggioranza larga. Perché partecipare, stare con gli altri, insieme ad altre persone: fa bene. Fa stare bene. Ma, almeno ogni tanto, bisogna vincere. E governare. Per la stessa ragione, c’è da credere che questo risultato renda Matteo Renzi più impaziente. Determinato a marcare la sua volontà di “cambiamento”, com’è apparso chiaro fin dalla composizione della sua segreteria. Ma, al tempo stesso, reso inquieto dal dubbio — e dal timore — che, in tempi incerti come questi, il tempo — anche il suo
tempo — passi in fretta.

La Repubblica 10.12.13

“La protesta e la speranza”, di Michele Ciliberto

Qualcuno, forse, obietterà che io sono un marxista, ed è possibile. Non credo però che si possano comprendere la “sorpresa” delle primarie di domenica e il successo di Matteo Renzi se non si parte da qui: dalla crisi profondissima che devasta da anni ormai l’Italia e dai caratteri peculiari che essa ha assunto. Si tratta di una crisi che ha toccato, peggiorandole, le condizioni materiali di larga parte della popolazione italiana; ma non si è fermata a questo, pur fondamentale, livello.

È una crisi che è risalita al piano complesso e delicatissimo delle identità individuali, dei valori intorno ai quali ciascuno costruisce se stesso e si proietta nell’avvenire, progettando la proprio vita e quella delle persone più vicine. Lo ha fatto dissolvendo, progressivamente, l’idea stessa di futuro, la speranza di poter vivere una vita decente, autonoma, libera, colpendo allo stesso modo – e qui sta un elemento di novità – classi subalterne e classi proprietarie: «capitale» e «lavoro», avrebbe detto una volta un marxista.

Le cronache sono piene di operai che salgono sulle gru perché si sentono senza rappresentanza e di titolari di azienda che decidono, per disperazione, di togliersi la vita perché non trovano più una banca disposta a continuare a finanziarli e restano oppressi – e vinti – da responsabilità che non riescono a sostenere. Vengono meno, per gli uni e per gli altri, progetti e prospettive di vita, mentre il presente decade in una quotidianità triste, infelice, dolorosa, chiusa in un cerchio di solitudine. Sono i temi su cui si è fermato l’ultimo rapporto del Censis.

Se la politica ha un senso per il vivere dell’uomo, dovrebbe intervenire in situazioni come queste, cercando di muovere tutte le leve necessarie per cercare di limitare queste sofferenze e ristabilire un rapporto con la vita là dove è più necessario. Ma la politica, in questi anni, si è chiusa dentro se stessa, senza capire quello che stava fermentando nel fondo del Paese; si è messa da un’altra parte. Mentre la crisi ha continuato a incidere nella carne della gente, serrata dentro le sue regole, la politica ha perso contatto con l’esistenza degli individui, delle persone affidandosi a parole-totem sideralmente distanti da quanto accade nella vita quotidiana degli italiani. «Stabilità», «stato di necessità», «vincoli europei». Parole che un senso certamente lo hanno, ma che diventano insopportabili quando prescindono dalla vita delle persone, da un progetto per il futuro: allora diventano suoni vuoti, provenienti da un altro universo, distantissimo ed estraneo. Con le conseguenze che si possono constatare: l’adesione all’euro, che pure era stata ottenuta con forte consenso popolare, è diventata per un numero sempre maggiore di italiani una sorta di incubo di cui liberarsi al più presto. Questa è la situazione: ne è scaturito, prima un distacco e un disprezzo per la politica, poi, in modo più radicale, un rancore e un risentimento sociale che ha contribuito a disgregare i tradizionali blocchi politici, sociali e anche elettorali, generando la formazione di nuovi soggetti che si sono fatti interpreti di questi atteggiamenti e che, progressivamente, hanno alzato il tiro della loro azione fino ad attaccare le cariche supreme della Repubblica. Per definire questi processi, si è scelto di usare, specie a sinistra, il termine – ambiguo, generico e riduttivo – di «populismo», credendo di aver così risolto il problema, senza interrogarsi sulle loro ragioni, ed anzi mettendo in una zona d’ombra coloro che in quelle posizioni si riconoscono, oltre che sul piano elettorale, su quello culturale, ideale e, verrebbe da dire, antropologico. Stanno qui le ragioni del successo di Grillo, con cui non si sono mai fatti effettivamente i conti; ma, ad interrogarlo bene, quel movimento ci dice una cosa importante che è esplosa in piena luce anche nelle primarie di domenica. Gli italiani, di cui è di moda parlare male, sono feriti, attraversati da timore, paura e anche dal risentimento ma non sono rassegnati e tanto meno lo sono quanto più sentono sulla loro pelle il peso della crisi. Vogliono, chiedono che questa situazione muti, pretendono un cambiamento, e sono ormai disposti a farlo anche in modo spiccio, come si è visto ieri con il movimento dei «forconi».
In questo contesto, in questa Italia, sono ancora tanti quelli pronti a mettersi in fila davanti a un gazebo quando sentono un uomo politico che, rompendo i ponti con il passato, parla di futuro, alzando gli occhi dal presente all’avvenire, e dica di essere pronto a scrivere, finalmente, un libro nuovo: in ultima analisi, questo è il significato, e la sostanza, delle primarie di domenica e del successo di Renzi. La forza, e l’intelligenza, del sindaco di Firenze sta nell’aver intercettato questo enorme bisogno di cambiamento e di democrazia e nell’aver cominciato a diffondere un vocabolario imperniato su parole come «speranza», «possibilità», «alternativa» e non su quelle in circolo da troppo tempo: «necessità», «stabilità», «vincoli europei»…
Si può essere d’accordo su quello che dice, o sentirsi lontani dalla sua apologia della «nuova generazione». Ma è questo nuovo vocabolario che Renzi sta diffondendo, ed importante che sia stato ascoltato per almeno due ragioni: in primo luogo, vuol dire che è ancora possibile, per il Pd, intercettare la profonda domanda di cambiamento che nonostante tutte le delusioni di questi mesi, attraversa la società italiana; in secondo luogo, significa che si può cercare di dare a questa esigenza di cambiamento una risposta in chiave riformatrice, costituendo una alternativa politica effettiva al Movimento 5 Stelle e bloccando le derive di carattere autoritario che sono immanenti alla leadership di quel partito. Esse, però, diventano possibili, e sarebbe bene non dimenticarlo, proprio quando la politica si serra dentro se stessa, provocando ,per contrasto, la resistenza e anche la ribellione dei cittadini, fino a mettere a rischio la stessa democrazia.
Ma credo che abbia ragione Renzi: è assai difficile che una occasione di questo tipo si ripresenti; essa può essere però soddisfatta ad alcune condizioni tutt’altro che semplici: far nascere, finalmente, il Pd; utilizzare tutte le energie che servono per una impresa di questo spessore, come ha raccomandato saggiamente Prodi. «Ora che hai Sparta, abbine cura», recita un adagio di Erasmo: spero che Renzi se ne ricordi, e lo applichi.

L’Unità 10.12.13

“Sono finiti gli Anni Settanta”, di Mario Calabresi

Gli Anni Settanta sono finiti domenica sera, sono stati archiviati dal maggiore partito della sinistra italiana e dai suoi elettori. La notizia è significativa perché solo lì poteva accadere, come solo lì potranno essere ridisegnati i rapporti tra la politica e il sindacato in Italia.
Nel 1992 Bill Clinton venne eletto presidente degli Stati Uniti, il primo a non essersi formato durante la Seconda Guerra Mondiale come tutti i suoi predecessori e come i suoi sfidanti in quell’elezione (Bush padre) e quattro anni dopo (Bob Dole). Tra i suoi predecessori la stessa rottura era stata fatta da John Kennedy, primo presidente del Novecento a non essere nato nell’Ottocento. In entrambi i casi ci fu un cambio di retorica e di riferimenti culturali che aiutarono l’America a cambiare rotta.

Oggi abbiamo un segretario del Partito democratico che è andato in prima elementare quando erano già cominciati gli Anni Ottanta e un presidente del Consiglio che in quel decennio ha fatto il liceo.

Di quel periodo si è già parlato ampiamente, dei riferimenti, delle mode e della cultura che si portano dietro, ma quello che colpisce ora è che nessuno dei due protagonisti del confronto sul governo, sul suo futuro e sulla legge elettorale si sia formato negli Anni Settanta, abbia partecipato a quella stagione di dibattito, abbia potuto militare nei movimenti di quel periodo o anche semplicemente votare comunista. Non è questa l’occasione per dare un giudizio di merito, ma penso che sia notevole che una tradizione formatasi in quel tempo sia stata superata con il voto determinante di cittadini la cui età anagrafica, provenienza sociale e geografica parlava invece proprio quella lingua.

Non è successo qualcosa contro, anche se i toni del Renzi rottamatore dello scorso anno andavano in quella direzione, ma qualcosa dentro. E’ dentro il mondo della sinistra che è emerso lo sfinimento per una storia che si era avviluppata su se stessa e che non aveva più alcuna spinta propulsiva. Da troppo tempo la sinistra italiana era chiusa in difesa, incapace di connotarsi con proposte innovative presa com’era a definirsi in contrapposizione: contro i cambiamenti nella scuola, nell’università, nella sanità, della Costituzione, nel mondo del lavoro, ma soprattutto legando la sua identità all’antiberlusconismo.

Tutto ciò era privo di ossigeno, incapace di costruire speranza, di rimettere in circolo idee coraggiose. Troppi dibattiti sono stati fatti in questi ultimi anni senza tenere conto della realtà in cui viviamo, senza preoccuparsi di dare risposte chiare ai bisogni e alle urgenze di oggi, ma con la testa girata all’indietro cercando le soluzioni in prassi e tradizioni vecchie di mezzo secolo.

Una classe dirigente che sembrava inamovibile è stata messa da parte nell’ultimo anno e più nettamente in questo fine settimana. E le conseguenze saranno molte e definiranno il futuro del nostro Paese. Prima di tutto cadrà uno degli alibi della paralisi che porta molti italiani a disimpegnarsi o a cercare vie di fuga, quello che qui nulla cambia. Oggi abbiamo il Parlamento più giovane e con più donne nella storia d’Italia, adesso di una nuova generazione sono anche i leader.

Non c’è più la giustificazione maestra, chi è giovane da domani non potrà più denunciare lo strapotere dei vecchi, anche perché il terremoto della crisi sta spazzando via intere classi dirigenti, basta guardare cosa è successo nella Lega o nel centrodestra, dove Berlusconi cerca di sopravvivere ma si allarga il fronte di chi si affranca. Perfino nell’economia e nella finanza sono crollati santuari che a lungo erano parsi granitici e intoccabili.

Di certo i problemi di domani sono sempre gli stessi di ieri, la mancanza di lavoro e di prospettive, lo sbilanciamento delle tutele in favore di chi un posto ce l’ha e la lentezza di reazione e risposta. Non sappiamo se i nuovi protagonisti saranno migliori, perché essere giovani non significa automaticamente essere più bravi e di certo non significa essere più preparati o saggi – e la data di nascita come unico merito può giocare brutti scherzi -, ma sappiamo che potrebbero essere diversi, più in sintonia con la società in cui viviamo e con le sue richieste.

Chi prende il timone oggi deve guardarsi da tre mali che ci affliggono da troppo tempo: il cinismo, il conservatorismo e quel ritornello micidiale del «Non si può fare». Così come abbiamo fatto finora ci ha portato nella palude in cui viviamo, è tempo di provare ad andare in altre direzioni, di scardinare convinzioni consolidate e di assumersi qualche rischio con coraggio e fantasia.

C’è da augurarsi che dalle generazioni precedenti, i nostri nuovi leader non ereditino il vizio della sfida continua, che il duello Letta-Renzi non ricalchi i passi di quello decennale tra D’Alema e Veltroni, non perché non siano sane le differenze e il confronto delle idee, ma perché non sarebbe male smettere di farsi del male.

Molti oggi dicono che Renzi è arrivato troppo tardi, che il cambiamento andava fatto prima, che se è successo adesso è solo merito dell’anagrafe, ma a me viene in mente una frase che Papa Francesco ripeteva a chi doveva subire insieme a lui veti e ostracismi: «Il tempo vince sempre sullo spazio».

E’ un bel messaggio di fede, ma quando arriva il tempo giusto e si è riusciti anche a conquistare lo spazio allora comincia la partita più complicata: dimostrare di essere all’altezza.

La Stampa 10.12.13