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“Scuola, c’è poco da essere ottimisti”, di Andrea Gavosto

Molto rumore per nulla? La scorsa settimana sono stati resi noti i risultati per il 2012 che l’indagine internazionale PISA dell’Ocse fornisce ogni tre anni sulle competenze degli studenti di 15 anni. La comunicazione dei risultati dell’Italia e i resoconti dei media nazionali hanno dato grande enfasi al miglioramento che sarebbe avvenuto negli ultimi anni, in matematica – focus dell’ultima rilevazione – come pure in lettura e scienze, le altre aree regolarmente sotto osservazione. Tale miglioramento, pur non evitando ai risultati del nostro Paese di restare in aggregato significativamente al di sotto della media Ocse, andrebbe accolto con soddisfazione. «L’Italia ha migliorato i suoi risultati senza rinunciare al principio di equità nel sistema di istruzione» ha dichiarato il ministro Carrozza. Alla luce di questa lettura dei dati, è possibile che l’opinione pubblica si sia fatta l’idea di una scuola italiana infine avviata sulla giusta strada.
Le cose non vanno proprio così. In attesa di ulteriori approfondimenti, per rendersene conto basta leggere il rapporto e la sintesi che l’Invalsi ha pubblicato sugli esiti di PISA 2012 per l’Italia. Già dalla prima pagina ci si accorge che, pure con qualche equilibrismo lessicale, il tono è più avvertito. In primo luogo, nel collocare temporalmente il miglioramento. In effetti, fra il 2006 e il 2009, ossia fra le due tornate di PISA precedenti a quest’ultima, i risultati italiani erano cresciuti in modo piuttosto cospicuo. Di tale crescita si potevano dare diverse spiegazioni, compresa la verosimile ipotesi che nel 2009 forse per la prima volta la scuola italiana avesse preso sul serio l’importanza e l’utilità della rilevazione: le polemiche suscitate dallo sfavorevole confronto internazionale avevano, infatti, spinto docenti e presidi a prendere coscienza e a reagire a una situazione insoddisfacente. La progressiva diffusione delle prove Invalsi cominciava, inoltre, a formare negli studenti la consuetudine a modalità di misurazione delle competenze finora estranee alla nostra scuola. Purtroppo, però, fra il 2009 e il 2012 il trend di miglioramento avviato tre anni prima non si è confermato con l’intensità precedente (si veda il grafico). I pochi ulteriori punti guadagnati fanno sì che l’incremento sia «piccolo e statisticamente non significativo»: espressione che gli statistici, memori degli inevitabili margini di imprecisione degli strumenti di misura, usano per dire che il miglioramento negli ultimi tre anni potrebbe anche non esserci stato affatto. Di certo, nella migliore delle ipotesi, dal 2009 al 2012 ha rallentato vistosamente.
A fronte di un ottimismo non giustificato, non si è dato sufficiente rilievo ad altre informazioni di PISA 2012, alcune delle quali non rassicurano su un percorso della scuola italiana nel segno dell’equità. Certo, molti commentatori e lo stesso sottosegretario Rossi Doria si sono detti preoccupati del permanere in Italia di divari territoriali, che vedono la qualità della scuola del Sud a distanze purtroppo siderali da quella del Nord e, in particolare, del Nord Est, oggi al livello delle migliori europee. Ma pochissimi – ci pare – si sono mostrati consapevoli che, sotto alcuni aspetti, i divari territoriali d’istruzione dal 2009 a oggi si sono addirittura acuiti. PISA, ad esempio, classifica le competenze degli studenti in sei livelli; chi si colloca sotto il livello 2 si ritiene non abbia risorse sufficienti per sostenere il proprio futuro professionale ed esercitare un ruolo attivo nella società. Ebbene, nel 2009 il Sud e le Isole avevano in matematica una percentuale di studenti sotto il livello 2 pari, rispettivamente, a 31% e 35,9%. Questo dato, già allora disastroso, nel 2012 è ulteriormente peggiorato, passando rispettivamente a 31,6% e 38,1%, mentre nel contempo a Nord è migliorato e al Centro in sostanza non è mutato. Dal 2009 al 2012 sembrano, inoltre, aumentate anche le distanze fra i diversi indirizzi scolastici – licei, tecnici, professionali – con questi ultimi sempre più ultimi: in molte parti d’Italia iscriversi a un istituto professionale significa la quasi certezza di non acquisire le competenze adeguate alla costruzione del proprio ruolo sociale.
Guardare al nostro sistema d’istruzione come a un paziente convalescente, ma ben avviato alla guarigione, abbassando la guardia sulle terapie, sarebbe un errore. Purtroppo, qualche indizio in questa direzione c’è. Ad esempio, tanto più alla luce delle permanenti criticità, sarebbe necessario accelerare la costruzione del sistema nazionale di valutazione, per ora solo sulla carta, rendendola solida dal punto di vista degli strumenti e condivisa, con un grande sforzo per convincere della sua utilità i tanti insegnanti ancora ostili. Questo processo negli ultimi mesi ha frenato. Non solo: aiutata da alcune scelte del vertice autolesionistiche per lo stesso istituto, la recente decisione del ministro di affidare l’indicazione della persona più adatta a presiedere l’Invalsi a una commissione di saggi, la maggioranza dei quali è scettica, se non sfavorevole alla valutazione esterna e alle prove standardizzate, è un segnale di arretramento che non può non preoccupare.
L’autore è direttore della Fondazione Giovanni Agnelli

Il Sole 24 ore 10.12.13