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“Le donne spingono in un Paese stanco”, di Dario Di Vico

Il Censis scommette sulle donne. Il 47° rapporto sulla situazione sociale le definisce «nuovo ceto borghese produttivo». Anche il Censis sceglie di scommettere sulle donne. Superando un certo scetticismo degli anni passati il 47° rapporto sulla situazione sociale del Paese stavolta parla esplicitamente di loro «come nuovo ceto borghese produttivo». Dopo cinque anni di pesante crisi non solo il protagonismo femminile non è stato asfaltato ma addirittura si propone in chiave di rifondazione dal basso della classe dirigente. Già da qualche anno i sociologi avevano cominciato a individuare una sorta di effetto elastico: le risorse rosa erano rimaste troppo a lungo compresse nella società italiana per una serie infinita di vincoli, una volta preso però l’abbrivio avrebbero riguadagnato posizioni in maniera molto veloce. Ed è quanto è avvenuto in questi anni «controvento» — ovvero in un contesto recessivo che in linea di principio non aiuta certo ad aprire le società — grazie a un sovrappiù di motivazioni. I numeri lo attestano: il saldo delle imprese femminili nell’ultimo anno è stato di 5 mila in più, sono aumentate anche le cooperative con titolare donna e soprattutto le società di capitali a conduzione femminile (9 mila in più). Ma al di là dei freddi dati la novità sta proprio nel giudizio straordinariamente caldo del Censis, che riconosce alle donne «capacità di resistenza ma anche di innovazione, di adattamento difensivo e persino di rilancio e cambiamento».
La società italiana nella fotografia scattata da Giuseppe De Rita è «sciapa e malcontenta» e proprio per questo è meritoria una ricognizione che punta a identificare i soggetti che si muovono in controtendenza. Le metafore a cui ricorre — come d’abitudine — il Censis per indicare l’alto valore aggiunto di questi sforzi quest’anno sono due, «energie affioranti» e «sale alchemico», e servono a indicare fenomeni capaci di andare oltre la mera sopravvivenza alla crisi. E qui accanto alla «borghesia rosa» il Rapporto scommette sulla «faticata soggettività degli stranieri che vivono in Italia», sia in termini imprenditoriali sia di partecipazione sociale. E ancora De Rita sottolinea «l’importanza crescente» delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero e che un giorno possono essere richiamati «a fare un’Italia orizzontalmente operante nella grande platea della globalizzazione». Infine il Censis rinnova la sua fiducia sulle forze di territorio, almeno quelle che si stanno affrancando dal localismo e stanno mostrando una carica di immedesimazione tra la vita della comunità e le imprese. «Cosa che una volta valeva solo per l’Olivetti» e oggi invece si registra in buona parte del Nord.
Sul piano lessicale, terreno di impegno tutt’altro che secondario del deritismo militante, la proposta del Rapporto è di sostituire la vecchia espressione di «coesione sociale» con «connettività». Non stiamo parlando della banale connessione tecnico-digitale — avvertono gli estensori — ma addirittura del filo rosso del nuovo sviluppo. E chi meglio delle donne ha dimostrato la capacità di fare rete, di costruire «nuova civiltà collettiva» partendo dalle esperienze orizzontali e non dalle agende fitte di priorità individuate a tavolino?
Il Censis continua a credere nella spontaneità dei processi sociali e nella loro lenta maturazione, spera che si connettano generando ulteriore valore aggiunto, pensa che in fondo sia questo il vero argine al populismo e se i tempi della politica non sono quelli della società, beh… pazienza. Scrive De Rita: «Non si costruisce nessuna classe dirigente con annunci di catastrofe emessi a ritmo continuo, con continue chiamate all’affanno, con continue affannose proposte di rigore, con un continuo atteggiamento pedagogico cui è sottointeso un moralistico pregiudizio nei confronti delle qualità civili della gente». Forse mai come quest’anno il Rapporto aveva dedicato così poco spazio al quadro politico: sette paginette, tabelle incluse, in un librone che ne conta 540. Il titolo del capitolo contiene già un giudizio piuttosto netto («avvitamento della politica») e il testo si appunta criticamente sul ritorno del decisionismo testimoniato dai 664 provvedimenti emanati dai governi Monti e Letta, di cui però sono stati realmente adottati solo 225, pari al 33,9%. È risaputo che il governo dei tecnici prima e quello delle larghe intese dopo non abbiano entusiasmato De Rita che in quest’occasione ha voluto soprattutto sottolinearne il paradosso tra una produzione legislativa poderosa e la cronica incapacità di implementazione delle novità. Quanto alle virtù salvifiche dei riti delle primarie o delle nuove leadership il Rapporto non ne parla: preferisce riporre le speranze, come da tradizione, sulle trasformazioni collettive di lungo periodo. Anche per questo inneggia alle donne.

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Nell’Italia «sciapa » colpita dalla crisi crescono le donne a capo di un’impresa”, Alessandra Arachi

Non avrebbe potuto essere altrimenti: il Censis ha scattato la fotografia dell’Italia nel 2013 e la didascalia, inevitabilmente, recita: «Una società sciapa e infelice in cerca di connettività». Ci sono numeri ben poco felici nel rapporto del Censis di quest’anno, il quarantasettesimo della serie «non avrebbe potuto essere altrimenti».
È questione di soldi, certo, ma anche di accidia, immoralismo, disinteresse generalizzato, ignavia, depressione. La crisi, ci dice il Censis, sembra essere più dentro di noi che non fuori. E non è un caso se le energie migliori, i nostri giovani, se ne vanno all’estero a cercare opportunità e anche una scala di meritocrazia da noi ormai smarrita. È questione di tessuti valoriali persi, dissolti in un egoismo che guarda l’altro non soltanto con sospetto, ma anche con odio, perlomeno se parliamo del razzismo non più latente che sembra esploso nei confronti dei nostri immigrati. È questione di lavoro che non c’è, che genera una disillusione totale negli italiani spingendoli sempre più lontano non semplicemente dai partiti ma anche dal più semplice impegno politico. Ma guardiamo adesso la fotografia con alcune zoomate.

Il lavoro che non c’è
Abbiamo un tasso di disoccupazione che dal 2008 è raddoppiato (da 6,7% a 12%) e una sottoccupazione che interessa un italiano su quattro, il 25,9% per la precisione, ovvero 3 milioni e mezzo di persone con contratti a termine, occasionali, collaboratori, finte partite Iva. Di più: secondo il Censis ci sono quasi 3 milioni di persone che cercano attivamente lavoro senza trovarlo (2,7 per essere esatti) e dal 2007 questo numero è pressoché raddoppiato. A questi bisogna aggiungere un’altra cifra consistente: 1,6 milioni di italiani che hanno smesso di cercare lavoro, convinti di non trovarlo.

La fuga all’estero
Un Paese che non da lavoro, soprattutto ai giovani, è un Paese senza futuro. Ecco perché gli italiani fuggono all’estero, letteralmente. Nell’ultimo decennio è più che raddoppiato il numero di quelli che hanno trasferito la propria residenza all’estero, passando dai 50 mila del 2002 ai 106 mila del 2012. Con un picco nell’ultimo anno, soprattutto fra i più giovani: il 28,8% è infatti l’incremento della fuga tra il 2011 e il 2012 e, di questi, il 54,1% ha meno di 35 anni.

Il disinteresse per la politica
C’è da stupirsi che di fronte a cifre come quelle che abbiamo appena raccontato gli italiani abbiano perso mordente e fiducia? Non amano i politici e i loro discorsi, gli italiani: uno su quattro dichiara di non interessarsene proprio mai, ma questa percentuale sale a 4 su 10 se ci mettiamo dentro quelli che dicono di interessarsi di politica non più di una paio di volte al mese. Ma non solo gli italiani non si occupano di quello che fanno i politici, hanno anche smesso di occuparsi di politica in prima persona: secondo il Censis è il 56% che non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento politico negli ultimi due anni, nemmeno uno minimo come la firma di una petizione (contro una media europea del 42%).
Spese ridotte al minimo
Nel 2013 le spese delle famiglie sono tornate indietro di oltre dieci anni, segnala il Censis. E spiega che ben una famiglia su quattro nel 2013 ha faticato a pagare tasse e bollette. Sette famiglie su 10 (il 69%) hanno invece ridotto o peggiorato la loro capacità di spesa e soltanto un 2% è riuscita ad aumentare le proprie spese. Sono diminuite del 6,7% le spese per i beni alimentari, del 15% quelle per abbigliamento e calzature, del 19% quelle per il trasporto, dell’8% quelle per l’arredamento e per la manutenzione della casa. Viceversa sono cresciute le spese incomprimibili (e spesso involontarie) come quelle per le spese domestiche e la manutenzione della casa (+6,3%) e quelle medico sanitarie (+19%).
Donne e immigrati
È un bollettino di guerra anche quello delle imprese. Tante quelle che non ce la fanno a resistere alla crisi. Tante quelle che fra il 2009 e il 2012 hanno chiuso i battenti: il 4,4%, è andato a contare il rapporto del Censis. Ma sono tante anche le imprese che la crisi la guardano dritta negli occhi: sono quelle aperte dalle donne e dagli immigrati. Il Censis è andato a contarle: nel 2013 ci sono state ben 5 mila imprese in più messe su da donne. Ma, ben più consistente, il picco degli stranieri: +16,5% le imprese straniere che hanno aperto i battenti nel nostro Paese quest’anno. Con picchi nei picchi: 40 mila i negozi gestiti dai marocchini, 12 mila quelli gestiti dai cinesi.
La forbice fra Nord e Sud
In un momento di crisi come è questo diventa inevitabile che un Paese che già viaggiava a due velocità aumenti il suo divario. Qui in Italia, però, a dividere il Pil del Centro-Nord da quello del Mezzogiorno, sembra di parlare di due Paesi diversi. I numeri: è di 17 mila 957 euro il Pil pro capite del Mezzogiorno, inferiore a quello di Grecia e Spagna e, soprattutto, praticamente la metà di quello dell’altra metà del Paese (57% per la precisione). Inevitabilmente è diminuito anche il contributo del Sud alla ricchezza del Paese, circa un punto percentuale in meno di quattro anni (dal 24,3% al 23,4%) l’incidenza del Pil del Mezzogiorno su quello nazionale.
Cresce l’intolleranza
Il Censis è andato diretto nella sua indagine, chiedendo agli italiani: quanti di voi prova comprensione e ha un rapporto amichevole con gli immigrati? Diciamo, con un eufemismo, che non c’è stato un coro unanime in risposta. È stato un desolante 17,2% che ha risposto con fare benevolo verso l’altro straniero. Due italiani su tre pensano semplicemente che gli immigrati siano troppi. Sei su dieci sono invece diffidenti verso gli immigrati e non lo nascondono. Non basta: c’è un 6,9% che dichiara anche un’aperta ostilità, mentre il 15,8% degli italiani si sono dichiarati indifferenti. Inevitabilmente queste cifre fanno scattare un campanello, meglio: una campana d’allarme per il pericolo dell’avvento di un razzismo violento e bieco. Il Censis ci mette in guardia.
La rinascita della spiritualità
Forse è normale in questi tempi foschi. Forse è l’appiglio per non precipitare nel baratro. Di certo c’è che gli italiani hanno riscoperto in blocco la spiritualità. Più le donne rispetto agli uomini, ma nella media è il 73% degli italiani che alle domande del Censis ha risposto di trarre energia dalla spiritualità. Molta, il 58,6% (di cui il 64,8% donne) oppure abbastanza il 34,6%, ma in generale c’è una riscoperta della dimensione spirituale che sembra travolgere quella semplicemente religiosa. Riguarda molto i giovani (quasi uno su due fra i 18 e i 24 anni), ma anche gli adulti e gli anziani (più di 6 su 10 oltre i 55 anni). Ecco quindi che festival e convegni all’insegna della scoperta della scienza, della letteratura, dell’arte, come pure esperienze dissepolte ad alta caratura spirituale, magnetizzano l’interesse di migliaia e migliaia di persone.

Il COrriere della Sera 07.12.13

Il «grande scippo» ai danni delle cooperative e del Paese, di Rinaldo Gianola

Dopo otto anni il disegno criminale della scalata di Unipol a Bnl non si trova più. È svanito. La Corte d’appello di Milano ha detto ieri che il fatto non sussiste, che l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex presidente di Unipol Giovanni Consorte, non sono colpevoli di aggiotaggio, cioè di quel reato-chiave che, secondo l’accusa, sarebbe stato compiuto nel subdolo tentativo di scalare la banca. Fazio, Consorte e gli altri imputati non hanno, dunque, pubblicato o diffuso notizie false, esagerate o tendenziose finalizzate ad alterare i prezzi di Borsa e a imbrogliare risparmiatori e investitori.

Anche se il reato era già prescritto, e quindi si poteva passarci sopra serenamente, la Corte d’appello ha preferito motivare la decisione richiamando l’articolo 129, che dice che non si può procedere quando «il fatto non sussiste» o «non è punibile». Per l’accusa, per Abete, Della Valle, Rutelli, Montezemolo e il gruppo di improbabili moralizzatori che desideravano limitare l’interesse economico delle cooperative «ai supermercati», è una sconfitta. Ma non pagheranno, anzi ci hanno guadagnato.

Della Valle è uscito dalla Bnl con una plusvalenza di circa 240 milioni di euro depositati presso una finanziaria in Lussemburgo. Abete, che mentre infuriava la battaglia aveva detto di voler abbandonare la presidenza Bnl, è ancora lì al suo posto, inamovibile come un paracarro. Gli spagnoli del Banco di Bilbao, i rivali di Unipol, incassarono 600 milioni di plusvalenza uscendo da Bnl, “salvata” dai francesi di Bnp Paribas, e sono stati i promotori, davvero senza vergogna, della causa d’appello contro Unipol chiedendo un miliardo di danni.

La Corte d’appello ha condannato il Bilbao a pagare le spese processuali. Meno male. E allora, adesso? Basta, finito. Tutti a casa. Ma si può chiudere così questa partita finanziaria, giudiziaria e anche, forse soprattutto, politica? No. Non è escluso che ci possa essere uno strascico in Cassazione, ma quelle che conta oggi è il valore della sentenza che offre, se possibile, una luce diversa, non per noi dell’Unità, su quanto è accaduto nell’estate del 2005 e dopo.

Diciamo subito che Antonio Fazio e Giovanni Consorte sono probabilmente personaggi non graditi all’establishment, non godono di simpatie e appoggi nemmeno tra i grandi giornali confindustriali che in questi anni hanno fatto a gara nel farli a pezzettini, nel distruggere la loro reputazione usando soprattutto i testi di discutibili intercettazioni telefoniche o le ricostruzioni della Procura che, alla luce della sentenza di ieri, potevano indurre almeno qualche dubbio in agguerriti giornalisti investigativi che sulla grande stampa si mettevano in tre (3) a copiare e firmare le note dei questurini.
Però l’ex Governatore della Banca d’Italia, che lasciò il suo prestigioso incarico quando fu colpito dalle accuse, non è un delinquente, non si è arricchito con le scalate bancarie, tantomeno con quella della Bnl. In questi anni Fazio non ha mai parlato, non ha mai detto nulla in pubblico, si è sempre e solo difeso in Tribunale. Un comportamento da apprezzare, meriterebbe almeno una telefonata di solidarietà di Mario Draghi. Consorte è ancora meno simpatico di Fazio. Non è il tipo da essere invitato nella villa di Dogliani dall’ingegnere De Benedetti.

È uno che si è fatto da solo, ha lavorato per le cooperative, ha portato lavoro e denaro, ha cercato di sposare Unipol con Bnl in un disegno industriale ambizioso, forse temerario ma non fraudolento. Certo Consorte era un bel rompiballe: aveva portato l’Unipol tra gli scalatori di Telecom Italia, la “grande colpa” che tutti i partecipanti devono scontare, e quando era uscito aveva prodotto enormi plusvalenze per la compagnia e aveva guadagnato anche di suo. A un certo punto, siccome secondo giudici e gazzette Consorte non poteva aver fatto investimenti regolari, gli sequestrarono i milioni di euro derivanti dall’uscita da Telecom.

Ovviamente, poi, sono stati dissequestrati. Così va la vita. Consorte forse è uno capace di mettersi nei pasticci, ma le accuse contro di lui in merito all’operazione Bnl non sono mai sembrate precise, concrete. In questi anni Consorte ha combattuto in Tribunale, oltre che contro una brutta malattia, e ha sempre giurato di non aver combinato nulla, di non aver commesso alcun reato in quella scalata alla Bnl. Possibile? Come credergli? C’erano le telefonate, la Confindustria non voleva che Unipol uscisse dal recinto e anche a sinistra, nel centro-sinistra, si guardava con sospetto a quella operazione coraggiosa che poteva dotare quei barboni di comunisti di una grande banca.

Come potevano le cooperative prendersi la Bnl proprio mentre si iniziava a discutere della creazione del Partito democratico? Meglio allora lavorare col fango, gettare ombre e sospetti su Consorte, la Banca d’Italia, gli altri alleati, banche e imprenditori. La chiave di tutto, per ammazzare l’iniziativa dell’Unipol, fu quella di orchestrare la teoria delle «scalate dei furbetti» dell’estate 2005. L’Opa Unipol su Bnl venne messa insieme, in un unico disegno destabilizzante, a quella di Fiorani su Antonveneta e alla scalata totalmente ridicola oltre che infondata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera.

Il take over di Unipol non c’entrava nulla con il resto, ma frullato nello stesso calderone si poteva bloccare l’attacco, invocando pure la difesa della democrazia e dell’economia reale. Si alzò il polverone, Rutelli arrivò a proporre perfino una legge per difendere via Solferino. Quella era l’estate del 2005. L’Unipol venne bloccata sulla strada della Bnl. Consorte finì nei guai, indagato. Fazio dovette dimettersi.

Le cooperative, una realtà allora con 7 milioni di soci e 400mila dipendenti, e il Paese vennero scippati di una grande occasione di sviluppo, si impedì all’Unipol di prendere la Bnl. Nel frattempo quattro sentenze di Corte d’appello (Genova, Roma e due a Bologna) stabilirono che non c’era stato alcun “concerto” tra Unipol e gli altri soci nella scalata alla Bnl e, dunque, di quale patto segreto, di quale connivenza della Banca d’Italia si voleva ancora parlare? Ci sono voluti otto anni affinchè la giustizia italiana stabilisse che «il fatto non sussiste». Amen.

L’Unità 07.12.13

“La versione nera della politica”, di Luca Landò

Fine degli ecuivoci. Con il blog di ieri contro Maria Novella Oppo, Beppe Grillo ha rivelato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che dietro le urla, gli insulti, le iperboli e i paradossi delle sue sceneggiate, non c’è un comico in cerca dell’applauso ma uno squadrista in cerca di consensi. Chi ancora nutriva speranze sulle magnifiche sorti progressive dell’ambigua democrazia di un movimento coinvolto nella Rete ma guidato da un leader assoluto, dovrà a questo punto rassegnarsi.

La politica di Beppe Grillo usa le forme, i modi e i contenuti che questo Paese ha conosciuto nel ventennio più buio, che non è quello di Berlusconi come ci siamo abituati a ripetere con colpevole leggerezza, ma quello di Mussolini e delle camicie nere, delle squadracce coi manganelli e l’olio di ricino.

In questa visione nera della vita e della politica, non ci sono solo i picchiatori, gli uomini forti dal pugno facile: ci sono anche i suggeritori, le spie, i delatori, quelli che il 16 ottobre del ’43 indi- cavano ai nazisti chi erano e dove abitavano gli ebrei del ghetto di Roma. Perché la frase «segnalate gli articoli dei giornalisti stile Oppo», sotto la foto segnaletica di Maria Novella, è quanto di più fascista abbiamo letto e visto da anni, capace di far impallidire le iniziative di Casa Pound e Forza Nuova annunciate con croci celtiche e caratteri runici.

Non sorprende, allora, che in coda al post di questa delirante iniziativa siano confluiti messaggi di persone disposte a insultare e aggredire una giornalista di cui dimostrano di non aver mai letto nulla. Ma sorprende, e non poco, che un comico di lunga data non sappia o non voglia né accettare né riconoscere la satira di una grande professionista come Maria Novella, da anni punto di forza di un giornale che della satira pungente, contro tutto e tutti, ha sempre fatto un proprio vanto, come dimostrano gli indimenticabili «lorsignori» di Fortebraccio per non parlare di Tango e di Cuore, di Staino e Maramotti. Cosa dovremmo fare secondo Grillo e i suoi ispirati segnalatori: tenerci alla larga dai Cinque Stelle? Non parlare di Casaleggio? E prima di fare una vignetta o un corsivo a chi dovremmo rivolgerci: al comico dall’insulto facile? È lui che decide le battute che vanno e quelle che da inviare alla pubblica gogna?

Come ha scritto ieri Pietro Spataro sul nostro sito: «Durante i suoi primi novant’anni l’Unità ha sempre dimostrato il coraggio delle sue scelte pagando a caro prezzo questa libertà. Non sarà un Grillo qualsiasi a piegarci». A Maria Novella va la solidarietà di tutti i lavoratori e, non abbiamo dubbio nel dirlo, di tutti i lettori di questo giornale.

L’Unità 07.12.13

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“Grillo mette alla gogna giornalista de l’Unità Letta: attacca la libertà “, di Daniela Amenta

La nuova rubrica sul blog di Grillo si intitola «Giornalista del giorno», ed è un errore, evidentemente. Dovrebbe chiamarsi, semmai: «Apriamo la caccia ai giornalisti ostili», oppure «Riesumiamo le ben note, fasciste, liste di proscrizione». Wanted, in una parola.

Il primo post è «dedicato» alla nostra collega, Maria Novella Oppo. C’è il suo ritratto, come nelle formule segnaletiche. Ai lettori e agli elettori del Movimento 5 Stelle, Grillo chiede di denunciare alla pubblica gogna altri cronisti che abbiano (o abbiano avuto) l’ardire di criticare il suo partito. Per attaccare Maria Novella e il quotidiano fondato da Gramsci, Grillo scrive: « Oppo si vanta di lavorare a l’Unità dalla fine del ’73. Da allora non ha mai avuto un altro lavoro ed è mantenuta dai contribuenti da 40 anni grazie ai finanziamenti pubblici all’ editoria che il MoVimento 5 Stelle vuole abolire subito. La Oppo appena può diffama pubblicamente il M5S. Per esempio sulla protesta di ieri alla Camera».

Poi continua, citando uno stralcio di un articolo preso da «Fronte del video», quotidiana rubrica di Maria Novella: «Grillo vuole tutto, soprattutto il casino totale … un brulichio di piccoli fan (sono) divenuti per miracolo parlamentari e tenuti al guinzaglio perché non si prendano troppe libertà». Editto finale di Grillo: «Il M5S abolirà il finanziamento pubblico all’editoria e la Oppo dovrà cercarsi un lavoro. Non è mai troppo tardi, o forse sì».

Seguono i commenti, al 97% maschili, dei fan. Una gara a chi insulta di più, a chi minaccia di più. a chi sfodera maggior testosterone. Una gara bieca e vergognosa. Fascista. Un tiro a segno. Gogna, né più, né meno.

TANTISSIME REAZIONI

Il premier Enrico Letta è tra i primi a intervenire. Un messaggio su Twitter: «Solidarietà per Maria Novella Oppo, schedata e lapidata verbalmente da Grillo. Democrazia è rispetto della libertà dei giornalisti di criticarti».

In pochi minuti arrivano decine e de- cine di tweet, post, comunicati, agenzie. Scende in campo la presidente della Camera Boldrini che parla di «gogna 2.0». Solidarietà a Maria Novella da Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo, Federico Fornero, Emanuele Fiano, Ettore Rosato, Roberto Speranza, il vice ministro all’Economia Stefano Fassina che definisce Grillo «uno squadrista del web». La vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, aggiunge: «Un duro attacco alla libertà di stampa che non possiamo tollerare. Ricordo a Grillo che il suo è atteggiamento degno di una dittatura e non di un sistema civile e democratico quale è quello in cui viviamo e in cui vorremmo continuare a vivere».

Anche Formigoni, Cesa, i Verdi e il Gruppo Misto replicano all’ultima provocazione del leader Cinque Stelle, anche Deborah Bergamini, anche Mara Carfagna, portavoce del gruppo Forza Italia alla Camera che su Twitter scrive : «La democrazia a 5 stelle? Le liste di proscrizione dei giornalisti non allineati. Meglio se donne. Solidarietà a Maria Novella Oppo». Unica voce contro, all’interno del Movimento compatto e schierato come una falange, è quella del senatore Luis Alberto Orellana: «Mi dissocio dall’ attacco di Beppe Grillo ai giornalisti perché bisogna tollerare la critica anche se preconcetta. È pericoloso personalizzare su una giornalista con nome e cognome. Si scherza con la vita delle persone, è pericoloso». Dario Fo si limita invece a prendere le distanze dal linguaggio usato sul blog dell’amico Beppe. Con un paradosso più buffo che misterioso spiega infatti che: «Non bisogna scendere alla brutalità dei giornalisti. Considerate le vendite che ha l’Unità vuol dire dare peso e valore a qualcuno che non ne merita».

Brutto boomerang per Grillo, pessima trovata. La Federazione Nazionale della Stampa, replica con durezza, senza mezzi termini: «Il comico-capo politico non perde occasione per attaccare, con la violenza verbale che lo caratterizza, i giornalisti che non gli piacciono. Non meriterebbe neppure una risposta. Questa volta, però, assai più che in altre occasioni, ha passato il segno». Lo sotto- linea il presidente della Fnsi, Giovanni Rossi, che aggiunge: «Nel prendere di mira la collega Maria Novella Oppo, a cui va piena solidarietà, Grillo invita i suoi ad istituire una gogna mediatica, segnalando i giornalisti “nemici” e comincia con il mostrare il reprobo pubblicandone la foto sul blog. Si inizia con la “lista nera”, non si sa dove si va a finire». Ecco, appunto. Una strada cieca, senza vie d’uscite e dannatamente pericolosa.

«Gli attacchi alla stampa libera, ingrediente della democrazia, si commentano da soli – aggiunge l’Odg del Lazio – I giornalisti italiani hanno già conosciuto bavagli, schedature e liste di proscrizione che ogni tanto qualcuno sembra voler rispolverare. E così Stampa romana, così i colleghi di Globalist e l’Associazione Stampa Parlamentare che in una nota commenta: «Spiace constatare che una forza politica presente in Parlamento ritenga compatibile con il proprio ruolo istituzionale invitare i propri elettori e simpatizzanti alla violenza verbale contro i giornalisti che liberamente svolgono il loro lavoro addirittura invocando liste di nomi sgraditi».

L’Unità 07.12.13

“47° Rapporto Censis: una società sciapa e infelice. Il capitolo “Processi formativi”, di P.A. da La Tecnica della Scuola

La 47ª edizione del Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2013 riferisce che se l’atteso crollo non c’è stato, troppe persone scendono nella scala sociale. Il sistema ha bisogno di istituzioni e politica. Il 21,7% della popolazione con più di 15 anni possiede la licenza elementare. Il 2% di 15-19enni, l’1,5% di 20-24enni, il 2,4% di 25-29enni e il 7,7% di 30-59enni non hanno mai conseguito un titolo di scuola secondaria di primo grado. Nel 2011 alla fine del primo anno aveva abbandonato gli studi l’11,4% degli studenti iscritti.
Una società la nostra che “ha bisogno e voglia di tornare a respirare e reagire”, ad esempio, “alla scelta implicita e ambigua di ‘drammatizzare la crisi per gestire la crisi’ da parte della classe dirigente, che tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre”. E ancora, dice Censis, “nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione di incertezza senza prospettive di élite”.
Il crollo atteso da molti non c’è stato, ma ha dominato la sopravvivenza. Oggi dunque siamo una società più «sciapa»: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo «malcontenti», quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il «grande lago della cetomedizzazione», storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti.
Ci sono poi due grandi ambiti che consentirebbero l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni occupazionali. Il primo è il processo di radicale revisione del welfare; il secondo ambito è quello della economia digitale in attesa della crescita di giovani «artigiani digitali».
Le istituzioni sono autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo.
Le donne. I giovani, navigatori del nuovo mondo globale.
L’Italia oltre confine ammonta a oltre 4,3 milioni di connazionali. Nell’ultimo decennio il numero di cittadini che si sono trasferiti all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50.000 del 2002 ai 106.000 del 2012 (+115%). Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’incremento si è accentuato (+28,8%). Nel 54,1% dei casi si è trattato di giovani con meno di 35 anni. Secondo un’indagine del Censis, circa 1.130.000 famiglie italiane (il 4,4% del totale) hanno avuto nel corso del 2013 uno o più componenti residenti all’estero. A questa quota si aggiunge un altro 1,4% di famiglie in cui uno o più membri sono in procinto di trasferirsi. Chi se ne è andato lo ha fatto per cercare migliori opportunità di carriera e di crescita professionale (il 67,9%), per trovare lavoro (51,4%), per migliorare la propria qualità della vita (54,3%), per fare un’esperienza di tipo internazionale (43,2%), per lasciare un Paese in cui non si trovava più bene (26,5%), per vivere in piena libertà la propria vita sentimentale, senza essere vittima di pregiudizi o atteggiamenti discriminatori, come nel caso degli omosessuali (12%). Nel confronto con l’estero, per loro il difetto più intollerabile dell’Italia è l’assenza di meritocrazia, denunciata dal 54,9%, poi il clientelismo e la bassa qualità delle classi dirigenti (per il 44,1%), la scarsa qualità dei servizi (28,7%), la ridotta attenzione per i giovani (28,2%), lo sperpero di denaro pubblico (27,4%).
Una logica industriale per la cultura.
Nel 2012 l’Italia, primo Paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco, presentava una dimensione del settore culturale fortemente contenuta se comparata ad altri Paesi europei. Il numero dei lavoratori (309.000, pari all’1,3% del totale) coincide con la metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), ed è molto inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Anche il valore aggiunto prodotto in Italia di 12 miliardi di euro (contro i 35 miliardi della Germania e i 26 miliardi della Francia) contribuisce solo per l’1,1% a quello totale del Paese (meno che negli altri Paesi europei). Mentre in Spagna (+14,7%), Francia (+9,2%), Germania (+4,8%) il valore aggiunto prodotto in ambito culturale è cresciuto significativamente tra il 2007 e il 2012, da noi l’incremento è stato molto debole, pari all’1%. A impedirne la crescita è la logica di governo del settore e modelli gestionali che ostacolano una maggiore integrazione tra pubblico e privato.
Il capitolo «Processi formativi»
Il ruolo strategico dell’istruzione degli adulti. Il 21,7% della popolazione italiana con più di 15 anni ancora oggi possiede al massimo la licenza elementare. Per quanto si tratti di un fenomeno concentrato nelle fasce d’età più anziane, un campanello d’allarme squilla per il 2% di 15-19enni, l’1,5% di 20-24enni, il 2,4% di 25-29enni e il 7,7% di 30-59enni che non hanno mai conseguito un titolo di scuola secondaria di primo grado. E anche per quel 56,2% di ultrasessantenni senza licenza media (23% tra gli occupati) i vantaggi di un “ritorno a scuola” sarebbero indiscutibili per il rafforzamento del loro kit di strumenti utili ad affrontare le sfide della complessità sociale. Inoltre, si è fermato alla licenza media il 43,1% dei 25-64enni. Il circuito vizioso tra bassi titoli di studio, problemi occupazionali e scarsa propensione all’ulteriore formazione è, infine, testimoniato: dalla significativa incidenza tra i giovani Neet di individui con al massimo la licenza media (43,7%); dalla marginale partecipazione complessiva della popolazione adulta ad attività formative, se in possesso della sola licenza elementare (0,8% del totale) o diploma di scuola secondaria di primo grado (1,9%).
Aggredire la dispersione includendo il territorio.
Nel nostro Paese la quota di early school leavers, seppure in tendenziale diminuzione, continua a essere significativa e in alcune aree geografiche pericolosamente endemica. Se nel 2012 la popolazione di 18-24 anni con al più la licenza media che non frequentava altri corsi scolastici o attività formative superiori ai due anni era pari al 17,6%, in alcune aree del Paese restava al di sopra della soglia del 20%: ad esempio nel complesso delle regioni meridionali (21,1%). Lo scenario nazionale è distante non solo da quello medio europeo (12,8%), ma soprattutto dall’obiettivo fissato da Europa 2020, secondo il quale i giovani che abbandonano precocemente gli studi non dovranno superare la soglia del 10%. In Italia nel 2011 alla fine del primo anno aveva abbandonato gli studi l’11,4% degli studenti iscritti. Lo stesso indicatore nelle regioni del Nord e del Centro era rispettivamente 10,4% e 10,3%, mentre i tassi di abbandono erano del 13% nel Mezzogiorno nel complesso e del 14,9% nelle sole isole.
L’integrazione scolastica degli alunni disabili: un processo sinergico.
I dati sulla distribuzione nell’anno scolastico 2013-2014 dei 207.244 alunni disabili, pari al 2,6% del totale degli alunni iscritti, attestano una loro maggiore presenza nella ripartizione settentrionale del Paese, dove si concentra il 38% del totale, seguita dal Sud e isole (35,6%) e infine dal Centro, dove la percentuale è del 19,9%. La periodica rilevazione del Censis sui dirigenti scolastici, che quest’anno ne ha coinvolti 2.178, evidenzia che il 47,1% ha dichiarato che nel proprio istituto l’integrazione degli alunni con disabilità non è un problema, mentre per il 29,3% è un problema in via di risoluzione. Tuttavia, ancora per quasi un dirigente su quattro (23,6%) tale processo resta un problema di difficile soluzione. I principali problemi sono: l’insufficiente numero di insegnanti per le attività di sostegno rispetto alla numerosità dell’utenza (70,6%), la difficoltà nella gestione dei rapporti con gli altri soggetti coinvolti nel processo di inserimento – servizi socio-sanitari, enti locali, altre scuole/enti formativi, ecc. – (39,9%) e la inadeguata specializzazione dei docenti di sostegno rispetto alle specifiche disabilità (26,5%).
Il sistema di istruzione e formazione professionale di fronte alla sfida della sussidiarietà.
I percorsi triennali d’istruzione e formazione professionale costituiscono ormai una scelta concreta e sempre più perseguita al termine della scuola secondaria di primo grado. Degli appena 23.563 allievi dei primi corsi si è giunti ai 241.620 dell’anno formativo 2011/2012. Secondo l’indagine del Censis, numerose e diversificate sono le azioni intraprese dagli istituti professionali per incrementare il successo formativo degli iscritti ai percorsi triennali. Le azioni più diffuse sono quelle finalizzate a garantire il raccordo tra studio e lavoro, in primo luogo l’attivazione di stage (74,3%) o di percorsi in alternanza scuola/lavoro (72,9%). Un analogo livello di diffusione (72,2%) sembra caratterizzare la realizzazione di una didattica laboratoriale, seguita dalle attività di raccordo tra le competenze di base e le competenze professionalizzanti (64,6%).
L’università italiana: un sistema squilibrato territorialmente e con scarsa capacità di globalizzazione.
Le università italiane stentano a collocarsi all’interno delle reti internazionali di ricerca. Secondo l’indagine del Censis sui rettori italiani, tra i fattori più efficaci per accrescere la competitività dei loro atenei c’è al primo posto il miglioramento della qualità dei servizi e delle strutture di supporto alla didattica (73,8%), poi lo sviluppo di collaborazioni internazionali nelle attività di ricerca (54,8%), lo sviluppo di percorsi di laurea a doppio titolo/titolo aggiunto con atenei stranieri (52,4%), le ricerche di grande rilevanza scientifica (40,5%) e l’incremento del numero di laureati in corso (38,1%). Le criticità esistenti sono aggravate dal divario territoriale tra Nord e Sud del Paese. Nel decennio 2002-2012 l’indice regionale di attrattività delle università passa nel Mezzogiorno da -20,7% a -28,3%, incrementandosi negativamente di oltre 7 punti percentuali. Nelle regioni insulari l’indice precipita da -10,1% nel 2002 a -26,2% nel 2012.

La Tecnica della Scuola 07.12.13

“I Bronzi tornano a casa ma la nuova battaglia è sulla trasferta per l’Expo”, di Maria Novella De Luca

Blindati e scortati, protetti e nascosti, da ieri notte gli eroi sono tornati a casa. Ancora distesi, convalescenti speciali, i Bronzi di Riace, forse dei, forse guerrieri, sicuramente di una bellezza sovrumana, dopo il restauro e l’esilio sono riapprodati al museo archeologico di Reggio Calabria, in una grande sala che guarda il mare dello stretto di Messina. Tra pochi giorni le due enigmatiche statue, ritrovate nel 1972 davanti alle coste joniche da un sub dilettante, saranno finalmente rimesse in piedi e appoggiate su due speciali pedane antisismiche che le proteggeranno da ogni urto e da ogni vibrazione. Ma soprattutto saranno esposte (finalmente) in un museo restaurato e non più fatiscente, in una sala climatizzata e depurata, perché l’impatto con il «mondo» non alteri il loro delicatissimo equilibrio. E nel giro di due settimane i due Bronzi, statue di epoca greca, intorno al V a. C, e intorno alla cui identità continua il dibattito in tutto il mondo, saranno di nuovo esposti al pubblico. Ma per adesso i guerrieri di Riace, uno più vecchio, uno più giovane, resteranno a casa, a Reggio Calabria. Vietato ogni prestito e ogni trasferta. Il loro posto per adesso è lì, in quello stesso museo fino a ieri abbandonato e disadorno, dove dopo i primi anni di curiosità e di entusiasmo i visitatori erano diventati pochissimi. Un deserto attorno a quelle due statue ritrovate
in un eccezionale stato di conservazione, e nascoste forse per secoli sul fondo del mare.
Nei giorni scorsi il presidente della Fondazione Fiera di Milano, Benito Benedini, aveva lanciato la proposta di «esportare» i Bronzi di Riace nel 2015 a Milano come grande simbolo dell’Expo. Una trasferta che avrebbe reso ancora più celebri le due statue, attirando naturalmente migliaia
di visitatori nei padiglioni dell’Expo. Un’idea rilanciata anche dalla presidente della Fondazione Bellisario, Lella Golfo: «Facciamoli diventare ambasciatori dell’Italia nel mondo. A cominciare dall’Expo del 2015». Riaprendo così però una polemica che da sempre circonda il destino dei Bronzi, così come il mistero delle loro origini, fin da quando il presidente Sandro Pertini li fece esporre al Quirinale nel 1980: devono restare in Calabria, dove per anni hanno sofferto oblio e dimenticanza, o dovrebbero essere collocati altrove dove milioni di visitatori si metterebbero in coda per ammirarli? E se non devono essere trasferiti (così ormai è stato deciso) non sarebbe almeno legittimo farli viaggiare un po’? Immediate le reazioni dei gruppi che temendo forse l’arcaica spoliazione del Sud, da sempre si battono perché i due guerrieri greci non vengano spostati ma diventino un’attrattiva verso la Calabria. «I Bronzi sono beni identitari e inamovibili » dice Francesco Alì del comitato Bronzi-Museo. Ma è stato lo stesso ministro per i Beni Culturali Massimo Bray, presentando il nuovo museo archeologico (che fu disegnato dall’architetto Marcello Piacentini) e il cui restauro è costato 32 milioni di euro, a dire con chiarezza: «Non sappiamo come i Bronzi reagiranno all’impatto con il pubblico, sappiamo però che sono di una delicatezza estrema, che rischiano processi di ossidazione. Dobbiamo osservarli, monitorarli. Dunque per adesso restano a Reggio Calabria».

La Repubblica 07.12.13

“L’albero della libertà”, di Walter Veltroni

Ora che Nelson Mandela se n’è andato, dopo una lunga travagliata agonia, sembra quasi impossibile che non ci sia più. In Sud Africa lo chiamavano «padre». A me ha sempre fatto venire in mente un albero, uno di quei grandi alberi africani enormi, solidi pieni di radici e di rami. A quell’albero un popolo intero si è aggrappato. A quell’albero il mondo intero ha guardato con ammirazione.
Non è stato sempre così, ci sono stati decenni in cui l’apartheid regnava incontrastato, in cui Nelson era «soltanto» il detenuto numero 46664. Chiuso dentro una cella di pochi metri quadrati, sottoposto ad un controllo feroce, a terribili pressioni e violenze ha saputo cambiare le cose. Mandela è davvero un simbolo.

La storia ha voluto che la sua liberazione abbia seguito di poco la caduta del muro di Berlino: un secolo che ave- va conosciuto due guerre mondiali, l’orrore dei campi di sterminio si concludeva con due eventi simbolici di riconquista della libertà.

L’INCONTRO

Ho conosciuto e incontrato Mandela diverse volte, occasioni ufficiali che hanno ben presto lasciato il passo a incontri più ravvicinati e informali. L’ho visto in Sud Africa, nella sua casa, fra la sua gente.

Mi ha sempre colpito il suo sorriso: chi è davvero forte è dotato di una umanità profonda. E in quel sorriso c’erano tutti e due gli elementi. Credo che soltanto lui poteva riuscire nel «miracolo» del nuovo Sud Africa. Portare (con la collaborazione di Frederik Willem de Klerk, il presidente bianco che volle la svolta della fine dell’apartheid) un paese fuori da decenni di odio e di divisione senza risentimento e senza violenze. Ma anche senza oblio.

In fondo le strade facili c’erano: c’era quella della vendetta (chi avrebbe avuto la forza morale di condanna- re dopo le violenze, i soprusi, le uccisioni, il regime della persecuzione e della separazione forzata?), quella di dividere per sempre il Paese, bianchi là e neri qua.

Lui ha indicato e perseguito la strada più difficile, ma anche quella più ambiziosa e giusta. Ha saputo unire il suo popolo, la sua gente. Ha combattuto contro il proposito di dominio dei bianchi sui neri, ma anche contro quello dei neri sui bianchi. È stato un uomo di lotta e di pace.
L’hanno chiamata «rivoluzione arcobaleno». Una rivoluzione certo lo è stata. E Mandela l’ha costruita con le sue parole e con l’esempio. Quasi tre decenni di galera non l’hanno piegato né nel fisico, né nella sua profonda umanità.

Ha preso per mano la trasformazione sapendo bene che non si trattava di dimenticare, bensì di ricostruire quel- lo che era davvero successo (per farlo erano state fondate delle strutture con un nome davvero illuminante: Com- missioni per la Verità e la Riconciliazione) e di guardare avanti.

Certo, quell’immenso paese vive ancora contraddizioni e problemi anche drammatici, ma è stato uno dei protagonisti dei grandi progressi del mondo globalizzato.

Per ventisei anni chiuso nella sua cella Nelson Mandela appariva al mon- do come un punto luminoso che i tiranni volevano tenere oscurato. Era un faro per i neri di Soweto, delle città minerarie dei terribili ghetti urbani, era un simbolo per tutto il mondo. In America, in Europa attorno al suo nome si raccoglieva tanta gente nelle manifestazioni, era il suo simbolo a impegnare intellettuali ed artisti.

La spinta per la sua liberazione crebbe come crebbe la mobilitazione per la libertà del Sud Africa dal razzismo e dall’apartheid. E lui, rinchiuso in cella, maltrattato e blandito perché si piegasse non cedeva di un millimetro.

Mi raccontò che in carcere aveva letto molto, incessantemente, aveva imparato anche l’afrikaneer la lingua dell’oppressione. C’era una poesia che aveva aiutato questa fermezza, i versi di William Ernest Henley, un poeta inglese dell’Ottocento che avevano per titolo «Invictus». Quel titolo divenne anche un film a lui dedicato. Mi ha colpito, ora che Mandela non c’è più, rileggerne gli ultimi versi:

Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.

L’Unità 07.12.13

“Il mondo: grazie Madiba”, di Pietro Veronese

I leader del Mondo rendono omaggio alla figura di Nelson Mandela. Funerali il 15 dicembre nel villaggio natale di Qunu. l mondo intero lo ha saputo nel giro di minuti, la notizia è corsa ai quattro angoli del globo in pochi attimi e adesso le note che furono un inno religioso e poi la colonna sonora del rinato orgoglio sudafricano sono diventate un canto funebre. Nelson Mandela è morto e nelle chiese, nelle piazze, nelle scuole di ogni ordine e grado e sui luoghi di lavoro, ovunque attraverso il Paese la gente si riunisce e intona Nkosi Sikelel’iAfrika, lo struggente inno nazionale “Dio benedica l’Africa”, con un tempo rallentato, come si addice al lutto.
Era un giorno lungamente atteso, poteva succedere in qualunque momento dall’8 di giugno, quando in piena notte l’anziano Madiba era stato trasportato d’urgenza in ospedale. Le sue condizioni erano state definite «gravi» e poi, settimane dopo, «critiche ». Ma adesso che è accaduto lo sgomento non è per questo minore. Da Johannesburg a Pretoria, le persone si fermano per strada, si abbracciano, si assiepano sui banchi delle chiese o nei luoghi della sua vita, nelle strade adiacenti alla casa dove è spirato, sotto l’ospedale dove è rimasto ricoverato fino a settembre, accendono candele, si raccolgono in preghiera, versano lacrime senza rumore e senza ritegno. Ballano e cantano in centinaia anche davanti alla sua vecchia casa di Soweto.
E’ un lutto collettivo quello che avvolge da ieri il Sudafrica, un lutto pieno, di tutti, che a vederlo da fuori appare senza dubbio sentito nel profondo dell’anima. Coinvolge i vecchi e le generazioni nate dopo la fine dell’Apartheid, ormai una buona metà della nazione, e i bambini che Mandela non lo hanno quasi nemmeno mai visto, perché è da più di dieci anni che si è ritirato da tutto. A loro è apparso forse solo quel giorno di luglio 2010, l’ultimo dei Mondiali di calcio sudafricani, quando fece il giro dello stadio in auto elettrica, la moglie Graça seduta accanto a lui, per raccogliere l’ovazione, l’ultima ovazione, del mondo, il suo addio ufficiale alla scena pubblica.
Già nella mattinata di ieri, quando ancora si aspettavano i primi annunci delle celebrazioni funebri che copriranno una decina di giorni, gli analisti finanziari discettavano sulle conseguenze che la scomparsa di Mandela potrà avere sull’economia sudafricana, sull’irrequietezza sociale e sindacale già altissima in questo 2013 che si sta chiudendo, sulla declinante fiducia degli investitori internazionali, sull’andamento faticoso della Borsa di Johannesburg e la tenuta del rand, la valuta nazionale. Gli analisti politici invece si chiedevano se la sua morte avrà un’influenza positiva o negativa sul risultato dell’African National Congress alle politiche dell’anno prossimo, le general elections
del ventennale, le quinte nella storia del Sudafrica democratico, dalle quali usciranno un nuovo Parlamento e un nuovo presidente e che già s’annunciano contrastatissime. Ma per l’uomo della strada sono soprattutto ore di sgomento, la presa di coscienza di un vuoto che non ha rapporto razionale con il venir meno di un uomo molto anziano, il cui pensiero e le cui parole sono ignote al mondo già da numerosi anni, lontanissimo ormai da ogni pubblico ufficio o responsabilità.
Eppure ancora ieri Mandela era per tutti Tata, il papà, come tale vissuto e sentito dal popolo. Non una di quelle figure di padre- padrone, di dittatore che riduce le masse in stato di minorità, non un caudillo sudamericano o un satrapo orientale, bensì un riferimento morale, privo di qualsivoglia potere ma simbolo di unità, di convivenza, di umanità condivisa. E intervistati dai giornalisti sui marciapiedi delle grandi città, i passanti rivelano il rinnovarsi di timori profondi, del ritorno di divisioni, tensioni e conflitti razziali ai quali c’è già chi lavora attivamente nell’arena politica.
No, la lunghissima agonia di Madiba non ha ancora consentito l’elaborazione del lutto nazionale. Essa sta appena incominciando.
Saranno lunghi i giorni e i loro riti. Il 10 dicembre i sudafricani sono chiamati ad affluire nel grande stadio di Soccer City a Soweto, il tempio dei Mondiali del 2010, per una cerimonia funebre. La salma verrà esposta agli Union Buildings di Pretoria, il greve, maestoso edificio di scura arenaria che ospita la presidenza della Repubblica del sudafricana, dove riceverà l’omaggio dei potenti del mondo che si apprestano ad affluire in massa verso la capitale sudafricana. I funerali avverranno domenica 15, ha annunciato il presidente Jacob Zuma. Nelson Mandela verrà sepolto a Qunu, il villaggio della sua infanzia, come era suo esplicito desiderio: solo una pietra a segnalare la sua tomba.
Sono stati diramati circa duemila inviti, da Bill Clinton ai domestici che gli sono stati vicini nella sua casa di Houghton, da Barack Obama al Dalai Lama. Tutti gli altri non potranno nemmeno avvicinarsi, soltanto sugli schermi dei televisori potranno vedere il ritorno alla terra di Madiba e l’avviarsi del Sudafrica verso un futuro pieno di incertezze.

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Le lacrime di Obama orfano dell’uomo che cambiò la sua vita”, di VITTORIO ZUCCONI

È rimasto solo sul palcoscenico spietato della storia, quel Barack Obama che giovedì sera ha inghiottito le lacrime salutando per sempre il suo “Madiba” Mandela. L’immensa ala di quel bambino di 9 anni che da un villaggio senza strade e da un carcere del gulag razziale sudafricano divenne presidente della propria nazione, non ci sarà più a proteggere idealmente da lontano il cammino del primo americano con sangue africano capace di sfondare la barriera bisecolare dell’ “Apartheid” Usa.
Nell’uragano di cordoglio ufficiale e di gratitudine pelosa che ha circondato la notizia della morte di Mandela — nascondendo le lunghissime code di paglia di nazioni come gli Usa che fino al 2008 lo avevano tenuto nella lista dei terroristi, o del Regno Unito che con la Thatcher si era battuto contro le sanzioni anti-Apartheid — il solo che abbia parlato davvero dal cuore della propria vita è stato Obama. Anche 6 anni dopo la sua elezione e rielezione, il presidente americano sa di vivere sempre nella condizione di un sorvegliato speciale, di un leader in “presidenza vigilata” che deve dimostrare, per il colore della pelle, di non essere semplicemente come gli altri, ma “meglio degli altri”.
In Mandela, Obama ha perso quel padre che nella vita reale non aveva davvero mai avuto, dopo l’abbandono della madre e il ritorno in Kenya del padre naturale. «Nella maniera più modesta immaginabile, anche io fui uno di coloro che cercarono di rispondere al suo richiamo » ha detto ricordando come la sua prima discesa nel campo dell’impegno politico fu una dimostrazione contro l’Apartheid in Sudafrica. Barack Obama è l’ultima «grande speranza nera». È colui che deve dimostrare ogni giorno, con i fucili puntati contro, che le persone devono essere giudicate per il valore del loro carattere e non per il colore della pelle. Parlava dunque per sé, con un brivido di vuoto, il presidente orfano di padre per la seconda volta nella vita, quando diceva che «non ci sarà più un altro Mandela». Suonava come una confessione di inadeguatezza, come una preghiera implicita a non giudicare lui con lo stesso metro impossibile di chi non aveva soltanto fatto la storia ma che l’aveva anche cambiata. Fino al punto di rendere pensabile, e poi possibile, l’elezione di un afroamericano figlio di un immigrato dal Kenya al vertice di una nazione nella quale, ancora una generazione prima, alcuni Stati consideravano un crimine il matrimonio
fra bianchi e neri.
Lui, come quella sorta di suo “angelo custode” ideale al capo opposto dell’Oceano e dei continenti, si considera figlio della parola che divenne un suo mantra elettorale, Hope, speranza, perché di questo fu fatta la rivoluzione di Mandela. «Quando seppi che era uscito dal carcere, ebbi per la prima volta il senso di che cosa possano fare gli essere umani quando sono guidati non dalla paura, ma dalla speranza».
Molto più di ogni legge o sentenza, il trionfo morale e poi politico di “Madiba” aveva dato legittimità alla sfida di un altro uomo nero verso la presidenza degli Stati Uniti. Aveva dimostrato che tutte le miserabili equazioni del razzismo e della discriminazione erano false e che il figlio di un villaggio nell’Africa del Sud poteva avere, come il più raffinato intellettuale partorito dai college dei bianchi, forza e doti morali superiori.
Mandela era la laurea che Obama avrebbe presentato alla commissione di esame, all’elettorato, anche senza esibirla, perchè ormai l’avventura del rivoluzionario post gandhiano era entrata nella coscienza universale. È stato detto che non si sarebbe stato un Obama senza un Mandela. Ma ora la domanda si rovescia e stringe la gola del presidente: ci sarà ancora un Obama senza Mandela? La speranza, appunto, the Hope, è che ormai il cammino aperto da lui e battuto dal suo lontano figlio americano, sia irreversibile.

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Gordimer: “L’ultimo tarlo di Madiba la corruzione che divora questo paese”
La scrittrice: “La sua magia, era un democratico naturale”, di FRANCESCA CAFERRI
«NOI sudafricani siamo fortunati ad averlo avuto con noi, ad aver visto una persona così camminare sulla nostra stessa terra. Ecco, solo questo posso dire se mi chiede qual è oggi il mio primo pensiero: perché se dovessi provare a spiegare tutto quello che ho avuto da lui, io che sono fra le persone che hanno avuto l’onore di conoscerlo di persona, credo che non ci riuscirei ». Dalla sua casa di Johannesburg la voce di Nadine Gordimer, la più grande scrittrice sudafricana vivente, la donna che per anni ha raccontato al mondo la lotta del suo paese contro l’Apartheid, arriva calma e controllata: come milioni di connazionali, era preparata all’annuncio della morte di “Madiba”, come lo chiama per tutto il tempo. Eppure, come tanti altri, sembra incredula, attonita: ha voglia di parlare, come per fissare i ricordi. «Perché — dice — nessuno nella storia contemporanea ha fatto qualcosa di grande come quello che ha fatto lui».
Signora Gordimer, che eredità lascia Mandela al mondo?
«Madiba era un democratico naturale, una cosa piuttosto inusuale in Africa. In un continente che ha lottato per decenni per liberarsi dalla dominazione straniera e raggiungere la libertà, è raro trovare qualcuno che non basi la sua azione sull’odio o il risentimento. Lui invece lo faceva: vedeva le persone come esseri umani, bianchi o neri che fossero, li osservava con mente aperta per arrivare a capire la loro essenza. Non era un modo di fare costruito, cerebrale: era qualcosa di insito nelle sue ossa, nel suo cuore. Non inseguiva la tolleranza, ma il mutuo riconoscimento».
Lei è una delle poche persone al di fuori della famiglia che ha avuto contatti con lui fino agli ultimi mesi: c’è un ricordo personale che vuole condividere?
«L’ultima volta che l’ho visto, saranno stati 18 mesi fa. Era stato George Bizos, il suo avvocato, la sua ombra, a invitarmi a colazione da lui. La colazione era il pasto preferito di Madiba, ma lui si alzava tardi, e così l’appuntamento era per le 11: una sorta di brunch. Abbiamo mangiato poi ci siamo seduti in salone, lui nella sua solita poltrona speciale, un po’ disteso. Non camminava, parlava poco, molto lentamente, faceva delle lunghe pause: ma capiva tutto. A George chiedeva degli amici, poi si rivolgeva a me, poi tornava a George: voleva sapere dell’ANC, delle discussioni interne. Voleva essere informato, non gli piaceva che tante persone che avevano lottato contro l’Apartheid fossero oggi state allontanate dal partito, era deluso. Sapeva che i suoi gli tenevano nascoste molte cose, per non turbarlo: così chiedeva a noi. E poi ci sono gli altri ricordi, indimenticabili: la prima volta che ci siamo incontrati, nel 1964 durante il processo Rivonia, al termine del quale fu condannato all’ergastolo. O
negli anni ‘90 quando lui e De Klerk vennero a casa mia, sulla veranda, per discutere del futuro del Sudafrica in un luogo protetto e lontano dalle tensioni. Oppure quando ebbi l’onore di essere con lui a Oslo, nel gruppo di persone che lo accompagnarono a ritirare il Nobel per la Pace: centinaia di persone lo acclamarono, cantando i cori dell’ANC così lontano da casa, è stata una grandissima emozione».
Ha parlato di delusione: cosa amareggiava Mandela?
«Il livello di corruzione che permea ogni livello del governo e della macchina economica del Sudafrica gli creava profondo dolore: Madiba non si è mai interessato ai soldi, non ha mai cercato di favorire i suoi amici o i suoi familiari. Viveva in una casa grande e confortevole, non in una enorme e lussuosa villa. Era davvero deluso: se lui fosse stato ancora in forze nessun membro dell’ANC si sarebbe potuto permettere di rubare come
invece hanno fatto in tanti».
Il Sudafrica arcobaleno sopravviverà alla morte del suo padre fondatore?
«I sudafricani dovranno sempre ricordare che privilegio è stato vivere nello stesso paese di Madiba ».

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“QUANDO MANDELA PRESE LE ARMI”, di BERNARDO VALLI
SHARPEVILLE è una borgata di quello che allora si chiamava ancora il Transvaal. Parlo del 1960. Era una township dalla quale i neri potevano uscire soltanto con un lasciapassare per andare a lavorare nelle zone dei bianchi, e nella quale dovevano rientrare la notte.
QUANDO noi cronisti arrivammo era già trascorsa una settimana dal massacro. Sessantanove cadaveri, annotai, e centottanta feriti. Tra gli uccisi c’erano alcune donne, con i bambini che portavano con sé quando andavano a servire le famiglie di origine inglese o boera. Sulle porte di alcune case c’erano dei nastri neri in segno di lutto. Quelli bianchi indicavano che la vittima non era un adulto.
Sharpeville era stata ripulita. Le tracce di quel che era accaduto il 21 marzo erano visibili soltanto sui muri delle case basse, al massimo a un piano. C’erano i graffi dei proiettili. Per ammazzare una settantina di esseri umani e per ferirne quasi duecento bisogna sparare parecchio. Ma gli afrikaner non lesinavano i mezzi per imporre l’Apartheid, istituzionalizzato al fine di separare lo sviluppo di bianchi e neri, vale a dire di segregare i neri, privati dei diritti civili e politici riservati ai bianchi.
Quello che accadde a Sharpeville fu per Nelson Mandela una staffilata. A quarantadue anni era già un militante importante nell’ African National Congress, ma il massacro del 21 marzo lo trasformò in un uomo pronto all’azione armata. Amava la pace, ma non era un pacifista. Allora, dopo Sharpeville, convinse l’ANC che la strategia della non violenza era ormai superata, poiché in mezzo secolo non aveva dato alcun risultato. Bisognava dunque ricorrere alle armi.
In quella primavera del ’60, come reporter di pelle bianca più che evitare la polizia bisognava vincere la diffidenza degli africani. Subito dopo il massacro ne erano stati rinchiusi in campi di concentramento almeno ventimila. Era comprensibile che non si fidassero troppo di chi non aveva la pelle nera. Il governo dominato dal National Party (il cui capo, Hendrick Verwoerd, era stato l’architetto dell’Apartheid) ne avrebbe arrestati molti di più, ma le industrie, le fattorie, e in particolare le miniere d’oro senza le braccia degli africani neri sarebbero rimaste paralizzate.
Quindi le regole erano state rafforzate, soprattutto erano state imposte ulteriori restrizioni alle concessioni dei lasciapassare (estesi anche alle donne), ma la repressione dopo la violenza a Sharpeville e in altre township non aveva avuto l’ampiezza auspicata dal governo. Gli industriali, in gran parte di origine inglese, mentre gli agricoltori erano di origine boera, non volevano subire troppi danni. Non volevano restare senza braccia.
Molti morti erano stati colpiti alle spalle. C’era chi mostrava le camice bucate dai proiettili. Una donna mi mise sotto il naso quella di un congiunto, senza dire una parola. La manifestazione contro l’inasprimento della legge sui lasciapassare aveva raccolto cinque-settemila persone. Le quali si stavano disperdendo quando la polizia aveva intensificato
gli spari ad altezza d’uomo.
Nel giugno dell’anno successivo Nelson Mandela creò e comandò Umkhonto we Sizwe, la Lancia della patria, l’organizzazione armata dell’ANC. Il quarantenne elegante, amante delle donne, del pugilato, del ballo, della musica, visitò clandestinamente almeno dieci paesi africani, dall’Etiopia all’Algeria, per imparare l’arte del guerrigliero e quindi apprendere l’uso degli esplosivi e il funzionamento di mitra e pistole.
Ha spiegato con chiarezza questo estremo ricorso alla lotta armata. A determinare il tipo d’azione – ha detto e scritto – è sempre l’oppressore; l’oppresso non può che scegliere la forza, se l’oppressore la usa contro le legittime aspirazioni popolari, se rifiuta un vero dialogo. E’ sempre meglio risolvere i conflitti col cervello che col sangue, ma a volte non c’è scelta. Questa, per lui, era la situazione dopo Sharpeville.
Tuttavia Mandela si è dedicato poi a organizzare soprattutto scioperi e campagne di disobbedienza civile. Si travestiva. Si muoveva clandestinamente. Cosi è sfuggito alla polizia per più di un anno. Fino all’agosto ’62 quando fu arrestato. Lo chiamavano il «montone nero». Nell’Africa del Sud Gandhi aveva lasciato una traccia, degli insegnamenti : giovane avvocato, prima di ritornare in India, aveva difeso con iniziative non violente i diritti dei suoi connazionali.
Mandela non ignorava certo l’eredità di Gandhi. Ma è rimasto un uomo d’azione. I suoi modelli non erano i pacifisti. Lui non lo era. Sarà non violento quando potrà esercitare la violenza e non lo farà. Questa è stata la sua nobiltà. Una nobiltà africana, senza odio e desiderio di vendetta, o di rivalsa, che ne ha fatto un grande leader carismatico.
Nei giorni che seguirono il massacro di Sharpeville, decisivo per Mandela, ho frequentato la società sudafricana. Ho incontrato il liberale Openheimer, padrone delle miniere d’oro. Aveva una visione ben precisa della società, la voleva articolata in imprenditori, lavoratori e consumatori. E quindi si opponeva o criticava l’Apartheid.
Ma ricordo un medico italiano, emigrato per sfuggire negli anni Cinquanta
a quello che considerava l’imminente arrivo al potere dei comunisti a Roma. Egli tenne a Johannesburg una conferenza scientifica per spiegare la diversa natura dal sangue dei neri e dei bianchi. Rammento anche il pittore alla moda che aveva dotato la sua residenza con sofisticati allarmi elettrici. Non li aveva installati per tenere lontano i ladri, ma per non essere sorpreso dalla polizia che poteva coglierlo di notte con l’amante indiana sotto lo stesso tetto. E questo sarebbe stato un delitto punibile con qualche scudisciata. Gli allarmi elettrici consentivano all’amante indiana di ritirarsi sotto un altro tetto, nella baracca costruita appositamente per lei nel giardino. In quei giorni Mandela resisteva nella clandestinità, e noi ignoravamo il suo nome.

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“IL GIGANTE NATO IN CELLA”, di DESMOND TUTU

NON riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

MA LA sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura. Mandela superò le aspettative.
Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco.
Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.
Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.
Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliaperdono
zione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobi-litarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare.
Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.
Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.
Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?
Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.
Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.
Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.
Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.
(Copyright Mail and Guardian Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 07.12.13