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“Cervello. Quel ping pong tra i neuroni che rende diversi uomini e donne”, di Elena Dusi

Nel ping pong dei pensieri che ci corrono in testa, uomini e donne giocano su due tavoli diversi. I maschi ragionano in lungo, le donne in largo. Nei primi le idee rimbalzano avanti e indietro, nelle seconde a destra e sinistra. Per gli esperti di architettura cerebrale, questa asimmetria si traduce in una differenza fra i due sessi, ma anche in una complementarietà, con i pregi dell’uno che compensano i difetti dell’altro. Alla maggiore capacità maschile di percepire lo spazio e coordinare al suo interno i movimenti del corpo fa da contraltare l’innata dote femminile di intuire, collegare e svolgere più compiti insieme. Lo stereotipo dell’uomo specializzato nel parcheggiare l’auto o leggere una cartina e della donna abile nel multitasking viene oggi confermato da uno studio che osserva come sono strutturati i fasci di fibre nervose nell’intero cervello di maschi e femmine.
Gli impulsi cerebrali — spiega la ricerca su Pnas— seguono due autostrade diverse nei due sessi. Fra i maschi sono molto potenti i collegamenti fra parte anteriore e posteriore del cervello. Fra le donne invece è la comunicazione fra i due emisferi a essere privilegiata. Tradotto in termini di attitudini, i maschi hanno un collegamento diretto fra le percezioni (collocate nella zona frontale) e i movimenti che coinvolgono i muscoli (gestiti dalla parte anteriore della corteccia cerebrale) e sfruttano una rapidità maggiore nel processare le informazioni. Gli impulsi elettrici nel cervello maschile viaggiano soprattutto da una parte all’altra dello stesso emisfero, esattamente il contrario delle donne, specializzate nel “saltare i ponti” fra parte destra e sinistra del cervello. Questo vuol dire, aggiunge la ricerca di un team dell’università della Pennsylvania, capacità di unire le doti di analisi (emisfero sinistro) al ben noto, secondo alcuni addirittura diabolico, intuito femminile. O di ricordare volti e nomi di persone incontrate in situazioni inusuali: compito per cui serve integrare dati immagazzinati in zone diverse del cervello.
Le differenze fra ragazzi e ragazze, come gli altri tratti sessuali, emergono intorno ai 14 anni e si approfondiscono durante l’adolescenza. Queste informazioni già note all’aneddotica sono state per la prima volta tradotte in spettacolari immagini grazie al metodo della “connettomica”. Una tecnica speciale di risonanza magnetica permette di visualizzare l’intero cervello e il percorso seguito dagli impulsi elettrici. Queste traiettorie dei pensieri sono tutt’altro che casuali: seguono autostrade ben precise, legate alle attitudini di ciascuno di noi e nitidamente visibili nelle immagini ottenute con la risonanza magnetica. «Oltre alle differenze, ciò che colpisce è la complementarietà fra doti femminili e maschili» commenta la coordinatrice dello studio Ragini Verma, che insegna radiologia all’università della Pennsylvania e ha guidato la navigazione all’interno del cervello di 949 giovani fra gli 8 e i 22 anni. «Possiamo finalmente dire di aver osservato le basi neurologiche delle diverse attitudini di uomini e donne». Per Ruben Gur, psichiatra dello stesso ateneo, «le differenze contribuiscono alla sopravvivenza della specie. La specializzazione contribuisce infatti all’adattabilità e aumenta il ventaglio dei comportamenti».

La Repubblica 04.12.13

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Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging research unit del San Raffaele “Ma per avere alcune qualità ci si può sempre allenare”, intervista di E. D.

Diversi fin nell’architettura. «Le differenze che notiamo nei comportamenti e nelle attitudini nascono proprio da una diversa organizzazione dei fasci nervosi all’interno del cervello» spiega Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging researchunit del San Raffaele a Milano.
Anche il vostro gruppo ha studiato le differenze fra uomini e donne. Vi sorprendono i risultati di oggi?
«No, lo avevano già dimostrato vari test comportamentali: i maschi sono più bravi nei compiti procedurali e motori, nei processi visivi e spaziali, mentre il punto forte delle donne sono multitasking, attenzione e memoria».
Questa architettura del cervello è fissa o può essere alterata dedicandosi a determinate attività?
«Il cervello resta un organo plastico, specialmente in età giovane. Dedicarsi con assiduità a determinate attività, sia motorie che intellettive, può far aumentare il volume dell’area cerebrale dedicata e far crescere il numero dei neuroni».
Lo studio del connettoma che vediamo nella ricerca di oggi ci dà più informazioni rispetto ai metodi usati nel passato?
«Gli studi tradizionali osservavano singole aree del cervello. Lo studio del connettoma ci permette di guardare l’organo nel suo complesso, e di mettere in evidenza il percorso degli impulsi nervosi».
In società complesse come quelle attuali le qualità femminili appaiono forse leggermente più utili?
«In effetti. Gli uomini ci battono in procedura, ma nelle attività della vita quotidiana le donne hanno spesso maggiore controllo».

Las Repubblica 04.12.13

“Cambia l’Isee, finti poveri addio”, di Laura Matteucci

Al via la riforma dell’Isee, l’indicatore della situazione economica equivalente – della ricchezza, insomma – che le famiglie devono presentare allo Stato per accedere ai servizi sociali e calcolare il conto delle tasse universitarie. Il nuovo riccometro è stato approvato dal Consiglio dei ministri, e manda in pensione il vecchio, in vigore dal 1998 che, come dice il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, «iniziava a mostrare i segni del tempo: per questo il governo si è fortemente impegnato in questi mesi per una sua profonda rivisitazione, realizzata recependo anche le indicazioni arrivate sia dal Parlamento sia dalle parti sociali».

Secondo il premier Enrico Letta con il nuovo indicatore si eviterà «lo scandalo dei finti poveri e si pone il tema di un rapporto diretto tra situazione reale delle famiglie e l’accesso ai diritti. La riforma riporta un concetto di verità tra le persone e i servizi sociali corrispondenti. Le risorse vadano a chi ha bisogno», chiosa citando i fatti di cronaca di pochi giorni fa, quando si è scoperto che alcuni studenti di atenei laziali godevano delle esenzioni all’Università mentre i genitori possedevano Ferrari e ville con piscina. «Creare un meccanismo di trasparenza e di verità è una delle più grandi riforme che questo Paese può fare», aggiunge Letta. Per evitare gli abusi, verrà messa in campo una doppia rete di controlli: le informazioni autocertificate verranno verificate da soggetti diversi, e nel caso qualcosa non tornasse in relazione al patrimonio immobiliare partirà una segnalazione alla Guardia di Finanza.

FRANCHIGIE E DETRAZIONI

L’indicatore unisce reddito e patrimonio, che però è calcolato al 20%, e comprende tutele e franchigie in proporzione al numero di componenti della famiglia (dal terzo figlio) e a seconda della presenza di disabili. Solo una parte dei dati potrà essere certificata dai contribuenti, mentre spetterà alle amministrazioni pubbliche fornire i dati che riguardano il reddito complessivo. Saranno quindi ridotte le aree delle autodichiarazioni, con un rafforzamento dei controlli per ridurre le situazioni di accesso indebito alle prestazioni agevolate, saranno incrociate le diverse banche dati fiscali e contributive e saranno integrati dati e prestazioni a livello nazionale e loca- le. Ad esempio, le informazioni per il calcolo dell’indicatore, oggi fornite con autodichiarazione, saranno prese dagli archivi dell’Inps e delle Entrate.

Vengono considerate tutte le forme di reddito, comprese quelle fiscalmente esenti. È introdotta la possibilità di calcolare l’«Isee corrente» in caso di variazioni del reddito corrente superiori al 25% (ad esempio, nel caso di perdita del lavoro o significativa riduzione). «In una situazione come l’attuale in cui può variare situazione economica – riprende Giovannini – non si guarderà solo alla dichiarazione dell’anno precedente ma la possibilità di calcolare un cosiddetto Isee cor- rente per adeguarlo alle condizioni attuali». La riforma sottrae dalla nozione di reddito gli assegni di mantenimento del coniuge, i redditi da lavoro dipendente (quota del 20% fino a un massimo di 3mila euro), pensioni (quota del 20% fino a mille euro), co- sto dell’abitazione (da 5.165 a 7mila euro l’anno) e le spese effettuate da persone con disabilità o non autosufficienti (fino ad un massimo di 5mila euro). Vengono aumentate le franchi- gie per ogni figlio successivo al secondo (500 euro per la deduzione dell’affitto, 2.500 euro per la deduzione sulla prima casa, mille euro per il patrimonio immobiliare).

AFFITTI E IMMOBILI

L’aumento medio dell’indicatore è quantificato sul 10,4%, ma per chi vi- ve in affitto è calcolata una riduzione media del 3,3%. Un’altra novità ri- guarda la valorizzazione degli immobili: sono considerati al valore definito ai fini Imu al netto del mutuo residuo, e l’abitazione principale è considerata in proporzione ai due terzi del suo valore. Novità anche per quanto riguarda il patrimonio all’estero. Le modalità di calcolo dell’indicatore saranno differenziate per le prestazioni sociosanitarie, per quelle rivolte ai minorenni con genitori non conviventi e per il diritto allo studio universitario. Restano invece analoghe a quelle vigenti le modalità di presentazione del- la dichiarazione sostitutiva unica (Dsu).

L’Unità 04.12.13

“Geni in matematica a Nordest. Studenti del Sud indietro di due anni”, di Corrado Zunino

I quindicenni della provincia autonoma di Trento, ragazzi da proteggere, sono tra i migliori studenti al mondo. In scienze, in matematica, nella comprensione di ciò che leggono (in italiano). I test Ocse, basati sulle risposte ai nostri Invalsi, assegna all’énclave studentesca trentina 521, 523 e 533 punti per ordine di disciplina. Trento è tra il quarto e il quinto posto in una classifica planetaria (65 paesi industrialmente avanzati) che vede Giappone, Corea del Sud e Finlandia offrire i più acuti e secchioni alunni in assoluto. La nicchia cinese di Shanghai e Singapore è oltre, fuori classifica. I quindicenni della Calabria nelle stesse tre discipline sono 90 punti lontani da Trento, un filo sopra il Messico, un filo sotto il Kazakistan. Nella matematica 90 punti di differenza significano questo: i quindicenni di Trento frequentano la seconda liceo mentre i quindicenni calabresi sono in terza media. Due anni di didattica e apprendimento di distanza.
Se la media nazionale dei «poveri di conoscenze» è del 25%, al Sud cresce fino al 34%. La percentuale di chi non è mai arrivato tardi a scuola è attorno al 75% a Trento e Bolzano, in Veneto, Emilia e Friuli. In Calabria scende al 54%. A Bolzano i sempre presenti sono ottanta su cento, in Campania il 37,7%. «La diversità di performance in molte aree del Mezzogiorno», ha osservato il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, obbliga «a maggiori investimenti per la lotta alla dispersione scolastica nelle zone più a rischio».
Gli autonomi di Trento, che costano alla loro provincia una volta e mezzo quanto costano allo Stato italiano gli studenti non trentini, non sono soli. Viaggiano su medie alte i ragazzi friulani, i veneti, anche i lombardi. Hanno punteggi da Nord Europa, voti olandesi. Il presidente del Veneto Luca Zaia, non proprio un intellettuale, sottolinea: «È la risposta che vogliamo dare a coloro che ritengono si debba andare all’estero per imparare». L’Italia con due motori del sapere, il Nord e il Sud — al centro vanno in folle gli studenti del Lazio — migliora, risale, recupera. Il dossier che analizza i dati dal 2003 al 2012 rivela che, in matematica, siamo cresciuti più di tutti. E nelle tre discipline prese in considerazione abbiamo fatto progressi incisivi al pari di Turchia, Messico e Lussemburgo. Anche il Meridione, tutto il Meridione. In particolare
cresce la Puglia, dove un utilizzo costante e attento dei fondi europei oggi consente agli studenti di Lecce e Brindisi risultati in matematica migliori di quelli nel Lazio e letture più consapevoli che in Liguria, Toscana, nell’Umbria. Sui risultati scolastici, che illustrano con aderenza la società dei giovani italiani, siamo ancora nella parte destra, medio-bassa, della classifica Ocse. Ma stiamo risalendo. In matematica andiamo meglio di Spagna e Israele, nella comprensione meglio di Spagna e Svezia. Se tenessimo conto non dei 15 anni di età (uno studente alla seconda classe superiore), ma dei dieci anni di scuola effettivamente svolti, recupereremmo ancora di più: in tutte e tre le discipline saremmo sopra la media Ocse.
Non c’è una spiegazione ufficiale, e neppure ufficiosa, sul perché stiamo recuperando. Gli ultimi due governi (con Profumo e Carrozza ministri dell’Istruzione) sono troppo recenti per aver inciso su statistiche che arrivano ad analizzare fino al 2012. E le considerazioni dell’analista Ocse Francesca Borgonovi affiancano quelle del coordinatore del progetto Pisa, Andreas Schleicher: «Più importante della quantità dei soldi che si investono è come si investono». Singapore, con novanta punti in media più di noi in matematica, spende la stessa cifra dell’Italia per ogni alunno: 85 mila dollari. Con altri risultati. «Bisogna pagare meglio gli insegnanti», ha aggiunto l’analista.
Il focus dell’Ocse, ecco, toglie un po’ di drammaticità agli ormai famosi otto miliardi sottratti alla scuola — da Tremonti e Gelmini — tra il 2008 e il 2011. Il presidente Invalsi Paolo Sestito commenta: «Quei tagli erano comunque sbagliati perché lineari, non puntati sugli sprechi, e poi dobbiamo sottolineare che i progressi degli studenti italiani sono da situare tra il 2003 e il 2006, probabilmente i tagli Gelmini quei progressi li hanno rallentati. Non cancellati».

La Repubblica 04.12.13

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L’Ocse promuove la scuola italiana “Sotto la media, ma miglioramenti”

L’Ocse «promuove» la scuola italiana. Soprattutto per l’impegno dimostrato in questi anni. Sebbene le competenze degli studenti rimangano ancora al di sotto della media Ocse, il nostro è uno dei paesi che ha registrato «i più notevoli progressi» in matematica e scienze negli ultimi anni.

Dal 2003 al 2012 i risultati ottenuti dagli studenti nei test «Pisa» sono migliorati di 20 punti in matematica e di 18 punti in scienze. Stabili, invece, ai livelli del 2000, le performance in lettura, che pure erano diminuiti a metà decennio. È quanto emerge dall’ultima indagine Ocse-Pisa sulle competenze dei quindicenni.

«Non possiamo trascurare il fatto che l’Italia registri risultati inferiori alla media Ocse – commenta il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza – tuttavia siamo uno dei paesi che ha registrato i maggiori progressi in matematica e scienze e questo deve essere da stimolo per continuare a lavorare per migliorare le performance dei nostri studenti». E se il Pd chiede che si continui ad investire per colmare i «forti ritardi» che pure permangono nella scuola italiane, i sindacati rivendicano con orgoglio che l’istruzione «è una delle parti migliori del nostro Paese», come afferma la Uil.

AUMENTANO PRESTAZIONI TOP IN MATEMATICA

Dal 2003 al 2012 sono aumentati gli studenti «più brillanti» (2,9% in più): oggi sono il 10% (13% la media Ocse) del totale, una percentuale però ancora lontana da Shanghai (55%) e Svizzera (21%). Nello stesso periodo sono diminuiti del 7% gli studenti con competenze molto basse, pur essendo ancora il 25% del totale, contro una media Ocse del 23%. La Germania si ferma al 17%, la Svizzera al 12% e Shanghai al 4%. Per quanto riguarda le scienze, la quota di studenti a basso rendimento (18,7%) è superiore alla media Ocse, ma si è ridotta del 6,6% tra il 2006 e il 2012. Le performance «top» sono invece il 6,1%: inferiori alla media, ma cresciute dell’1,5% negli ultimi sei anni.

MASCHI PIÙ BRAVI IN MATEMATICA, FEMMINE IN LETTURA

Per quanto riguarda i numeri, il gap di genere in Italia è più ampio rispetto alla media Ocse: i ragazzi superano le ragazze di 18 punti (la media è di 11 punti). «Questa per me è la spia – sottolinea Carrozza – di una questione culturale, di un gap di genere che attraversa ancora in maniera profonda il nostro paese e che va contrastato». Le studentesse però sono più brave nella lettura e superano di 39 punti il risultato dei maschi. Il divario è in linea con la media Ocse, mentre non si rilevano differenze di genere statisticamente significative nelle scienze.

RITARDI E ASSENZE INCIDONO SU RENDIMENTO, ITALIA RECORD

Tra le cause che concorrono a determinare un basso risultato nei test, secondo l’Ocse, oltre, ad esempio, al non aver frequentato la scuola per l’infanzia, ci sono anche la mancanza di puntualità e le assenze ingiustificate. In Italia il 35% degli studenti ha riferito di aver saltato almeno un’ora di scuola nelle due settimane precedenti ai test Pisa, uno su 2, il 48%, ha saltato invece almeno un giorno di scuola: «tra le più alte percentuali registrate dai paesi Ocse».

AUMENTANO IMMIGRATI, MA RESTANO INDIETRO

Tra il 2003 e il 2012 gli studenti stranieri in Italia sono aumentati del 5%: oggi sono quasi il 7,5% del totale, contro una media Ocse del 12%. Ma tra loro e i colleghi nostrani esiste un divario più ampio della media Ocse nelle competenze. Gli studenti immigrati hanno ottenuto 48 punti in meno dei loro colleghi italiani nei test Pisa di matematica (la media è di 34 punti). L’Italia, osserva l’Ocse, non ha tradizionalmente esperienza di studenti immigrati e anche per questo motivo il fenomeno è più problematico.

MA IN ITALIA PIÙ EQUITÀ

Anche se negli ultimi 10 anni le risorse per la scuola sono diminuite «dell’8%», l’Italia non ha sacrificato l’equità nell’istruzione. E la scuola pubblica funzione. Le differenze socio-economiche incidono meno sulle prestazioni rispetto alla media Ocse: in media, il 15% della variabilità nei risultati è ascrivibile alle condizioni socio-economiche della famiglia; in Italia il dato scende al 10%. «Dobbiamo guardare al nostro sistema educativo non come una spesa, ma come un investimento, perché possa continuare a svolgere questa funzione fondamentale per una società più giusta», conclude il ministro. Su questo insiste anche Francesca Puglisi, componente Pd in commissione Istruzione al Senato: ci sono «forti ritardi», «occorre investire». «Tutti i gruppi parlamentari, già dall’inizio della legislatura, concordano che i soldi spesi in istruzione sono un investimento», sottolinea infine il sottosegretario all’Istruzione, Marco Rossi Doria.

La Stampa 04.12.13

“L’ultima occasione”, di Ezio Mauro

Eppur si muove. Sulla soglia della dichiarazione d’impotenza, paralizzato dall’attesa della Consulta, il sistema politico affronta finalmente in extremis il nodo del Porcellum che imprigiona insieme cittadini, partiti, Parlamento e istituzioni. Palazzo Chigi sta dialogando con Renzi e Alfano per una doppia mossa: una sola Camera e una drastica riforma elettorale con il doppio turno di collegio. Se il dialogo andrà avanti, se la soluzione verrà timbrata da chi vincerà le primarie del Pd domenica, Letta potrebbe avanzare la proposta nel discorso in Parlamento già mercoledì.
Da giorni sosteniamo che dopo lo strappo con Berlusconi il governo dovrebbe mettere la sua maggioranza a disposizione del Parlamento come superficie utile e sufficiente per far prendere il largo alla riforma elettorale, disponibile a convergenze da destra e da sinistra: ma a patto di arrivare a un risultato chiaro e netto in tempi certi, abbandonando impropri scenari di ridisegno costituzionale.
Questo può essere il punto d’inizio di una nuova stagione per il Pd e anche per il governo, se il governo saprà dimostrare di svolgere un servizio al sistema, facendo buon uso della libertà ritrovata dai veti e dai ricatti personali di Silvio Berlusconi che hanno imprigionato il Paese troppo a lungo. Il dopocristo deve pur cominciare.

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“La Corte costituzionale accelera ora il Porcellum è in bilico Grasso: cresce la rabbia anti partiti”, di LIANA MILELLA

Cambia il vento sul Porcellum. Il vento della Consulta che, dalla quasi certezza del rinvio, passa alla voglia di decidere, e decidere subito, anche oggi. Dalle 9 e 30 in poi, quando inizia il conclave dei 15 alti giudici. Ma contro la legge elettorale oggi in vigore soffia forte anche la politica. Il suo grande nemico, l’avvocato Aldo Bozzi, nell’udienza pubblica della mattina alla Corte, l’ha definita fonte di un voto «non libero e incostituzionale ». Ed ecco che nel pomeriggio il presidente del Senato Pietro Grasso rompe gli indugi. Dice pubblicamente quello che va meditando da giorni. Se a palazzo Madama «dovesse andare avanti lo stallo, non esisterò un attimo a sostenere il trasferimento di questo tema alla Camera». Non solo: parole molto dure contro i partiti che «non sentono la marea montante di una rabbia che si riverserà, più forte di prima, contro i partiti medesimi». Di sicuro è la rabbia che avverte Letta, tant’è che rivolge un appello a Forza Italia perché, pur non appoggiando il governo, continui il percorso delle riforme, e sulle riforme annuncia che saranno «il cuore» del suo discorso dell’11 dicembre per la fiducia. «Non possiamo permetterci di non farle» dice Letta. Anzi «dobbiamo farle». Certo, contro Letta soffia il vento di Renzi che in una battuta sintetizza la faccenda: «In attesa che la Corte decida, ci diamo una mossa noi?». Ma la novità di ieri è che proprio alla Corte costituzionale cambia l’aria. Dopo la relazione dell’ex presidente Antitrust Giuseppe Tesauro, nell’udienza pubblica — dove non c’è un avvocato “difensore” del Porcellum — irrompe il fronte contrario degli eredi del liberale Bozzi. Ecco Aldo, e Giuseppe, con Claudio Tani e Felice Besostri. Argomentazioni a favore dell’ammissibilità e della cancellazione del Porcellum. Fanno breccia? Un fatto è certo, man mano che passano le ore, “Radio corte” fa capire che si va attenuando la voglia di non decidere, di rinviare, di concedere un altro lasso di
tempo alla politica. Saranno le pressioni che, inevitabilmente, arrivano nel palazzo, quel quasi pretendere il rinvio come un fatto dovuto.
No, questo la Consulta non può concederlo abdicando alla sua capacità giuridica di scelta. Ecco che il presidente Gaetano Silvestri, costituzionalista di Messina sicuramente non amico del Porcellum, per la seconda volta usa la parola «decidere» a proposito della legge. L’aveva fatto tre giorni fa in una lectio magistralis, lo ripete ieri sera quando comunica che oggi «si deciderà» sul Porcellum. Non è un mistero che Silvestri giudichi negativamente la legge che si rifiuta di chiamare Porcellum al punto da redarguire pubblicamente chi usa questa locuzione.
Per certo, sui giudici, hanno avuto un impatto negativo anche tutte le interpretazioni giuridiche che vorrebbero a tutti i costi il quesito della Cassazione inammissibile. Mentre in Corte molti giudici sono convinti che lo sia, e che i quesiti posti da Bozzi siano pure da accogliere. Il problema è, una volta cancellato il Porcellum o una sua parte importante (voto di preferenza e premio di maggioranza), che cosa resta dopo. Vedremo oggi se la Corte si orienta per far rivivere il Mattarellum oppure per un appello alle Camere. Comunque le prossime potrebbero anche essere le ultime ore del Porcellum.
Certo un’influenza Aldo Bozzi l’ha avuta, quel suo dire «ho 80 anni ma voglio vivere in una democrazia ». Piccolo di statura ma con una bella voce suadente, un intervento scritto a caratteri di scatola e breve, di chi non ha bisogno di molte parole per convincere il suo interlocutore. Quelle che servono per sostenere che sì, il quesito sollevato dalla Cassazione è ammissibile, perché la Suprema Corte stessa deve applicare una legge che odora di incostituzionalità, mentre chi ha presentato il ricorso «ha già subito in concreto la reiterata lesione di un esercizio non libero e ineguale del diritto di voto ». Un diritto «costituzionalmente garantito» diventa un non diritto perché l’assenza delle preferenze sopprime «la scelta individuale dell’elettore» e chi è eletto «non rappresenta gli elettori, ma i partiti». «Curie di partito, punto e basta» dice Tani. «Nessun vuoto legislativo» per Besostri se i due quesiti fossero accolti. Poi una frase pesante: «Sarebbe una vergogna se la Consulta si rifugiasse nell’inammissibilità ». Già…ma pare che la Corte sia intenzionata a «decidere ». Per usare le parole di Silvestri, ovviamente.

La Repubblica 04.12.13

“Ora la verifica ma il calvario non è finito”, di Marcello Sorgi

Non saranno affatto una passeggiata la fine delle larghe intese e l’avvio della fase nuova, che dovrebbe prendere corpo dopo il dibattito e il voto di fiducia della prossima settimana. Il comunicato quasi a doppia firma, uscito dal Quirinale dopo un’ora di colloquio tra Napolitano e Letta, conferma che c’è una perfetta unità di vedute tra i due presidenti. Ma la lunga vigilia che ha preceduto il varo della verifica formale, in Parlamento, della maggioranza ristretta, ha già fatto capire che il calvario del governo non è finito.

Non è un mistero, infatti, che Letta, e in un primo momento anche Napolitano, puntassero a evitare lo stress di un altro passaggio parlamentare nel bel mezzo dell’interminabile discussione sulla legge di stabilità, tra l’altro ancora in corso e con la grana infinita dell’Imu che stenta a chiudersi. D’altra parte, il governo aveva dimostrato di avere la maggioranza al Senato, cioè nella Camera dai numeri più incerti, anche dopo la decisione di Berlusconi di passare all’opposizione.

Ufficialmente perché insoddisfatto dei contenuti della manovra di fine anno, di fatto come reazione al voto del Pd in favore della sua decadenza. Ma l’atteggiamento intransigente di Forza Italia, reso esplicito da una delegazione salita a questo scopo al Quirinale, ha convinto Napolitano dell’impossibilità di evitare la liturgia della verifica. La scelta del Presidente della Repubblica è racchiusa tutta in quella parola – «discontinuità» – inserita nel comunicato di ieri sera e subito sottolineata con soddisfazione dai due capigruppo di Forza Italia Brunetta e Romani. Era quel che volevano i berlusconiani, per dimostrare che la rottura è seria e le conseguenze non stanno affatto trascurabili.

Per capire di che tenore sarà l’epoca successiva alle larghe intese, però, non occorrerà aspettare la prossima settimana. Basta già guardare quel che sta accadendo in questi primi giorni di sperimentazione dopo il cambiamento del quadro politico. Le due destre, nate dalla scissione del Pdl e presentate dal Cavaliere come se fossero rimaste apparentate, sono invece entrate in una fase di guerriglia, in cui praticamente ogni giorno Alfano e il suo Nuovo centrodestra sono sottoposti a un fuoco di fila di tutta la pattuglia berlusconiana, che tende a raffigurarli deboli e sottomessi al centrosinistra. Alfano, per reagire a queste polemiche, pesanti da sopportare per un partito che sta ridefinendo i confini della propria offerta politica, deve necessariamente aggiustare il tiro su Letta e il Pd: cosicché adesso scricchiola, per la prima volta, il famoso asse tra i dioscuri di Palazzo Chigi – il premier e il suo vice – che fin qui erano stati i due principali pilastri del governo. Inoltre, non appena Alfano ha alzato la testa, invocando, prima della verifica, la definizione di un vero e proprio «contratto di governo», stile Merkel, con il Pd, Renzi, che si comporta già da segretario, con una delle sue battute caustiche («Voi siete trenta e noi trecento») gli ha sparato addosso, per fargli capire come intende i rapporti di forza nel governo di qui a venire.

Sarà pur vero, come sostiene Letta, che anche questo fa parte della campagna per le primarie che si conclude domenica. E sarà ovvio, per Renzi, che puntava non da adesso a spostare verso di sé una parte dei voti del centrodestra, che la scissione del Pdl in due tronconi e la nascita di due destre, una più centrista e governativa e l’altra più radicale, non giovano certo ai suoi propositi, specie in vista delle elezioni europee.

Ma insomma, anche senza drammatizzare – non ce n’è affatto bisogno -, chi pensava che la fine delle larghe intese, non foss’altro per stanchezza, dopo sei mesi di risse, potesse coincidere con una tregua – e magari con l’approvazione di qualcuna delle riforme più urgenti, a partire dalla legge elettorale su cui oggi si pronuncerà la Corte Costituzionale – purtroppo dovrà ricredersi. La guerra continua.

La Stampa 03.12.13

“Le Province”, di Valentina Conte

Il ministro Delrio definisce il disegno di legge “di importanza strategica per il Paese”. Non solo perché svuota le Province, battezza le dieci città metropolitane, regolamenta le Unioni dei piccoli Comuni. Ma per il potenziale che apre. “Questa riforma può valere molto di più di qualsiasi spending review governata dall’alto”, ha detto ieri in aula alla Camera dove il provvedimento è arrivato, dopo il via libera anche della commissione Bilancio. E nonostante qualche distinguo della Ragioneria dello Stato su alcune parti del ddl che potrebbero “potenzialmente” essere prive di coperture.
“Puntiamo a una conversione in legge entro i primi giorni dell’anno nuovo”, auspica il ministro. Senza Forza Italia però, che già preannuncia il suo no. “Il ddl non abolisce le province, ma di fatto crea un ulteriore e inutile carrozzone”, ripeteva ieri Brunetta.
NON abolizione, ma svuotamento delle Province. Non accorpamento dei Comuni, ma passaggio morbido all’Unione di quelli piccoli. Non dal primo gennaio, ma entro l’anno prossimo le dieci Città metropolitane. A parte questo, il disegno di legge Delrio, noto come Svuota-Province, è un primo passo per la riorganizzazione degli enti territoriali. Ma soprattutto per un auspicato taglio di spesa. «Vi sono troppi enti che si occupano delle stesse cose», ha riferito ieri il ministro Delrio alla Camera. «Se blocchiamo anche questo riordino, aumenteremo ulteriormente il distacco dei cittadini dalla politica».
ENTI DI SECONDO LIVELLO
Il disegno di legge in discussione a Montecitorio non abolisce le Province. Per toglierle dalla Costituzione una volta per tutte occorre una legge costituzionale. E in effetti un simile progetto corre parallelo al ddl Delrio, ma avrà vita lunga e accidentata. D’altronde, l’ultimo in ordine di tempo che ha provato gli accorpamenti è stato Monti con un decreto poi bocciato dalla Corte Costituzionale, perché questa materia non può essere maneggiata per decreto. Cambiato lo strumento, ora cambia un po’ anche la sostanza. La novità è che le previste elezioni provinciali nel 2014 non ci saranno più. E questo perché il ddl di fatto le rende inutili, cancellando tutto il personale politico. Presidente e Consiglio saranno eletti dalla conferenza dei sindaci e dei consiglieri del territorio. Ma non percepiranno un secondo stipendio.
FUNZIONI RIDOTTE
La riforma riguarda solo 86 su 107 Province totali, quelle cioè delle Regioni a Statuto ordinario. Di queste 86, dieci diventeranno città metropolitane, con poteri e budget superiori, mentre una ventina sono già commissariate. Le 56 rimanenti — quasi tutte in scadenza a primavera — anziché andare al voto si trasformeranno in “enti di area vasta”, con funzioni ridotte, quelle già individuate da Monti. E dunque la manutenzione di strade e scuole, la tutela di boschi e parchi, la gestione dei rifiuti, l’assetto idrogeologico, il trasporto locale. E la “pianificazione” generale dell’area vasta. Non avranno però i Centri per l’impiego, snodo cruciale dal 2014 per gestire la Youth guarantee, il piano per l’occupazione giovanile che vale 1,5 miliardi di fondi europei cofinanziati nel prossimo biennio. E rinunceranno a tutte le funzioni delegate dalle Regioni: formazione professionale, turismo, beni culturali, sociale. Con la garanzia però che i 56 mila dipendenti saranno riassorbiti tra Comuni e Regioni. E che i tributi propri resteranno: il Tefa ambientale, la tassa nell’Rc auto e l’Ipt sulle trascrizioni dei veicoli. Inoltre, il ddl prefigura un premio alle Province che dismetteranno partecipate in rosso: uno sconto del 20% sul patto di stabilità.
GRANDI E PICCOLI
Dieci città, come detto, dal primo luglio e pienamente entro il 2014, si trasformeranno in “metropolitane”. Con un sindaco “metropolitano” — per ora quello della città capoluogo, ma le regole si potranno cambiare — i cui poteri abbracceranno anche il territorio oggi provinciale. Si tratta di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Più Roma capitale, con poteri speciali. Rispetto alle nuove province, le dieci città metropolitane avranno funzioni rafforzate. Di sicuro gestiranno tutta la programmazione urbanistica e dunque i piani regolatori, non proprio briciole. E poi anche parte delle risorse europee attraverso i Programmi operativi nazionali: circa due miliardi tra 2014 e 2020. I Comuni sotto i 5 mila abitanti, daranno invece vita all’Unione dei Comuni, ente di secondo livello, con un proprio bilancio e presidente, consiglio, giunta, ma senza secondo stipendio. Scopo dell’Unione: svolgere “in forma associata” tutti e dieci le funzioni dei Comuni (Tremonti provò con 3 su 10, Monti con 5 su 10).
RISPARMI
È la grande incognita del ddl. Quanto si risparmierà? Secondo la Corte dei Conti, sicuramente il costo delle elezioni e delle “poltrone” politiche: tra i 100 e i 150 milioni annui, a fronte di 8 miliardi di spese correnti. Per Delrio si può arrivare al miliardo. A regime, però.

La Repubblica 03.12.13

“Imu, il pasticcio di Saccomanni”, di Ruggero Paladini

La vicenda dell’Imu diventa sempre più simile al nodo gordiano di Alessandro Magno. Cerco di sintetizzare i momenti salienti dell’ingarbugliamento:
1) la prima rata, dapprima sospesa, è stata definitivamente eliminata, ma la seconda è ancora viva e vigile e la legge di stabilità non si è occupata del problema.

2) I Comuni, che devono ancora varare il bilancio 2013, possono quindi mettere a bilancio tra le entrate la seconda rata, e poiché hanno la facoltà di variare in giù (in teoria) o in su l’aliquota del due per mille, hanno un incentivo a portarla sui livelli massimi (sei per mille), incentivo a cui molti sindaci non hanno resistito;

3) l’incentivo deriva dal fatto che, anche se formalmente, cioè a legislazione vigente, la seconda rata è ancora in piedi, è ben noto l’impegno politico del governo alla sua eliminazione;

4) ovviamente l’eliminazione della seconda rata, essendo una decisione politica a livello statale, comporta la necessità del Tesoro di rimborsare i Comuni della mancata entrata;

5) Comuni i quali hanno tempo fino al 9 dicembre di fissare l’aliquota, e, sembra, è sufficiente che venga apposta nel sito del Comune, e non comunicata all’Agenzia delle Entrate;

6) A via XX Settembre nasce logicamente la preoccupazione di dover reperire risorse ulteriori, rispetto a quelle stimate, in seguito al movimento verso il sei per mille da parte dei Comuni;

7) Da qui una prima reazione: «no, il rimborso ve lo diamo sulla base dell’aliquota dell’anno scorso». Ma di fronte alla protesta dei Comuni interessati, seconda reazione: «va bene, allora una quota (prima il 50%, ora il 40%) della differenza tra la maggiore aliquota fissata dal Comune ed il quattro per mille dovrà essere versata dai contribuenti»;

8) Ma forse non è finita, perché questa quota potrebbe essere un acconto da recuperare con la Tasi, cioè la tassa sui servizi indivisibili, in modo da non creare un altro casus belli nel governo.

Il peccato originario sta ovviamente nell’accordo politico; a questo punto vestendo i panni del grande macedone, provo a tagliare il nodo così:

a) diamo per scontata l’abolizione della prima rata; invece la seconda rata verrà regolarmente versata, con due detrazioni: una prima pari alla metà della detrazione esistente (comprensiva dei figli a carico), ed una seconda, nuova, pari ad una percentuale del valore immobiliare (ad esempio l’uno per mille), con un tetto massimo a 300 euro;

b) dal valore immobiliare si detrae la metà del mutuo immobiliare eventualmente gravante sulla casa;

c) si considera prima casa anche quella nella quale il contribuente non ha la residenza, se è l’unica casa posseduta nel Comune;

d) I valori immobiliari, invece di essere calcolati sulla rendita catastale, vengono recepiti da quelli dell’Osservatorio immobiliare della ex Agenzia del Territorio, diminuiti di una certa percentuale (ad esempio il 15%).

Queste misure mi sembrano tali da coniugare l’aspetto di equità con quello dell’autonomia fiscale del Comuni. In breve, la ragione di introdurre una detrazione in percentuale (con un tetto massimo)- punto a)- ha lo scopo di correggere il fenomeno di detrazioni in somma fissa che hanno fatto sì che, sia con l’Ici che ancor più con l’Imu, la percentuale di case esenti fosse molto alta nei piccoli Comuni e molto bassa nei grandi, mentre invece una sano principio del federalismo fiscale richiede che la percentuale di contribuenti residenti e votanti nei Comuni si mantenga entro un range ristretto. Poiché –punto b)- i mutui insistono sulla casa con ipoteca, è giusto che un’imposta reale ne tenga conto. Il punto c) evita l’imposta ostacoli la mobilità delle persone, ed infine il punto d) è volto a correggere le sperequazioni, molto forti, tra valori derivanti dalla rendita catastale e valori di mercato.

In questo modo si potrebbe sistemare questa vicenda che, agli occhi di uno straniero, è difficilmente comprensibile. E ricavarne anche qualche indicazione utile per la futura tassazione degli immobili.

L’Unità 03.12.13