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Tra gli operai schiavi di Chinatown “Ora tutti gridano allo scandalo ma molti italiani si sono arricchiti con noi”, di Laura Montanari

Come ombre, arrivano da soli o in coppia, guardano da lontano il posto, il capannone bruciato di “Teresa moda”, le stoffe ammassate, le grucce esplose, gli stendini deformati dal fuoco, le sbarre alle finestre. Su una cassetta rovesciata, due o tre mazzi di fiori. Nessuno va loro incontro e loro non cercano nessuno. I lavoratori di Chinatown non fanno domande, non danno risposte. Guardano e basta. Se provi ad avvicinarli, dicono di non capire l’italiano, allungano il passo per sparire nelle fabbriche intorno: Macrolotto 1, zona industriale. Questa Prato è un bosco di capannoni e di tralicci che congeda la città coi campi incolti. Nei magazzini e nelle fabbriche arrivano furgoni e tir dall’Italia e dall’estero. Caricano abiti da tre o cinque euro che poi, spiega Marco Ye, che lavora nel Pronto moda, «trovi dei negozi a 30-50». Le insegne sono tutte in doppia lingua, italiano e cinese, Ye Life, Chic Style, Raymon Fashion. Qui non ci sono domeniche e di notte le luci restano accese fino a tardi se ci sono consegne da evadere, certi giorni, all’alba si sente ancora lo stridere delle macchine taglia e cuci. È così da anni.
Questa è l’altra Prato, quella del fast fashion, la moda che corre, che intercetta le tendenze spiate sulle passerelle e le riproduce al volo su commissione. È una città nella città, «grande come Siena» dice l’assessore “sceriffo” della giunta di centrodestra, Aldo Milone. Trentaduemila sono i cinesi residenti o con permesso di soggiorno, altri 15mila almeno, i clandestini. Sono due città distanti che nemmeno il lutto unisce se è vero che le associazioni orientali hanno organizzato una fiaccolata per stasera e quelle italiane, una per il giorno dopo, cioè domani quando il Comune ha proclamato il lutto cittadino. Ieri lavoravano tutti al Macrolotto, così come nella zona di via Pistoiese, fra i ristoranti e i supermercati orientali: «Un incendio? Ma dove?» si stupiva qualcuno impermeabile alle notizie.
Negli ultimi 4 anni, dopo i controlli dei vigili urbani, sono state chiuse 1.200 aziende cinesi per mancanza delle più elementari norme di sicurezza.
Ma si sono rigenerate nel giro di poco, con un altro nome e pochi metri in là. «Mancano le case, per questo stanno nei capannoni» spiega Zheng, confezionista al Macrolotto. Nella stessa domenica della strage, i vigili hanno messo i sigilli alle fabbriche che confinavano con “Teresa Moda”: anche là, bombole e dormitori, alveari di due metri per due senza finestre, soltanto lo spazio per un materasso e poi fornelli e ceste di verdura. «Ma non siamo tutti così » raccomanda Yang che ha appena aperto una ditta ancora senza nome. «Che dolore — dice Hata, 29 anni, studi universitari e un lavoro in un’agenzia di viaggi — Veniamo qui per mantenere le famiglie in Cina e poi c’è chi muore così».
Matteo Ye, uno che tiene i collegamenti fra la comunità cinese e quella di Prato è arrabbiato: «Chiamate perché c’è stata una tragedia eh? E le altre volte che noi abbiamo chiesto aiuto, voi dove eravate?». Zu Long, buddista, dell’associazione Li Shui pensa che «questo incidente insegnerà ai cinesi prudenza e rispetto delle regole, stiamo cambiando, faremo un volantinaggio nelle fabbriche». Altri prevedono dopo i lutti, un giro di vite sui controlli. Ieri i vigili urbani sono andati nella zona industriale di Paperino e hanno chiuso una fabbrica di confezioni con annesso dormitorio per venti immigrati: tre irregolari, altri con contratti part time. Solito scenario: loculi in cartongesso senza finestre o finestre oscurate con una mano di vernice nera e fuori, le telecamere.
Hanno chiamato il proprietario del capannone, è un italiano che abita a Prato: «Non sapevo che vivevano qua dentro» è il copione che fa scrivere nel verbale. Sul contratto, l’affitto è di 12mila euro l’anno, ma chissà se, come hanno raccontato altri cinesi, era previsto il fuori busta. Gli affari si fanno anche così: «Sono diventati ricchi con noi » punta l’indice Zhu. «Ho denunciato diversi proprietari per abuso edilizio,
sono loro che devono controllare gli inquilini» sostiene l’assessore Milone.
Chinatown è un gioco di specchi, ha facce regolari e altre che non vedi. Dicono che ogni tanto qualche griffe porti commesse da queste parti: è l’appalto dell’appalto dell’appalto, ci si difende dicendo di non sapere. Nel capannone sequestrato ieri c’erano etichette per abiti su cui si leggeva: «Questo capo Rinascimento (stilizzata la Venere di Botticelli) è stato prodotto interamente in Italia». Tutto vero perché anche questa è Italia. «Ci vuole più sicurezza e informazione» chiedono a più voci i ragazzi italiani di Chinatown, la seconda generazione cresciuta fra le scuole e i laboratori. «Non scrivete che qui ci sono schiavi. Se gli operai non stessero meglio che in Cina, resterebbero là» riflette Alex. Forse non sa dei ricatti ai clandestini, dei passaporti ritirati dai padroni. Si affaccia al suo capannone e guarda le macerie lasciate dall’incendio. C’è un cinese venuto da Firenze per portare un mazzo di fiori. Ha scavalcato il nastro bianco e rosso e si è inginocchiato nella cenere nera e spessa, come questo lutto.

La Repubblica 03.12.13

“Emorragia di studenti al Sud”, di Antimo Di Geronimo

Cresce il numero degli alunni e cresce anche il numero dei docenti. Ma solo al Nord e al Centro. Nel Meridione, invece, il numero degli alunni continua a scendere e con esso anche quello dei docenti, nonostante criteri di assegnazione dei prof alle classi e agli studenti disabili che vedono ancora favorite le regioni del Meridione. É quanto emerge dai dati sull’organico di fatto 2013/2014, che confermano un’inversione di tedenza, complice il maggior flusso migratorio nelle regioni settentrionali.

A fronte di un incremento di 21.605 alunni, di cui 7500 portatori di handicap, gli organici dei docenti sono cresciuti complessivamente di 10.914 unità. Di queste, 1999 sono costituite da docenti su posto comune e 8915 da docenti di sostegno. La crescita del numero degli alunni è concentrata nella scuola dell’infanzia (+4375), primaria (+7434) e secondaria di II grado (+ 23.595). In controtendenza la scuola secondaria di I grado, che perde 13.799 alunni in tutte le regioni tranne Emilia Romagna (+946), Liguria (+94) e Toscana (+876). Segno meno anche per i posti comuni della secondaria di I grado (-330) ampiamente compensati da un +2147 posti di sostegno.

Nel Sud organici in caduta

Il segno positivo è dato dalla differenza tra la crescita del centro-nord e il calo del sud. Il primato negativo spetta alla Sicilia, che perde 7110 alunni e 327 docenti su posto comune. A fronte di un incremento di 376 posti di sostegno dovuti al riconoscimento in organico di fatto di 662 alunni con handicap in più. Segue la Puglia con una perdita di 4810 alunni e 274 docenti ordinari. E un incremento di 489 posti di sostegno dovuti al riconoscimento di 667 alunni disabili in più rispetto all’organico di diritto. Al terzo posto, tra le regioni che perdono più iscritti, la Campania. Che perde 4991 alunni e 262 docenti su posto comune. Mentre cresce di 852 l’organico dei posti di sostegno nonostante il calo degli alunni disabili frequentanti (-301). Subito dopo la Campania si colloca la Calabria, con un calo di 3049 alunni e 246 docenti ordinari in meno. Dato al quale fa da contraltare un incremento di 265 posti di sostegno, dovuto all’aumento del numero degli alunni portatori di handicap fissato nell’ordine di 318 unità in più. Al quarto posto si colloca invece la Basilicata. Che a fronte di 86.214 alunni frequentanti nello scorso anno, dal 1° settembre scorso scende ad 84.666 unità. Perdendo dunque 1548 alunni e 65 docenti su posto comune. Mentre cresce di 46 posti l’organico dei posti di sostegno dovuti all’incremento del numero degli alunni disabili nell’ordine di 23 unità. Il dato è particolarmente significativo, se si considera che si tratta di una regione il cui territorio si estende su di una superficie di circa 10mila chilometri quadrati (10 volte la provincia di Napoli) abitata da appena 575mila persone, suddivise in 131 comuni. Dopo la Basilicata, nella classifica con il segno meno si colloca la Sardegna, che perde 1041 alunni e 31 docenti, a fronte di un incremento di 196 posti di sostegno. Chiude la classifica delle regioni del sud, il Molise, con un calo di 509 alunni, scesi da 43.063 a 42.554 unità. Calo al quale fa seguito una diminuzione dell’organico dei docenti su posto comune di 18 unità, nonostante un incremento di 114 alunni portatori di handicap e di 83 docenti di sostegno. In buona sostanza, dunque, il calo del numero dei docenti nel meridione sarebbe ancora più forte, in senso assoluto, se non fosse stato tamponato dall’aumento dei docenti di sostegno. Aumento che non risolve i problemi dei docenti delle classi sul posto comune, inevitabilmente esposti alla mobilità d’ufficio.

Nord e Centro in ascesa

La tendenza muta nettamente se ci si sposta dal Mezzogiorno alla pianura padana. A guidare la classifica con il segno positivo la Lombardia. Che guadagna 13.907 alunni rispetto all’anno scorso. E i cui organici aumentano di 888 docenti su posto comune e di 1754 posti di sostegno, a fronte di un incremento del numero degli alunni portatori di handicap di 2163 unità. Al secondo posto si colloca l’Emilia Romagna: 7808 alunni in più e un aumento di 6393 posti comuni e 245 posti di sostegno. Al terzo posto il Lazio, con 5625 alunni in più e un aumento di 335 docenti ordinari, più 2914 posti di sostegno. Al quarto posto, il Piemonte, con un incremento di 5013 alunni, 310 posti comuni e 251 posti di sostegno. Segue la Toscana con 4679 alunni in più e un aumento di organico di 386 posti comuni e 391 posti di sostegno. Al sesto posto della classifica con il segno più il Veneto, con + 4264 alunni e un incremento di 358 posti comuni e 318 posti di sostegno. Segue, distanziato di molto, il Friuli, con una crescita di 1288 alunni, 51 cattedre normali e 91 posti di sostegno in più. Penultima l’Umbria, con + 547 alunni, +98 posti comuni e +200 posti di sostegno. Infine, in controtendenza, l’Abruzzo con un lieve decremento di 40 alunni, una diminuzione di 28 posti normali e una crescita di 200 posti dell’organico dei docenti di sostegno

da ItaliaOggi 03.12.13

“La mia città in ginocchio”, di Edoardo Nesi

Nella mia città si vive ricordando ogni giorno quanto infinitamente meglio di questo presente lercio e triste fosse il passato. Quando l’elenco telefonico era ingolfato dai nomi orgogliosi e buffi di migliaia di aziende tessili, tutte piccole e piccolissime, e producevamo i tessuti più belli del mondo.
Nella mia città l’arrivo del nuovo millennio non è stato festeggiato come nelle altre città: sapevamo bene che avrebbe portato l’apertura totale del mercato tessile mondiale, e con essa un’invasione di prodotti cinesi, e subito dopo la crisi, una crisi rapida e nera e disperata che ci avrebbe costretti ad assistere impotenti allo spettacolo osceno di centinaia di piccole e piccolissime aziende che avviavano a chiudere, una dopo l’altra, a centinaia, nel silenzio beffardo e cattivo che accompagna sempre il crollare delle aziende piccine, quelle in cui si fa fatica a distinguere il titolare dal dipendente, a vederli lavorare fianco a fianco; quelle i cui nomi non vanno a finire sui giornali nemmeno quando falliscono; quelle che hanno sempre sostenuto l’Italia.
Nella mia città sappiamo bene quale ridicola truffa sia la globalizzazione, con i suoi profeti e le sue parole d’ordine, con le sue promesse di guadagni universali mai avverati, con gli economisti venerati come ayatollah, con la retorica marcia e falsa sull’eccellenza del Made in Italy, con la supremazia mistica che si attribuiva ai distretti industriali come il nostro, col mito della imbattibile qualità dei nostri tessuti, e le nicchie, e le punte di diamante, e gli esempi. Cazzate. Erano tutte cazzate.
Nella mia città i capannoni lasciati sfitti dalle piccolissime aziende pratesi fallite vennero affittati dai cinesi che, beffa atroce, producono abbigliamento, sì, ma invece di comprare tessuti dalle aziende della mia città — che è ancora oggi, dopo un’emorragia durata tredici anni, il centro tessile più importante d’Europa — preferiscono importarli a vagonate dalla Cina, a prezzi irrisori, e farli tagliare e cucire da migliaia di disperati clandestini che lavorano e vivono negli stanzoni, nelle condizioni dickensiane che vi ha mostrato la televisione e che forse avete letto in qualche libro, e quando hanno finalmente pronti i loro cenci — spesso mai nemmeno toccati da mani italiane — li posson vendere marchiati Made in Italy, sfruttando il vantaggio che consente loro una legge cretina e illogica.
Nella mia città l’ostilità verso i cinesi esiste, si, ma è sempre stata boccalona e mai violenta, e di questo son fiero, e non voglio pensare che sia perché ormai sono legione i pratesi falliti che campano coi pochi soldi in nero che i cinesi pagano loro d’affitto. No, non lo voglio pensare.
Nella mia città tutti sanno come lavora la stragrande maggioranza delle aziende cinesi — ce ne sono anche di perfettamente regolari, però — , anche chi gli affitta il capannone, e non ci si stupisce più del fatto che a quei disperati che vediamo aggirarsi in pigiama negli stanzoni non sembri d’essere ridotti in schiavitù, perché in Cina erano trattati peggio, e pagati meno, e che considerino perfettamente logico ripagare con anni di lavoro disagiato quei generosi compatrioti che hanno pagato loro il viaggio per venire in Italia e regalatogli l’opportunità di guadagnare una cifra che, una volta tornati in Cina, gli consentirà di sistemarsi per sempre.
Nella mia città si parla sempre dei cinesi, ma mai o quasi mai coi cinesi, e siamo ancora in tanti a sperare di poter avviare a ragionarci davvero del futuro, ma è difficile, credetemi, trattare con una comunità di migranti che non chiede nulla, non vuole nulla, non ha bisogno di nulla, e chiede solo d’essere lasciata in pace.
Nella mia città si chiede aiuto. Da tanto. Agli sventati governi che si sono succeduti in Italia. Al console cinese a Firenze, all’ambasciatore cinese a Roma. A tutti. Ci costa, perché siamo gente orgogliosa, e non avevamo mai chiesto aiuto a nessuno, maledizione. Ora però siamo in ginocchio, e lo chiediamo. Senza vergogna. E non chiediamo aiuto — anche a nome di quegli sventurati che hanno perso la vita domenica — solo per essere aiutati nell’impossibile impresa di vivere in una città che conta quattromila aziende cinesi che lavorano senza curarsi della legge italiana. Chiediamo aiuto anche perché eravamo quarantamila a lavorare nel tessile all’inizio di questo nuovo millennio, e oggi siamo tredicimila, forse meno. Chiediamo aiuto perché non riusciamo più a immaginarci un futuro. Forse non siamo bravi a chiedere, però, perché abbiamo l’impressione che nessuno ci ascolti. Che ci abbiano lasciati soli. Che abbiano constatato la nostra impotenza e l’abbiano riconosciuta come loro. Che abbiano dimenticato che il nostro presente potrebbe essere il futuro dell’Italia. Che ci abbiano abbandonati alla nostra sorte, noi che facevamo i tessuti più belli del mondo.

La Repubblica 03.12.13

«Imu, con i sindaci troveremo una soluzione», di Massimo Franchi

«Parlare di caos è eccessivo. Capisco tutte le critiche ma bisogna tenere conto che ci siamo trovati a dover coprire quasi 5 miliardi, una cifra esorbitante, creata dalla decisione di abolire l’Imu. Resuscitarla ora sarebbe sbagliato, abbiamo deciso di sostituirla con una Service Tax, cerchiamo di farla funzionare al meglio. Abbiamo previsto il pagamento del conguaglio il 16 gennaio proprio per- ché vogliamo fare di tutto per lavorare con i Comuni ed evitare che i cittadini, specie i meno abbienti, debbano tornare a mettere mano al portafoglio». Il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta risponde alle critiche sull’Imu promettendo il suo «impegno personale per trovare la soluzione più equa» al pasticcio dovuto all’insistenza della destra a voler cancellare la tassa sulla casa anche ai più ricchi.

Baretta, sull’Imu però i problemi sembrano senza fine. Sabato avete dovuto far scattare la clausola di salvaguardia sulla prima rata, aumentando acconti per banche e imprese e le accise dal 2015. Le critiche sono feroci.

«L’intera operazione Imu per il 2013 ci ha portato una sovra esposizione che varia dai 4,5 ai 5 miliardi. Un dato preciso ancora non l’abbiamo perché solo nei prossimi giorni (la scadenza è stata aggiornata al 9 dicembre, ndr) avremo un quadro definito delle aliquote fissate dai Comuni e della differenza dalla aliquota base del 4 per mille. Per quanto riguarda l’abolizione della prima rata avevamo fatto un’ipotesi che prevedeva di incassare 600 milioni da un accordo sulle entrate dai concessionari dei giochi. Una scelta contestata che ha messo gli operatori in posizione guardinga».

Ad oggi quanto avete incassato?

«Circa la metà. Ora, con loro una discussione più esplicita va fatta perché va b ne uscire da un contenzioso giuridico che non dà certezze sul risultato, ma la cifra che dovremo spuntare certamente da aumentare. In questo quadro abbiamo dovuto trovare una copertura più concreta e abbiamo deciso di chiedere un anticipo a banche e imprese su Ires e Irap. Sottolineo: un anticipo. Non c’è alcun aumento di imposte».

E difatti banche e imprese protestano. In più un acconto del 130 per cento non significa che l’anno successivo ci sarà un rimborso per loro creando un buco per l’erario?
«Ci sarà un minor gettito e andrà stornato nel prossimo esercizio finanziario. Ma nel 2014 puntiamo ad avere un maggior gettito Iva per l’arrivo della ripresa economica e in più avremo i proventi della Spending review e quelli dell’accordo sui capitali scudati con la Svizze- ra. Questo discorso vale ancor di più per il previsto aumento delle accise nel 2015 che sarà evitato. Abbiamo infatti scelto di non gravare sui cittadini e di chiedere un piccolo sforzo, sotto forma di anticipo di imposte, alle imprese. Imprese che comunque nella legge di Stabilità hanno avuto molto: un fondo di garanzia per il credito, la deducibilità ai fini Imu dei capannoni aumentata dal 20 al 30 per cento nel passaggio al Senato».

Per la seconda rata però le cose vanno peggio. A pagare saranno anche i cittadini: il 40 per cento della differenza fra il gettito totale e quello da voi previsto con l’aliquota al 4 per mille. E i Comuni sono ancora inviperiti e si aspettano ulteriori sgravi.
«Anche qui bisogna tenere che l’aggravio per i cittadini sarà al massimo dello 0,8 per mille di quanto pagato finora (si parla di 150 milioni totali, ndr). Personalmente però credo che dovremo fare di tutto per trovare un accordo con i Comuni e puntare a fissare una fascia di reddito sotto la quale non si dovrà pagare niente, senza dimenticare i 500 milioni già stanziati per le detrazioni. Capisco le critiche dell’Anci ma ricordo che ai Comuni nella legge di Stabilità a loro abbiamo allentato il patto di stabilità interno per 1 miliardo, finanziato per 1,5 miliardi la Service tax e evitato nuovi tagli. Con l’Anci ci siamo già confrontati su altri tempi e nei prossimi giorni, dopo che si saranno calmati gli animi, ci incontreremo certamente per trovare una soluzione».

Ammetterà però che la gestione della pa- tata bollente Imu è stata quanto meno complessa. Avete cambiato sei versioni da Trise all’attuale Iuc. Tanto che Susanna Camusso sostiene che sarebbe più serio finire con il balletto delle sigle e «rimettere l’Imu»…

«L’Imu è morta, sarebbe sbagliato resuscitarla. La sua abolizione l’abbiamo convenuto con un accordo di maggioranza e l’abbiamo sostituita con una tassa sui servizi comunali. Ora cerchiamo di risolvere i problemi di applicazione della nuova tassazione. A questo lavora il governo».

Oggi parte il cammino della legge di Stabilità alla Camera. Avete già deciso le priorità di modifica per il governo?
«La priorità è certamente l’impegno preso da Enrico Letta: quello di creare un automatismo per il quale tutte le risorse recuperate dalla Spending review vadano a ridurre il cuneo fiscale su imprese e lavoratori. Io ci aggiungerei an- che i fondi recuperati sull’evasione fiscale».

La domanda però è scontata. Perché non l’avete fatto prima nella prima versione della legge di Stabilità? E poi: fisserete una cifra per il 2014?

«Cottarelli è arrivato a ridosso della presentazione della legge e il suo lavoro è appena iniziato. Per questo credo che sarebbe prematuro fissare una cifra sul 2014. Ma già prevedere lo strumento, un fondo, e l’automatismo diretto per finanziarlo rappresenta una svolta».

L’Unità 02.12.13

“L’antipolitica corre verso Bruxelles”, di Elisabetta Guagliumi

È un altro mondo quello di Grillo rispetto ai partiti tradizionali o a quel che resta di loro. Negli anni, maledettissimi, della democrazia depressa. È l’altra faccia di un sistema politico impallato e scassato dall’inerzia degli ultimi venti anni. Inutile sperare che la meteora sparisca lasciando solo una piccola scia o che le sconcertanti semplificazioni del comico-politico lascino insoddisfatti cittadini dai gusti raffinati. C’era una folla smisurata ieri ad ascoltare Grillo a Genova, una adunanza gigantesca di persone in carne e ossa (altro che partito virtuale) davanti al corpaccione mobile del leader-conduttore-presentatore. Un po’ concertone del 1° Maggio, un po’ comizione politico, non si poteva sperare di meglio per dare il calcio di inizio alla campagna elettorale per le europee. Grillo usa i temi e il metodo di sempre. Non cambia nulla nel suo messaggio. Ma il contesto della competizione europea gli sarà ancora più favorevole.

La «rivoluzione culturale» da Roma a Bruxelles. Accantonata per un attimo la lotta contro la casta, e messa temporaneamente in naftalina l’armatura del guerriero (solo un timido tut-ti-a-ca-sa intonato dalla folla), Grillo rispolvera i temi classici delle origini, quelli che hanno segnato la nascita del Movimento. Da un lato la lotta contro la moneta unica e l’Europa delle tecno-burocrazie, che opprimono con i loro oscuri bizantinismi i popoli-sovrani; dall’altro la ricerca di un neo-ambientalismo sostenibile. Temi cari alla destra e cari alla sinistra, così che tutti possano stare dentro. Grillo torna a proporre il referendum sull’Euro, l’introduzione dei dazi sui prodotti, la difesa del made in Italy, il cartello dei Paesi del Sud contro la Germania dei ricchi e i Paesi del Nord. Martella poi sulle energie rinnovabili, la bioedilizia e la reinvenzione green del lavoro. Nulla di nuovo, se si pensa ai 20 punti del Febbraio 2013. Stesse convinzioni snocciolate come verità assolute, indiscutibili. Infarcite da grafici banali e citazioni sgangherate. Inutile chiedere al capo dei capi di sviscerare i pro e i contro. E’ tutto molto semplice. «Si va in Europa e si cambia tutto».

Il governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Torna l’utopia del Movimento 5 Stelle. L’appello al popolo-sovrano che deve riappropriarsi del potere. I cittadini comuni che scoperchiano il marcio delle istituzioni. «Io non mi sono messo a fare politica. Io facevo l’idrogeno in casa, sono curioso. Il falegname, l’elettricista tutti devono dare una mano». Più che una anti-democrazia quella dei 5 Stelle è una immaginifica democrazia perfetta, che realizza tutte le iniziative dei cittadini, restituendo, con ricette alla portata di tutti, una superiore etica pubblica, giustizia, benessere e libertà. E’ la visione «redentrice» della democrazia che garantisce la salvezza ai cittadini senza l’odiosa intermediazione dei partiti.

E’ un’offerta che oggi in Europa trova diversi pubblici disponibili a comprarla. In tutti i Paesi dell’Unione i movimenti populisti ed euroscettici vedono crescere i loro consensi grazie, più o meno, alle stesse rivendicazioni e utopie. Tuttavia il Movimento 5 Stelle gode di un consenso di gran lunga superiore ai cugini tedeschi, francesi, britannici o olandesi, perché non solo Grillo capitalizza sulla crisi economica (da noi più profonda che altrove) e sulla stanchezza nei confronti di un’Europa considerata opaca e occhiuta mandante di condizioni non più sopportabili. Da noi è la crisi della politica che ancora morde. E l’esistenza di un governo non espressione di un mandato elettorale facilita il gioco dell’accostamento tra un’Europa manovrata da oscure tecnocrazie e una politica domestica, nella narrazione di Grillo, governata dal Quirinale (contro cui non a caso ha rivolto l’ennesimo attacco). La sfiducia nei confronti di partiti arroccati in difesa continua a essere altissima. Grillo è sempre uguale a se stesso; i suoi parlamentari pure. Sono gli altri che devono recuperare terreno. Ma se continuano ad arretrare, intimoriti dal voto e al tempo stesso incapaci di prendere decisioni esemplari, la folla di Genova è destinata a ingrossarsi, fino al possibile epilogo di un risultato sonante alle elezioni europee.

La Stampa 02.12.13

“Come recuperare fiducia in quel che mangiamo”, di Carlo Petrini

Possiamo dire che più il cibo ci è “lontano”, più ci fa paura: «Oltre 4 milioni di famiglie (il 16%) si dicono preoccupate per la qualità degli alimenti acquistati abitualmente. Il numero sale fino a quasi il 70% se si considera anche chi si dichiara abbastanza preoccupato». È il risultato di un’indagine di Accredia e Censis sulla percezione della sicurezza del cibo quotidiano.
SPULCIANDO i dati più in profondità si capisce come la distanza — concreta, culturale o data da una scarsa informazione — sia il motivo principale per cui quando si acquista il cibo si ha una qualche preoccupazione. Distanza concreta: la gente si fida di più dei prodotti acquistati direttamente dal produttore, nel piccolo negozio di quartiere o nel banco di frutta e verdura vicino a casa. Distanza culturale: ci si fida di più dei prodotti italiani, della tipicità (marchio Dop e Igp), del biologico; si ha paura di un generico “cibo etnico”. Infine, distanza dovuta alla scarsità d’informazione: è il prodotto a lunga conservazione, in scatola, di produzione industriale e proveniente dal-l’estero, quello che fa nutrire maggiori perplessità all’acquirente. Anche cibi precotti e già pronti, venduti negli hard
discount, con le etichette poco trasparenti e con scarse notizie su provenienza e ingredienti sono sentiti come meno “sicuri” degli altri.
Ad Accredia — co-autore dell’indagine — l’Ente unico nazionale designato dal Governo che accredita e riunisce in una fitta rete organismi certificatori (70) e laboratori di controllo (più di 1.000), giustamente questi risultati appaiono un po’ paradossali, visto che svolgono un’attività intensissima per scongiurare frodi, pericoli e contraffazioni. Attività necessaria e che sono sicuro sia eseguita molto scrupolosamente, ma è altrettanto evidente quanto sia impossibile poter pensare di controllare tutto. Nonostante i loro sforzi, infatti, gli italiani continuano a non essere del tutto sicuri sul loro cibo, d’altra parte «nell’ultimo anno più di 7 milioni di famiglie si sono ritrovate almeno una volta con un prodotto confezionato rivelatosi avariato». Allora ci vuole anche altro, qualcosa che ha a che fare con la nostra idea di cibo e che inevitabilmente ci fa tornare sul concetto di “distanza”.
Come si riduce questa lontananza? Due sono le parole chiave: educazione e prossimità. La maggior parte delle persone non sa quasi più nulla sul cibo. Non sa comprenderne le qualità effettive a partire dal suo sapore, non abbiamo palati “esperti” ed educati. Non lo sa cucinare, soprattutto se richiede una lavorazione un poco più complessa a partire da materie prime “integrali” (quanti sono in grado di pulirsi da soli un pesce crudo o un pollo?). Non si conosce più la stagionalità, il che sembrerebbe banale, ma provate a domandarvi esattamente in che mesi abbiamo i pomodori, le zucchine, i cachi, le arance e poi andate a controllare la risposta esatta: resterete sorpresi. Non sappiamo quali sono le tecniche di conservazione moderne dell’industria, ma neanche più quelle casalinghe dei nostri nonni. Non conosciamo le varietà di frutta e verdura, si sono molto omo-logate, ne abbiamo perse tante, ma sono ancora numerose e si prestano ai diversi usi o preferenze gastronomiche. Non sappiamo dove e chi coltiva le materie prime, da dove provengono, in che mani sono passate, come e perché. Sono informazioni che o non ci dicono o non riusciamo a capire oppure, troppo spesso, che non vogliamo più sapere. Eppure, secondo l’indagine, la sensibilità verso questi temi sta crescendo, la gente vuole informazioni. Il processo però parte prima di tutto a livello individuale: il cibo è ciò che mettiamo nel nostro corpo, indispensabile alla nostra vita e al nostro benessere. Va come minimo “studiato”, bisogna dedicarci del tempo.
Sarà così più facile fare una spesa intelligente, e di conseguenza anche trovare i canali giusti, convenienti e “sicuri”. Ed è qui che entra in gioco la prossimità. Sentire il cibo prossimo a se stessi significa poi cercare il cibo prossimo per davvero, quello che gli italiani hanno meno remore a comprare, sempre secondo l’indagine. Cibo comprato dai produttori, che intanto si conosceranno di persona; cibo comprato nei mercati di quartiere (contadini e no), dove chi vende ha una faccia più riconoscibile; cibo di cui si conosce la provenienza, e quindi anche il valore che rappresenta per il territorio d’origine, meglio se il proprio.
Accredia e Censis dicono che gli italiani vogliono un cibo «identificabile, pulito, sicuro e buono»; Slow Food sostiene che il cibo deve essere «buono, pulito e giusto». Se ci si ragiona, si giunge tutti alle stesse conclusioni: accorciamo le distanze tra noi e ciò che mangiamo, rimettiamolo al centro delle nostre vite.

La Repubblica 02.12.13

“Poveri anche con il lavoro: lo stipendio non basta più”, di Carlo Buttaroni

Il carrello della spesa è sempre più vuoto. Nell’ultima settimana, solo il 18% delle famiglie ha acquistato tutto ciò di cui aveva bisogno, mantenendo gli stessi standard di consumo di 12 mesi fa. La metà delle famiglie riesce a tenere in equilibrio entrate e uscite con strategie di contenimento dei consumi, ma per 3 famiglie su 10 «tirare avanti» significa usare i risparmi o indebitarsi.
Nel frattempo, l’Istat ha comunicato gli ultimi dati sulla disoccupazione ed è un nuovo bollettino di guerra: 12,5% in complesso e 41,2% tra i giovani.
Nonostante gli annunci di miglioramento, quindi, la «tempesta perfetta » continua a imperversare sull’Italia e a far sentire i suoi effetti. In prima linea ci sono le famiglie, più colpite dalla lunga fase recessiva di quelle di altri Paesi. Basti pensare che nel momento peggiore della crisi la riduzione dei redditi delle famiglie italiane è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella altre grandi economie, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%).

DALLA MARGINALITÀ ALLA VULNERABILITÀ

Persino lavorare non è più sufficiente: quasi l’11% di chi ha un’occupazione vive sotto la soglia di povertà. Li chiamano «poveri in giacca e cravatta». D’altronde, la crisi che stiamo vivendo, genera nuove traiettorie d’impoverimento, modifica le forme del disagio sociale, sposta l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di «povertà cronica» a quella di «processi di impoverimento diffuso» in cui è coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario.

La situazione gravissima che sta vivendo l’Italia è il risultato di fattori strutturali e congiunturali su cui le politiche «lacrime e sangue» hanno agito da detonatore. Il Fondo monetario internazionale ha parlato di «rischi di autodistruzione» delle economie nazionali sottoposte alle cure dell’austerity durante fasi recessive dopo che, nel 2010, il caposcuola dell’austerità Alberto Alesina dell’Università di Harvard, aveva assicurato i ministri delle finanze europei che «forti riduzioni dei disavanzi di bilancio sono accompagnate e immediatamente seguite da una crescita sostenuta, piuttosto che da recessioni, anche nel brevissimo periodo». Ma c’erano alcuni errori alla base di questa teoria, il primo dei quali è stato il confondere la correlazione con la causalità. In un articolo del blog «The Next New Deal» pubbli- cato dalla Roosevelt Foundation, si evidenzia come, dato un certo rapporto Debito/ PIL, è molto più probabile che la bassa crescita sia precedente tale rapporto e non successiva. L’aumento del debito pubblico determina, infatti, negli anni successivi al «picco», tassi di crescita leggermente maggiori che nel periodo precedente. È, quindi, la bassa crescita la causa di debiti pubblici elevati e non il contrario. Da qui i pessimi risultati della cura del «rigore» che sono sotto gli occhi di tutti: azzeramento della crescita, incremento della disoccupazione, ero- sione del capitale umano e sociale. Le politiche di austerità hanno colpito molto più se- veramente i soggetti che si collocano in fondo alla scala della distribuzione del reddito, semplicemente perché coloro che si trovano nella parte alta usufruiscono molto meno dei servizi pubblici.
Ecco, invece, cosa scriveva l’economista di Cambridge, John Maynard Keynes, nel 1933 a
Franklin Delano Roosevelt. «Lo scopo del programma di Ripresa economica è quello di aumentare la produzione nazionale e mettere più uomini al lavoro. Nel sistema economico del mondo moderno, la produzione è attuata principalmente per la vendita e il volume di produzione dipende dalla quantità di potere d’acquisto che ci si attende arrivi nel mercato. In termini generali, pertanto, un aumento della produzione non può avvenire se non per il funzionamento di uno o l’altro di tre fattori: gli individui devono essere indotti a spendere una parte maggiore dei loro redditi oppure le imprese devono essere indotte a creare ulteriori red- diti correnti nelle mani dei propri dipendenti, che è quanto succede quando o il capitale circolante o il capitale fisso del Paese viene potenziato. Oppure ancora, l’autorità pubblica deve essere chiamata in aiuto per creare ulteriori redditi correnti attraverso la spesa di denaro preso in prestito o stampato. In tempi difficili, il primo fattore non si può pretendere funzioni su una scala sufficiente. Il secondo fattore entrerà in gioco in un momento successivo, dopo che sarà cam- biato il vento grazie alle spese dell’amministrazione pubblica. È, pertanto, solo dal terzo fattore che ci si può aspettare il maggiore impulso iniziale».

L’ALIBI DEL DEBITO

In poche parole, Keynes riteneva che non si può comprimere il processo di crescita e l’austerità è esattamente l’opposto di ciò che è necessario fare in un momento di crisi. D’altronde è evidente: un Paese non può liquidare il suo deficit se la fonte delle sue entrate, il reddito nazionale, è in diminuzione. In questo caso, è proprio la riduzione del deficit e non il debito a essere contropro- ducente, perché implica lo spreco del capitale umano e fisico disponibile, oltre la miseria che ne scaturisce.

In Italia, la convinzione prevalente sulle cause della crisi economica e sulle soluzioni per uscirne, ha identificato nell’alto debito pubblico «a rischio insol- venza» la causa primaria dei problemi attuali. Sempre al debito è attribuita anche la malattia endemica del Paese: la debole crescita economica. In realtà, come molti studi hanno dimostrato, l’aumento del debito pubblico dipende dalla mancanza di crescita economica e non il contrario. Ma poiché è difficile motivare i tagli e il rigore in base a modelli macroeconomici di breve periodo, i sostenitori dell’austerità si sono concentrati su spiegazioni di lungo periodo, mescolate a considerazioni di tipo etico: il debito pubblico è un male poiché limita la crescita dell’economia nei decenni a venire e quindi renderà tutti più poveri nel futuro. Soffrire oggi per godere dei benefici in un futuro non meglio identificato: questo, in altre parole, l’obiettivo dei sostenitori dell’austerity. E per non diventare poveri domani, quindi, si è scelto di farlo subito.

L’Unità 02.12.13