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“La mia città in ginocchio”, di Edoardo Nesi

Nella mia città si vive ricordando ogni giorno quanto infinitamente meglio di questo presente lercio e triste fosse il passato. Quando l’elenco telefonico era ingolfato dai nomi orgogliosi e buffi di migliaia di aziende tessili, tutte piccole e piccolissime, e producevamo i tessuti più belli del mondo.
Nella mia città l’arrivo del nuovo millennio non è stato festeggiato come nelle altre città: sapevamo bene che avrebbe portato l’apertura totale del mercato tessile mondiale, e con essa un’invasione di prodotti cinesi, e subito dopo la crisi, una crisi rapida e nera e disperata che ci avrebbe costretti ad assistere impotenti allo spettacolo osceno di centinaia di piccole e piccolissime aziende che avviavano a chiudere, una dopo l’altra, a centinaia, nel silenzio beffardo e cattivo che accompagna sempre il crollare delle aziende piccine, quelle in cui si fa fatica a distinguere il titolare dal dipendente, a vederli lavorare fianco a fianco; quelle i cui nomi non vanno a finire sui giornali nemmeno quando falliscono; quelle che hanno sempre sostenuto l’Italia.
Nella mia città sappiamo bene quale ridicola truffa sia la globalizzazione, con i suoi profeti e le sue parole d’ordine, con le sue promesse di guadagni universali mai avverati, con gli economisti venerati come ayatollah, con la retorica marcia e falsa sull’eccellenza del Made in Italy, con la supremazia mistica che si attribuiva ai distretti industriali come il nostro, col mito della imbattibile qualità dei nostri tessuti, e le nicchie, e le punte di diamante, e gli esempi. Cazzate. Erano tutte cazzate.
Nella mia città i capannoni lasciati sfitti dalle piccolissime aziende pratesi fallite vennero affittati dai cinesi che, beffa atroce, producono abbigliamento, sì, ma invece di comprare tessuti dalle aziende della mia città — che è ancora oggi, dopo un’emorragia durata tredici anni, il centro tessile più importante d’Europa — preferiscono importarli a vagonate dalla Cina, a prezzi irrisori, e farli tagliare e cucire da migliaia di disperati clandestini che lavorano e vivono negli stanzoni, nelle condizioni dickensiane che vi ha mostrato la televisione e che forse avete letto in qualche libro, e quando hanno finalmente pronti i loro cenci — spesso mai nemmeno toccati da mani italiane — li posson vendere marchiati Made in Italy, sfruttando il vantaggio che consente loro una legge cretina e illogica.
Nella mia città l’ostilità verso i cinesi esiste, si, ma è sempre stata boccalona e mai violenta, e di questo son fiero, e non voglio pensare che sia perché ormai sono legione i pratesi falliti che campano coi pochi soldi in nero che i cinesi pagano loro d’affitto. No, non lo voglio pensare.
Nella mia città tutti sanno come lavora la stragrande maggioranza delle aziende cinesi — ce ne sono anche di perfettamente regolari, però — , anche chi gli affitta il capannone, e non ci si stupisce più del fatto che a quei disperati che vediamo aggirarsi in pigiama negli stanzoni non sembri d’essere ridotti in schiavitù, perché in Cina erano trattati peggio, e pagati meno, e che considerino perfettamente logico ripagare con anni di lavoro disagiato quei generosi compatrioti che hanno pagato loro il viaggio per venire in Italia e regalatogli l’opportunità di guadagnare una cifra che, una volta tornati in Cina, gli consentirà di sistemarsi per sempre.
Nella mia città si parla sempre dei cinesi, ma mai o quasi mai coi cinesi, e siamo ancora in tanti a sperare di poter avviare a ragionarci davvero del futuro, ma è difficile, credetemi, trattare con una comunità di migranti che non chiede nulla, non vuole nulla, non ha bisogno di nulla, e chiede solo d’essere lasciata in pace.
Nella mia città si chiede aiuto. Da tanto. Agli sventati governi che si sono succeduti in Italia. Al console cinese a Firenze, all’ambasciatore cinese a Roma. A tutti. Ci costa, perché siamo gente orgogliosa, e non avevamo mai chiesto aiuto a nessuno, maledizione. Ora però siamo in ginocchio, e lo chiediamo. Senza vergogna. E non chiediamo aiuto — anche a nome di quegli sventurati che hanno perso la vita domenica — solo per essere aiutati nell’impossibile impresa di vivere in una città che conta quattromila aziende cinesi che lavorano senza curarsi della legge italiana. Chiediamo aiuto anche perché eravamo quarantamila a lavorare nel tessile all’inizio di questo nuovo millennio, e oggi siamo tredicimila, forse meno. Chiediamo aiuto perché non riusciamo più a immaginarci un futuro. Forse non siamo bravi a chiedere, però, perché abbiamo l’impressione che nessuno ci ascolti. Che ci abbiano lasciati soli. Che abbiano constatato la nostra impotenza e l’abbiano riconosciuta come loro. Che abbiano dimenticato che il nostro presente potrebbe essere il futuro dell’Italia. Che ci abbiano abbandonati alla nostra sorte, noi che facevamo i tessuti più belli del mondo.

La Repubblica 03.12.13