Un congedo di un anno per neo genitori da dividere a piacimento tra mamma e papà. Nick Clegg, leader dei liberal democratici nonché vice primo ministro, alla fine ce l’ha fatta: dall’aprile 2015 un padre che lavora in Gran Bretagna avrà gli stessi diritti di una madre, godrà della possibilità, dopo la nascita di un figlio, di stare a casa a prendersi cura del bimbo per quasi un anno intero senza perdere il posto.
Per i «lib dem» si tratta di una vittoria considerevole. I conservatori erano contrari e hanno fatto resistenza sino all’ultimo, tanto che la misura doveva essere presentata a ottobre mentre l’annuncio è stato posticipato a ieri. Tuttora un gruppo di pesi massimi fa obiezione — nomi grossi come il ministro per la Difesa Philip Hammond, il ministro per la Giustizia Chris Grayling e il ministro per la Sanità Jeremy Hunt —, ma il più è fatto e Clegg, che con tre figli maschi di quattro, otto e undici anni e una moglie avvocato conosce bene la dinamica famigliare, è apparso sollevato e soddisfatto di dire addio, una volta per tutte, a un sistema che definisce «antiquato». «Ci sono papà che vogliono stare a casa e mamme che vogliono tornare al lavoro — ha precisato —. Non possiamo obbligare tutti i genitori a comportarsi nello stesso modo. L’idea che sia principalmente la donna a occuparsi dei figli è sorpassata».
Parla, forse, anche per esperienza. Nonostante l’incarico impegnativo, Clegg si definisce «un padre presente». Dopo la nascita dei figli, è stato a casa più della moglie Miriam. Fa notare che il provvedimento non è pensato solo per i papà. «La donna che diventa mamma ha diritto di scegliere liberamente quale strada prendere professionalmente. Il fatto che il padre del bambino possa stare a casa le darà l’opzione di perseguire attivamente la carriera». È una misura che potrebbe inoltre seppellire alcuni luoghi comuni, ha aggiunto la sottosegretaria per le pari opportunità, Jo Swinson (tra l’altro all’ottavo mese di gravidanza). «Ci sono tanti neo papà che non approfittano neanche delle due settimane cui hanno avuto diritto sinora. Le nostre ricerche indicano che spesso gli uomini che si assentano dal lavoro perché hanno avuto un figlio vengono presi in giro. Perché è accettabile che una donna lavori part time o con orari flessibili, ma non che lo faccia un uomo? Dobbiamo pensare attentamente a come superare queste barriere culturali».
Il congedo per genitori riguarderà il primo anno di vita del bambino. Le prime due settimane dopo la nascita spetteranno d’obbligo alla madre per darle il tempo di riprendersi fisicamente dal parto. Le rimanenti 50, invece, potranno essere divise liberamente tra madre e padre. Per sei settimane chi si mette in pausa avrà diritto al 90% dello stipendio usuale, mentre le successive 33 verranno pagate per legge 136.78 sterline l’una (circa 164 euro) e le ultime 13 non saranno retribuite. Nonostante la busta paga relativamente misera, il genitore che decide di stare a casa avrà comunque i diritti del lavoratore a tempo pieno: non potrà essere licenziato senza giusta causa e al ritorno avrà diritto alla stessa posizione e allo stesso rango di prima. Dovrà solo informare il datore di lavoro con otto settimane di anticipo della data del rientro e dare lo stesso preavviso se preferisce dare le dimissioni.
Il nuovo sistema prevede in aggiunta due mini congedi non pagati per padri che vogliono recarsi ad appuntamenti prenatali, mentre tutti i lavoratori con 26 settimane di servizio continuativo avranno diritto al part time e all’orario flessibile. Per l’Institute of directors si tratta di un «incubo burocratico» che avrà un impatto negativo sopratutto «su società medie e piccole che non possono permettersi troppa flessibilità», mentre la Camera di commercio britannica sostiene che il nuovo provvedimento rispecchi le esigenze di datori di lavoro e dipendenti in ugual misura.
Avrà successo? Il governo si è impegnato a esaminare i risultati dopo 12 mesi. «Ci saranno famiglie in cui la donna guadagna più dell’uomo e decide di tornare al lavoro, ma non è per niente scontato, nonostante le ricerche, che ci siano tanti uomini pronti a stare a casa», ha detto un portavoce.
Paola De Carolis
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“Università, i “furbetti delle borse di studio” sono ovunque. In un anno più di mille i casi registrati”, di Luca Pierattini
I “furbetti delle borse di studio” sono in mezza Italia. Oltre al caso clamoroso di Roma, dove il 62% degli studenti controllati nei tre atenei capitolini – Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza – ha dichiarato un reddito più basso, sono numerose le segnalazioni effettuate dalle università italiane, seppur in maniera meno eclatante. Gli studenti che dichiarano meno del dovuto lo fanno per ottenere borse di studio, alloggi o anche solo per avere agevolazioni per trasporti pubblici o mense in diverse università. Un danno non solo per gli atenei, che elargiscono servizi gratuiti a chi non ne avrebbe diritto, ma soprattutto per gli studenti che avrebbero davvero diritto a tali agevolazioni e che invece finiscono per essere esclusi. Secondo la legge, chi ha dichiarato il falso rischia una denuncia per falsa autocertificazione e truffa.
Le università stanno correndo ai ripari e hanno stretto accordi con la Guardia di finanza, con l’Inps (è il caso di Roma) o con l’Agenzia delle entrate per incrociare le informazioni delle banche dati del Fisco con quella anagrafica e confrontare la situazione patrimoniale degli studenti. Un ulteriore strumento di contrasto contro le false autocertificazioni è stata l’introduzione, qualche anno fa, della certificazione del reddito con l’Iseeu, l’indicatore della situazione economica pensato specificatamente per l’università. Un calcolo rilasciato da organismi riconosciuti come i Caf. In alcuni casi è servito, in altri meno. Ecco una sintetica mappa del fenomeno che va da nord a sud senza eccezioni.
Palermo. L’università di Palermo ha firmato un protocollo con la Guardia di finanza per arginare l’evasione tra gli studenti, ma i controlli, effettuati a campione, hanno scovato gli ultimi casi nel 2008. L’Ateneo tre anni fa ha aperto un Ufficio controlli riservato agli studenti che si dichiarano lavoratori autonomi, che sono circa il 10% del totale. Le verifiche sono a tappeto e il lavoro di questa task force contro l’evasione ha permesso di recuperare 400mila euro solo nel 2012.
Torino. A Torino il controllo delle autocertificazioni avviene nel 100% dei casi, almeno così dicono dall’Azienda regionale del diritto allo studio. Sui 12 mila domande per le borse di studio sono stati recuperati 700mila euro dovuti alla compilazione ‘errata’ dei moduli.
Genova. A Genova sono 290 le borse di studio revocate nel 2012: l’accertamento ha consentito di recuperare 300mila euro, la cifra necessaria per finanziare le agevolazioni per le matricole del 2013. I controlli nell’Ateneo vengono effettuati in collaborazione con l’Agenzia dell’entrate.
Padova. Nel 2012 un’inchiesta della Guardia di finanza di Padova aveva scoperto che su circa 400 controlli, uno su quattro risultava irregolare. Sui circa cento ‘infedeli’, diciotto avevano addiritttura effettuato trasferimenti di capitali all’estero (per un totale di oltre 700mila euro), nonostante avessero dichiarato un reddito delle fasce più basse.
Emilia Romagna. In Emilia Romagna, l’Azienda regionale per il diritto allo studio ha trovato irregolarità nelle autocertificazioni di uno studente su cinque. Non casi eclatanti, ma omissioni nell’ordine di diecimila euro. Nel 2013 sono state ritirate 180 borse di studio (circa l’1% del totale delle domande) negli atenei di Bologna, Parma, Modena-Reggio Emilia e Ferrara.
Toscana. Nelle università toscane – Firenze, Pisa e Siena – sono state registrate più di 400 dichiarazioni irregolari su un campione di oltre 5400 controlli.
Bari. Un’isola felice sembra essere Bari, dove non si segnalano casi sospetti. Anche qui l’università ha stretto un accordo con la Guardia di finanza, ma, a causa del taglio ai finanziamenti pubblici, possono essere effettuati solo controlli a campione. Ciò significa che potrebbero esserci degli evasori, ma, allo stato attuale, non sono stati individuati.
L’aumento dei controlli ha senz’altro disincentivato le false dichiarazioni sul patrimonio. L’estensione del malcostume rimane comunque una costante in tutta la penisola, anche se il caso di Roma, che ha destato grande scalpore per le sue dimensioni, sembra essere un fatto isolato.
da repubblica.it
“Salari a picco un milione di under 30 senza lavoro”, di Federico Fubini
Saccomanni critica l’Europa “Fa troppo poco per la ripresa” L’Italia sta perdendo il treno. Dopo più oltre due anni di recessione e una caduta dell’economia del nove per cento dal momento in cui Lehman Brothers fallì, qualcosa di nuovo sta accadendo alla terza economia dell’area con la moneta più forte del mondo. La zona euro, a cui questo paese appartiene orgogliosamente dal primo giorno del ‘99, dà segni di ripresa e crea posti di lavoro. L’Italia, per il momento, no.
L’infornata di annunci di fine mese sull’inflazione, la disoccupazione o le scelte delle agenzie di rating — accusate di scorrettezza solo quando dispiacciono — contiene un messaggio per chiunque presti attenzione. L’Europa, che era caduta a molte velocità diverse, si sta lentamente rimettendo in piedi in modi altrettanto difformi. Come la recessione non era stata uguale per tutti, neanche la ripresa lo è. L’Italia dal 2007 ad oggi ha vissuto un crollo del Pil secondo solo a quella della Grecia, ma per ora non mostra gli stessi segni di recupero ormai visibili ad occhio nudo in Francia, in Spagna, in Irlanda e persino in Portogallo. Non sta ripartendo solo l’Europa tedesca. E quasi solo l’Italia dà quest’impressione di paralisi.
Lo segnalava già l’andamento del Pil, che qui e in Francia ha continuato a scendere fra luglio e settembre mentre la Spagna o il Portogallo registravano segni positivi. Ora però arrivano segnali anche sugli ultimi mesi dell’anno. A novembre l’inflazione media dell’area-euro si è ripresa un po’, salendo da 0,7% di ottobre a 0,9%. Sono livelli comunque minimi, prodotti dell’erosione dei salari a causa di una disoccupazione che deprime il potere d’acquisto delle famiglie e i prezzi dei beni in offerta. Ma l’Italia fa peggio e lo fa in controtendenza: anziché riprendersi leggermente come accade nel resto della zona euro, qui i prezzi continuano a retrocedere per il terzo mese di seguito. E il ritmo della caduta accelera. Malgrado l’aumento dell’Iva in autunno, a novembre il crollo sul mese prima è stato dello 0,4% contro lo 0,3% di settembre e ottobre. In dodici mesi l’inflazione arriva appena allo 0,6%. Poiché nel frattempo i depositi bancari sono cresciuti, dunque alcune famiglie risparmiano qualcosa, ciò significa che chi può spendere ha perso ogni fiducia nel futuro, mentre un numero crescente di persone non potrebbe spendere neppure se si fidasse. È un piano inclinato che può radicare nella psicologia degli italiani la deflazione e, con essa, la paralisi dei consumi e degli investimenti in previsione di prezzi sempre più bassi domani. Sarebbe il modo più certo di distruggere altri posti di lavoro.
In parte sta accadendo. I numeri pubblicati ieri da Eurostat mostrano un andamento a forbice. Per la prima volta da due anni e mezzo scende la disoccupazione media dell’area euro, benché di poco. Non è una vera ripresa. Eppure i senza lavoro scendono in Paesi che hanno ricevuto piani di salvataggio, Portogallo o Irlanda, e in altri che da anni covano una crisi latente come la Francia. Il responso sull’Italia invece è brutale, anche aldilà del record di giovani disoccupati. Le donne che lavorano nel Mezzogiorno, informa l’Istat, sono appena due milioni. I disoccupati sono il 20% più di un anno fa e ai massimi anche in ottobre quando, secondo il governo, doveva farsi sentire una ripresa pronunciata. Poi ci sono le agenzie rating. Ieri Standard & Poor’s ha declassato l’Olanda per il debito delle famiglie, ma ha migliorato il giudizio sulla Spagna e persino su Cipro perché crescono più — o decrescono meno — del previsto. Non ha migliorato invece sull’Italia, sulla quale resta una tendenza al declassamento a un passo dal grado “spazzatura”. La settimana prossima negli Stati Uniti, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni sottolineerà i punti di forza del Paese: la base industriale ampia, il deficit più basso che altrove. E, certo, parte di questo vuoto d’aria al posto di una ripresa non è imputabile al governo. Non è colpa sua se le banche hanno bilanci così fragili che la stretta al credito continua da anni. Ma in Spagna il governo di Mariano Rajoy ha finanziato con quattro miliardi (il costo dell’Imu) una Borsa dei bond delle imprese per dar loro più fondi. In Francia, Germania e Gran Bretagna le leggi hanno favorito lo sviluppo di fondi di credito per surrogare le banche in crisi. In Italia si sono fatti annunci e convegni su questo, poi silenzio e immobilismo per molti mesi. Le amministrazioni pubbliche sembrano incapaci di cambiare passo, capirsi e cooperare fra loro, con esiti invalidanti. Si volevano pagare 27 miliardi di arretrati alle imprese entro l’anno, ma siamo a dicembre e ne sono arrivati poco più della metà.
Questa inerzia dice che puntare sulla ripresa europea per risolvere i nostri problemi può essere sì la strategia del governo. Ma ha la logica di un uomo con un sacco di pietre in spalla, che spera che spiova
per poter correre più forte.
La Repubblica 30.11.13
“La faccia nuova della sinistra”, di Curzio Maltese
È facile illudersi con la politica italiana, ma l’impressione lasciata dalla sfida televisiva dei tre candidati alla segreteria del Pd è che sia davvero cominciata una nuova stagione. È stato un bello spettacolo, civile, lontano anni luce dal solito pollaio televisivo affollato dalle solite vecchie facce, intristite dall’abuso di potere. Prima di stabilire chi abbia vinto, forse nessuno, bisogna dire che Renzi, Cuperlo e Civati hanno trasmesso insieme l’idea di una nuova classe dirigente alle porte. Non sappiamo quanto vale e neppure che cosa farà. Sappiamo però fin troppo bene quanto valeva chi li ha preceduti, e tanto basta.
Comunque vada il voto dell’8 dicembre, il primo partito d’Italia ha deciso di voltare pagina. Per la verità, l’hanno deciso gli elettori. E questa è ragione di sollievo. Non avremo più a che fare con un gruppo dirigente della sinistra che ha cominciato la sua parabola affossando l’idea dell’Ulivo e il primo governo Prodi, per rimettere in sella il Cavaliere con la Bicamerale. Vent’anni dopo, ha perso elezioni già vinte e ha tradito ancora una volta Prodi, colpevole d’aver battuto Berlusconi due volte su due. Questi, dal 9 dicembre, andranno in pensione. Non soltanto perché lo vuole Matteo Renzi, il rottamatore. Ma perché è finita una stagione, un’epoca maledetta, uno stile e un linguaggio del far politica, e la serata dei tre sfidanti ne è stata la plastica dimostrazione.
Renzi, Cuperlo e Civati sono diversi fra loro, per quanto ieri si siano trovati sorprendentemente d’accordo su molte cose, ma soprattutto sono molto diversi dalla compagnia di giro televisiva della seconda repubblica. Non sono uomini di potere, conducono vite normali, hanno belle facce, conservano un’ingenuità e una passione che sembravano passate di moda. Per una volta, sono politici che assomigliano a chi li vota. Un fenomeno che a sinistra non si vedeva da decenni.
Nel dettaglio, Matteo Renzi aveva il compito più difficile, l’outsider divenuto favoritissimo, ma se l’è cavata bene. Gli avversari l’hanno aiutato, togliendolo dall’imbarazzo di essere il futuro segretario del Pd destinato a far cadere il governo a guida Pd. Alla fine, Civati e Cuperlo sono sembrati più anti governativi di lui. Ottima la battuta sull’inquietante piano di privatizzazioni: «Così è compro oro». Gianni Cuperlo è un intellettuale elegante, scrive meglio di quanto non renda nei dibattiti televisivi. È stato il più chiaro ed efficace nei temi di politica economica, l’unico ad avere il coraggio di dire qualcosa davvero di sinistra sulla patrimoniale. Se riesce a far stare zitti per una decina di giorni fino al voto i suoi ingombranti sponsor, a cominciare da D’Alema, può guadagnare terreno. Pippo Civati è stato la rivelazione della serata, almeno per chi non lo conosce. È un mago di Twitter, bravissimo nelle risposte secche, è dotato di un
sense of humour raro per la categoria (anche Grillo da quando ha fondato un partito non fa più ridere), è il più innovativo nel linguaggio, il più radicale sul tema dei diritti, e per giunta non ha nulla da perdere. Nell’insieme i tre fanno venire voglia di andare a votare, che di questi tempi è un miracolo. Forse è ancora difficile immaginarli come uomini di Stato, impegnati a rappresentare una grande nazione nei consessi internazionali. Ma se si ripensa a quelli che abbiamo mandato in giro per il mondo a rappresentarci in questo ventennio, ogni timore svanisce. Per ora sono già una buona alternativa a una vecchia politica nauseabonda, ma anche a una nuova anti politica da osteria. Non è poco.
La Repubblica 30.11.13
Chioscopoli, Pd “Premiata la correttezza dei nostri amministratori”
Dichiarazione dei parlamentari Baruffi, Galli, Ghizzoni, Patiarca, Pini, Richetti e Vaccari. Soddisfazione per la sentenza di assoluzione di Stefano Bonaccini e Antonino Marino viene espressa dai parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari. Ecco la loro dichiarazione congiunta:
«Noi non abbiamo mai avuto dubbi sull’assoluta correttezza dei nostri amministratori, ma, finalmente, con la sentenza odierna, si fa chiarezza su quanto accaduto e si toglie un’ombra che gravava, da troppo tempo, sull’operato svolto in qualità di assessori da Stefano Bonaccini e Antonino Marino. La formula utilizzata dal giudice nel decretare l’assoluzione dei nostri amministratori spazza via ogni possibile dubbio residuo: insussistenza del fatto. Nella procedura di assegnazione del chiosco al Parco Ferrari, quindi, non c’è mai stato reato: non sono stati commessi illeciti e la normativa in vigore è stata seguita con rigore e applicata senza discriminazioni. Noi eravamo certi che la vicenda si sarebbe chiusa in questo modo. Da sempre, come partito, esprimiamo assoluta fiducia nell’operato della magistratura. Hanno fatto bene, quindi, Bonaccini e Marino a optare per il rito abbreviato: consapevoli della correttezza del loro operato, hanno deciso di utilizzare gli unici strumenti giudiziari a disposizione in grado di accelerare i tempi veramente troppo lunghi del percorso giudiziario. E i fatti hanno dato loro pienamente ragione»
Disoccupazione record fra i giovani
Ennesimo allarme dall’Istat: nel mese di ottobre il tasso di disoccupazione si conferma al 12,5% e tra i giovani (15-24 anni) tocca il nuovo record assoluto pari al 41,2%. “Ancora in crescita il tasso di disoccupazione ed in modo preoccupante il tasso degli scoraggiati nella ricerca di lavoro.
I dati rilevano una maggiore fragilità e disagio tra i giovani e i lavoratori precari. Questo in uno momento in cui la media europea invece vede una inversione di tendenza con un calo della percentuale di disoccupati.
Ancora una volta l’Italia è quindi in ritardo, ma con alcuni accorgimenti possiamo recuperare in tempi brevi: un maggiore investimento nella rete dei servizi di welfare che crei occupazione o che la faccia emergere dal lavoro nero con adeguati incentivi, accelerazione nei pagamenti dei debiti delle PA, avvio di meccanismi di flessibilità in uscita dal mondo del lavoro per accelerare stabilizzazioni e turn over in grado di occupare energie fresche e competenti.
Ma dare anche certezze per gli esodati già salvaguardati (nemmeno la metà ha ricevuto la comunicazione formale) e soluzione per le categorie ancora escluse e già sostanzialmente escluse da ogni protezione sociale. Se non torniamo a dare certezza e serenità alle persone i consumi interni resteranno congelati a lungo e la ripresa si allontanerà”. Così Cecilia Carmassi, responsabile Politiche sociali e lavoro.
Il numero degli scoraggiati, coloro che non cercano lavoro perché ritengono di non trovarlo, nel terzo trimestre del 2013 sale a 1 milione 901 mila. Lo rileva l’Istat, spiegando come non si era mai registrato un livello cosi’ elevato.
Gli occupati sono 22 milioni 358 mila, sostanzialmente invariati rispetto al mese precedente e in diminuzione dell’1,8% su base annua (-408 mila). Il tasso di occupazione, pari al 55,5%, aumenta di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali ma diminuisce di 1,0 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 189 mila, rimane sostanzialmente invariato rispetto al mese precedente ma aumenta del 9,9% su base annua (+287 mila).
Nuovo record della disoccupazione giovanile a ottobre. Il tasso calcolato dall’Istat ha raggiunto il massimo storico del 41,2%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,8 punti nel confronto tendenziale. In termini assoluti, i disoccupati tra 15 e 24 anni sono 663 mila.
L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età e’ pari all’11,0%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,6 punti su base annua. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-25 mila unita’) ma aumenta dello 0,4% rispetto a dodici mesi prima (+55 mila). Il tasso di inattività si attesta al 36,4%, in calo di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e in aumento di 0,2 punti su base annua.
A ottobre l’occupazione rimane invariata in termini congiunturali sia per la componente maschile sia per quella femminile. Su base annua l’occupazione cala sia per gli uomini (-2,3%) sia per le donne (-1,0%). Il tasso di occupazione maschile, pari al 64,6%, aumenta di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente ma diminuisce di 1,5 punti su base annua. Quello femminile, pari al 46,5%, rimane invariato in termini congiunturali mentre diminuisce di 0,4 punti percentuali rispetto a dodici mesi prima. Rispetto al mese precedente la disoccupazione mostra un lieve aumento per la componente maschile (+0,2%) e una lieve diminuzione per quella femminile (-0,3%). In termini tendenziali la disoccupazione cresce sia per gli uomini (+14,5%) sia per le donne (+4,6%). Il tasso di disoccupazione maschile, pari al 12,0%, rimane invariato rispetto al mese precedente e aumenta di 1,6 punti percentuali nei dodici mesi; quello femminile, pari al 13,2%, rimane invariato rispetto al mese precedente, mentre aumenta di 0,6 punti su base annua. Il numero di inattivi diminuisce nel confronto congiunturale per effetto del calo della componente maschile (-0,4%), mentre resta invariata quella femminile. Su base annua l’inattivita’ cresce tra gli uomini (+1,1%) mentre resta ancora invariata tra le donne.
www.partitodemocratico.it
Sardegna, allarme cemento Il Fai: “Dopo l’alluvione ripartiamo dalla bellezza”, di Giovanni Valentini
Bellezza, agricoltura, artigianato, tecnologie, turismo. E quindi, occupazione. Le sei frecce che campeggiano sulla locandina del convegno nazionale “Sardegna domani!”, organizzato a Cagliari dal Fondo ambiente italiano, avvicinano graficamente l’isola al Continente e rappresentano la metafora di «un patrimonio ambientale da assumere — secondo l’auspicio d’apertura di Maria Grazia Piras, presidente regionale del Fai — come paradigma di uno sviluppo sostenibile».
All’indomani del cataclisma che ha colpito la Sardegna, per una coincidenza che risulta tanto fortuita quanto tempestiva, questo incontro con la società civile segna un momento comune di riflessione, e soprattutto di svolta, per il futuro di questa terra “bella e dannata”. Con una certa dose di preveggenza, è stata la presidente onoraria Giulia Maria Mozzoni Crespi a volerlo con tutta la sua determinazione. E il “parterre” di ospiti ed esperti, insieme a una larga partecipazione di pubblico che ha gremito il Teatro Massimo, ha decretato il successo di un’iniziativa che punta ad alimentare un impegno collettivo di rinascita e di riscatto: tanto da produrre al termine una “Carta di Cagliari” per la messa in sicurezza del territorio e la tutela del patrimonio ambientale e culturale.
La Sardegna ferita a morte dall’alluvione diventa così «un laboratorio dove sperimentare buone pratiche per lo sviluppo economico, magari da replicare altrove», come dice ancora la signora Piras. Il paesaggio può essere certamente il “motore della crescita”, per l’agricoltura, per l’artigianato e per il turismo, ma anche — aggiungiamo noi — il regolatore di questa crescita: cioè la misura e il limite di un effettivo progresso sociale e civile.
Le “assenze eccellenti” non hanno tolto interesse al convegno: il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, e la sua collega dell’Agricoltura, Nunzia Di Girolamo, impegnati a Roma negli affari di governo, si sono limitati a inviare messaggi di circostanza. Ma quella del presidente della Regione, Ugo Cappellacci, è apparsa in realtà una latitanza
politica e istituzionale, accolta da un “buuu” di disapprovazione del pubblico in sala. Il suo Piano paesistico dei Sardi costituisce, infatti, il “pomo della discordia” intorno a cui si giocheranno le prossime elezioni regionali e soprattutto l’avvenire di questa “Atlantide meravigliosa” del Mediterraneo, come la definisce con trasporto Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo del Fai.
Nel marzo scorso, era stato siglato un protocollo fra il ministero dei Beni culturali e la Regione per una parziale revisione del Piano paesaggistico approvato nella legislatura precedente. L’accordo prevedeva una corretta procedura di “copianificazione” tra lo Stato e la Sardegna. Ma poi, nell’imminenza della campagna elettorale, la giunta regionale ha forzato i tempi e il 25 ottobre ha varato unilateralmente un nuovo Piano che “permette di resuscitare tutte le lottizzazioni precedenti il 2004”, come ha protestato nella sua requisitoria dalla tribuna del convegno il presidente del Fai, Andrea Carandini: a suo giudizio, «è da rigettare, non solo perché sottrae la terra alla sua destinazione naturale, ma perché manomette il territorio», e perciò il Fai ne reclama la revoca. Di rincalzo, Maria Assunta Lorrai, direttrice regionale dei Beni culturali, annuncia l’intenzione del ministero di impugnare il provvedimento.
Non ha nascosto tutta la sua “rabbia” Giulia Maria Mozzoni Crespi, polemizzando apertamente con i due ministri assenti e in particolare con Cappellacci: «Doveva essere qui, oggi, a rispondere ai cittadini». La presidente onoraria del Fai denuncia poi in tono accorato l’abbandono e il degrado dell’agricoltura nell’isola; “la rapina delle terre”; “la grande illusione dell’arricchimento di valore”, attraverso la speculazione edilizia; le lentezze e le lungaggini di una burocrazia che “richiede procedure assurde anche solo per ammazzare un maiale” o per l’allevamento del bestiame; le disfunzioni e le carenze di un sistema dei trasporti che soffoca il turismo (“Costa meno una crociera a Dubai di un viaggio di tre giorni in Sardegna”).
Contro la “bulimia del cemento e del mattone”; a favore di un recupero e di una ricostruzione del patrimonio edilizio in stato di abbandono; in difesa del paesaggio agrario, delle coste e dei boschi, molti spunti e molte proposte sono state offerte dai dibattiti coordinati dai giornalisti Gad Lerner e Pasquale Chessa. Oltre a chiedere la revoca del Piano paesaggistico dei Sardi, la mozione finale del convegno sollecita tra l’altro l’investimento di risorse pubbliche e private, in modo da facilitare l’accesso al credito; il dialogo e la cooperazione fra i vari soggetti istituzionali e gli enti locali, per una “ecologia della pianificazione”; la valorizzazione delle aree interne. Da qui, dopo la furia dell’ultima alluvione, può iniziare il domani della Sardegna.
La Repubblica 29.11.13