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“L’eccezione è finita”, di Ezio Mauro

Tutto è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini pi ù potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l’imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l’espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l’eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand’è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.
No, nonostante la propaganda. L’eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l’onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza.
Questa verità è sparita dalla discussione, dall’analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l’inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell’intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l’ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l’aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica,
umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l’immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.
“Lutto per la democrazia”, “Colpo di Stato”, “Legge calpestata”. “Persecuzione senza uguali”, “Plotone di esecuzione”. Uscendo dall’aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente — per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza — dall’abito dell’uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il “golpe”, una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell’ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell’anima. Riassunto, alla fine, nell’ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l’abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia
fisica, affidandole la residua politica estenuata: «Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo». Come se mostrarsi ai suoi fosse l’unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l’eternità. Con un’ultima, minima via d’uscita per l’immediato futuro: «Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo». Con la differenza — taciuta — che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi nove mesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L’universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l’abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l’emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di s é, l’unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l’ordinamento creando l’eccezione, e ottenendo su questo consenso.
La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l’eccezione per un solo uomo, l’eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando “lodo” i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l’accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l’intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.
E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisi
se non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l’esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.
Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un’eccezione che confermasse la sua specia-lità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d’interessi, ogni giorno, dall’uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione
ad personam.
Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali — naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici — hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un’anomalia che dura in realtà da vent’anni, e non ha uguali in Occidente.
Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un’identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell’anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta “repubblicana”, come dice Scalfari.
Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un’opposizione a tutto, l’Italia, l’euro, l’Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.
Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di deformarlo.

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“In piazza la parodia di una destra perduta”, di FRANCESCO MERLO

Pigiati come sardine sembriamo centomila, ma siamo meno di mille, la parodia di una folla oceanica nel budello stretto e corto di via del Plebiscito. E siamo addossati al palco dal quale lui con la pacchiana uniforme tutta nera di pingue “drag queen” del bunga bunga, celebra il “momento fatale”
come «lutto della democrazia». NON “Forza Italia” dunque ma “Senza Italia” è l’inno che solennizza, tanto per parodiare Stefan Zweig, la data storica, l’ora stellare e il minuto vertiginoso: le 17.43 del 27 novembre 2013: «Non lo dimenticherò mai». Dunque la Decadenza, l’avvenimento che tutto decide e tutto dispone, è subito parodia, ma più di Dita Von Teese, la regina del Burlesque, che di Napoleone, l’eroe sconfitto a Waterloo.
Anche via del Plebiscito è la caricatura di una piazza. Non è neppure un palcoscenico, ma è
una ridotta, un foyer che sembra affollato anche quando non c’è pubblico come stasera. E infatti questo è il luogo che il fascismo riservava al parcheggio delle ambulanze (“lettighe” le chiamavano) durante le adunate (vere) nella vicinissima piazza Venezia.
Ed è parodia anche la gioia armata che Berlusconi esibisce subito: «il Senato è di sinistra» grida «e ha ordinato al tempo di fare freddo». E lo dice per sottolineare che è qui senza cappotto. Sa che le telecamere inquadreranno lui che sfida il gelo e poi, per contrasto, la folla tutta imbacuccata, con i colli incassati nei toraci: è un cartoon orrendo che dà la sensazione della patacca, della maschera di cera. L’ho guardato attentamente, con il vecchio binocolo del cronista, e soprattutto quando è sceso e la sua devota fidanzata, che per tutto il tempo del comizio aveva inalberato il cartello «oggi decade la democrazia », gli ha baciato la mano. Ebbene, sotto il girocollo nero, si intravede qualcosa di molto aderente, non la maglia della salute ma una più efficace muta Mares da sub che è l’ultima grottesca trovata per parodiare Superman.
Gli slogan sono i soliti ed è stato anzi un po’ fiacco quando ha attaccato le istituzioni italiane soprattutto «la magistratura che soggioga il Parlamento». Sembrava una copia, sbiadita dalla carta carbone, della manifestazione di agosto, nello stesso posto e con la stessa gente. Mancavano solo le lacrime e il respiro che gli tagliava la gola. Erano identici anche i trucchi di regia del potente pretoriano Roberto Gasparotti (ancora quello della calza) che si sta applicando con passione a truccare come oleografie televisive le ultime cartucce del padrone. Dunque anche ieri sera la telecamera montata sul braccio mobile, — si chiama jimmy jib — si allontanava piano piano e, dando l’effetto di profondità, moltiplicava le teste della folla. Se fosse dipeso da lui, ieri sera Gasparotti avrebbe disposto un diluvio di fuochi d’artificio (finti) per illuminare il sublime istante dell’uomo dalla finta natura indomita.
Di sicuro questo exit di tricche e ballacche non ha precedenti e paragoni storici nazionali, né Cola di Rienzo né Machiavelli né Mussolini, né Craxi, non gli uomini delle Signorie e neppure i Cincinnato della storia romana: solo le sceneggiate dei caudilli sudamericani deposti, forse la corruzione di Mubarak e le amazzoni di Gheddafi. Insomma non c’è il codice italiano, non c’è l’Italia.
Ma la parodia più comica è quella dei Comitati di salute pubblica o forse dell’esercito della salvezza: «Faremo in tutta Italia i club che hanno voluto chiamarsi “Forza Silvio”, e mille saranno pronti già il prossimo otto dicembre, evviva ». È il carnevale dell’insurrezione: «saranno soldati», «saranno missionari», e anche questa è la smorfia del codice estremista. Fa appunto il verso alla rabbia degli antagonisti, dei no global, dei no tav, dei grillini. E infatti anche qui, a sorpresa, denunziano «la polizia che reprime», e «hanno portato via un nostro manifesto con su scritto “colpo di stato” », e «hanno bloccato i pullman fuori Roma» e «ci boicottano » e «attenti ai provocatori» … sino al paragone tra magistratura e Brigate rosse. L’idea era ben fissata nei cartelli che alcuni sparuti manifestanti ieri tristemente inalberavano fin dal mattino, «Berlusconi è prigioniero politico delle Br», mentre da Palazzo Grazioli ogni tanto qualcuno spostava le tende bianche per guardare cosa accadeva nel budello e allora c’era sempre quello che gridava «eccolo, eccolo» e giurava di averlo visto e di avere pure visto sullo sfondo la donna che ama «che se ne stava lì con Dudù in braccio …». È un delirio di macchiette che vedono quello che vogliono vedere,
gridano al golpe ma fanno ciao alla telecamera, sono ancora una volta parodie, persino del mattoide Paolini. È un raduno di spennacchiati e di ex ministri, tutti sotto il palco: la Prestigiacomo, la Gelmini, Brunetta, la Santanché, Verdini, Capezzone, Mantovani paradossalmente sembravano persone normali abbracciati e baciati dai mostri di Dino Risi che, brandendo cellulari, volevano la foto con il semivip della politica.
Per me che ero presente nel giorno in cui Berlusconi esordì a Roma, al suo primo comizio nella capitale nel febbraio del 1994, «a portare — disse — la luce come gli elettricisti» e si muoveva sul palco imitando Frank Sinatra, il paragone tra l’entrata e l’uscita di scena è obbligato, imposto dalla memoria. Ebbene, quel che mi colpisce non è la decadenza sua, ma del suo mondo. L’Italia con la cravatta è scappata via, al posto di quel vigoroso terriccio vegetale di commercianti, professori, industriali, viaggiatori di commercio, avvocati, ufficiali e magi-strati, qui ci sono solo le caricature che, certo, sono tipiche dei comizi, di tutti i comizi: c’è quello che si spoglia, una è vestita da fuoco, e viene avanti una signora avvolta in tre bandiere … insomma sono i soliti mattoidi italiani. Ma il punto è che qui ci sono solo loro, niente più lettori di libri, sono andati altrove gli uomini in completo di Brooks che passavano un mese al mare, prenotavano la settimana bianca, rispettavano il matrimonio, arrossivano quando li scoprivano con l’amante, quelli che vestivano all’inglese o alla marinara e portavano i colori del reggimento della Fininvest come medaglie (la cravatta, le nacchere, la coccarda…).
Ecco, è questa la vera decadenza, oggi l’Italia di Berlusconi è l’Italia degli avanzi, residuale, una specie di lumpenborghesia marginale come i falchetti — pappagalli che neppure si mobilitano per lui, sono solo un fenomeno di casting, non simboli della rigenerazione ma della degenerazione.
D’altra parte, nonostante i giornali di Berlusconi celebrino appunto il momento fatale qui la caduta di Bisanzio è una miserabile condanna per frode fiscale confermata dalla Cassazione, Wellington è nientemeno il giudice “Vabbuò chillo nun poteva nun sapere”, e fa ridere Brunetta nel ruolo di Dostoevskij “l’hanno strappato al sonno di notte, clangore di sciabole nelle casematte” e la Santanché è ancora e sempre parodia della Marsigliese, la sua nuova Forza Italia che ricomincia da oggi fa la smorfia al calendario della rivoluzione francese quando i mesi divennero Brumaio, Ventoso …. Ecco, nella riforma del calendario della Santanché, il novembre della Decadenza diventerà il Ricomincioso.

La Repubblica 28.11.13

Sisma, sen. Vaccari “Ecco le novità contenute nella Legge stabilità”

Sono oltre una decina i provvedimenti che interessano l’area del cratere sismico introdotti nel maxi-emendamento alla Legge di stabilità presentato dal Governo e approvati, nella notte tra martedì e mercoledì, dal Senato. “Si tratta di un risultato straordinario – commentano i senatori emiliani del Pd Stefano Vaccari e Claudio Broglia – ottenuto in un momento particolarmente delicato per il Paese”. La proroga della restituzione della prima rata per chi ha acceso mutui per la ricostruzione o per il pagamento delle imposte sarà, invece, inserita, in accordo con il Governo, nel prossimo decreto sulle Amministrazioni locali rendendo così la misura immediatamente operativa.
Dall’allentamento del patto di stabilità per i Comuni al riconoscimento del danno anche per i costi di delocalizzazione delle imprese, passando per il risarcimento degli interessi dei mutui accesi dai privati nel 2012: sono oltre una decina i provvedimenti che interessano l’area del cratere sismico che sono stati inseriti nel maxi-emendamento alla Legge di stabilità presentato dal Governo e che, nella notte tra martedì e mercoledì, il Senato ha approvato. A darne notizia sono i senatori emiliani del Pd Stefano Vaccari e Claudio Broglia che, nei giorni scorsi, avevano presentato un nuovo corposo “Pacchetto Emilia” di emendamenti alla Legge di stabilità, messo a punto in collaborazione con il commissario straordinario Errani e basato sulle esigenze espresse dai territori, dai cittadini e dalle imprese della zona colpita dal sisma del 2012.

Ecco le principali misure introdotte:

1) allentamento del patto di stabilità dei Comuni colpiti per un valore di 20,5 milioni di euro nel 2014 e 10 milioni di euro per la Regione Emilia-Romagna

2) sospensione per il 2014 del pagamento delle rate dei mutui da parte dei Comuni accesi con la Cassa Depositi e prestiti per un valore complessivo di 12,1 milioni di euro

3) riconoscimento del danno subito anche per i cittadini residenti nei Comuni limitrofi all’area del cratere, per chi non ha la residenza anagrafica nei Comuni in questione, per chi risiede all’estero

4) riconoscimento del danno subito anche dai beni mobili strumentali e dalle scorte di magazzino e di quello conseguente ai costi di delocalizzazione dell’attività

5) proroga al 31 dicembre 2014 della possibilità di accedere al credito e agli aiuti previsti per le aziende agricole zootecniche e casearie

6) proroga fino al 2015 della possibilità per i Comuni di assumere personale a tempo determinato per far fronte all’emergenza sisma

7) possibilità, attraverso i piani della ricostruzione, di usufruire dei contributi previsti in caso di demolizione dell’edificio danneggiato anche per acquistare immobili già edificati per l’edilizia sia residenziale che produttiva che commerciale

8) fermo restando il contributo massimo del 100%, si apre la possibilità di usarne fino al 30% per l’acquisto di terreni

9) possibilità di cedere a terzi la ricostruzione degli immobili da parte dei proprietari che non intendono ricostruire

10) il commissario straordinario avrà la possibilità di utilizzare fino a tre milioni di euro per risarcire gli interessi dei muti accesi dai privati nel 2012

11) un solo condomino delegato o l’amministratore del condominio potranno firmare per il recupero dell’intero edificio danneggiato

“Si tratta di un risultato straordinario – ribadiscono i senatori emiliani Vaccari e Broglia – ottenuto in un momento particolarmente delicato per il paese e che finalmente fornisce risposte concrete a problemi e questioni che la Regione, gli Enti locali, le imprese, i cittadini emiliani avevano sollevato da tempo. Queste misure vanno a completare un quadro definito in maniera solo parziale all’indomani del sisma. Rimangono ancora aperte due questioni – continuano Vaccari e Broglia – che, in accordo con il Governo, abbiamo deciso di non inserire nella Legge di stabilità, ma nel decreto sulle Amministrazioni locali che verrà discusso nei prossimi giorni in Senato. In questo modo le misure in questione sarebbero immediatamente esecutive: si tratta della possibilità di posticipare fino al 2017 la restituzione della prima rata per tutte le imprese che hanno contratto un mutuo nel 2012 sia per la ricostruzione di immobili sia per il pagamento delle imposte e della deroga al patto di stabilità per i fondi destinati alla ricostruzione per le città di Bologna, Modena e Reggio Emilia. Siamo infine intenzionati – concludono i senatori emiliani del Pd – a chiedere per i Comuni dell’area del cratere sismico la non applicazione della spending review anche per il 2014”.

“La Germania, Frau Merkel e il salario minimo”, di Paolo Borioni

Nelle trattative per la formazione del Governo tedesco il salario minimo affiora giustamente come una delle questioni dirimenti (per la fattibilità della Grosse Koalition) e decisive (per la crisi Europea). En passant si può notare che invece la necessità di fornire un governo «la sera stessa delle elezioni» (come i sostenitori dei sistema maggioritario ripetono ossessivamente) non è importante per i tedeschi (come in pressoché tutti i Paesi più avanzati d’Europa): le trattative procedono senza fretta già da due mesi. Comunque, pare Frau Merkel si sia decisa ad accettare la versione socialdemocratica del salario minimo: 8.5 euro l’ora per legge. Ella pensava in un primo tempo di lasciare la materia alle trattative locali. Questa, del resto, era anche la posizione classica dei sindacati più forti d’Europa.
Oggi, però, la confederazione sindacale tedesca Dgb affronta una situazione diversa. Le riforme Hartz del mercato del lavoro, introdotte purtroppo proprio dal governo Spd-Verdi 1998-2005, hanno «sfondato» il pavimento del mercato del lavoro. Oggi, inoltre, i contratti coprono una quota sempre minore di lavoratori, e i sindacati organizzano una percentuale di essi vicina al 20%, molto più bassa di un tempo. I bassi e bassissimi salari quindi sono dilagati, costituendo parte eccessiva della competitivit à tedesca (e degli squilibri europei): il minimo salariale per legge è l’unica arma che ora Spd e sindacati riescano ad opporre. Purtroppo però non è sicuro che ciò basti affinché la Spd recuperi i molti milioni di voti persi fra i lavoratori. Ciò perché, come sostengono i sindacati e le socialdemocrazie nordiche, a garantire il salario più che le leggi, è la forza dell’organizzazione politico-sindacale. In effetti, i dati (dalla ricerca Painful separation, di J. Bailey, J. Coward, M. Whittaker) evidenziano che negli anni 2000 la distribuzione della ricchezza prodotta è stata molto più eguale nei Paesi nordici che altrove.
La ricerca adotta un calcolo per cui se i salari fossero cresciuti al passo della ricchezza, l’indice sarebbe pari a uno. I suoi dati dicono due cose: intanto che ovunque i salari sono cresciuti troppo più lentamente rispetto alla ricchezza prodotta, ovvero il loro indice di crescita è sempre minore di 1. E questo è il problema principale della crescita europea. Poi dicono che l’indice è, nei Paesi nordici, compreso fra 0, 60 (Danimarca) e 0, 77 (Finlandia). Altrove esso invece è 0,43 (Regno Unito), 0,26 (Usa) e 0,12 (Francia): questi ultimi, salario minimo legale o meno, sono tutti Paesi a sindacato debole.
Fa soprattutto riflettere il dato tedesco, che addirittura è 0,08! Questo dice molto sul nesso fra diseguaglianza e protezionismo di fatto della Germania. Ma quel dato suggerisce anche che questa incredibile differenza fra ricchezza prodotta e redistribuita dipenda anche da altro. Per esempio dal «triplo» mercato del lavoro tedesco: quello dei lavori più protetti e ben pagati, quello interno dei famigerati «mini jobs» pagati pochissimo, e quello esterno (Ungheria, Polonia) in cui vengono prodotti segmenti cospicui dei prodotti tedeschi. Quest’ultimo mercato del lavoro «esterno» che fornisce segmenti di prodotto alla Germania si va allargando e impoverendo: per esempio comprende anche sempre di più i nostri salari massacrati dalle misure di austerità.
Se non cambieranno di molto (non di poco) le assurde politiche di austerità e diseguaglianza galoppante, esso continuerà probabilmente a risucchiare verso il basso anche i salari tedeschi. Infatti, anche in presenza del salario minimo, potrebbe quasi certamente verificarsi il fatto che molti salari più alti scendano verso questo minimo. Ecco perché un ottimo economista vicino al sindacato tedesco, Thorsten Schulten, propone un salario minimo europeo flessibile: che lasci ai nordici i loro sistemi di parità capitale-lavoro (che funzionano ancora nonostante tutto meglio degli altri) e imponga agli altri un salario minimo al 60% di quello mediano. Il pavimento, insomma, va bene in Germania, ma serve in tutta Europa, a partire (lo ripetiamo) dal cambiamento di passo nelle politiche.
Il salario minimo, infatti, può servire per aiutare a sospingere tutti verso l’alto, ma solo in una strategia complessiva di rilancio del sindacato, dell’investimento di lungo periodo e della riforma del capitalismo in genere. Altrimenti può essere utilizzato come giustificazione legalistica per portare verso valori bassi (ma legali) anche gli altri salari più elevati. In sostanza, comunque, la misura del salario minimo era indispensabile per arginare il comprensibile malcontento dell’opinione socialdemocratica per la coalizione con Frau Merkel. Vedremo cosa ne diranno i 500.000 iscritti alla Spd, di cui attenderemo la prevista eventuale ratifica democratica dell’accordo di governo. Così ragiona la sinistra europea: gli iscritti ai partiti contano, e il loro voto a posteriori sulla sostanza dei programmi è ritenuto più democratico di primarie che forniscono enormi deleghe a leader eletti sulle ali dell’euforia mediatica.

L’Unità 27.11.13

“Legge di Stabilità, il Senato approva la fiducia”, da corriere.it

Via libera dell’aula del Senato alla fiducia posta dal governo sul maxiemendamento sostitutivo della legge di Stabilità. I sì sono stati 171, i no 135. Mercoledì alle 9.30 nuova seduta dell’aula per la votazione della nota di variazioni al bilancio e la votazione finale del ddl Bilancio. A seguire, la decadenza su Silvio Berlusconi.

I PROVVEDIMENTI – Dal reddito minimo garantito agli interventi sulle pensioni d’oro. Dagli sconti per l’Imu sui beni strumentali per le imprese alle detrazioni sulla prima casa. Fino alle cartelle esattoriali di Equitalia senza interessi. Le misure inserite nel maxiemendamento che riscrive la legge di Stabilitá, recepiscono le novitá annunciate nel corso della giornata dal Governo e dai relatori. Restano fuori alcune voci rilevanti, come l’indicizzazione delle pensioni, su cui c’è l’impegno ad intervenire alla Camera.

Via libera alla Legge di Stabilità: dal reddito minimo alla Iuc[an error occurred while processing this directive]

LA DICHIARAZIONE – Il governo resta comunque «consapevole» che «ben più robusti interventi sarebbero stati necessari» nella legge di Stabilitá, afferma il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, nella replica al termine della discussione generale. L’ex finanziaria, rivendica comunque subito dopo, interviene in modo positivo sulle tasse, perché «riduce la pressione fiscale su famiglie e imprese». La discussione in commissione Bilancio, sottolinea, «è stata proficua e utile» grazie «all’apporto di tutte forze politiche presenti». La modifiche recepite nel maxiemendamento consentono di «irrobustire le due assi portanti» , che sostengono la legge di Stabilità. «Da una parte viene dato ossigeno alla ripresa economica», attraverso le misure per gli investimenti e «dall’altra si sostengono i redditi delle famiglie e l’equit á, che oggi sono le principali variabili macroeconomica per la ripresa». Guardando al passaggio a Montecitorio, il governo auspica che si possano irrobustire ancora questi stessi due assi, puntualizza ancora il viceministro dell’Economia. Il maxiemendamento, come spiegato dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini , recepisce integralmente il lavoro della commissione Bilancio e lo integra con gli emendamenti di governo e relatori già presentati in commissione. Ecco le principali novità emerse:

CUNEO FISCALE – Secondo il testo approvato in commissione, ci sarà una detrazione massima di 225 euro per i redditi tra i 15mila e i 18mila euro, e benefici a degradare fino ai 32mila euro di reddito, e non 55mila come inizialmente previsto dal governo. Lo sconto verrà effettuato mensilmente e non con un ‘bonus’ una volta l’anno.
(Ansa)

IMU IMPRESE: Lo sconto Imu sui beni strumentali d’impresa sar à del 30% per le deducibilità relative al periodo d’imposta del 2013 (da utilizzare nel 2014), mentre scenderà al 20% nei due anni successivi.

DETRAZIONI CASA – Le detrazioni sulla prima casa avranno un plafond di 500 milioni, che i comuni dovranno utilizzare per aiutare le famiglie meno abbienti.

REDDITO MINIMO – Arriva il fondo per il contrasto alla povertá, che andrá a finanziare il reddito minimo garantito. Le risorse arriveranno dalle pensioni d’oro (a partire da 90.000 euro).

PENSIONI D’ORO – Il contributo sulle pensioni d’oro partirá dal 6% per la parte eccedente quattordici volte il trattamento minimo Inps, (per gli assegni superiori ai 90.000 l’anno circa) e salirá fino al 18%, per la parte eccedente trenta volte il trattamento minimo Inps (oltre 193.000 euro circa all’anno).

STADI – Stop alla possibilitá di costruire ‘insediamenti edilizì insieme agli stadi, da parte di privati, mentre è previsto l’incremento del fondo di garanzia per le strutture giá esistenti.

CARTELLE EQUITALIA – Saranno pagate senza interessi.

PATTO STABILITÀ INTERNO – Viene allentato il patto di stabilitá interno, per un miliardo di euro, consentendo ai comuni che ne hanno la possibilitá di far ripartire i cantieri. –

CALAMITÀ NATURALI – Saranno le risorse risparmiate dalla riduzione del finanziamento pubblico ai partiti a finanziare il fondo contro le calamità naturali.

SPIAGGE – Non ci sar à alcuna misura le spiagge: non è prevista la sanatoria sulle pendenze nè la norma sulla sdemanializzazione delle aree marine.

PMI – Rafforzato il perimetro d’azione della Cassa depositi e prestiti per gli investimenti delle imprese, anche con la garanzia pubblica. Si prevede l’istituzione di un fondo per le pmi ed un fondo per i mutui prima casa delle famiglie, con prioritá per le coppie giovani, nuclei monoparentali e giovani con contratto di lavoro atipico.

EDITORIA- Arriva il fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria, con un plafond di 120 milioni nel triennio 2014-2016. Le risorse sono così divise: 50 milioni nel 2014, 40 milioni nel 2015 e 30 milioni nel 2016.

BUDELLI – Deroga alla normativa che consente allo Stato di esercitare il diritto di prelazione sull’isola stanziando i 3 mln di euro necessari. In base al provvedimento il diritto di prelazione viene esercitato dall’ente parco della Maddalena, che scade l’8 gennaio.

ELECTION DAY – Election Day solo la domenica a partire dal prossimo anno per ridurre le spese. A decorrere dal 2014 le operazioni di voto in occasione delle consultazioni elettorali o referendarie si svolgono nella sola giornata della domenica, dalle 7 alle 23.

PENSIONI – «Non siamo riusciti a intervenire, per migliorare indicizzazione delle pensioni. È un impegno che il governo conferma e che cercheremo di portare avanti alla Camera», afferma il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina.

“Conservatori o licei? L’equivoco funesto”, di Giordano Montecchi

“Santa Cecilia Vergine e martire”. Così abbiamo letto sul calendario di qualche giorno fa. Dunque, secondo tradizione, la festa della musica. Ma stando a quel che accade, più che una festa sembra un funerale. Di articoli lagnosi sulla musica in Italia ne abbiamo pubblicati una collezione in questi ultimi anni, né questo sarà l’ultimo. Eppure a ogni tornata nuovi guasti si sommano ai vecchi, irrisolti, così che lo scenario si intorbida sempre più, e chi queste cose le legge sui giornali ci capisce sempre meno. Ne deriva un pesantissimo effetto collaterale, una sorta di character assassination che scredita via via un mondo musicale impastato più di vizi che di virtù, e spiana la strada alle scatologie brunettiane del «culturame parassitario» e delle «élites di m…». Risultato? La musica tenuta in vita dai soldi dei contribuenti, come teatri d’opera, conservatori di musica, eccetera, appare ormai come una lussuosa e inutile propaggine di quel Moloch antidiluviano che per noi italiani è la pubblica amministrazione, che divora risorse e sforna disastri. Certo: parassitismo, inefficienza e spreco regnano tuttora, e talvolta raggiungono livelli scandalosi con terrificanti buchi neri di gestione. Ma a fronte di essi, molto meno reclamizzata, c’è anche la dedizione o addirittura l’eroismo di chi affronta difficoltà spesso drammatiche, con ghigliottine pronte ad abbattersi su istituzioni e iniziative musicali di ogni genere: frutti malefici di una politica inetta a «risolvere» e capace solo semmai e malamente di rappezzare. Esempio recente e controverso la Legge 112, nota alle cronache come «Valore cultura». Legge che fra i vari provvedimenti lancia l’ennesimo tentativo di salvare le fondazioni lirico-sinfoniche dal loro morbo incurabile. Ecco quindi un fondo di 75 milioni per un mutuo trentennale agli enti più incravattati dai debiti, in cambio della promessa che faranno i bravi, non butteranno quattrini e metteranno in mobilità un po’ di tecnici e impiegati. Rispetto a certe scandalose misure del passato (vedi nel 2008 il fondo di 20 milioni per le fondazioni commissariate, oppure la «legge Bondi» del 2010) c’è in effetti uno sforzo in più di riordino, che però non elimina e forse anzi aggrava le falle strutturali di queste grandi macchine da debiti. Il succo dunque è il solito ritornello: un salvagente (bucato) a chi peggio ha amministrato, mentre ai bravi restano solo i tagli. Che cos’è allora questa misura se non un nuovo sfregio alla dignità residua di quel mondo d’arte? Un colpo basso, che avvalora l’idea di un malcostume perennemente condonato, e che offende chi ha ben operato e si vede sistematicamente umiliato. Dall’interno del settore stavolta è venuta però una sacrosanta reazione, pressoché ignorata guarda caso, dal momento che le cronache e i legislatori sono soprattutto interessati a chi sfascia. Ad alzare la voce sono stati i teatri di tradizione. Meno drogati dalla mania suicida dell’«evento» e più radicati nel territorio, questi 28 teatri, escogitando soluzioni e camminando sul filo, riescono a produrre eccellenza e a a far quadrare i conti (salvo pochissime, eclatanti eccezioni quali il Regio di Parma). E giustamente l’Atit, la loro associazione, protesta con una nota ufficiale: anche noi siamo lirica, ci sappiamo fare, ma nessuno ci considera, anzi ci tagliano anche le briciole (poco più di 1/20 di quanto va alle 14 fondazioni maggiori). Briciole, aggiungiamo noi, da cui nascono però spettacoli spesso molto più belli e molto meno dispendiosi. Chi ha orecchie intenda. Sull’onorabilità della Santa dei musicisti incombono però anche altre ombre. I vecchi, artritici Conservatori di musica ad esempio. In questi giorni fioccano articoli ispirati da un recente parere dell’Avvocatura dello Stato, sollecitato verosimilmente dalla potente lobby che da sempre vuole il Conservatorio identico all’Università. Sul «Corriere della Sera» ad esempio, si legge che i Conservatori affosserebbero i nuovi licei musicali, continuando illegalmente a insegnare musica ai ragazzini (nei cosiddetti corsi «pre-accademici») invece di limitarsi all’«alta formazione» accademica. La ragione sarebbe il numero eccessivo dei docenti: uno ogni otto studenti, mentre la media universitaria è di uno a venti. Ciò spingerebbe i Conservatori a gonfiare il più possibile il numero degli iscritti: a oggi 48.000 (di cui neppure 14.000 nei corsi accademici), a fronte di 6.000 docenti. In effetti, se restassero solo i corsi accademici, 35.000 studenti dovrebbero sloggiare, e quei professori avrebbero in media due studenti a testa o poco più. Il quadro dipinge dunque direttori e docenti (fra cui chi scrive) come furbastri che imbrogliano le carte per nascondere il fatto di essere senza allievi. E come una ciliegina ecco il recente provvedimento che ha salvato oltre un migliaio di precari del settore: una regalìa scandalosa, laddove, evidentemente, bisognerebbe disboscare energicamente. Troppo complesso smentire questi equivoci? No, semmai poco redditizio in termini di qualunquismo. Perché se all’Università un professore ha in aula 100 studenti, il docente di Conservatorio ne ha uno. Il problema tuttavia c’è ed è drammatico, da quando, con l’infelice riforma del 1999, 80 Conservatori sono stati convertiti tutti, indiscriminatamente, in Università di musica: una follia. Si è liquidata così la formazione di base, nell’illusione che i licei musicali, di là da venire, l’avrebbero rimpiazzata. Senonché, ovunque, i licei musicali servono a diffondere la cultura e la pratica della musica, non a formare professionisti per i quali in tutta Europa esistono scuole apposite. I corsi pre-accademici nascono appunto da questa necessità. Purtroppo, anche nel paese dove si sbandierano riforme a costo zero, la formazione musicale professionale costa cara. Ogni Conservatorio possiede un patrimonio di strumenti musicali che vale qualche milione di euro. Per questo i licei musicali non decollano. E i pochi che esistono ospitano forse un decimo di quei 35.000 studenti che, fuori dal Conservatorio non avrebbero dove studiare musica. Anche sui calendari tedeschi c’è scritto Santa Cecilia. Ma in pochi ci avran fatto caso fra quei 150.000 (!) che studiano musica al liceo, e soprattutto quel milione di ragazzi (!!!) iscritti alle Musikschulen (l’equivalente dei corsi pre-accademici), i più bravi dei quali concorreranno poi per il livello accademico-universitario dove c’è posto sì e no per 25.000 studenti. Ma si può capire la loro indifferenza: rispetto a noi, per la musica, lì è festa tutto l’anno.

L’Unità 27.11.13

“Ora si volti pagina”, di Claudio Sardo

Il passaggio all’opposizione di Forza Italia era annunciato. Ma a nessuno sfugge che la rottura politica di ieri e il voto odierno sulla decadenza di Berlusconi chiudono un capitolo della storia repubblicana. I toni apocalittici del Cavaliere sono una prova della fine del ventennio, che supinamente abbiamo chiamato seconda Repubblica. Mentre gli argomenti usati per contestare la legge di Stabilità appaiono soltanto come le armi improprie della guerra dichiarata contro le istituzioni: il consen- so della destra scagliato contro la legittimità di una condanna passata in giudicato, la legittimazione elettorale contro lo Stato di diritto. Nessun leader di uno Stato occidentale, che ha ricoperto ruoli primari di governo, si è mai spinto fino ad un atto così estremo, così eversivo: chiamare la piazza contro una sentenza, opporsi non solo a un governo o a una maggioranza bensì ai principi fondativi dell’ordinamento. Anche questo è il prodotto dell’anomalia della cosiddetta seconda Repubblica, fondata su partiti personali: ma ciò aggrava la difficoltà di oggi. L’edificio democratico da preservare e ristrutturare ha subìto nel tempo colpi molto forti. E l’azione di Berlusconi giunge nel punto più drammatico di una crisi sociale, grave come mai dal dopoguerra. L’uscita dal tunnel non si vede ancora. Per questo il Cavaliere può trovare alleati nella sfiducia e nella paura.
Certo, nel giorno in cui si volta pagina, potremmo anche raccontarci una storia più consolante. La legge di Stabilità è stata approvata senza l’apporto della destra populista. I popolari europei fanno capire che potrebbero espellere Forza Italia. La maggioranza parlamentare è ora più coesa, e c’è da sperare che non si ripetano più ricatti come quelli sull’Imu (costati un prezzo inaccettabile in termini di equità). Lo stesso Letta si è preso una rivincita nei confronti di quella sinistra radical chic, che descriveva il suo come il governo del «salvacondotto» a Berlusconi. Invece è proprio sulla separazione dei poteri che ha vinto una partita importante e ha diviso la destra. Non era vero – lo scriveva la Repubblica, non solo il Fatto quotidiano – che il governo delle larghe intese fosse l’assicurazione sulla vita del Cavaliere. Le larghe intese non sono mai davvero esistite. E lo stato necessità non abbandonerà il percorso di Letta neppure adesso: è un’illusione, anzi un errore, immaginare che la rottura apra ora la strada a una maggioranza politica. Insomma, i punti che il premier può segnare a proprio favore non sono irrilevanti. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare le incertezze del passaggio. L’opposizione di sistema di Berlusconi si sommerà a quella di Grillo e i binari stretti delle compatibilità europee potrebbero impedire al governo di combattere ad armi pari.
Anche Enrico Letta invece dovrà voltare pagina. È una questione di vita o di morte. La stabilità, intesa come continuità della legislatura, è certamente un valore che i mercati e le cancellerie europee giudicano essenziale. Ma se la stabilità diventa mera inerzia, sopravvivenza passiva, si rischia di regalare alle forze anti-sistema un consenso capace, a questo punto, di scuotere la stessa impalcatura istituzionale. Nessuno può pretendere da Letta un cambiamento strutturale delle politiche economiche e sociali: il paralizzante tripolarismo italiano è sotto gli occhi di tutti. Ma ora più che mai la missione di Letta è scavare le fondamenta di un cambiamento futuro. Renderlo possibile attraverso istituzioni finalmente ricondotte all’efficienza (a partire da una nuova legge elettorale) e una politica europea finalmente liberata da direttive recessive e deflazionistiche.

Il traguardo del semestre europeo è la sfida allo sfascismo berlusconiano. Ma non è scontato che il governo lo raggiunga. La partita è apertissima e difficile. Speriamo che nel Pd non ci sia la tentazione di giocare di sponda con il Cavaliere. Ci manca solo qualche apprendista stregone, che pensando di incassare per sé l’intera posta, apra la strada alla destabilizzazione. Tuttavia, bisogna mettere in agenda le riforme. Riforme sociali anzitutto, pur nei limiti delle scarse risorse disponibili. Non basta dire che il lavoro è la priorità. Bisogna dimostrarlo. Ma anche sulle riforme istituzionali è arrivato il tempo di finirla con la commedia degli equivoci. E con la subordinazione all’ideologia della seconda Repubblica. Ad esempio, a proposito di legge elettorale, quando si mette a tema l’insensatezza delle coalizioni preventive? Perché non si dice che in tutti i sistemi democratici del mondo – proporzionali, maggioritari, misti – alle elezioni si presentano i partiti? Vogliamo consentire a Berlusconi di fare l’oppositore del sistema, poi allearsi alle elezioni con il partito di Alfano, prendere magari un premio in seggi, e poi di nuovo dividersi? Il trasformismo post-elettorale è un cancro che il «maggioritario all’italiana» ha coltivato e sviluppato. La risposta democratica a Berlusconi deve essere quella di demolire i suoi miti, non di farli propri proponendo volti nuovi per politiche vecchie.

L’Unità 27.11.13