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“La Germania, Frau Merkel e il salario minimo”, di Paolo Borioni

Nelle trattative per la formazione del Governo tedesco il salario minimo affiora giustamente come una delle questioni dirimenti (per la fattibilità della Grosse Koalition) e decisive (per la crisi Europea). En passant si può notare che invece la necessità di fornire un governo «la sera stessa delle elezioni» (come i sostenitori dei sistema maggioritario ripetono ossessivamente) non è importante per i tedeschi (come in pressoché tutti i Paesi più avanzati d’Europa): le trattative procedono senza fretta già da due mesi. Comunque, pare Frau Merkel si sia decisa ad accettare la versione socialdemocratica del salario minimo: 8.5 euro l’ora per legge. Ella pensava in un primo tempo di lasciare la materia alle trattative locali. Questa, del resto, era anche la posizione classica dei sindacati più forti d’Europa.
Oggi, però, la confederazione sindacale tedesca Dgb affronta una situazione diversa. Le riforme Hartz del mercato del lavoro, introdotte purtroppo proprio dal governo Spd-Verdi 1998-2005, hanno «sfondato» il pavimento del mercato del lavoro. Oggi, inoltre, i contratti coprono una quota sempre minore di lavoratori, e i sindacati organizzano una percentuale di essi vicina al 20%, molto più bassa di un tempo. I bassi e bassissimi salari quindi sono dilagati, costituendo parte eccessiva della competitivit à tedesca (e degli squilibri europei): il minimo salariale per legge è l’unica arma che ora Spd e sindacati riescano ad opporre. Purtroppo però non è sicuro che ciò basti affinché la Spd recuperi i molti milioni di voti persi fra i lavoratori. Ciò perché, come sostengono i sindacati e le socialdemocrazie nordiche, a garantire il salario più che le leggi, è la forza dell’organizzazione politico-sindacale. In effetti, i dati (dalla ricerca Painful separation, di J. Bailey, J. Coward, M. Whittaker) evidenziano che negli anni 2000 la distribuzione della ricchezza prodotta è stata molto più eguale nei Paesi nordici che altrove.
La ricerca adotta un calcolo per cui se i salari fossero cresciuti al passo della ricchezza, l’indice sarebbe pari a uno. I suoi dati dicono due cose: intanto che ovunque i salari sono cresciuti troppo più lentamente rispetto alla ricchezza prodotta, ovvero il loro indice di crescita è sempre minore di 1. E questo è il problema principale della crescita europea. Poi dicono che l’indice è, nei Paesi nordici, compreso fra 0, 60 (Danimarca) e 0, 77 (Finlandia). Altrove esso invece è 0,43 (Regno Unito), 0,26 (Usa) e 0,12 (Francia): questi ultimi, salario minimo legale o meno, sono tutti Paesi a sindacato debole.
Fa soprattutto riflettere il dato tedesco, che addirittura è 0,08! Questo dice molto sul nesso fra diseguaglianza e protezionismo di fatto della Germania. Ma quel dato suggerisce anche che questa incredibile differenza fra ricchezza prodotta e redistribuita dipenda anche da altro. Per esempio dal «triplo» mercato del lavoro tedesco: quello dei lavori più protetti e ben pagati, quello interno dei famigerati «mini jobs» pagati pochissimo, e quello esterno (Ungheria, Polonia) in cui vengono prodotti segmenti cospicui dei prodotti tedeschi. Quest’ultimo mercato del lavoro «esterno» che fornisce segmenti di prodotto alla Germania si va allargando e impoverendo: per esempio comprende anche sempre di più i nostri salari massacrati dalle misure di austerità.
Se non cambieranno di molto (non di poco) le assurde politiche di austerità e diseguaglianza galoppante, esso continuerà probabilmente a risucchiare verso il basso anche i salari tedeschi. Infatti, anche in presenza del salario minimo, potrebbe quasi certamente verificarsi il fatto che molti salari più alti scendano verso questo minimo. Ecco perché un ottimo economista vicino al sindacato tedesco, Thorsten Schulten, propone un salario minimo europeo flessibile: che lasci ai nordici i loro sistemi di parità capitale-lavoro (che funzionano ancora nonostante tutto meglio degli altri) e imponga agli altri un salario minimo al 60% di quello mediano. Il pavimento, insomma, va bene in Germania, ma serve in tutta Europa, a partire (lo ripetiamo) dal cambiamento di passo nelle politiche.
Il salario minimo, infatti, può servire per aiutare a sospingere tutti verso l’alto, ma solo in una strategia complessiva di rilancio del sindacato, dell’investimento di lungo periodo e della riforma del capitalismo in genere. Altrimenti può essere utilizzato come giustificazione legalistica per portare verso valori bassi (ma legali) anche gli altri salari più elevati. In sostanza, comunque, la misura del salario minimo era indispensabile per arginare il comprensibile malcontento dell’opinione socialdemocratica per la coalizione con Frau Merkel. Vedremo cosa ne diranno i 500.000 iscritti alla Spd, di cui attenderemo la prevista eventuale ratifica democratica dell’accordo di governo. Così ragiona la sinistra europea: gli iscritti ai partiti contano, e il loro voto a posteriori sulla sostanza dei programmi è ritenuto più democratico di primarie che forniscono enormi deleghe a leader eletti sulle ali dell’euforia mediatica.

L’Unità 27.11.13