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“Lavoro o reddito di cittadinanza?”, di Laura Pennacchi

Di fronte all’entità e alla natura della questione occupazionale indotta dalla crisi più grave e èiù òunga del secolo la strategia del «lavoro di cittadinanza» – centrata su di un Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne ispirato al New Deal – dovrebbe essere la priorità di tutte le forze politiche democratiche, specialmente di quelle che si vogliano autenticamente di sinistra e perciò dichiarino guerra alla disoccupazione. Stupisce, invece, che venga riproposta con superficialità – oltre che con spirito populistico e demagogico specie nelle formulazioni di Grillo e del Movimento 5stelle – una strategia che dà priorità al «reddito di cittadinanza» senza alcun riferimento meditato alla crisi globale e alle sue drammatiche implicazioni occupazionali.
È necessario innanzitutto chiarirsi sui termini.

L’Italia deve certamente dotarsi di strumenti, delimitati e circoscritti, di necessaria lotta alla povertà, come il «reddito di inclusione attiva» (una forma del quale da noi fu introdotta sperimentalmente dal primo governo Prodi e poi soppresso dal duo Berlusconi-Maroni). Ma è opportuno avere chiare le differenze tra «lavoro di cittadinanza» (da cui scaturirebbe naturalmente anche un reddito decente), varie forme di «reddito minimo», «reddito di cittadinanza» (da cui non scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente), quest’ultima un’ipotesi molto più ampia di quelle stesse di «reddito minimo», non solo per gradazione ma per qualità e natura, perché con esso si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale e incondizionato. Il problema dei costi in termini di finanza pubblica – pur enormi, al punto che si oscilla da 20 a un centinaio di miliardi di euro all’anno – della prospettiva di «reddito di cittadinanza» non è il più rilevante. Più rilevanti sono fondamentali problemi culturali ad essa sottostanti. Il primo è la scissione del nesso costituzionale tra lavoro e dignità, il quale considera il lavoro non solo come attività ma come processo antropologicamente strutturante l’identità umana. Il secondo problema è il privilegio dato a uno strumento – trasferimento monetario cioè denaro – che rimane sostanzialmente interno alla logica del meccanismo di accumulazione con baricentro nella finanziarizzazione approdato nella tragedia della crisi globale e che, se introdotto, in particolare in Italia, rafforzerebbe uno dei suo guasti storici e cioè la pre- valenza dei trasferimenti monetari sull’erogazione di lavoro e di servizi. Il terzo problema è che esiste una versione neoliberista del «reddito di cittadinanza» con cui essa si presenta come compimento del «conservatorismo compassionevole» (riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa» di
Milton Friedman) nella cui orbita si muovono anche versioni più nobili, che tuttavia finiscono con l’avvalorare l’immagine di uno stato sociale «minimo», non troppo diverso da quello «residuale» ipotizzato dalle destre, specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione (parziale o totale) verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.

In sostanza alla prospettiva del «reddito di cittadinanza» è generalmente sottesa l’idea che la situazione critica attuale sia immodificabile, in termini di disoccupazione così come in termini di dualizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, e che in particolare non sia rimediabile la sua profonda carenza di lavoro alla quale ci dovremmo rassegnare «compensandola» e «risarcendola» sul piano monetario, ipotesi in realtà esiziale per il futuro della «civiltà del lavoro». Dovremmo, infatti, dismettere l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e ridimensionare l’ambizione di intervenire sulla strutturalità dei problemi contemporanei delle economie mondiali (che certo non sarebbe scalfita mediante mere misure di trasferimento monetario del tipo «reddito di cittadinanza»). All’opposto, io ritengo che proprio perché il sistema economico odierno non crea naturalmente «piena e buona occupazione» e, anzi, naturalmente svaluta, cancella, espelle, precarizza il lavoro, va dichiarata guerra alla disoccupazione e riproposta una strategia di pieno impiego di tutti i fattori della produzione, in primo luogo lavoro e capitale. Bisogna sapere che questo reimpone una iniziativa politica di altissimo profilo di «riforma del capitalismo». Invece di considerare inespugnabile la cittadella del «capitalismo antidemocratico» che ha demolito e soppiantato il «capitalismo democratico» frutto del compromesso keynesiano dei «trenta gloriosi», bisogna per- vicacemente continuare a interrogarsi su ciò che Co- lin Crouch chiama «making capitalism fit for society » (rendere il capitalismo adeguato alla società), riscoprendo l’importanza degli investimenti pubblici per creare lavoro (anche con schemi ad orario ridotto). Sotto questo angolo visuale la prospettiva del «lavoro di cittadinanza» è molto più ambiziosa e antropologicamente motivata – oltre che assai più realistica per- ché assai meno costosa – di quella del «reddito di cittadinanza», sbagliata come parola d’ordine non tanto perché troppo massimalista ma perché troppo poco radicale.

Trasferimenti monetari tipicamente indifferenziati, elevati e generalizzati, che rischiano di proporsi come strumento unico con cui risolvere una marea di problemi aventi, viceversa, bisogno di policies arti- colate, mirate, concrete, non sono in grado di incide- re davvero né sui problemi strutturali, né sulla volontà di rimettere al centro la giustizia. All’opposto, essi possono rafforzare alcuni rischi: – che i veri problemi odierni (in particolare l’incapacità del sistema economico di generare «piena e buona occupazione») rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto ad essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; – che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato, sanzionato, legittimato; – che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto (per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato), quando non addirittura al restringimento e all’«arretramento ».

L’Unità 23.11.13

“E Silvio annuncia: lunedì all’opposizione”, di Carmelo Lopapa

«Tenetevi pronti, lunedì si passa all’opposizione di questo governo di tasse e amici dei giudici». Silvio Berlusconi resta blindato a Palazzo Grazioli, chiama a raccolta i colonnelli di Forza Italia. È la vigilia della settimana campale. Li chiama tutti a raccolta nelle prime linee del fronte, la permanenza in maggioranza ha le ore contate, come la sua in Parlamento d’altronde. «Ci riuniremo lunedì e decideremo» comunica a chi va a trovarlo, da Carfagna a Prestigiacomo, da Bergamini alla Mussolini, dalla Polverini a Rotondi. Il dado dunque è tratto.
Da ieri sera i senatori forzisti hanno indossato l’elmetto: astensioni a raffica sulla manovra, in commissione Bilancio. Una linea che del resto il Cavaliere aveva adombrato nella lunga notte precedente trascorsa in relax con la ventina di giovani del partito, quelli ufficiali, portati dalla responsabile Annagrazia Calabria in vista della kermesse di oggi della Giovane Italia alla quale il leader ha confermato la sua presenza. Ma è nel salotto di Palazzo Grazioli, dove si è intrattenuto fino alle 2.30, che si è abbandonato alle confessioni più amare sul momento. «Vedrete che mi arresteranno, farò la fine di Yulia Timoshenko», paventa la persecuzione di qualche «procura impazzita» pronta a spiccare il mandato di cattura dopo il 27 novembre. Magari per l’ipotesi di corruzione di testimoni del Ruby ter
che stanno per imputargli. A dir poco avvilito dalla prospettiva. «La prima settimana mi saranno tutti vicini, la seconda solo la metà, la terza non avrò più nessuno intorno ». È il Berlusconi vittima, il ruolo in sceneggiatura che gli è sempre riuscito meglio. E che tornerà a interpretare in tv, forse da Vespa, difficile a questo punto prima della decadenza, probabile subito dopo. Intenzionato comunque a non mollare la presa dal 27, o quando avverrà l’espulsione dal Parlamento. Da lì partirà la sua campagna per i club “Forza Silvio”. Già in cantiere una convention a Milano per l’8 dicembre, per fare da contraltare alle primarie Pd, il Renzi day.
L’ordine di scuderia alla squadra di 60 senatori è di dare battaglia sulla legge di stabilità, per allungare il più possibile i tempi e rinviare il voto sulla decadenza di mercoledì prossimo, nonostante la conferma del presidente del Senato Grasso. Voto palese, ma l’ultima spiaggia sarà tentare il voto segreto sui molteplici ordini del giorno che i forzisti produrranno contro il pronunciamento pro-espulsione della giunta. Volpi d’aula come Donato Bruno e Lucio Malan sono al lavoro. Come al lavoro è Berlusconi stesso sul suo discorso che pronuncerà in aula nel giorno clou. Di certo non si dimetterà un momento prima, avverte. Preannuncia un discorso «alto, non astioso», conciso. «Mi state consegnando ai magistrati, ma sappiate che presto le toghe si scateneranno contro di voi» è un passaggio anticipato agli ospiti di ieri. Per il momento la mobilitazione di quel pomeriggio sotto Palazzo Grazioli è confermata, come la sua partecipazione.
Angelino Alfano sembra che abbia voluto comunicare di persona al Cavaliere la decisione di non sostenere la richiesta di fiducia del governo e la battaglia per posticipare la decadenza rispetto alla manovra. Per Berlusconi, stando a quanto ha riferito poi ai suoi interlocutori, sono solo «tatticismi ». Quella del vicepremier una «carineria tardiva: hanno voluto spaccare il partito e non riesco a spiegarmi ancora le ragioni, se non la voglia di restare incollati alle poltrone». Il sospetto che alberga dentro Forza Italia è che in realtà “Angelino” lavori in pieno accordo col premier Letta. Pronto a «scaricare» una volta per tutte l’ex leader subito dopo il via libera alla stabilità. Sprezzante, nei toni, il Berlusconi che ha commentato ancora coi suoi lo strappo: «Avete visto? Altro che 7-10 per cento, non hanno più del 3,6, non vanno da nessuna parte». Alfano riunisce i suoi trenta senatori che eleggono Maurizio Sacconi capogruppo e conferma la linea della «responsabilità » nei confronti dell’esecutivo per marcare le distanze dagli “ex”. Non avrebbe causato questo terremoto, diversamente. E lì si concede dell’ironia sulle liti esplose dentro Forza Italia perfino per l’elezione del capogruppo. «Noto che il metodo Berlusconi mette tutti d’accordo, per troppa democrazia non riescono nemmeno a scegliere il sostituto di Schifani, noi lo abbiamo eletto in cinque minuti ». Questa mattina la prima uscita pubblica, a Roma, con la presentazione dei 58 parlamentari nazionali, i 7 europei, gli 86 consiglieri regionali (12 assessori), un governatore (Scopelliti in Calabria), stando al censimento dell’uomo dei numeri del Ncd, Dore Misuraca. Perché la partita grossa si gioca ora sui territori. Anche se Schifani e Quagliariello ce la stanno mettendo tutta, raccontano nel partito, per convincere 4-5 senatori forzisti a passare con Alfano. È l’ultima remora che frena ancora Berlusconi dall’ufficializzare il passaggio all’opposizione, il timore di un altro smottamento imminente.

La Repubblica 23.11.13

«Ora raccontiamo la violenza sulle donne», di Claudia Voltattorni

La viceministra Guerra: il 90 per cento delle vittime non fa denuncia. «La violenza sulle donne non è una questione solo per donne». No. La violenza sulle donne «riguarda tutti». Chi la subisce. Chi la compie. Chi assiste. Prima, durante, dopo. «È da qui che bisogna partire se si vuole affrontare il problema: conoscere il fenomeno è il primo passo per combatterlo». E va fatto «con la partecipazione di tutti». Istituzioni, amministrazioni, associazioni, operatori sul campo, insegnanti, forze dell’ordine, avvocati, giudici, volontari: li ha messi tutti insieme attorno a un tavolo Maria Cecilia Guerra, viceministro del Lavoro con delega alle Pari Opportunità. «Lo stabilisce una legge, quella sul femminicidio», spiega quasi con modestia. Ma poi sorride: «Se si lavora insieme, si possono fare delle cose buone».
È con questo spirito che è partita la task force contro la violenza sulle donne. Apertura e collaborazione a tutti i livelli coordinata dalle Pari Opportunità per realizzare il «Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere», previsto dall’articolo 5 della legge sul femminicidio appena approvata. «Stavolta ci siamo», sorride la Guerra, appena tornata da Washington dove ha firmato per l’Italia la Convenzione di Belem (primo Paese Ue a farlo). E la sera del 25 novembre, Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne, invita tutti al Palazzo delle Esposizioni di Roma alla serata «Sii dolce con me, sii gentile», recital di poesie di Mariangela Gualtieri.
Parla di «una nuova consapevolezza del fenomeno» Cecilia Guerra: «Ci si è accorti che la violenza contro una donna si consuma tra le mura di casa più che fuori ed è commessa dal proprio partner o ex, più che da un soggetto esterno». Qualche dato arriva dal Sistema di indagine delle forze dell’ordine (Sdi) del ministero dell’Interno e dal database degli omicidi sempre del ministero: il 46,3% delle donne muore per mano del partner, il 35,6% di loro viene ucciso dall’uomo con cui ha vissuto, il 10,6% dall’uomo che ha lasciato. Sono aumentate le denunce di stupri, + 400% dal 1996 al 2012, però il sommerso rimane alto: il 90% delle donne che ha subito una violenza, non l’ha denunciata, un terzo di loro neanche ne ha mai parlato con qualcuno. «La violenza non è raccontata, è nascosta — riflette la Guerra — : vale sia per le donne, che tendono a sottovalutarla, sia per gli uomini che riescono a capire di essere stati violenti solo quando si confrontano con altri, lo vediamo nei centri per uomini maltrattanti. Se non sei in grado di identificare la violenza, non percepisci la sua escalation» .
Fondamentale formare e informare. Uno degli obbiettivi del Piano è questo: «La scuola per esempio: bisogna uscire dagli stereotipi di genere, educare i ragazzi alla relazione e impostare il rapporto maschio-femmina sul rispetto tra le persone e non su modelli precostituiti». È necessaria una sensibilizzazione di tutti, inclusi, si legge nell’articolo 5, «gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere, in particolare della figura femminile». Mi chiedo, dice la viceministro, «se a volte certe notizie sarebbe meglio darle con meno enfasi e particolari». La formazione è rivolta a tutti: da chi interviene nella fase di prevenzione (insegnanti), a chi partecipa alla fase di accoglienza delle vittime, forze dell’ordine, operatori sanitari e di giustizia, fino ai centri antiviolenza, «spesso ne sanno più di noi e perciò siamo noi a chiedere aiuto a loro».
I centri fanno parte delle cosiddette «best practice», i buoni esempi che già ci sono e che il Piano non dimentica, anzi: «Vogliamo costruire una rete integrata di risposta sul territorio per dare aiuto a chi subisce violenza, non solo a chi viene, ma andando a cercarla e per fare questo si devono mettere a frutto esperienze positive del territorio, tipo il Codice Rosa toscano, perché la donna sappia sempre a chi rivolgersi». L’articolo 5 bis prevede un intervento finanziario su centri e case rifugio «erogato non per progetti ma in base ad una mappatura Regione per Regione e nel 2014 distribuiremo 17 milioni in una sola tranche per dare un impulso forte». Ma il Piano pensa anche agli uomini, «la violenza sulle donne è un problema prevalentemente maschile, sono loro a maltrattare» sottolinea Guerra, e prevede perciò «azioni e metodologie coerenti per il recupero e l’accompagnamento dei soggetti responsabili di atti di violenza nelle relazioni affettivi»: «fondamentale sarà l’esperienza dei centri degli uomini maltrattanti».
Ecco, dice Guerra, perché tutto funzioni però «dobbiamo creare un sistema informativo integrato di tutte le fonti di cui già disponiamo: dati che riguardano la violenza che si è già manifestata, quindi dati raccolti da forze dell’ordine, centri antiviolenza, centri sanitari, Telefono Rosa». Ma bisogna anche cercare di prevenire la violenza prima che esploda: «un lavoro diverso, mesi, forse anni di impegno, la cosa importante è che dovrà essere davvero collegiale, solo così riusciremo a vincere».

Il Corriere della Sera 23.11.13

“Troppi Comuni senza strategia”, di Paolo Baroni

A Genova la privatizzazione, parziale, degli autobus l’avevano già tentata nel 2005. Ma non è servita a nulla, anzi. I soci francesi (la Rapt subentrata a Transdev) nel 2011, infatti, se la sono data a gambe levate. Sono dunque almeno 8 anni che l’Amt è in mezzo al guado, in crisi nera, con il Comune che non riesce a saltarci fuori. E come Genova ci sono tante altre città pronte a portare in tribunale i libri delle loro aziende di trasporto. Che in Italia sono ben 1150, per il 40% tecnicamente fallite causa debiti.

Può succedere che la «privatizzazione» diventi la via di fuga di fronte ad un problema insormontabile: si passa la mano, sperando che un nuovo socio possa fare meglio, abbia più risorse da gettare nell’impresa oppure la forza di piegare la resistenza dei sindacati, che in queste come in altre situazioni ovviamente si mettono di traverso. Il problema però non si risolve tanto e solo nell’annoso dibattito privatizzazioni sì o no: perché ci sono esempi di privatizzazione positive, che hanno prodotto risultati, come a Trieste e Udine, dove è entrata Arriva (controllata dalle ferrovie tedesche) e privatizzazioni che non hanno risolto nulla, come appunto quella di Genova.

La domanda da porsi invece è un’altra: nel 2013, con la situazione dei conti pubblici che il Paese si ritrova e le tante emergenze sociali, ha ancora senso che un Comune gestisca direttamente gli autobus cittadini? E, soprattutto, che un unico soggetto sia allo stesso tempo socio dell’azienda e controparte della stessa nella stipula dei contratti di servizio che quasi tutte le città stanno mettendo a gara? O se vogliamo, ha ancora senso che i trasporti pubblici vengano gestiti così? Con aziende di dimensione comunale, incapaci di fare vere economie di scala, dove la politica se vuole (e vuole sempre) fa il bello ed il cattivo tempo come dimostra il caso limite dell’Atac di Roma, assurta alle glorie nazionali più per la famosa «Parentopoli» e per aver accumulato un debito da far impallidire (1,6 miliardi di euro) che per efficienza e qualità dei servizi. Parliamo di quella stessa politica che non programma, ad esempio intervenendo sulla viabilità urbana per assicurare ai mezzi pubblici una velocità commerciale più spedita, e che si accorge di queste imprese solo perché si va a votare e lì pesca sempre un sacco di voti.

E’ vero mancano i soldi. E da Roma (come dalle Regioni) di soldi ne arrivano sempre meno. Ma questo fatto non può essere l’unica spiegazione di tante situazioni di difficoltà. Anche perché nel frattempo i biglietti sono rincarati quasi ovunque ed in parallelo gli stipendi degli autisti sono stati congelati (sono sei anni che il contratto di categoria è scaduto, lamentano i sindacati).

Gli esperti dicono più che i soldi manca la progettualità. E se privatizzare è una scorciatoia che può rivelarsi a volte controproducente ci si deve chiedere cosa si può fare altro? Le esperienze non mancano. In Emilia Romagna sono riusciti ad unificare quasi tutte le aziende di trasporto delle città capoluogo: Piacenza con Reggio e Modena, Bologna con Ferrara e l’azienda dei treni regionali, Cesena con Forlì e Ravenna. Un modo per fare massa critica, economie di scala ed integrare meglio il trasporto su ferro e gomma, dagli investimenti agli orari, alla gestione dei biglietti. Qualcun altro ha invece scelto l’opzione Trenitalia, che al pari degli altri grandi operatori ferroviari europei è entrata in questo settore e dal 2012 gestisce i bus della Firenze di Renzi ed ora guarda all’Umbria e al Triveneto.

E il governo? Dopo aver aumentato con la legge di stabilità i fondi per acquistare nuovi bus e treni regionali (300 milioni in più dal 2014), dopo il caso-Genova ed i segnali di insofferenza (e crisi) che arrivano da altre città (Roma, Napoli, Caserta, la Sicilia, i casi più eclatanti) ha deciso di aprire un tavolo nazionale per prendere di petto la crisi del settore. Che di riflesso è anche crisi dei grandi produttori nazionali di bus come Irisbus e Breda Menarini. Ed è un danno per tutti i cittadini che pagano biglietti sempre più cari a fronte di servizi sempre più scadenti.

La Stampa 23.11.13

“Un bollino di qualità per tutta la TV pubblica”, di Giovanni Valentini

È grazie a Mike (Bongiorno), ma anche ad altre trasmissioni di intrattenimento fatte con molta cura, che abbiamo imparato ad usare l’italiano parlato. (Tullio De Mauro in “La lingua batte dove il dente duole” — Laterza, 2013 — pag. 43) Di certo l’omologazione è avvenuta con la televisione. (Andrea Camilleri, ibidem). Quando si vuole difendere il ruolo e la funzione del servizio pubblico radiotelevisivo, non c’è esempio migliore di quello della lingua: cioè dell’unificazione e omologazione del linguaggio che la tv di Stato ha favorito fin dalla sua fondazione in Italia. I telespettatori più avanti negli anni ricorderanno “Non è mai troppo tardi”, la trasmissione condotta dal maestro Alberto Manzi che aveva per sottotitolo “Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”. E fa bene a richiamarsi oggi a quel modello il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, quando immagina un programma per “l’alfabetizzazione digitale”.
Ma il servizio pubblico — come sosteneva già sir John Reith, il fondatore della mitica Bbc inglese — deve provvedere, oltre che a “informare ed educare” il pubblico, anche a “intrattenerlo”. Da “Lascia o raddoppia?” di Mike Bongiorno, appunto, fino a “Quelli della notte” e “Indietro tutta” del geniale Renzo Arbore, passando per tante altre trasmissioni di successo, questo genere fa parte integrante della stessa missione della Rai. Non avrebbe senso, perciò, escludere ora l’intrattenimento dai cosiddetti “generi predeterminati” in vista del nuovo Contratto triennale di servizio fra l’azienda e lo Stato che prelude, a sua volta, al rinnovo della Concessione del servizio pubblico nel 2016: a meno che si punti in realt à al suo “spacchettamento”, magari per privilegiare gli interessi della tv commerciale sul piano degli ascolti.
Per le medesime ragioni, appare improprio e dannoso imporre un “bollino di qualità” per distinguere i contenuti prodotti con i proventi del canone d’abbonamento da quelli prodotti esclusivamente con i ricavi pubblicitari. A parte il fatto che l’intera programmazione è o dovrebbe essere in linea con il servizio pubblico, in questo modo si rischierebbe di avviare surrettiziamente “una prima divisione in due dell’azienda”, come ha sostenuto di recente davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti. È stato lui stesso a citare in proposito la lettera inviata alla presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, con cui l’Ebu (European Broadcasting Union) esprime la sua netta contrarietà a una tale ipotesi, sottolineando che non è prevista da nessun servizio pubblico europeo rappresentato da questo organismo internazionale.
Diverso è il discorso della “separazione contabile”, introdotta nel 2009 dalla Commissione europea sugli aiuti di Stato, per evitare che le emittenti pubbliche facciano concorrenza a quelle private in settori diversi dalla loro missione principale o che siano troppo sovvenzionate rispetto agli obblighi di questa missione. Qui si tratta, piuttosto, di assicurare l’equilibrio e la trasparenza del mercato. Tant’è che la “separazione contabile” è diventata ormai pratica corrente ed è stata adottata da tutti i servizi pubblici europei, compresi quelli che sono finanziati interamente con risorse statali: già dal 2005, su delibera dell’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, il bilancio della Rai è stato suddiviso in tre distinti aggregati contabili (aggregato di servizio pubblico, aggregato commerciale e aggregato servizi tecnici).
Un “bollino di qualità”, semmai, dovrebbe essere applicato a tutti i programmi della tv di Stato — d’informazione, di approfondimento e anche d’intrattenimento — per esigere e certificare un livello di contenuti adeguati al suo ruolo e alla sua funzione. Fino a quando anche il nostro servizio pubblico non avrà una “governance” indipendente dalla politica, e magari non verrà finanziato soltanto dal canone per essere sottratto alla “schiavitù dell’audience”, la Rai rimarrà esposta comunque alle influenze e interferenze della partitocrazia. In queste condizioni, la migliore autodifesa è quella del rigore finanziario e amministrativo, della professionalità e dell’autonomia aziendale.
È senz’altro una buona idea quella indicata nell’articolo 23 del nuovo Contratto di servizio che, in attesa del rinnovo della Concessione, prevede una consultazione pubblica per interpellare tutti i soggetti sociali, sull’esempio della Royal Charter della Bbc. Per passare finalmente dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini, occorre una grande mobilitazione popolare come quella sull’acqua e sugli altri beni comuni. Ma intanto la politica — di destra, di centro o di sinistra — deve fare un passo indietro.

La Repubblica 23.11.13

“Sorpresa, ora agli italiani piace la sanità pubblica”, di Ilvo Diamanti

Non c’è “sentimento” fra società e istituzioni, in Italia. È una storia lunga, che negli ultimi tempi si è complicata ulteriormente. Eppure, nonostante i problemi e le polemiche, gran parte degli italiani si fida della sanità pubblica. E si dice soddisfatta. Dei medici, degli ospedali, delle cure. I giudizi più positivi provengono da chi ha avuto esperienza della sanità pubblica. Per ragioni di “cuore”. È il segno più visibile degli atteggiamenti emersi dal sondaggio condotto da Demos su incarico di ATBV. Un’associazione “professionale” a cui aderiscono medici specialisti di malattie cardiovascolari. L’indagine (i cui risultati verranno presentati oggi a Bologna al convegno nazionale di ATBV) ha analizzato gli orientamenti verso il sistema sanitario tenendo conto dell’esperienza e della percezione della malattia, fra coloro che hanno problemi cardiologici. (Un club di cui anch’io faccio parte.) Ne emerge un legame stretto. L’esperienza della malattia, infatti, influenza direttamente la valutazione dei luoghi e delle figure professionali che caratterizzano la sanità. In senso positivo. In generale, gli italiani dimostrano un buon grado di soddisfazione circa la propria salute. Oltre il 90% sostiene di sentirsi “abbastanza” o “molto bene”. Tuttavia la paura del male è diffusa. Per primo e soprattutto: incombe il “male oscuro”. Non quello psichico, evocato nel romanzo di Giuseppe Berto. Ma il male che tutti temono. Anche perché lo incontriamo spesso, sempre più spesso. Si aggira intorno a noi. Ed è difficile da curare, ma, soprattutto, da guarire definitivamente. Il tumore. Il cancro. Di cui ammette di aver paura, più che di ogni altra ma-lattia, oltre metà degli intervistati (il 54%). È una paura senza età, senza distinzione di genere e classe. Incombe su tutti. Anche le malattie neuro-psichiatriche (Alzheimer, Parkinson, depressione) preoccupano molto. Soprattutto i più anziani. Ma in misura notevolmente più limitata: 20%. Come, d’altronde, gli ictus: 12%. Mentre l’angoscia suscitata dall’infarto e dalle crisi cardiache riguardano una quota ancor più ristretta. Intorno al 7%. Anche se vengono percepite come un rischio (medio o elevato) da oltre un quarto degli italiani. Senza troppe differenze, dopo i 18 anni. L’esperienza della malattia, comunque, cambia sensibilmente il rapporto con se stessi e la propria salute, come appare evidente se consideriamo l’atteggiamento dei “cardiopatici”. I quali fanno osservare un’attenzione maggiore rispetto al resto della popolazione nei confronti delle cure e della prevenzione. Dopo la crisi cardiaca, infatti, mostrano di aver modificato le loro abitudini e i loro stili di vita, in modo talora significativo. Anzitutto, si sottopongono a controlli ricorrenti. Misurano con regolarità colesterolo e pressione. E smettono di fumare. In misura più ampia delle altre persone. Oltre il 45% di essi si sente “a rischio” di ricadute.
Tuttavia, l’esperienza della malattia non sembra produrre una frattura biografica violenta. Secondo la maggioranza della popolazione, dopo l’infarto, la vita cambia, ma non in modo radicale. Certo, ci sente più insicuri. Ma il corso della vita prosegue, con una maggiore cura di sé. Oltre il 75% della popolazione, infatti, considera i cardiopatici persone che possono vivere un’esistenza normale. Senza troppi problemi. Anche se debbono usare maggiore cautela rispetto agli altri. Nove cardiopatici su dieci, peraltro, affermano di considerare il loro stato di salute «buono». Cioè: come tutti gli altri.
In generale, l’esperienza della malattia rafforza e migliora il rapporto con la struttura sanitaria. Con le figure professionali mediche e paramediche e con le strutture ospedaliere. Ma l’immagine del sistema sanitario appare, comunque, molto positiva, presso tutta la popolazione.
Anche oltre la cerchia di chi ha potuto e dovuto sperimentarne l’utilità. Circa l’80% degli italiani, infatti, esprime un grado di fiducia molto elevato verso i medici — ospedalieri e di famiglia. Verso gli “specialisti” pubblici e privati. Verso gli infermieri. La considerazione cresce, soprattutto, in riferimento al sistema pubblico.
La maggioranza dei cittadini (55%) ritiene, infatti, che la sanità pubblica vada tutelata in modo autonomo e distinto. Senza metterla in concorrenza con quella privata. E senza favorire processi di integrazione. La sanità pubblica, invece, va rafforzata. E lo Stato dovrebbe sostenerla di più perché è “un valore in sé”, come sottolinea gran parte degli italiani. In modo più convinto coloro che hanno fatto ricorso ad essa per motivi di urgenza e necessità.
Alla base di questo giudizio, vi sono ragioni “fondate”: la verifica diretta della qualità, oltre che dell’utilità del servizio. Vi sono, inoltre, valutazioni ampiamente condivise circa l’accessibilità. Perché, se la salute è un diritto di tutti, diventa essenziale che sia, appunto, accessibile a tutti. Dal punto di vista dei costi e dell’accoglienza. Della possibilità di poter essere curati, soprattutto in caso di urgenza. Senza privilegi né distinzioni sociali.
Per contro, il principale vantaggio competitivo riconosciuto alla sanità privata riguarda i tempi lunghi di attesa per le visite, per i referti. L’universalità e l’accessibilità, dunque: le “virtù” del servizio pubblico, rischiano, in questo caso, di divenire “vizi”. Perché rallentano le procedure e le attività maggiormente richieste. Tuttavia, in quest’epoca di incertezza diffusa e in questo Paese, dove lo Stato è guardato con sospetto e con sfiducia, dove le istituzioni suscitano distacco: la sanità pubblica costituisce un buon punto di riferimento. Capace di parlare ancora al “cuore” degli italiani. Meglio tenerne conto.

La Repubblica 23.11.13

“Riforme, stavolta Carrozza sentirà le categorie interessate”, di A.G. da La Tecnica della Scuola

Le rassicurazioni giungono dal sottosegretario all’istruzione, Gianluca Gallettì: ferma restando la necessità di un intervento legislativo, è intenzione del Ministro coinvolgerle. Largo, quindi, ad un’ampia consultazione prima di presentare un disegno di legge di riforma.
“Il Governo non ha alcuna intenzione di ledere le prerogative del Parlamento” in tema di istruzione, università e ricerca ma intende proporre un ddl che riguarderà soltanto la materia universitaria per l’elaborazione di un testo unico. A sostenerlo, il 21 novembre, è stato il sottosegretario all’istruzione, Gianluca Gallettì, rispondendo alla Camera ad un’interpellanza in tema di riordino normativo del settore e di delega legislativa. Galletti ha ricordato che un primo testo, al quale fa riferimento l’interpellanza, è stato “oggetto di confronto nelle sedi tecniche, ma non è stato discusso dal Consiglio dei ministri. Uno schema di disegno di legge sarà invece esaminato in una delle prossime riunioni del Consiglio dei ministri. Esso riguarderà soltanto la materia universitaria e prevederà una delega legislativa solo per l’elaborazione di un testo unico in materia. Non si tratterà di un disegno di legge collegato alla legge di stabilità, ma di una normale iniziativa legislativa, che è lo strumento con il quale il Governo deve normalmente sottoporre le sue proposte al Parlamento per un esame approfondito”.
Galletti ha anche assicurato che, “ferma restando la necessità di un intervento legislativo, è intenzione del Ministro coinvolgere tutte le categorie interessate nel processo di formazione delle future decisioni. Nel settore della scuola, si procederà con un’ampia consultazione prima di presentare un disegno di legge di riforma”. Viene confermata, quindi, la linea del dialogo. Che è poi quella che avevano chiesto alcuni sindacati, come la Flc-Cgil e l’Anief .
“Il riordino della disciplina può essere operato senza costi, ma – ha aggiunto il sottosegretario – per un rilancio dell’istruzione e dell’università servono risorse. Al riguardo, vorrei ricordare che, in una difficilissima congiuntura economica come quella attuale, il Governo ha mostrato una grande attenzione per questo settore, al quale ha dedicato anche rilevanti risorse economiche”.
In particolare, Galletti ha segnalato le risorse previste dal “decreto-legge n. 69 del 2013 (c.d. “decreto del fare”), che ha stanziato 450 milioni di euro per l’edilizia scolastica; quelle previste dal decreto-legge n. 104 del 2013, che a regime ammontano a 450 milioni di euro; e quelle previste dal disegno di legge di stabilità, che sarà all’esame di questa Camera nelle prossime settimane e che prevede, tra l’altro, lo stanziamento di 150 milioni di euro aggiuntivi per il Fondo di finanziamento ordinario delle università e 80 milioni di euro per i policlinici universitari, oltre al consueto stanziamento – ha concluso Galletti – per le scuole paritarie, pari a 220 milioni di euro”. Uno stanziamento, quest’ultimo, che però non ha proprio destato consensi assoluti.

La Tecnica della Scuola 22.11.13