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“Gli iscritti scelgono Renzi. Il congresso del Pd riparte da qui”, di Rudy Francesco Calvo

Punto e a capo. Il voto nei circoli chiude una fase di polemiche, di numeri tirati da una parte e dall’altra, di accordi unitari nei territori ignorati per collegare i segretari provinciali eletti alle mozioni nazionali. Da ieri è incontrovertibile che gli iscritti al Partito democratico hanno scelto in maggioranza Matteo Renzi. Una maggioranza relativa e non assoluta, dato che il sindaco di Firenze raggiunge a livello nazionale il 46,7 per cento, ma è stato smentito chi paventava un diverso orientamento tra i tesserati e gli elettori delle primarie, ammesso che vengano confermate le previsioni dei sondaggi, che indicano unanimemente Renzi come probabile vincitore ai gazebo.

Gianni Cuperlo si ferma lontano, al 38,4 per cento, dopo che per tutto il fine settimana il suo comitato aveva accreditato sui social network e sulle agenzie di stampa di essere addirittura in vantaggio. Al di sotto delle aspettative anche Pippo Civati, che rivendicava la possibilità di giocarsela testa a testa con Cuperlo per il secondo posto e invece è rimasto sotto il dieci per cento, al 9,2.

Si attesta poco sotto il 6 per cento Gianni Pittella. Un buon risultato per il vicepresidente del parlamento europeo, costruito soprattutto ma non esclusivamente al sud (dove raggiunge il 12 per cento), che non gli basta però a evitare l’esclusione dalle primarie. È questo, infatti, l’unico effetto concreto del voto degli iscritti: l’ammissione alla competizione aperta dell’8 dicembre dei primi tre classificati e l’eliminazione del quarto. Per evitare la tagliola, Pittella avrebbe dovuto raggiungere il 15 per cento dei voti: un obiettivo che si è dimostrato al di sopra della sua portata.

Il contorto iter del congresso dem prevede adesso la celebrazione delle convenzioni provinciali, composte dai delegati eletti nei circoli, che eleggeranno a loro volta i rappresentanti alla convenzione nazionale, che si terrà domenica prossima a Roma, all’Hotel Ergife. Un organismo che si riunirà solo ed esclusivamente in quella giornata, per ufficializzare il risultato dei circoli, ascoltare i discorsi dei candidati, animare il dibattito e poi tutti a casa, ché il lavoro vero comincia solo in quel momento. Alle primarie, Renzi, Cuperlo e Civati ripartiranno tutti dalla stessa linea e quella sarà la competizione vera, quella che deciderà chi sarà il prossimo segretario del Pd.

La principale incognita adesso riguarda il numero degli elettori che andranno a votare l’8 dicembre. Al Nazareno temono di non superare la quota dei due milioni, e anche Renzi vorrebbe qualcosa di più. Nel 2009, a mettersi in fila per scegliere il segretario dem tra Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, furono tre milioni e 102mila persone. Allora nei circoli votarono 466mila iscritti al partito, mentre questa volta alle convenzioni hanno partecipato poco meno di 300mila tesserati. Un calo di circa un terzo che, se rapportato ai possibili elettori alle primarie, porterebbe l’asticella dell’affluenza a scendere proprio intorno a quota due milioni.

Per stimolare la partecipazione, oltre che per costruire un buon risultato a proprio vantaggio, Matteo Renzi inizierà domani pomeriggio da Genova il proprio tour, che lo porterà prima dell’8 dicembre a toccare tutte le regioni italiane. Ma sarà soprattutto il confronto tv su Sky (ancora una volta negli studi di X Factor, come fu nell’ottobre scorso) fissato per il 29 novembre a far crescere l’attenzione sulle primarie dem. Finora non sono previsti altri appuntamenti televisivi, ma lo stesso sindaco di Firenze non esclude, se tutti i candidati fossero d’accordo e se il clima attorno alle primarie non montasse, un secondo dibattito per aiutare la mobilitazione in tutto il paese verso i gazebo.

da Europa Quotidiano 19.11.13

“Napolitano e il corpo delle donne “Tv e spot, più dignità e sobrietà”, di Maria Novella De Luca

Il corpo femminile ridotto a bene di consumo. La reazione violenta degli uomini alle conquiste di libertà delle donne. Il richiamo ad una rappresentazione “sobria e dignitosa” nei media e nelle pubblicità. Arriva dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il nuovo e severo appello contro il femminicidio e l’abuso dell’immagine femminile, alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ma anche a due giorni dall’ultimo omicidio che porta a oltre cento il bollettino di ragazze, donne e bambine uccise dall’inizio dell’anno in Italia. Assassinate da mariti, amanti, fidanzati, padri. Un richiamo forte, che il presidente della Repubblica invia come videomessaggio alla IX Conferenza internazionale della Comunicazione, organizzata a Milano da Pubblicità Progresso e dal titolo “Il valore della diversità. Verso una nuova cultura di genere”.
Tocca tutti i temi della “violenza” sul corpo delle donne Giorgio Napolitano, da quella fisica a quella psicologica. Un’aggressione che muta e si trasforma nell’emarginazione delle donne nel mondo del lavoro, o che sfrutta i loro corpi per pubblicità sessiste, che ancora dominano e trionfano soprattutto in televisione. Così dopo la presidente della Camera Laura Boldrini, che nei mesi scorsi aveva denunciato “lo scandalo” di quegli spot che continuano a raccontare un immaginario femminile fatto di spazzoloni, fornelli, detersivi o nudità ad uso e consumo di maschi e mariti, adesso è Giorgio Napolitano a chiedere che le «donne siano rappresentate con sobrietà e dignità nei media, così come si è impegnata a fare la Rai». Perché, sottolinea il presidente della Repubblica, «è proprio la maggiore eguaglianza conseguita dalle donne sul lavoro e nelle professioni che può suscitare pericolosi atteggiamenti di reazione». Quello che da tempo sostengono i centri antiviolenza. La libertà femminile fa paura.
«Amarezza, indignazione e dolore genera poi il perpetuarsi della violenza sulle donne, così frequente proprio sulle compagne di vita. È bene quindi che il recente provvedimento del governo abbia considerato i legami sentimentali come un’aggravante», dice ancora Napolitano, riferendosi alla (discussa) legge sul femminicidio appena approvata. Ma al di là dei risultati o meno della legge resta da capire se qualcosa sta cambiando. Perché mai come oggi in Italia le istituzioni “alte” hanno deciso di rompere il silenzio su una strage che non accenna a finire. E sugli stereotipi, che condizionano la vita dei bambini fin da piccolissimi. E sulla pubblicità, come ha fatto Laura Boldrini evidenziando l’incongruità di un concorso come Miss Italia. Mentre nei mesi scorsi anche Anna Maria Tarantola, presidente della Rai, aveva chiesto espressamente di «evitare la mercificazione del corpo della donna» nei talk, nelle trasmissioni, nelle fiction.
Ma sul terreno i risultati sono ancora pochi e non si vedono ad occhio nudo. Lo spiega Titti Di Salvo, presidente della rete Dire, che riunisce oltre sessanta centri antiviolenza in Italia. «Sono grata a Napolitano, alla Boldrini, le loro parole ci aiutano. Ma proprio ieri sera, al Tg1, l’omicidio di una donna da parte del suo compagno veniva presentato come raptus di gelosia…Il raptus non esiste, esiste l’omicidio. Finché non cambia la cultura, finché non cambiano le parole, la strage non si fermerà». Ma anche Alberto Contri, che dirige la Fondazione Pubblicità Progresso, ammette che la strada è lunga. «Gli spot non solo altro che la rappresentazione di un immaginario collettivo, che riflette la realtà italiana. Dove le donne non hanno raggiunto la parità, hanno stipendi del 22% più bassi di quelli degli uomini, e il lavoro domestico non è condiviso. Qualcosa è cambiato, ma poco. Infatti la nostra prossima campagna “Punto su di te” sarà basata sulla valorizzazione del ruolo femminile nella società». Aggiunge Contri: «Ogni linguaggio è lecito, e forse si può anche usare la bellezza di una donna per pubblicizzare una crema o un profumo. Ma che senso ha invece un corpo nudo per lo spot di una colla o di un divano? Nessuno, se non colpire la fantasia dei maschi…».

La Repubblica 19.11.13

“Meno di uno studente su 10 fa la formazione in azienda”, di Leonard Berberi

In teoria dovrebbe servire ai ragazzi per orientarsi meglio. E per avere un primo approccio con il mondo del lavoro. Del resto, «laddove è stata introdotta», l’esperienza funziona. Nella pratica, però, è una realtà che stenta a decollare. E coinvolge ancora pochi studenti. Per non parlare dell’occupazione, un tema che «non è visto come parte integrante del percorso formativo».
Alternanza scuola-lavoro, nuovo capitolo. A certificare che la strada è ancora lunga sono i dati elaborati da Indire per il ministero dell’Istruzione. Cifre e analisi che saranno presentate dal ministro Maria Chiara Carrozza giovedì al «Job&Orienta 2013» di Verona.
I numeri, innanzitutto. Dicono che nell’ultimo anno scolastico gli studenti coinvolti dall’alternanzascuola-lavoro sono stati quasi 228 mila. In aumento rispetto ai 189 mila del 2011/2012. Ma comunque pari all’8,7 per cento — meno di uno su dieci — tra tutti gli iscritti alle scuole superiori. Se poi si va a guardare più da vicino i percorsi formativi, l’alternanza l’hanno fatta poco più di due liceali su cento, il 6,3 per cento degli studenti degli istituti tecnici e il 28,3 per cento dei giovani dei professionali. Aumentano, negli anni, anche le scuole superiori che hanno attivato il percorso: l’ultimo anno erano 45 su cento. Segno più anche per le strutture che hanno accolto gli studenti: quasi 78 mila, di cui sei su dieci sono imprese.
«I dati indicano che si sta andando nella giusta direzione, proprio perché l’alternanza è utile», commenta Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli. Ma aggiunge anche che «non è ancora abbastanza». Soprattutto in un sistema scolastico, come quello italiano, «dove l’astrazione viene preferita alla praticità». E infatti i problemi arrivano quando si entra nel mondo del lavoro. «Al netto delle difficoltà congiunturali — racconta Gavosto — molti direttori del personale si lamentano di avere a che fare con ragazzi disorientati, che non hanno idea di come si sta in un’azienda o di come ci si comporta con capi o colleghi».
Insomma, l’alternanza non serve soltanto ad avere le idee più chiare per il futuro, ma anche a capire come muoversi in un’impresa. Per questo Daniele Checchi, docente di Economia politica all’Università Statale di Milano, sostiene che «l’alternanza fa sicuramente bene soprattutto a livello culturale. Il vero problema, però, è il “come” questa attività viene organizzata». E sul «come» il professor Checchi ha molti dubbi. «In Italia si tratta di attività che durano qualche giorno o addirittura qualche ora: come fa un ragazzo ad avere un assaggio del mondo del lavoro in così poco tempo?».
Ed ecco che torna alla ribalta l’idea di copiare il «modello tedesco», un sistema che unisce formazione scolastica e apprendistato in azienda. Con risultati soddisfacenti, se è vero che tra il 50 e il 60 per cento degli studenti poi viene assunto. «Ma attenzione — avverte Checchi — non possiamo adottare quel meccanismo “a pacchetti”: o si prende tutto, e allora si interviene anche sull’organizzazione delle scuole superiori, o non funziona». Il «modello tedesco» non dispiace ad Andrea Gavosto: «Ma non sono così sicuro di voler spingere un ragazzino a dover scegliere già a 11 anni cosa fare da grande. Meglio una forma “ibrida” che dia la possibilità al giovane di scegliere all’interno dell’anno scolastico di fare alcune materie pratiche».

Il Corriere della Sera 19.11.13

“Quei diecimila euro in più degli ingegneri ecco quanto vale davvero una laurea”, di Luca De Vito

Economia e Ingegneria pagano prima e meglio delle facoltà umanistiche. Vale per i maschi e per le femmine. Nei primi dodici mesi post università, chi ha in tasca una laurea (e un lavoro) in Economia riesce a guadagnare fino a 10mila euro all’anno in più rispetto ai coetanei che scelgono studi umanistici. Lo stesso anche nel lungo termine, a 15 anni dalla discussione
della tesi. iN questo caso la differenza è di 26mila euro annui, mentre gli ingegneri riescono a guadagnare fino a 25.500 euro in più. Tra chi riesce a trovare lavoro, dunque, sono loro i più remunerati, seguiti dai futuri medici, dai matematici e dai fisici. Non solo. Anche dal punto di vista della parità di genere, a sorpresa, queste lauree offrono maggiore accesso alla professione per le donne, dando prospettive più eque tra i sessi.
A dirlo è una ricerca realizzata da Giovanni Peri (economista e ricercatore all’UC Davis, Università della California) insieme a Massimo Anelli. Uno studio della Fondazione Rodolfo De Benedetti che sarà presentato a Milano — l’11 dicembre alle 9, nell’aula magna dell’università Bocconi — basato su un campione di 30mila studenti diplomati nei licei classici e scientifici milanesi tra il 1985 e il 2005. Nella loro ricerca, gli studiosi sono andati a raccogliere i dati scuola per scuola, facoltà per facoltà, incrociando moltissime informazioni, come quelle sui redditi degli studenti e delle famiglie di provenienza. Ricostruendo nei dettagli un prezioso spaccato sulle modalità d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
«Una ricerca che per le prima volta mette a confronto i guadagni dei neolaureati a parità di condizioni — spiega Giovanni Peri — con risultati che mettono in dubbio anche alcuni luoghi comuni». Uno di questi riguarda la parità di genere: non è sempre vero, infatti, che le donne guadagnano meno degli uomini. Lauree come quelle in Ingegneria ed
Economia presentano divari salariali minori fra maschi e femmine (rispettivamente 2.400 e 3.500 euro) rispetto ad esempio a Giurisprudenza, Scienze sociali e Scienze naturali, dove la differenza è tra i 5900 e i 7300 euro. «Il problema — aggiunge Peri — è che le donne iscritte a ingegneria ed economia forse son o ancora poche». Se nel tempo infatti è cresciuto il numero di ragazze che si iscrivono in università, «purtroppo non si riscontra un parallelo aumento dei loro salari — spiega Paola Profeta, docente di scienze delle finanze alla Bocconi — e in generale, considerate tutte le facoltà, il gap fra generi è ancora molto alto». Troppo poche donne che studiano queste materie, dunque. E forse la colpa è anche un po’ dei nostri licei, in molti casi ancora aggrappati a pregiudizi difficili da superare. La maggior parte dei professori di classici e scientifici, infatti, consiglia alle proprie allieve di iscriversi a facoltà come Architettura, Lettere oppure Scienze Sociali, spiega lo studio. «A volte si è portati a pensare che quella dell’ingegnere sia una professione tipicamente maschile — commenta Innocente Pessina, preside del liceo classico Berchet di Milano — questo avviene perché siamo ancora un po’ “stagionati”, e perché in passato era così. Ma ciò non vuol dire che si danno soltanto dei consigli in questa direzione, anzi: noi organizziamo incontri con tutte le università e con tutte le facoltà per i nostri studenti. Il suggerimento che personalmente mi sento di dare è uno solo: va’ dove ti porta il cuore, ovvero studia quello che ti piace. Perché non è detto che se studi archeologia un domani tu non possa diventare direttore di una banca».
Un altro mito da sfatare è quello che riguarda l’importanza del voto con cui si esce dall’università: secondo quanto emerge dalla ricerca, non è detto che il voto di laurea conti poco o nulla al fine di trovare un lavoro ben pagato. Viceversa, a parità di percorso di studi, chi si laurea con 110 guadagna in media il 50 per cento in più rispetto a chi porta a casa il voto più basso. «Questa è una prova che il sistema funziona — spiega Giovanni Azzone, ingegnere e rettore del Politecnico di Milano — e che le università fanno bene il loro lavoro: se chi ha voti migliori trova una remunerazione maggiore anche nel lungo termine, significa che il mercato del lavoro riconosce il voto di laurea come un indicatore valido. E questo è senz’altro un buon segnale».

La Repubblica 19.11.13

“Quando l’Italia divenne razzista”, di Aldo Cazzullo

Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?». Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime. È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.
I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.
Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).
Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società». Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.
In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.
La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!». Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta». Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.
Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.
I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati — fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.

Il Corriere della Sera 19.11.13

“Una marcia in più per il lavoro. Dal liceo fino al master, corsi e borse per arricchire il curriculum oltreconfine”, di Francesca Barbieri

Piccoli studenti giramondo crescono. Dal liceo fino al master, le statistiche certificano che il numero di giovani italiani impegnati in percorsi di studio all’estero sono in aumento. I giovanissimi, che già a 15 anni puntano sulla mobilità internazionale sono raddoppiati nel giro di un anno (da 3mila a oltre 6mila registrati dall’associazione Intercultura), con una forte richiesta per i Paesi asiatici e latinoamericani che hanno superato quelli anglofoni. All’università cresce la partecipazione allo storico programma Erasmus – che da qualche anno ha arricchito l’offerta con il canale placement, che permette di fare stage in aziende estere -: 25mila gli studenti partiti lo scorso anno accademico (+6% rispetto al precedente) e con l’Italia che nell’ultimo quinquennio ha raggiunto il quarto posto tra i Paesi Ue per studenti coinvolti (oltre 100mila). Un programma che dopo aver rischiato il taglio fondi, lo scorso anno, e nonostante il calo della dote 2013-2014 (39,1 milioni contro i 41,5 dell’annualità precedente), sembra poter contare in prospettiva su nuove certezze: a breve il Parlamento europeo sarà chiamato a votare il pacchetto “Erasmus+”, che prevede lo stanziamento di 14 miliardi nel periodo 2014-2020, il 40% in più dei sette anni addietro.
E poi le tante borse di studio messe in palio da università e governi stranieri. Dall’inizio dell’anno sono stati quasi 2mila gli italiani che hanno presentato la propria candidatura attraverso il ministero degli Affari esteri. Studenti, neolaureati, dottorandi, ma anche professionisti intenzionati a frequentare un corso di specializzazione all’estero approfittando dell’opportunità di fare un’esperienza in un altro Paese praticamente a costo zero.
Che si voglia partecipare al progetto Erasmus, frequentare un master all’estero o iscriversi a un’università straniera sin dal liceo, la regola d’oro è sempre la stessa: prepararsi con un buon anticipo rispetto alla partenza. Anche perché la selezione è durissima e i posti a disposizione non sono molti.
All’interno di questa guida si potranno approfondire le strategie, i consigli e le indicazioni fornite dagli operatori delle università e dai consulenti delle società specializzate nella messa a punto dei dossier di candidatura per scuole e università straniere. Fondamentale pianificare la strategia almeno un anno prima, mettendo a fuoco i propri interessi per valorizzare al massimo la propria esperienza all’estero, tenendo conto che le regole spesso variano da Paese a Paese.
Restando sulle destinazioni classiche, gli atenei americani e britannici hanno criteri di ammissione radicalmente diversi. I college Usa valutano non solo i risultati scolastici, ma anche le esperienze extracurricolari, con le domande che vanno presentate entro il 31 dicembre. Il sistema inglese, invece, è molto meno flessibile e il criterio di selezione è quasi esclusivamente accademico. Si fa domanda di ammissione non a una specifica università, ma a un corso di laurea preciso, il che obbliga lo studente ad avere idee molto chiare fin dall’inizio. Nel Regno Unito, come in Usa, è indispensabile il superamento di un test di lingua (Ielts) e la messa a punto di un personal statement (presentazione di sé). Oltre la Manica le domande vanno presentate entro il 15 gennaio attraverso Ucas ( www.ucas.com). Le risposte arrivano entro maggio, ma nella maggior parte dei casi sono “condizionate” all’effettivo conseguimento del voto di maturità stimato in anticipo dal liceo (predicted grade) e inserito nella domanda.
Un aspetto da non trascurare nella scelta delle destinazioni è quello economico: per un corso di quattro anni negli Stati Uniti va messo in preventivo un esborso annuo da 33mila a 48mila euro, mentre in Canada si scende a 20mila euro, compresa la retta d’iscrizione e l’accomodation (vitto e alloggio). Restringendo il raggio d’azione all’Europa, in Gran Bretagna tre anni di studio costano in media, di sole tasse universitarie, 10.500 euro l’anno, quota che scende a 1.800 euro in un ateneo pubblico in Olanda e a mille euro in Spagna.

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Lasciapassare per l’ingresso, di Maria Chiara Voci
È il primo requisito da “mettere in valigia” quando si sceglie di volare all’estero per motivi di studio: per frequentare le lezioni in un ateneo straniero bisogna dimostrare di saper comprendere e parlare correttamente la lingua di base in cui saranno tenuti i corsi.
In genere, per attestare la propria conoscenza bisogna superare un test riconosciuto a livello internazionale. Test che cambia a seconda dell’idioma e che viene rilasciato da organizzazioni, istituzioni e scuole, riconosciuti universalmente e presenti con proprie sedi sui diversi territori nazionali. Prima di scegliere alla cieca quale esame affrontare e per evitare brutte sorprese è tuttavia una buona prassi verificare nei moduli di iscrizione dell’università i requisiti per dimostrare la propria dimestichezza linguistica.
Per l’inglese le strade percorribili sono più di una. In genere, se si rimane nel Vecchio continente o addirittura si va nel Regno Unito, il test pi ù diffuso è lo Ielts ( www.ielts.org), esame con due gradi di formazione, che si può effettuare presso uno dei 31 British Council presenti in Italia. La certificazione C1 o C2 in inglese (il livello minimo di preparazione richiesto nel sistema di classificazione fissato dalla Ue) si può ottenere, però, anche superando i test Esol della Cambridge University ( www.cambridgeenglish.org/it/), come il Cae o il Cpe.
Per chi varca, invece, i confini del continente (ma anche in Europa è riconosciuto) c’è il Toefl ( www.ets.org/toefl), di origine statunitense, ma accettato in ben 130 Paesi. Mette alla prova la capacità di ascolto, lettura e lingua, parlata e scritta, e può essere sostenuto anche via internet in uno dei 4.500 centri autorizzati, sparsi in 165 Stati. Il costo varia fra 160 e 250 dollari: numerose le offerte di corsi specifici per la preparazione alla prova.
Cambiando idioma, per il francese è richiesto il Dalf ( www.alliancefr.it): l’esame si può sostenere presso i centri di promozione della lingua francese in Italia (Centre culturel français e Alliance française). In Spagna è richiesto il Dele (diplomas.cervantes.es), rilasciato dall’Istituto Cervantes, mentre in Germania tutte le università riconoscono il TestDaf ( www.testdaf.de), rilasciato dal Goethe Institute. È infine necessario ricordare che per alcuni master viene richiesta oltre a una prova di lingua, anche una specifica prova di padronanza dell’idioma, come il Gmat (Graduate management admission test) o il Gre (Graduate record examination).

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«Una tesi sperimentale con l’obiettivo di tornare», Francesco Nariello
Un periodo di studio all’estero è ormai un tassello sempre più importante di un percorso universitario. Ma come sfruttare al meglio l’esperienza fuori dai confini nazionali? Prima di partire è utile capire quali siano le scelte giuste per arricchire al massimo il proprio bagaglio di competenze e garantirsi un curriculum più appetibile in ottica lavorativa.
A individuare alcuni elementi chiave è Dario Braga, prorettore alla ricerca dell’Università di Bologna: «Prima di tutto occorre scegliere una destinazione prestigiosa nel settore d’interesse. Su questo è opportuno confrontarsi con i docenti dell’ateneo di partenza e non affidarsi a luoghi comuni». Altro elemento è la lingua. «Bisogna preferire un Paese dove imparare la lingua che serve, non solo inglese, ma anche tedesco, spagnolo o, fuori Europa, il cinese». Fondamentale, poi, è decidere quando partire. «Non bisogna andare via troppo presto – raccomanda Braga -. Per le lauree tecnico-scientifiche è preferibile farlo il più tardi possibile. La cosa migliore, spesso, è andare per la tesi sperimentale. Per materie come biologia, chimica, fisica, ingegneria è possibile apprendere tecniche nuove, usare strumenti avanzati, accedere a laboratori con attrezzature particolari». Ultima cosa: in ottica ritorno, «meglio non tagliare i ponti con l’università di provenienza».
A sottolineare l’importanza di avere trascorso un periodo fuori dall’Italia è Barbara Poggiali, vice presidente Luiss. «La competitività, oggi, è tale che non basta il voto di laurea, contano le esperienze fatte». E aver studiato all’estero è un valore aggiunto. «La prima cosa sembra banale, ma va ribadita: meglio non abitare con italiani, né frequentare solo gruppi di connazionali. Si parte, infatti, per perfezionare una lingua straniera ed entrare in contatto con altre culture». Per le lauree umanistiche, economiche o giuridiche, poi, il consiglio è: «Prima si va, meglio è – conclude Poggiali -. Andare all’estero apre la mente e permette di focalizzare i propri interessi. Partire tra secondo anno della triennale e primo della magistrale è la scelta migliore».

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Tra chi sogna di partire vince chi gioca d’anticipo. La scelta va pianificata almeno un anno prima, di Andrea Curiat

Che si voglia partecipare al progetto Erasmus, frequentare un master all’estero o iscriversi a un’università straniera sin dal liceo, la regola d’oro è sempre la stessa: prepararsi con un buon anticipo rispetto alla partenza.
Luisa Negri, partner fondatrice dell’agenzia U4You, che offre consulenza agli studenti, focalizza l’attenzione su chi intende proseguire gli studi all’estero dopo aver ottenuto la laurea triennale in Italia: «Bisogna decidere con almeno un anno di anticipo. Ad esempio, chi conta di laurearsi in estate dovrebbe cominciare a decidere la meta, l’ateneo e il corso di studi già in autunno». Solo così si può essere certi di rispettare le scadenze per la presentazione delle domande.
«Si può anche mettere in conto un intervallo tra la fine degli studi in Italia e la ripresa in un Paese straniero, ad esempio per fare uno stage, del volontariato, o per approfondire la conoscenza della lingua di destinazione», precisa Negri.
Anna Maria Padula, co-founder con Marcella Turazza di Omni Admissions, si rivolge invece agli studenti che stanno terminando gli studi al liceo e vogliono iscriversi a un’università straniera: «Le mete principali degli italiani sono Stati Uniti e Inghilterra. Nel primo caso, l’orientamento e la preparazione verso l’ammissione inizia già dal terzo anno di liceo; nel secondo, si può attendere il quarto anno».
Gli atenei americani e britannici hanno criteri di ammissione radicalmente diversi. «I college Usa – spiega Padula – cercano “persone” e non solo risultati accademici. Gli admission officer selezionano curriculum molto completi, che includano hobby, sport, attività di volontariato, corsi e stage estivi. In tal caso i criteri accademici, seppur importanti, sono valutati in un quadro complessivo più ampio. Due ulteriori elementi importanti sono il superamento dei test d’ingresso (Sat/Act) e di lingua (Toefl/Ielts) e la redazione di saggi personali e in molti casi introspettivi (essay). Si può indicare l’indirizzo di studi preferito, che può essere anche cambiato nei primi due anni di college. La domanda per i college americani può essere presentata entro il 31 dicembre, nel caso di regular decision, oppure entro il 1° novembre nel caso di early decision o di indirizzi specifici come le medical school. La common application è il sistema centralizzato online di gestione delle domande della maggior parte dei college americani ( www.commonapp.org). Le risposte, in caso di regular decision si ricevono entro aprile e si conferma l’adesione a maggio».
Il sistema inglese è molto meno flessibile: «Il criterio di selezione è quasi esclusivamente accademico. Gli studenti italiani possono in questo senso essere svantaggiati perché i voti dall’8 al 10 non sono dati con generosità nei nostri licei. Si fa domanda di ammissione non a una specifica università ma a uno specifico corso di laurea, il che obbliga lo studente ad avere idee molto chiare fin dall’inizio. Anche in Uk è indispensabile il superamento di un test di lingua (Ielts) e la redazione di un personal statement. Le domande di ammissione vanno presentate entro il 15 gennaio attraverso Ucas ( www.ucas.com). Le risposte arrivano entro maggio, ma nella maggior parte dei casi sono “condizionate” all’effettivo conseguimento del voto di maturità stimato in anticipo dal liceo (predicted grade) ed inserito nella domanda», conclude Padula.
E sul tempo di permanenza oltreconfine? «Consiglio un periodo sufficientemente lungo – risponde Giancarlo Spinelli, delegato per le relazioni internazionali del Politecnico di Milano – e poi è bene non cercare dei corsi simili a quelli italiani. Al contrario, bisognerebbe cogliere l’occasione per frequentare lezioni il più possibile inedite in Italia».
Ma andare a studiare all’estero (con tutte le spese del caso), conviene davvero? «Sono convinto di sì. Le aziende cercano persone con un mentalità internazionale, capaci di muoversi all’estero. I benefici per il curriculum sono tangibili, a prescindere dall’ambito disciplinare in cui ci si muove».
Luigi Verolino, direttore del centro di orientamento Softel della Federico II di Napoli, suggerisce agli studenti alle prime armi un approccio cauto: «Ai ragazzi consiglio sempre di conseguire la laurea triennale, e solo in seguito di fare un master o un Erasmus all’estero. Nei primi anni di formazione, meglio dare la priorità all’acquisizione di un metodo di studio consolidato». Nonostante questa premessa, Verolin è convinto che «in un secondo momento, fare un’esperienza all’estero diventa fondamentale. Purtroppo le percentuali di studenti che scelgono la mobilità sono ancora basse. Però c’è stato un trend al rialzo: negli ultimi anni siamo saliti dal 2,5% all’8,5%».
Luciano Saso, delegato per la mobilità del rettore della Sapienza di Roma, è di simile avviso: «Chi va all’estero troppo presto può disperdere le proprie energie: meglio aspettare almeno il secondo anno». Secondo Saso, «la mobilità va pianificata con attenzione. L’importante è non precipitarsi a fare domanda solo perché ci si è accorti che il bando sta per scadere». Per raccogliere informazioni utili prima della partenza, il docente consiglia ai ragazzi di affidarsi alle stesse università di appartenenza: «Molti atenei organizzano giornate informative in cui spiegano i meccanismi della mobilità e illustrano le borse di studio. Anche attraverso il web si possono raccogliere informazioni sui programmi e la qualità delle università straniere».

Il Sole 24 Ore 18.11.13

“Tutti i rischi per il governo”, di Claudio Sardo

Si può comprendere la soddisfazione di Enrico Letta: la scissione del Pdl produce una de-berlusconizzazione del governo. Era il risultato politico che si prefiggeva il 2 ottobre scorso e che poi la giravolta del Cavaliere sul voto di fiducia è riuscito a intorbidare. Ma ritenere che il passaggio dalle «larghe» alle «piccole» intese costituisca di per sé il viatico, anzi il propellente, per giungere al voto nel 2015 è ingenuo e superficiale. Nuovi rischi, infatti, si materializzano sul percorso dell’esecutivo. Certo, Letta si è preso una rivincita su chi lo aveva avversato – tra questi, non pochi opinionisti di sinistra da tempo subalterni alla propaganda grillina – sostenendo che il suo era il governo dell’inciucio, che la vera finalità era il salvacondotto per Berlusconi, che il Cavaliere mai avrebbe mollato la presa su questo esecutivo perché rappresentava per lui l’assicurazione sulla vita. Tutto ciò è stato smentito dalla frattura del Pdl, che si è prodotta appunto sulle conseguenze politiche della decadenza di Berlusconi da senatore. La parte che si è raccolta attorno ad Alfano ha accettato l’impostazione di Letta: le vicende giudiziarie vanno separate dai destini del governo. E, al momento, sembra disporre dei voti sufficienti per garantire la maggioranza parlamentare.
Non è poca cosa aver sciolto l’ambiguità, che da oltre un mese consentiva a Berlusconi di tenere in sospeso l’esito del voto di fiducia di ottobre. Non è poco cosa perché la legge di Stabilità è sotto un tiro incrociato – da una parte le forze sociali che chiedono politiche espansive, dall’altra la Commissione europea che pretende maggior rigore nella riduzione del debito pubblico -, perché il caso Cancellieri potrebbe diventare esplosivo se la Procura indagasse il ministro per dichiarazioni mendaci, perché questo Paese in difficoltà ha bisogno di un governo capace di decisioni più rapide ed efficaci. Ma è proprio qui che sorgono i dubbi: la maggior coesione nella maggioranza non assicura da sola la solidità necessaria per affrontare la sfida interna ed europea.

La prima questione complicata riguarda proprio il nuovo profilo del governo È vero che, a dispetto dell’etichetta delle «larghe intese», questo è stato fin dall’inizio un governo senza intese. Governo d’emergenza, benché affidato a uomini di partito e non più a tecnici. Ora si è aperto lo spazio per condividere alcuni obiettivi di fondo: evitare che una nuova tempesta speculativa si abbatta sull’Italia a causa della nostra instabilità, sostenere con le risorse disponibili la ripresa del mercato interno, delineare un programma per il semestre di presidenza Ue che abbia al centro la modifica delle politiche recessive di Bruxelles, attuare finalmente quelle riforme elettorali e istituzionali che scongiurino un altro esito nullo delle elezioni. Ma sarebbe un grave errore da parte di Letta, e dei suoi sostenitori, insistere sulla natura «politica» della nuova maggioranza. Questo non può che restare un governo di necessità. E non deve attenuare il carattere alternativo delle forze che lo compongono.

Conosco l’obiezione, che viene dal fronte opposto al radicalismo oggi di moda: i partiti che non sono capaci di stipulare un trasparente compromesso in Parlamento, non saranno neppure capaci di dar vita a una vera democrazia dell’alternanza. Il principio è giusto. Oggi, però, è proprio la democrazia dell’alternanza che rischia di rimanere offuscata all’orizzonte. E sarebbe imprudente, oltre che improduttivo, avventurarsi propri adesso in un patto politico, mentre Berlusconi scalda i motori della prossima campagna elettorale all’insegna di un populismo di destra e anti-europeo, mentre la Lega e Grillo già si contendono i posti accanto alla signora Le Pen, mentre il congresso del Pd, giustamente, pone a tema la costruzione dell’alternativa di centrosinistra alle prossime politiche.

Meglio concentrare gli sforzi sulle cose da fare. Che non sono poche, né poco importanti. Non è accettabile che l’Italia venga esclusa dalla «clausola di flessibilità», che consente una quota di investimenti fuori dal conteggio del deficit di bilancio. Non è accettabile che le correzioni chieste dall’Europa abbiano effetti recessivi e deflazionistici. Non è accettabile che le politiche sociali (equità, sostegno a chi ha più bisogno) siano azzerate. Ancor più è inaccettabile che sulla legge elettorale, e sulle parziali riforme necessarie a stabilizzare i governi (a partire dalla differenziazione del ruolo delle due Camere), prosegua lo stallo. Se non produrrà risultati in questi terreni decisivi, il governo non ce la farà ad arrivare alla fine del 2014.
Berlusconi all’opposizione è temibile anzitutto perché, con Grillo e la Lega, rafforzerà il fronte anti-europeo come non è mai stato nella nostra storia repubblicana. Né si può sottovalutare il proposito Berlusconi di ricomporre, in chiave elettorale, il centrodestra da Alfano a Maroni. Persino la mini-scissione di Scelta civica è in grado di dare un contributo di destabilizzazione, soprattutto in Senato dove la maggioranza è più risicata.

E poi c’è il Pd che uscirà dalle primarie dell’8 dicembre. Nessun mistero che Renzi preferirebbe votare. Come Cuperlo, si è però impegnato a sostenere e incalzare Letta fino alla fine del 2014. Gli impegni sono attesi alla prova dei fatti e le valutazioni di opportunità possono cambiare. Resta un problema molto serio: se non si cambia il Porcellum, se non si riforma il sistema politico, il neocentrismo di «necessità» può prolungarsi anche nella prossima legislatura. E rischia di far svanire la democrazia dell’alternanza dietro un confuso polverone di populismo e frammentazione. C’è un compito del governo di oggi. E c’è un compito di chi prepara il cambiamento di domani. Lo stallo può far vincere chi scommette sullo sfascio.

L’Unità 18.11.13