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“Doris Lessing, la rossa”, di Enrico Palandri

Nata in Iran nel 1919 e cresciuta in Zimbabwe (all’epoca Rhodesia), dove è ambientato il suo primo romanzo «L’erba canta», l’autrice ha vissuto a Londra per oltre mezzo secolo. Tra i suoi titoli più celebri, il romanzo «Il taccuino d’oro», da molti considerato un classico della letteratura femminista. Di Doris Lessing, morta ieri a 94 anni, gli inglesi citano sempre la battuta con cui ha accolto la notizia del Nobel del 2007. “Christ!” un po’seccata. Ha poi ulteriormente sottolineato la sprezzatura per l’onore conferitole dicendo che, non potendoglielo dare da morta glielo avevano dato a 88 anni, e altri commenti simili. Il discorso tenuto a Stoccolma si intitolava On not winning the Nobel Prize. Sul non vincere il premio Nobel.
Certo fanno più simpatia le risposte di questo genere, eccentriche e sarcastiche, che non gli inchini commossi di chi, sentendosi profondamente meritorio, ringrazia pomposamente trasformando il mondo in uno specchio dell’ottima opinione che si ha di sé. Viene in mente la splendida battuta di Leo Longanesi: i premi non basta non vincerli, bisogna non meritarli. Altrimenti gli scrittori non sono altro che bravi scolaretti, pronti a mettersi in fila per un bel voto dato dalla maestra.
Nel caso di Doris Lessing però la faccenda è più lunga e complicata. Nella sua biografia si mescolano motivi e itinerari intellettuali che ne fanno una incarnazione faticosa di quello che Londra è stata nel dopoguerra, qualcosa di davvero diverso da un bravo scolaretto.
Nata Tayler nel 1919 a Kemanshah, in Iran, da un ufficiale inglese che aveva subito svariate amputazioni durante la prima guerra mondiale, si trasferì in Rodesia (l’attuale Zimbabwe) nel 1925. Sua madre sognava una vita da colono, ma la famiglia non era sufficientemente ricca, dagli ettari e ettari di terra acquistati non si riuscì mai a ricavare una rendita sufficiente per trasformare il territorio in veri campi agricoli.
Qui ci sono già i primi nodi tematici del suo lavoro: un femminismo che lei rifiuterà di sostenere, pur diventandone un simbolo soprattutto con The Golden Notebook (Il taccuino d’oro, 1964), ma che ha fin dall’inizio un personalissimo rovello, e cioè che la madre non sia davvero la vittima e anzi, la relazione conflittuale con lei sia una delle basi della propria femminilità. Tanto che, nel respingere il femminismo, arriverà in occasione di una conferenza a dire semplicemente: è ora che le donne la smettano di tormentare gli uomini!
Ispirati a questi anni saranno I racconti africani, pubblicati nel 51 (un anno dopo il suo primo libro, The grass is singing, 1950). L’educazione della Lessing era stata piuttosto approssimativa: aveva lasciato il convento di suore ad Harare a soli 14 anni. Dopo un primo matrimonio, da cui erano nati due figli, con Frank Wisdom (un nome davvero parlante che se non fosse reale potrebbe venire da uno dei suoi romanzi e si potrebbe tradurre Franco Verità), E dopo alcuni lavori piuttosto occasionali, sposerà Gottfried Lessing, un tedesco dell’Est incontrato al Left Book Club, un club di lettori di sinistra. Da lui avrà un altro figlio, Peter, ma divorzierà di nuovo per venire a Londra nel ’49. Gottfried Lessing diventerà l’ambasciatore della Ddr in Uganda e sarà ucciso nel ’79, durante la ribellione contro Dada Amin.
Doris Lessing arriva costretta a partire per le sue posizioni contro l’Apartheid e per il disarmo nucleare. Queste esperienze drammatiche formano il materiale di una prima fase della sua produzione letteraria, definita come gli anni comunisti, che si chiude come per tanti altri comunisti europei a metà degli anni ’50.
Se non si riconosce l’intensa componente ideologica della prima parte della sua vita, la distanza che lei prenderà dalle ideologie dagli anni sessanta in poi potrebbe risultare snobistica o pretestuosa. Aveva visto Hitler, Mussolini, Stalin, i loro sistemi politici e i loro discorsi crollare. Credere nelle loro riedizioni, spesso parodiche, sessantottine, era impossibile. Quando arriva a Londra è così pronta al passaggio che ne farà un’autrice di una nuova epoca.
Mentre molte sue coetanee sono infatti troppo digiune di veri conflitti politici per essere vaccinate dalle ideologie che si diffondono tra i giovani, la Lessing è in grado di fare un passaggio, verso il fantastico ma soprattutto verso la letteratura, che la pone avanti, o piuttosto «dopo» il rumore di quegli anni. La vediamo nelle fotografie alle manifestazioni antinucleari con Vanessa Redgrave, John Osborne o John Berger, ma la sua scrittura, sebbene imbevuta delle maniere del realismo sociale dell’ambiente in cui è cresciuta, è adesso intessuta di motivazioni contraddittorie, non così facilmente ascrivibile a nessun campo. Dall’infanzia orientale recupera un interesse per il sufismo, in generale per un’attenzione mistica alla realtà, e per la fantascienza.
Negli anni ’80, quando era ormai famosissima: per dimostrare la chiusura degli editori inglesi inviò al proprio editore un romanzo firmato con lo pseudonimo di Jane Somers. Il libro venne rifiutato e alla fine acquistato da un altro editore, Michael Joseph e in America da Knopf. Doris Lessing pubblicò due libri con questo pseudonimo e alcuni anni dopo li ripubblicò insieme sotto il proprio nome con il titolo I diari di Jane Somers.
L’aspetto più convincente, nonostante la sprezzatura della Lessing stessa per il femminismo, è la costruzione dei personaggi femminili nei suoi romanzi. Ricchi di riferimenti a condizioni economiche e sociali molto familiari ai londinesi, in altre parole molto realistici, la personalità delle protagoniste è fortemente autonoma, indipendente dagli uomini e dagli altri in generale. Spesso sono donne che nascono nella crisi matrimoniale e si realizzano nella separazione dal marito.
Questo per la Lessing era avvenuto nei primi due matrimoni della sua vita, in Africa. A Londra lei era nata come scrittrice e rinata come persona. Inevitabilmente la sua scrittura segnava una strada per molte. Quanto poi lei abbia respinto, tentato di prendere le distanze dalle generalizzazioni ideologiche delle sue seguaci, in fondo descrive un mondo di diversi rapporti tra i sessi che, al di là della sua auto-percezione, aveva indubbiamente aiutato a definire.

L’Unità 18.11.13

“Morto un Pdl se ne fa un altro”, di Ilvo Diamanti

Oggi più che mai occorrerebbe andare oltre il Porcellum. Per favorire la formazione di maggioranze coerenti e stabili e rafforzare il legame fra elettori ed eletti. Mentre, oggi più che mai, si assiste allo sfarinarsi dell’intero sistema partitico. A partire dal Centrodestra. Dove il Partito Personale di Silvio Berlusconi, il Pdl, è imploso. La rifondazione forzista (20 anni dopo) ha, infatti, prodotto la fondazione di un nuovo soggetto politico. Ncd: il Nuovo centro-destra.
Così, dalla divisione del Pdl, il Popolo di Silvio, sono emersi due popoli. I Berlusconiani Ultrà, guidati da Daniela Santanché, da un lato. I Diversamente Berlusconiani, guidati da Angelino Alfano, dall’altro. Gli uni (sedicenti) duri. Gli altri (sedicenti) moderati. Reciprocamente ostili e distanti. E insofferenti. Eppure entrambi “fedeli” al Capo.
Non fosse davvero aspro e lacerante il conflitto tra le due fazioni, almeno sul piano dei rapporti personali, vi sarebbe da sospettare un gioco delle parti. Fra componenti berlusconiane di lotta e di governo. Destinate, in caso di elezioni, a tornare insieme, come ha previsto lo stesso Berlusconi. Quasi una strategia di marketing e di marchi, come nell’offerta delle reti tv, per raggiungere diversi settori di mercato. Per stare sempre al governo e beneficiando, al tempo stesso, della rendita di oposizione. (Lo ha suggerito Enzo Cipolletta in una nota per l’agenzia InPiù.) D’altronde, il Porcellum spinge a costruire coalizioni ampie, le più ampie possibili, fra soggetti diversi. Più diversi che mai. Così, per vincere le elezioni, si creano alleanze che rendono difficile, in seguito, governare. Come dimostrano le legislature successive all’avvio del Porcellum. Dal 2006 a oggi. Attraversate da tensioni endemiche. Il virus della decomposizione ha contagiato anche la coalizione di centro. Vista la frattura tra Sc e l’Udc. Vista la scissione di Sc, dove alcuni parlamentari, guidati da Mauro, si sono staccati. Per riunirsi, forse, all’Udc. O, forse, ai “diversamente berlusconiani” di Alfano. Allargando, per paradosso, il peso di Berlusconi in Parlamento. Ma anche in prospettiva elettorale.
Sull’altro versante, nel Pd, le primarie non sembrano aver prodotto i benefici effetti di un anno fa. Quest’anno, d’altronde, non si tratta di eleggere il candidato premier della coalizione, ma il segretario del partito. Tuttavia, è difficile per qualsiasi partito, anche il più solido e coeso (e il Pd di questi tempi sicuramente non lo è), “sopravvivere” a oltre un anno di primarie, quasi ininterrotte. Perché le primarie accentuano, necessariamente, le divisioni interne, fra leader e componenti (correnti?). Tanto più se vengono adottati diversi modelli di competizione, che corrispondono a diversi modelli di partito. I congressi, che riflettono le logiche dell’appartenenza e dell’organizzazione “locale” dei vecchi partiti di massa. E le primarie, appunto, che evocano una logica maggioritaria e presidenzialista.
In questo modo, la scelta del segretario e degli organismi dirigenti del Pd rischia di avvenire attraverso spinte dissociative, più che associative. Indebolendo il leader, invece di rafforzarlo. D’altronde, D’Alema ha affermato all’Unità che Renzi non può – e non deve – vincere in modo troppo netto. Perché non deve «pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia».
Da ciò il contrappunto. Il centrodestra, Nuovo e Vecchio, si divide ma, in prospettiva elettorale, sembra in grado di riunirsi e di allargare la sua capacità di attrazione. Potremmo dire: morto un Pdl se ne fa un altro. Mentre il Pd si mobilita per eleggere il nuovo leader. Ma, al tempo stesso, si preoccupa di non rafforzarlo troppo.
Per questo, mai come oggi, sarebbe necessaria una legge elettorale in grado di contrastare la de-composizione in atto. Spingere al bipolarismo, se non al bipartitismo. Legittimare il leader della coalizione. Offrire agli elettori maggiori possibilità e poteri nella scelta degli eletti. I progetti in campo non mancano. Fra tutti: il doppio turno alla francese (proposto, di recente, da Giovanni Sartori insieme a Piero Ignazi e altri politologi); oltre al ritorno al Mattarellum, imperniato sull’uninominale di collegio. (Abolendo, magari, la quota proporzionale.) Si sente, altresì, parlare di ritorno al proporzionale. Un rimedio, come ha sostenuto Roberto D’Alimonte (sull’Espresso), peggiore del male. Tuttavia, dubito che il Parlamento riesca a produrre una nuova legge, diversa dal Porcellum. Anche se costretto dalla Corte Costituzionale, che, d’altronde, non mette in discussione il Porcellum in quanto tale — non potrebbe. Ma la soglia oltre cui fare scattare il premio di maggioranza, per la coalizione vincente.
D’altronde, le leggi elettorali, nel dopoguerra, sono state “cambiate” solo per via extra-parlamentare, attraverso i referendum popolari (nel 1991 e nel 1993). Oppure con un colpo di mano, come nell’autunno 2005. Quando la maggioranza di Centrodestra, allora al governo, in vista delle elezioni dell’anno seguente, propose e impose, in fretta e furia, il Porcellum. Non per vincere le elezioni: non sarebbe stato possibile. Ma per impedire all’Ulivo di prevalere largamente, come sarebbe avvenuto con il Mattarellum. E, soprattutto, per ostacolare il futuro governo. Perché il Porcellum impone la costruzione di aggregazioni ampie, anzi: le più ampie possibili. Tra partiti e partitini diversi. Più numerosi e diversi possibili. E a tutti, anche ai più piccoli, attribuisce poteri di veto e di ricatto. I listini bloccati, infine, non danno agli elettori possibilità di scelta, ma accentuano il potere dei dirigenti di partito sugli eletti.
Così, è difficile cambiare questa legge. Perché il Porcellum è per tutti il “male minore”. Oggi, infatti, nessun partito è in grado di “vincere” da solo. A destra, sinistra e al centro: sono aumentate le divisioni e i personalismi. Lo stesso M5S, con questa legge, in Parlamento, può condizionare gli altri partiti, “costretti” a governare tutti insieme. Ma può, al tempo stesso, tenere insieme i propri parlamentari. Che, fuori dal M5S, difficilmente verrebbero ricandidati.
Infine, istituire un nuovo e diverso sistema elettorale, aprirebbe le porte a nuove elezioni, eventualità temuta da tutti. Partiti e parlamentari di ogni schieramento, eletti da pochi mesi e, in maggioranza, alla prima nomina.
Per queste ragioni, nonostante i richiami del Presidente, nonostante i proclami politici e nonostante l’urgenza, ritengo improbabile, per non dire impossibile, che venga approvata una nuova legge elettorale “per via parlamentare”. Perché questi partiti e questo Parlamento sono figli del Porcellum. Come potrebbero uccidere il padre?

La Repubblica 18.11.13

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“Quei vertici in Vaticano per preparare la scissione”, di CLAUDIO TITO

L’APPUNTAMENTO era fissato sempre nello stesso luogo. Un appartamento nei pressi di Piazza Pio XII, Vaticano. Gli incontri ripetuti nel tempo. E da settembre con cadenza molto più serrata. Un gruppo centrale di ministri e rappresentanti del centrodestra e del centro non cambiava mai. A loro si aggiungevano alternativamente altri esponenti del mondo politico,
ma mai di sinistra.
NESSUNO del Pd. Ed è proprio lì che è maturata la scelta di arrivare alla frattura dentro il Pdl: gli alfaniani da una parte e i berlusconiani dall’altra. «I cattolici da una parte, i laici dall’altra», ripetevano.
A organizzare le riunioni era Monsignor Fisichella, ex cappellano di Montecitorio ed ora titolare del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Gli ospiti erano stabilmente tre membri del governo Letta: i due pidiellini Angelino Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello; e l’ex montiano Mario Mauro. In almeno una occasione si è unito anche il vicepresidente del consiglio Angelino Alfano.
L’obiettivo: provare a ricostruire l’unità politica dei cattolici. O meglio, era lo slogan utilizzato, «restituire una nuova unità politica dei credenti». Porre fine insomma alla fase degli ultimi venti anni in cui i cattolici impegnati nelle istituzioni potessero essere disseminati nei vari partiti — dalla sinistra
alla destra — per unirsi sui singoli temi. Riunire quindi gli esponenti “credenti” del centrodestra deberlusconizzato e il gruppo “centrista” di Scelta civica, quello che fa riferimento a Mauro, appunto, e anche all’Udc di Casini. E magari attrarre i cristiani che si trovano in questa fase anche nel Partito Democratico e che non gradiscono l’ascesa di Matteo Renzi e l’iscrizione al Pse. Insomma il sogno spesso invocato di una rinascita in piccolo — e ancora embrionale — di quella che fu la Democrazia Cristiana.
Dietro gli incontri a Piazza Pio XII, però, non c’era solo Monsignor Fisichella. Come spesso è accaduto in questi anni, un ruolo determinante l’ha avuto Camillo Ruini. L’ex presidente della Cei ha da tempo preso atto della fine politica di Silvio Berlusconi ed è convinto che si possa costruire un nuovo soggetto politico che interpreti in forme nuove il cattolicesimo in politica. Il messaggio lanciato ai quattro ministri era infatti sempre il medesimo: «Dare vita ad un contenitore svincolato dai due poli principali, e sicuramente non alleato con il centrosinistra». In attesa che l’eredità elettorale del Cavaliere, quel blocco sociale
e di voti custodito a Palazzo Grazioli, cada come un frutto maturo all’interno del nuovo soggetto politico. «Perché ricordatevi che se anche il Cavaliere è finito — avvertiva l’ex Vicario di Roma e ora Presidente del comitato scientifico della Fondazione Joseph Ratzinger — i voti ce l’ha». Eppure con il ministro degli Interni ed ex delfino di Berlusconi e’ stato piu’ che incoraggiante. Attraverso Fisichella gli ha fatto pervenire un messaggio esplicito: «Le sue intenzioni sono positive, vada avanti».
L’operazione guidata dunque da Ruini e dall’ex cappelano della Camera ha però provocato più di un dissidio all’interno delle sale ovattate di San Pietro. Soprattutto non ha ricevuto l’avallo della Segreteria di Stato. Anzi, molti sospettano che la Conferenza episcopale,
guidata da un altro ruiniano come Bagnasco, si sia mossa approfittando dell’assenza del successore di Bertone al vertice della Curia. Pietro Parolin, infatti, sebbene nominato da tempo, si insedierà a Roma concretamente solo oggi. E pur stando a Padova non avrebbe gradito l’interferenza di una parte della Cei nei fatti della politica italiana. Anche perché Papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sempre spiegato di volersi attenere ad una linea di “non intervento” nelle questioni dei partiti lasciando spazio al protagonismo dei laici.
Non è un caso che solo una parte dei vescovi italiani abbia assecondato i progetti “ruiniani”. Le più attive in questo senso sono state le diocesi del “Triangolo del nord”: Milano-Genova-Venezia.
Tutte e tre guidate da esponenti vicini a Don Camillo: Bagnasco, appunto, a Genova, Scola a Milano e Moraglia a Venezia. E tra le associazioni cattoliche di base è stata soprattutto Comunione e Liberazione, di cui sono esponenti di spicco proprio i ministri Lupi e Mauro (e alcuni scissionisti come Formigoni), e Rinnovamento nello Spirito Santo a promuovere l’operazione a favore del Nuovo Centrodestra. Il resto della galassia cattolica è rimasta in attesa, forse anche consapevole che alcuni equilibri all’interno della Conferenza episcopale appaiono “congelati” ma non “confermati”. Basti pensare alla semplice “proroga” concessa a Monsignor Crociata, segretario generale della Cei. O anche all’arcivescovo di Firenze Betori che potrebbe essere presto trasferito e che non ha mai nascosto una certa avversione nei confronti del sindaco fiorentino, Matteo Renzi, cattolico ma probabile leader del centrosinistra. «E’ chiaro — spiegava qualche mese fa proprio il candidato alla segretaria del Pd — che non sto simpatico all’Arcivescovo». Ed è chiaro che il disegno ruiniano punta a strappare anche una parte
consistente dei cattolici del Partito democratico, i suoi dirigenti e anche i suoi elettori, minando le basi originarie del progetto che ha unificato gli ex Ds e gli ex Ppi. Nella consapevolezza che in questa fase la tolda di comando del fronte progressista è proprio occupata da ex popolari come Letta e Renzi, non interessati ad un’operazione neocentrista, e quindi simbolicamente in grado di sgonfiare gli scenari a favore della Nuova unità dei cattolici.
E del resto non è un caso che tra i pilastri della separazione da Berlusconi ci siano quegli esponenti del Pdl che nel 2009 si sono battuti in sintonia con le richieste del mondo ecclesiastico sul caso Englaro. Allora in prima fila spiccavano proprio uomini come Lupi, Quagliariello, Sacconi. Alcuni di loro cattolici dell’ultima ora che hanno abbracciato con vigore la ragioni della Chiesa. «In quei giorni — raccontava qualche mese fa Beppe Pisanu — Sacconi mi diceva “noi cattolici non possiamo cedere sul caso di questa ragazza”. E io gli rispondevo: voi ex socialisti atei in effetti sì che siete cattolici, mica un democristiano come me…».

La Repubblica 18.11.13

“Cronache di una democrazia malata”, di Michele Ciliberto

Se uno guarda alla situazione dell’Italia in questo momento, ha la sensazione di stare assistendo, come in un laboratorio, a una crisi organica della democrazia e allo sconvolgimento di tutto un sistema politico. Non è cosa di tutti i giorni. Si tratta, in effetti, di fenomeni che vengono da lontano, e che toccano sia destra che la sinistra.
Ma che oggi si configurano con una limpidità e una chiarezza addirittura pedagogiche. Sono anche fenomeni che i classici della democrazia hanno ampiamente discusso e analizzato, senza successo bisogna aggiungere. Non è vero infatti che la storia è maestra di vita: ogni volta si ricomincia da capo.
La democrazia è, senza alcun dubbio, la migliore invenzione degli uomini per la loro organizzazione politica e sociale, ma declina e degenera quando si spezza la relazione tra «governanti» e «governati», con effetti negativi sugli uni e sugli altri. È in queste situazioni che può scattare la rivolta, l’«indignazione», la quale a sua volta può assumere varie forme: nel passato lo scontro aperto, la guerra civile, la rivoluzione; oggi la protesta, il discredito e il disprezzo verso le istituzioni, oppure il silenzio, la stanchezza, il rinchiudersi nelle forme di solitudine proprie dei tempi di crisi della democrazia.
In un Paese come il nostro in cui persiste una cultura, e un bisogno, di partecipazione questa situazione può sfociare anche in una esigenza generica e indistinta, ma radicale, di «novità». A una condizione però: che questa «novità» si presenti nei termini di una rottura netta, come l’affermazione di un «nuovo inizio» che taglia i ponti con il passato liquidando un’intera classe dirigente e, più in generale, tutta una storia. È la cosiddetta «rottamazione»: un termine brutto ma efficace, in grado di esprimere, con la sua violenza lessicale, l’ideologia di cui è figlio.
Il successo, a destra come a sinistra, di posizioni come queste ha solide radici: sgorga infatti dalle visceri della crisi organica della democrazia che stiamo attraversando. Ed è tanto più vasto quanto più essa si presenta in modo generico e indifferenziato: nelle situazioni di crisi è la questione generazionale che diventa, infatti, il contenuto o, almeno, il contenuto più importante, intorno al quale si agglutina il resto. Un solo esempio: oggi la crisi dell’Università viene presentata, anche dai suoi massimi dirigenti, come un problema generazionale. L’affermazione non è certo priva di fondamento ma è al tempo stesso grottesca, come sempre accade quando di fronte a una crisi si parte dagli epifenomeni, pur significativi, e non dalle radici.
Dalle radici occorre invece partire di fronte alle attuali convulsioni della destra e del centro, e anche ai problemi del Pd. Né c’è dubbio che oggi il problema di fondo sia costituito anzitutto dalla crisi organica della nostra democrazia che, in questi giorni, si sta ulteriormente accelerando per l’esplosione e la frantumazione dei capisaldi che, bene o male, hanno retto il nostro sistema politico negli ultimi vent’anni. È finita ormai una lunga storia; né è facile capire come la situazione evolverà, anche perché il destino dell’Italia non è più, e da molto tempo, solo nelle nostre mani.
Alcuni dati però appaiono chiari, sul piano del metodo e del contenuto. Bisogna anzitutto fare una analisi «sistemica»: qui non è in questione la sorte di un singolo partito o di uno schieramento. Si stanno logorando, e a volte spezzando, i vincoli che tengono uniti una nazione. Ed è in questo quadro che vanno situati i fenomeni che una fase di crisi organica della democrazia genera in modo naturale, ma tumultuoso e anche incontrollabile: corruzione, gravi degenerazioni, miserie da una parte; dall’altra un «ribellismo» inteso come bisogno certo indeterminato, tuttavia profondo e generalizzato, a destra e a sinistra di «novità». È un processo che coinvolge tutti gli schieramenti e che sarà destinato a radicalizzarsi ulteriormente se la crisi non verrà affrontata con mezzi adeguati.
Questo sul piano del metodo. Ma si può fare qualche considerazione anche sul piano dei contenuti, considerando la storia degli ultimi anni. Il partito «liquido» e il partito «personale» in modi diversi, ovviamente sfociano in forme autoritarie. È un dato acquisito: per molti aspetti sono facce simmetriche di uno stesso processo di degenerazione della democrazia rappresentativa. Infatti, più si restringono le basi del potere e si indeboliscono i meccanismi di controllo più aumentano i rischi di degenerazioni autoritarie e addirittura dispotiche e più duro e convulso diventa il rapporto tra «dirigenti» e «diretti» . Da questa situazione non si esce mettendo in quarantena la politica, subordinandola alla «tecnica»: al contrario, come abbiamo potuto constatare, per questa via si acuisce e si incancrenisce la crisi della democrazia. Dalla quale non si esce, né si può uscire, senza politica. Senza legami reciproci, senza vincoli, gli individui precipitano in forme di solitudine, di isolamento, di subordinazione: perdono quell’autonomia che è la condizione della loro libertà e, quindi, della democrazia. Oppure, si mettono alla coda di un capo, di un leader che sembra garantire loro, comunque, un elemento di «novità», una rottura con il passato, con la storia precedente, rifiutata come un cumulo di inganni o di errori. Sono entrambe strade senza uscita.
Democrazia vuol dire partecipazione; ma non ci può essere partecipazione senza organizzazione, cioé senza politica. Politica democratica, preciso: perché senza organizzazione non c’è democrazia. Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte: in che modo organizzare la partecipazione, nel nuovo millennio, quando si sono esaurite le forme classiche della politica di massa, inventate nel Novecento? E come trasformare in strumenti effettivi di democrazia novità come la rete, capaci di sconvolgere la vita quotidiana di milioni di individui? In che modo intercettare, da sinistra, il nucleo di verità e l’esigenza di cambiamento che è racchiuso nel sentimento di indignazione, nelle forme di ribellismo, nella ideologia della novità e della «rottamazione»? Sono problemi che gli avvenimenti di questi mesi mettono sotto i nostri occhi in modo drammatico e che riguardano tutti, la destra e la sinistra, perché coinvolgono il destino della nostra democrazia, cioè dell’Italia. Sono domande complicate, alle quali non è facile rispondere, ma è su questo limite che dobbiamo camminare se si vuole uscire dalla crisi. Personalmente sono persuaso di tre cose: la prima, che bisogna individuare risposte radicali all’altezza della crisi che stiamo attraversando, perché non è tempo né di «riformismo dall’alto» né di soluzioni politiche e sociali «neocorporative»; la seconda, che sarebbe necessario un «cervello collettivo»; la terza, fondamentale, che dobbiamo imparare la terribile lezione di questo ventennio.

L’Unità 18.11.13

“L’assalto dei nazionalisti alla debole Europa”, di Timothy Garton Ash

Concluse le elezioni tedesche, Germania e Francia lanceranno una grande iniziativa per salvare il progetto europeo dando vita, nel centenario del 1914, a un positivo contraltare alla leadership debole e confusa che portò l’Europa a scivolare nella prima guerra mondiale. Prima delle elezioni europee del maggio prossimo l’azione risoluta e l’eloquenza stimolante della coppia franco-tedesca respingeranno l’avanzata dei partiti anti-Ue in molti paesi europei.
Ve lo sognate, cari filoeuropei, ve lo sognate. Tornate con i piedi per terra. Prima di natale non avremo neppure il nuovo governo tedesco. Nei negoziati per la coalizione tedesca che dovrebbero in teoria concludersi la settimana prossima, gli affari europei vengono trattati in un sottogruppo del gruppo di lavoro sulle tematiche finanziarie denominato “regolamentazione bancaria, Europa, Euro”. Per tutti e tre i partiti in lizza, la Cdu di Angela Merkel, la bavarese Csu e l’opposizione socialdemocratica, i temi scottanti riguardano la politica interna. L’introduzione del salario minimo garantito, la politica energetica, la doppia cittadinanza, il proposto pedaggio autostradale – tutti ritenuti più importanti del futuro del continente.
I politici tedeschi sanno come vendere i propri partiti agli elettori in vista dei futuri appuntamenti alle urne. La maggior parte dei tedeschi che si accingono allo shopping natalizio non avverte la morsa della crisi dell’euro.
La disoccupazione giovanile in Germania si attesta attorno all’8 per cento, contro il 56% della Spagna. È difficile dare l’idea di quanto la crisi europea appaia lontana e non impellente all’uomo della strada a Berlino. A differenza della sua controparte madrilena, uscendo dalla metropolitana non trova fetidi cumuli di immondizia ammassati in strada.
La politica europea del futuro governo tedesco sarà il prodotto di compromessi tra tre dipartimenti di Stato – la cancelleria federale, predominante, il ministero delle finanze e il ministero degli esteri, che saranno divisi tra cristiano e socialdemocratici. La potenza europea suo malgrado leader dovrà scendere ad ulteriori compromessi con la Francia, che ha opinioni diverse su molte questioni decisive. La Francia ha inoltre un presidente debole, Francois Hollande, che non riesce ad attuare riforme nel suo Paese, figuriamoci se può contribuire a quelle altrui. La coppia franco-tedesca, attempata e sempre meno paritaria, che ha celebrato a gennaio delle nozze d’oro in tono minore e in cui a portare i pantaloni ormai è definitivamente la moglie tedesca, dovrà tener conto degli interessi di partner stimati come la Polonia, nonché delle proposte avanzate dalle istituzioni europee.
E da questa orchestra dissonante dovrebbe levarsi lo squillo di tromba che sbaraglierà gli scettici di ogni paese e mobiliterà gli europei in favore dell’Ue? Ridicolo.
Come parziale conseguenza, questa campagna elettorale europea si preannuncia la più interessante dalla prima elezione diretta del Parlamento europeo nel 1979 – perché in tutta Europa è presente una straordinaria varietà di partiti di protesta nazionalisti. Vengono definiti con scarsa fantasia “populisti”, ma questo termine ombrello non ne coglie le diversità. Con la dovuta mancanza di rispetto per l’Indipendence Party britannico e la tedesca Allianz für Deutschland contraria all’euro, è sbagliatissimo accomunarli ai neofascisti di Alba dorata in Grecia, dello Jobbik ungherese o del Fronte Nazionale francese. Lo stesso vale per i nazionalisti catalani, per non parlare del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo in Italia, che non potrebbe discostarsi maggiormente dall’estrema destra. Più vicini alla politica xenofoba del Fronte Nazionale Francese ma con molteplici varianti nazionali e sub-nazionali sono i raggruppamenti come il Vlaams Belang in Belgio, i finlandesi Finnici (fino a poco fa Veri Finnici) , il Partito Popolare danese e i cosiddetti partiti per la Libertà in Austria e in Olanda.
La settimana scorsa due dei leader più abili di queste compagini, Marine le Pen del Fronte Nazionale Francese e Geert Wilders del Partito per la Libertà olandese si sono impegnati a cercare di creare un fronte comune. Dopo un corteggiamento in primavera, a pranzo nell’elegante ristorante La Grande Cascade al Bois de Boulogne, questa strana coppia la scorsa settimana ha dato vita all’equivalente di una danza nuziale a L’Aia. «Oggi inizia la liberazione dall’elite europea, il mostro di Bruxelles», tuonava Wilders. «I partiti patriottici », aggiungeva la Pen, intendono «restituire la libertà alla nostra gente», che non vuole essere «costretta a sottoporre i bilanci alla direttrice». A Vienna quattro altri gruppi, – il Partito della Libertà austriaco, I Democratici svedesi, la Lega Nord italiana e il Vlaams Belang – hanno mosso con Marine cauti passi di valzer.
Mi meraviglierà se questi partiti non otterranno buoni risultati alle elezioni europee. Non vedo nulla da parte delle attuali leadership a Berlino, Parigi o Bruxelles (lasciamo perdere Londra) che possa verosimilmente ribaltare una grande cascade di voti. Dietro il 10/25% attribuito in genere a questi partiti nei sondaggi si cela un diffuso scontento popolare alimentato dalla disoccupazione, dall’austerity e dalla burocrazia di Bruxelles che continua a vomitare regolamenti sulle caratteristiche tecniche degli aspirapolvere e su quanta acqua si può usare per lo sciacquone. Uno dei candidati cristiano democratici tedeschi al parlamento europeo mi dice che le tesi contrarie all’euro e a Bruxelles sostenute da Allianz für Deutschland sono condivise da alcuni degli attivisti locali del suo partito.
Sono pronto a lottare contro le Pen, Wilders, Jobbik e la loro genia. Ma in presenza di questa leadership europea divisa, lenta, insipida, non mi faccio illusioni che riusciremo a fermare la cascata. Se la mia sensazione è giusta, cosa succederà?
Dato che l’elemento che unisce la maggior parte di questi partiti è il nazionalismo, potranno trovarsi in difficoltà a condividere programmi che vadano oltre la comune avversione nei confronti dell’Ue. Se avranno una forte rappresentanza in seno al Parlamento europeo, l’effetto immediato sarà quello di compattare i tradizionali raggruppamenti socialisti, conservatori e liberali. Avremo così una esplicita “grande coalizione” a Berlino, e una analoga, implicita, a Bruxelles. Il problema delle grandi coalizioni è che dal momento che i partiti tradizionali, centristi, portano il peso della responsabilità di governo, lo spazio dell’opposizione si spalanca ai partiti di protesta. D’altro canto il successo stesso degli anti-partiti potrebbe finalmente mobilitare una giovane generazione europea alla difesa di conquiste date per scontate. Non sarà un 1914, ma a distanza di cent’anni l’Europa vivrà nuovamente tempi interessanti.
Traduzione di Emilia Benghi

La Repubblica 18.11.13

Carpi (Mo) – Presentazione del libro “Due asili due storie”, di Annamaria Loschi

Presentazione del libro “Due asili, due storie”

Venerdì 22 novembre, ore 21.00
Auditorium Biblioteca Loria
Presentazione del libro a cura di Annamaria Loschi

Introduce Anna Maria Ori

Ingresso libero e gratuito

A cura di:
Associazione Memoria Storica – Centro Documentazione ed Archivio delle frazioni di Budrione e Migliarina

Con il patrocinio della Città di Carpi

“Ecco perchè la ricerca ci fa più ricchi”, di Giovanni Bignami

Finalmente abbiamo una risposta alla domanda: perché la società, specialmente la nostra spietata società capitalistica di oggi, accetta di finanziare una attività così astratta ed altruistica come la ricerca scientifica fondamentale? La risposta ce la dà, insieme ad una lezione di vision economica, uno scienziato americano, William H. Press, della gloriosa American Association for the Advancement of Science. Parte da una citazione di George Washington, l’uomo che più di due secoli fa vinse una guerra crudele come la rivoluzione americana, per poi diventare anche grande statista. Disse: «La conoscenza è, in ogni nazione, la base più sicura per la pubblica felicità ».Gli Usa ci hanno sempre creduto e sono oggi lan azione che Più investe, in termini assoluti, inR&D(Ricercae sviluppo).Mettendo In grafico per variPaesi la percentuale di Pil investita inR&D contro il numero di scienziati pe rmilione di abitanti, si vede una interessante correlazione. Al top c’è un gruppo con Paesi emergenti, come Corea e Singapore, nazione scandinave (Svezia, Finlandia…) e le classiche potenze industriali: Usa, Germania, Giappone. Secondo è un nutrito gruppo di nazioni industrializzate: Francia,Russia,Svizzera,UK,Spagna. Ultimo, il gruppo con il minor investimento inR&De (quindi) il minor numero di scienziati per abitante, che comprende nazioni «in via di sviluppo», come Cina, Turchia, etc. Indovinate dove si trova l’Italia, la patria di Leonardo, Galileo e Fermi? Nel terzo gruppo naturalmente, poco sotto l’Ungheria, che investe molto più di noi. Certo, si sa che i più ricchi investono di più in ricerca,ma lo sono perché ricercano di più ovvero spendono di più inR&D perché sono ricchi? Ecco la risposta di Press. Secondo AdamSmith, le nazioni diventavano ricche per tre fattori abilitanti la produzione: terra, lavoro e capitale. Oggi dobbiamo aggiungere due fattori: l’educazione e, soprattutto, la proprietà intellettuale, come ulteriori forme moderne di capitale,più importanti di fabbriche o macchinari. Questo cambia tutto: il Pil degli Usa sale di colpo di mezzo trilione di dollari all’anno quando se ne tiene conto. Perché allora gli investitori non si precipitano a investire in centri di ricerca fondamentale, luoghi di massima produzione di proprietà intellettuale? Semplice: i risultati devono essere di tutti,mentre gli investitori vogliono un ritorno privilegiato. Il beneficio delle scoperte scientifiche è un bene pubblico, e come tale deve essere finanziato soprattutto dallo Stato. Fatti due conti, nel caso degli Usa dal 1970 ad oggi, l’investimento pubblico in ricerca è stato responsabile addirittura dell’85% della crescita economica di quel Paese. Fin qui la risposta di Press. Micamale. Ma attenzione: questa idilliaca reazione a catena cessa quando succede,come in Italia,ciò che in gergo si chiama la tragedia del prato in comune. In un villaggio può esistere un pezzo di terra di proprietà comune, dove tutti possono mandare le proprie pecore a pascolare (o i ricercatori a ricercare) e dal quale quindi tutti traggono benefici (formaggi pecorini o proprietà intellettuali).Ma se nessuno si preoccupa di innaffiare il prato comune (pagare le tasse), perché tanto lo fanno gli altri, dopo poco, fine dei formaggi. C’è un rimedio? Sì, per fortuna, anzi tre. Comunicare, comunicare, comunicare. Cioè riuscire a spiegare ai proprietari delle pecore che i ricercatori non sono solo dei sognatori idealisti che mangiano l’erba di tutti,ma che rappresentano il miglior investimento per la qualità della vita dei loro figli. Per loro sì che vale la pena di mantenere verde il prato comune.

La Stampa 17.11.13