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Storie di uomini violenti: «L’ho picchiata, aiutatemi», di Adriana Comaschi

Ma era solo uno schiaffo. Lei sa che la sera torno stanco e continua lo stesso a stressarmi». «Quando mio figlio mi ha detto ‘papà basta fai piano’ ho capito che così non potevo andare avanti». «È vero l’ho aggredita, ma l’ho fatto per difendermi». Bisognerebbe provare a immaginarle, le espressioni dei centinaia che negli ultimi anni hanno bussato alla porta dei (pochi, 14 in tutta Italia) centri di ascolto per uomini che maltrattano le donne. Nessuno di loro si percepiva come un violento.

Italiani e stranieri, dai 35 ai 75 anni – «ma ultimamente colpisce la violenza anche tra ragazzi giovani» -, di tutte ma proprio tutte le estrazioni sociali. C’è il militare che butta a terra la moglie davanti alla bimba, e si spaventa del suo spavento, «oddio non pensavo di poter fare una cosa del genere». C’è il professionista esasperato, «non ne posso più dei litigi con la mia compagna», preoccupato di avere perso il controllo. Loro si sono fermati in tempo. Ma c’è anche il lavoratore marocchino, che solo dopo mesi di colloqui rievoca una scena agghiacciante: «Abbiamo iniziato a discutere in cucina, ero geloso e lei si è rifiutata di farmi controllare il cellulare. Ho visto che c’era un coltello, l’ho preso e gliel’ho dato addosso. Ho capito cosa stavo facendo solo quando ho visto il sangue…».

Voci tutte diverse e tutte uguali, unite dalla violenza. All’inizio solo verbale, ma poi dalle urla si passa ai piatti rotti, agli oggetti lanciati, alle sberle, agli strattonamenti. A volte al peggio. Un punto di vista che ancora manca, nel dibattito sulla violenza contro le donne. Ma che invece sarebbe fondamentale esplorare, se davvero si vuole tentare di prevenire gli esiti più terribili in tanti, troppi rapporti di coppia. È la riflessione proposta dal gruppo Abele, da 40 anni attivo nella difesa delle vittime di violenza e di sfruttamento sessuale, oggi e domani ad Avigliana (To), con un seminario che per la prima volta accende i riflettori sull’altro lato del problema. E sui centri che lo affrontano.

NEGARE E MINIMIZZARE

Lo sa bene Michela Bonora, assistente sociale. Impegnata nel progetto di training antiviolenza attivo dal 2010 nel Consultorio per uomini della Caritas di Bolzano, e insieme alla clinica Mangiagalli di Milano dove vede sfilare le vitti- me della violenza maschile, «oltre 500 l’anno. Sono questi i numeri che porto agli uomini che seguo con un collega psi- cologo, serve a riportarli a una realtà che negano». «L’approccio è sempre quello: negare e minimizzare la violenza, dire ‘è solo uno schiaffo’, spesso scaricando la responsabilità del conflitto sul-a donna», conferma Domenico Matarozzo, counselor dell’associazione Cerchio degli uomini che da quasi 5 anni ha in gestione lo sportello di ascolto per il disagio maschile, aperto dalla Provincia dentro al Centro per le relazioni e le famiglie del Comune di Torino. Si è confrontato con oltre un centinaio di uomini, i primi sono arrivati dopo aver visto il volantino nella Asl o in farmacia, poi ha funzionato il passaparola. Mesi di colloqui, per qualcuno anche l’esperienza di un lavoro di gruppo, «in cui portiamo esempi positivi su come affrontare i conflitti, gestire la propria rabbia, riconoscere le proprie emozioni». E alla fine una certezza: «C’è un netto miglioramento in chi si rivolge a noi. E le violenze fisiche cessano».

Per arrivare a questo però occorrono tempo e motivazioni, spesso date dai figli. «C’è da mettere in discussione un intero modello culturale. Da noi arrivano persone normalissime, ma impregnate di una cultura machista. Che non si manifesta solo nel rapporto con la moglie, ma sul lavoro o in altre situazioni». A spingerli lì spesso è la compagna, un avvocato un terapeuta. In altri centri le proporzioni si invertono, e si arriva più che altro ‘inviati’ da servizi sociali o Tribunale dei minori. In questi casi la negazione dell’accaduto è ancora più forte, «non ho fatto quello di cui mi accusa mia moglie, non capisco perché sono qui». Poi, magari raccontando davanti ad altri certi episodi, «è come se percepissero la violenza per la prima volta – spiega Bonora -, solo allora subentrano senso di colpa e vergogna. Ma occorrono mesi. Considerano normali certi comportamenti finché lei non va via di casa, o non vedono gli effetti fisici della violenza».

«Chi è abituato al codice della violenza, quando finisce una storia ne inizia un’altra improntata agli stessi errori – avverte allora Ornella Obert, giurista del gruppo Abele -. Ricordo poi che la durata media di un processo penale per maltrattamenti è di 8 anni: un tempo ‘congelato’ per la legge, in cui però le relazioni vanno avanti e ad esempio il coniuge violento mantiene la patria potestà. Ecco perché è fondamentale lavorare sulla prevenzione». In questo senso, «bisogna che la politica faccia la sua parte. Ha iniziato con la legge sul femicidio, che apre spiragli interessanti. Si potrebbe pensare ad esempio, quando le forze dell’ordine attuano il nuovo allontanamento da casa del marito violento, di proporgli un percorso in questi centri di ascolto».

L’Unità 13.11.13

“I danni del mito presidenzialista”, di Michele Prospero

Stallo al Senato. E sembra al momento sfumare l’ampio consenso parlamentare necessario per rimuovere la legge elettorale Calderoli. Malgrado le aggettivazioni denigratorie che sin dalla nascita l’accompagnarono, il Porcellum fu imposto dalla destra nel 2005. Fu imposto perché nelle sue forzature (premi in seggi senza alcun limite) e nelle sue finzioni (elezione diretta del premier d’Italia) apparve come un logico completamento di un disegno costituzionale che prevedeva il premierato assoluto. Un capo con il nome indicato sulla scheda, che ingaggia in solitudine la competizione elettorale per ricevere l’investitura popolare al comando. E poi un lungo elenco di deputati a fare da contorno, privi di ogni autonomia e quindi subalterni rispetto al leader che li ha nominati. Questa è l’accoppiata diabolica che il congegno introduceva. Se non si coglie la perversa funzionalità del Porcellum alla logica mitica della presidenzializzazione, con la leadership che prosciuga la rappresentanza politica e svuota le

prerogative del Parlamento, non si comprende la difficoltà odierna a rimuovere un dispositivo inquietante. Il Porcellum rimane un solido convitato di pietra perché ancora resistono ambiguamente nelle culture superstiti i miti ingannevoli di un presidenzialismo di fatto, con un capo alla ricerca dell’unzione popolare e con i fantasmi di partiti ultraleggeri a rimorchio del leader. Per questa subdola persistenza di una ideologia sconfitta, lettera morta si sono rivelati gli espliciti accenni della Consulta sul carattere incostituzionale dell’abnorme premio di maggioranza e della totale confisca del potere dei cittadini di esprimere i loro rappresentanti. Investita in modo irrituale della questione, la Corte costituzionale si trova in un dilemma. In caso di ossequio alle forme, e quindi di rinuncia a sentenziare, lascerebbe in vigore una legge del tutto incostituzionale. E, in caso di pronunciamento anomalo, la Consulta toglierebbe di mezzo una legge

incostituzionale ma svelerebbe ancora una volta lo scacco di una politica che si fa da parte e lascia decidere i nodi istituzionali più rilevanti a organi tecnici e di garanzia. A nulla sono valse le parole più volte pronunciate dal Capo dello Stato, ribadite anche ieri con l’invito alla responsabilità. Solo questa impotenza delle sollecitazioni morali del Colle la dice lunga sullo sciocco chiacchiericcio imbastito sul presidenzialismo strisciante con il quale «Re Giorgio» dominerebbe la recente storia repubblicana. Esiste in realtà un profondo vuoto della politica e, in questo clamoroso collasso, taluni margini di decisione sono ricoperti dalla sovraesposizione di organi di garanzia ma altri nodi sono lasciati incancrenire da un sistema politico sprovvisto di pensieri all’altezza della crisi.

Machiavelli spiegava che «le repubbliche irresolute» non decidono mai «se non per forza, perché la debolezza loro non le lascia mai

deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una violenza che la sospinga, stanno sempre mal sospese». È pure comprensibile che attorno alla delicata tecnica di trasformazione dei voti in seggi ogni partito nutra «alcuno dubbio» circa le clausole e le soglie da concordare per non essere troppo penalizzato. Ma quello che non è accettabile, in tempi di crisi di sistema per giunta, è che il calcolo delle convenienze travalichi la lecita cautela per seguire una ottusa resistenza che condanna alla catastrofe la repubblica.

Il Porcellum è il congegno che, quale sua ideologia ispiratrice, ha la promessa di far conoscere la sera stessa del voto il nome del premier d’Italia. Ma neppure questa semplificazione primitiva, vista come cardine del bipolarismo, ha dato i suoi frutti e nel 2008 e nel 2013 nessuna maggioranza è uscita al Senato. Se non si supera il bicameralismo perfetto, neanche un testo illiberale

come il Porcellum è in grado di sancire chi è il vincitore della tenzone elettorale.
L’ancestrale bisogno di rassicurazione, che invoca l’esistenza di un premier certo a chiusura degli scrutini è, in regimi non presidenziali, solo un ingannevole espediente retorico. Neppure in Inghilterra, patria del bipartitismo perfetto, la promessa è stata mantenuta. E in Germania al bipolarismo si affianca a intermittenza la tregua delle grandi coalizioni. Sul terreno elettorale c’è ben poco di nuovo da inventare. In Europa esistono dei collaudati modelli (francese e tedesco su tutti), basta sceglierne uno sulla base delle forze disponibili e dell’idea di sistema politico da strutturare. E lo si faccia in fretta perché il voto di febbraio, con la rottura del vecchio quadro bipolare, contiene per la politica «una violenza che la sospinga» che, se non trova risposte efficaci, è destinata ad aprire una irrimediabile frana per la tenuta della Repubblica.

L’Unità 13.11.13

“Patti di convivenza” i notai provano il rilancio”, di Francesco Grignetti

Anche i notai, nel loro piccolo, si irritano. Di fronte a una politica assolutamente incapace di venire a capo di questioni importanti, come il regime delle unioni di fatto, e visto che di una nuova legge su questo fronte non se ne vede traccia, il consiglio nazionale del notariato ha deciso un’iniziativa eclatante: il 30 novembre, sabato, in ogni capoluogo di provincia il locale consiglio distrettuale del notariato terrà le porte aperte ai cittadini per spiegare il senso e i vantaggi dei contratti di convivenza. L’hanno chiamato «Contratti di convivenza Open Day». Vuole essere una giornata di provocazione.

Il contratto di convivenza non sostituirà mai un «Pacs» o un «Dico». Più banalmente, il contratto di convivenza è uno strumento poco noto che è già previsto dalle leggi e che può servire a una coppia di fatto per regolamentare alcune materie di reciproco interesse: l’acquisto di beni in comune, la gestione delle spese ordinarie e straordinarie, la disciplina dei doni ricevuti, i rapporti economici e patrimoniali, eventuali diritti maturati dalla coppia di fatto. Con il contratto di convivenza si possono poi regolare anche le incombenze e i reciproci diritti in caso di convivenza che finisce e la disciplina relativa alla casa dove si vive. A quale membro della coppia “scoppiata” assegnare l’abitazione in caso di separazione, ad esempio.

Il contratto di convivenza non regolamenta, invece, e non potrebbe essere altrimenti non essendoci la legge, né i diritti ereditari, né i cosiddetti diritti «indisponibili». Esempio classico, l’educazione e il mantenimento dei figli. Ovviamente, ogni clausola inserita nel contratto di convivenza che sia contraria a prescrizioni di legge è nulla.

Il limite principale del contratto di convivenza, come spiega la dottrina, è nella sua natura atipica. Non può essere impugnato davanti a un magistrato. Nel caso in cui un convivente s’impegni a una data spesa, per dire, e poi non mantenga la parola, è impossibile ottenere dal tribunale il rispetto di quanto previsto dal contratto di convivenza.

Detto tutto ciò sui limiti di questo tipo di contratto, resta il valore politico e culturale della «provocazione» dei notai italiani. Il 30 novembre apriranno le porte dei loro uffici di rappresentanza perché i cittadini conoscano almeno quel poco che si può fare con le leggi che già esistono.

Ma è almeno un anno che i notai richiamano la politica alla necessità di intervenire su questo fronte dei nuovi diritti. In un congresso tenutosi a Napoli nel 2012, il consiglio nazionale del notariato ha addirittura presentato una proposta di legge per istituire i «patti di convivenza». Nulla di scandaloso. Anzi, a giudizio dei notai è stata proprio la carica di rottura che c’era nei ddl sui Pacs o sui Dico, e cioè la questione delicatissima dei rapporti gay, che ha portato alle guerre ideologiche tra destra e sinistra e quindi, in ultima analisi, alla paralisi legislativa. Con i «patti di convivenza», i notai proponevano qualcosa di molto più semplice e inoffensivo per la morale e la politica: i patti sarebbero stati sottoscritti dalle parti per regolare i rapporti economici in forma di scrittura privata, sarebbero stati autenticati dal notaio e da quest’ultimo registrati presso un Registro nazionale dei patti di convivenza e all’anagrafe del Comune di residenza, stabilendo le proprie volontà nel caso di rottura della convivenza oppure in caso di morte.

Di questi «patti di convivenza», come i notai li avevano ipotizzati non se n’è più parlato. Il classico buco nell’acqua. E ora il consiglio nazionale del notariato riparte alla carica.

La Stampa 13.11.13

“Il diritto di chi vota”, di Massimo Giannini

Non c’è riforma più tradita di quella che riguarda il sistema elettorale. I partiti ne discutono, inutilmente e strumentalmente, ormai da otto anni. Da quando il centrodestra berlusconiano, già allora dilaniato dalle contese ereditarie e dalle confusioni identitarie, impose al Parlamento e al Paese la famosa «legge porcata». Concepita in una baita delle Dolomiti dai sedicenti «saggi» dell’allora Cdl, fin troppo lucidi a dispetto dei tanti bicchierini di grappa bevuti per l’occasione. Il loro unico obiettivo era sabotare la vittoria elettorale dell’Unione di Prodi e, in subordine, espropriare gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti. Missione compiuta.
Da allora, un ceto politico sempre più impresentabile ha rinnovato ciclicamente la promessa di correggere quell’«errore », e di farsi perdonare quell’orrore. Oggi dobbiamo prendere atto che questo Parlamento non è in grado, per cinismo e opportunismo, di onorare l’impegno. In Commissione Affari Costituzionali del Senato va in onda l’ennesima, penosa messinscena. Quello che importa è solo il tornaconto dei commedianti, e non l’interesse del pubblico. Ogni gruppo recita a soggetto, anche se di malavoglia, perché il 3 dicembre arriva la temuta sentenza della Consulta. Il Pd, sostenuto da Sel e Scelta Civica, presenta la sua mozione sul doppio turno di coalizione. Naturalmente non passa. Vota no il Pdl, che ha una vaga preferenza per il proporzionale ma non ha una linea precisa, essendo ormai ridotto a un cumulo di macerie alla vigilia della danza macabra di sabato prossimo intorno al totem del Cavaliere oscuro. Vota no la Lega, che dopo averlo allegramente rottamato, intestandosi il Porcellum per la firma del suo eroico ministro Calderoli, ora ha addirittura la faccia tosta di proporre il ripristino del Mattarellum. Si astiene il Movimento 5 Stelle, che nell’entropia autoreferenziale delle nomenklature agonizzanti sguazza e spera sempre di prosperare.
Questo è lo scenario, mesto e decomposto, che si offre al popolo sovrano. Ogni partito insegue un suo «modello » per blindare, con la meccanica elettorale, i consensi che fatica a mantenere nella rappresentanza sociale. Il Porcellum è il padre di tutti i guai di questi ultimi anni: ha generato degrado istituzionale (come confermano gli scandali che attraversano l’intera Penisola) e disaffezione civile (come dimostrano i successi del primo vero partito italiano, quello degli astensionisti). Dopo aver concepito un “Frankenstein” del genere, non c’è da inventare chissà quale altro mostro. Basta scegliere tra i sistemi che fanno funzionare da quasi un secolo le grandi democrazie europee. Invece no. Gli azzeccagarbugli tricolori le provano tutte, ibridando il «tedesco», il «francese», da ultimo lo «svizzero» e l’«Ispanico».
L’ultimo «esperimento», di cui si sente parlare nei corridoi tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, sarebbe un nuovo pastrocchio che mantiene le liste bloccate (anche se più ristrette e con una rappresentanza di genere vincolata), e introduce per la Camera una soglia del 40% per accedere al premio di maggioranza di 340 seggi. Non l’eutanasia del Porcellum, ma addirittura la sua rinascita. Un Super Porcellum che, nella crisi irreversibile del sistema e nel declino inarrestabile dei grandi partiti di massa, produrrebbe l’unico effetto di non far vincere nessuno. E dunque «costituzionalizzerebbe » di fatto la formula delle Larghe Intese, alla quale un apparato politico destrutturato e tendenzialmente consociativo come il nostro tende ormai quasi per inerzia. Oltre che l’esproprio definitivo del diritto di scelta dei cittadini, questa sarebbe la morte certa del bipolarismo. Cioè dell’unico «valore» creato, indirettamente e suo malgrado, dal Ventennio berlusconiano. Per questo, a prescindere da ogni valutazione specifica sul modello del «sindaco d’Italia» caro al candidato segretario del Pd, non si può dare torto a Matteo Renzi, che sfida il suo e tutti i partiti a rinunciare ai miserabili interessi di bottega e ai mediocri compromessi al ribasso, e a puntare invece su un accordo di profilo «alto», che garantisca insieme la governabilità e l’alternanza.
Non c’è principio più giusto che questo: chi vota deve sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e chi governerà il Paese. Deve poter decidere in piena libertà chi può rappresentarlo al meglio sul territorio, e non dentro le stanze chiuse delle segreterie. E deve poter sperare che se il suo schieramento perde le elezioni una volta, può sicuramente vincerle la prossima. Senza bisogno di ricorrere a Grosse Coalizioni tanto forzose quanto improprie, che dovrebbero governare i grandi cambiamenti e invece vivacchiano di piccoli accomodamenti.
Ma questa speranza, ancora una volta, sembra destinata a naufragare. Con buona pace dei cittadini, che dai referendum di Mario Segni nei primi anni Novanta aspettano ancora una legge elettorale chiara e semplice, che consenta loro di scegliere un partito e una coalizione, un candidato premier e un deputato o un senatore da mandare in propria vece alla Camera o al Senato. E con tanti saluti a Giorgio Napolitano, che frusta i partiti dall’inizio del suo mandato al Quirinale, e che al superamento definitivo del Porcellum ha legato la sua stessa disponibilità alla rielezione. Per questo è ora di dire basta. Servono un sussulto di dignità e un’assunzione di responsabilità. Per curare la nostra democrazia ferita.
Il Pd ha di fronte due soluzioni. La prima, minimale, è il ritorno al Mattarellum. C’è il problema giuridico di come assicurare la «riviviscenza» di una legge pre-esistente? Lo si risolva. Nella patria del diritto questo è un ostacolo superabile. La seconda, più ambiziosa, è il rilancio del maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia e come lo stesso Pd aveva già deciso nel 2011. C’è il problema tecnico di come introdurlo in un regime che non prevede il semi-presidenzialismo? Lo si affronti. Nella prospettiva di un’Italia «de-berlusconizzata» anche questo non è un tabù inviolabile.
Si tratta di scegliere. E di farlo subito, con convinzione. Senza retropensieri «gran-coalizionisti» o riserve mentali correntizie. Un pregiudiziale «cui prodest» di una riforma elettorale, oggi, è solo l’ultimo sintomo, esiziale, del collasso etico-politico di un’intera classe dirigente, che vuole tenersi la «porcata» di Calderoli perché la considera la sua «polizza vita». Basterebbe riformarla, e un minuto dopo cadrebbero tutti gli alibi per non mandare a casa l’intero Parlamento e non tornare subito alle urne. Anche per questo la riforma va fatta, e subito. L’Italia, che non è la Germania, ha un disperato bisogno di tornare alla «normalità» bipolare. È vero che, in un Paese in crisi economica, non si vive di legge elettorale. Ma è altrettanto vero che, in un Paese in bancarotta morale, di Porcellum si può anche morire.

La Repubblica 13.11.13

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“Legge elettoralePdl e grillini bocciano doppio turno”, di Andrea Carugati

Mentre il presidente Napolitano invoca «un briciolo di responsabilità» per superare il Porcellum, la commissione Affari costituzionali del Senato boccia il doppio turno proposto dal Pd. Votano contro Pdl, Lega e 5Stelle. Nel Pd Renzi ribadisce il no al «Superporcellum», ovvero a una correzione proporzionale dell’attuale legge. Giuristi divisi sull’ipotesi decreto.
L’ennesima fumata nera sulla legge elettorale. E pensare che ieri in Senato si votava solo su degli ordini del giorno: nulla di vincolante, dunque. E tuttavia il fronte composto da Pdl e M5S ha affondato la proposta del Pd, che puntava sul doppio turno di coalizione: una soluzione di buon senso che prevede che se nessuno schieramento supera il 40%, si va al ballottaggio due settimane dopo tra i primi due, per decidere chi ha diritto al premio di maggioranza. Una soluzione simile a quella in suo da vent’anni per i sindaci, già sdoganata dai 35 saggi del governo guidati dal ministro Quagliariello.
Niente da fare. Ieri in commissione Affari costituzionali del Senato sono arrivati solo 11 sì: Pd, Sel e Scelta civica. Ben 10 i no (Pdl e Lega), e cinque astenuti, i grillini più il senatore Francesco Palermo del gruppo delle Autonomie. Ma al Senato l’astensione vale come voto contrario, e dunque l’odg è stato affondato. Dal Pdl, che pure professa bipolarismo a ogni piè sospinto, non arrivano spiegazioni convincenti per questo no. «Il doppio turno funziona solo se si vota per una Camera sola, altrimenti si rischia di avere maggioranze diverse nei due rami del Parlamento», spiega Donato Bruno. Lucio Malan la butta sui costi: «Votare due volte sarebbe una spesa enorme, oltre 140 milioni buttati». Motivazioni che rivelano il vero movente dei berluscones: tenersi il Porcellum. Discorso molto simile per i grillini, che in un sistema molto bipolare si troverebbero strettissimi. «Pdl irresponsabili, ha rifiutato ogni mediazione», accusa il Pd Nicola Latorre. Rinviate a data da destinarsi invece le votazioni sugli odg della Lega, che proponeva il ritorno al Mattarellum, e dei Cinquestelle, che suggerivano un modello simil-spagnolo a impianto fortemente proporzionale. La richiesta di rinvio è arrivata dal Pd, che sul Mattarellum non ha ancora una posizione chiara. La scelta dell’assemblea dei senatori, ieri a pranzo, è stata quella del rinvio, per un motivo semplice: «Oggi la nostra battaglia deve essere chiara e per il doppio turno». E tuttavia sul vecchio maggioritario tra i democratici si sta iniziando a ragionare. Del resto, come ricorda malizioso il leghista Calderoli, al Senato ci sono ben tre proposte Pd per il ritorno al Mattarellum, firmate da Finocchiaro, Esposito e dai renziani. Prima della votazione, che potrebbe slittare di una o due settimane, i democratici si ritroveranno in assemblea, per decidere il da farsi, dopo che Sel e Scelta civica si sono già detti disponibili a dire sì. «È comunque meglio del Porcellum», sintetizza la renziana Rosa Maria Di Giorgi. I grillini sembrano orientati a non votarlo. «L’odg di Calderoli ha un impianto troppo bipolare per noi», ragiona l’ex capogruppo Nicola Morra.
Tra i senatori, c’è la consapevolezza che in questo momento è praticamente impossibile arrivare a una nuova legge elettorale: troppe le incognite dentro i partiti della maggioranza, con il Pdl sull’orlo della scissione e un Pd in piena campagna congressuale. Renzi annuncia prima delle primarie di dicembre una sua proposta «sul modello del sindaco d’Italia», i suoi hanno lavorato sodo contro ogni ipotesi di ritorno al proporzionale che «costringe alle larghe intese perenni». La loro tesi ormai è la linea del gruppo, ma non mancano le polemiche. Attacca il bersaniano D’Attorre: «Speriamo che tutte queste polemiche di Renzi non siano per tenersi il Porcellum…». Gli risponde la renziana De Monte: «Studiati la linea del Pd». Giachetti intanto prosegue con lo sciopero della fame e attacca Finocchiaro: «Sua la colpa dello stallo».
«NO A UN DECRETO»
Gli occhi sono puntati sul Consiglio nazionale del Pdl del 16. Se ci sarà una scissione, con la nascita di un partito delle colombe, anche la legge elettorale potrebbe sbloccarsi. Non è un mistero che Quagliariello sia favorevole al doppio turno, dopo la riforma del bicameralismo. L’obiettivo è quello di blindare il governo fino al 2015, e di varare la legge a doppio turno dopo le riforme costituzionali. Un traguardo assai ambizioso. Renzi punta ad approfittare dello stallo in Senato per dirottare la riforma alla Camera, dove Pd, Sel e Scelta civica hanno una robusta maggioranza. Ma non sarà semplice, senza un intervento dei presidenti delle Camere, traslocare la riforma da palazzo Madama a Montecitorio.
Sullo sfondo resta l’ipotesi di un decreto del governo, ventilata due giorni fa dallo stesso premier Letta «ma solo se saranno le Camere a chiederlo». Sarebbe una novità assoluta su un tema del genere. «Una follia solo pensarlo, un golpe», dice Calderoli. E lo stesso Quagliariello frena: «Non lo faremo il decreto, ci sarebbero anche problemi per i requisiti di necessità e urgenza». Possibile invece la strada di un disegno di legge governativo. Su quale impianto? Difficile che il governo cerchi di rianimare il proporzionale con premio solo per chi supera il 40%, il cosiddetto super Porcellum decisamente inviso a Renzi. Più verosimile invece che l’esecutivo si muova sulla scia della relazione dei saggi, e cioè sul doppio turno. Questa ipotesi, però, è fortemente osteggiata dai berluscones, e prevede che ci si muova nel solco di una nuova maggioranza, formata da Pd, montiani e alfaniani. Fino a sabato l’argomento resta tabù.

L’Unità 13.11.13

“La disfida delle ventuno città che sognano di diventare capitale europea della cultura”, di Laura Montanari

Pensano tutte di poter vincere la partita e sono tante: ventuno candidature, dalla Val d’Aosta alla Sicilia. All’improvviso diventiamo un paese di possibili capitali culturali dell’Europa, per l’anno 2019. I destini si giocano tutti in questi giorni, con gli “esami” al Mibac e l’aria comincia a farsi tesa. Le città hanno tirato a lucido i programmi, qualcuno magari ci ha aggiunto anche un po’ di sogni. Hanno scomodato attori, cantanti, artisti come testimonial e trovato sponsor (che in tempi magri come questi, somiglia già a un miracolo). Nella lista delle pretendenti a diventare capitale europea della cultura ci sono nomi già celebri nel mondo come Venezia, agganciata qui al suo Nord Est, o come Perugia. Oppure quelle che cercano, per ragioni diverse, una rinascita: dall’Aquila che non ha ancora guarito le ferite del terremoto, a Siena che il terremoto l’ha vissuto in banca. In corsa anche Bergamo e Mantova, Matera. O città che non ti aspetti, come Taranto e Erice e via via tutte le altre passando da Perugia, Urbino, Matera, Siracusa eccetera. Insomma c’è un bel fermento culturale, forse a far gola non è tanto il milione e mezzo di euro che va alla candidata che vince queste primarie della cultura, ma il volano di investimenti europei o privati che quel premio mette in moto. Senza contare la vetrina del turismo, i riflettori che si accendono ossigenano albergatori, ristoratori, commercianti oltre alle casse dei musei. Così Mantova, per esempio, ha affidato la presidenza della squadra che deve guidare la città a tagliare prima delle altre il traguardo, Emma Marcegaglia, Urbino ha chiamato l’ex ministro francese Jack Lang: «Sostenere questa città come capitale della cultura è come sperare in un nuovo Rinascimento dai confini europei, è aggrapparsi a una storia non troppo remota e generosa di lasciti». Bergamo ha messo in campo il professor Silvio Garattini, il fondatore dell’istituto Mario Negri: «Presentiamo un programma in cui la cultura si declina con
il sapere scientifico non soltanto umanistico». Da Venezia e Nord est fanno sapere che puntano su una rete culturale metropolitana, sul recupero delle Ville Palladiane, su nuovi musei e circuiti artistici. E assicura Catia Tenti della segreteria generale: «Noi il milione e mezzo di euro del premio lo daremo in beneficenza». Come sarebbe, rifiutate il finanziamento? «Noi pensiamo che la politica culturale debba camminare con le proprie gambe, autosostenendosi, vogliamo creare un circuito che renda la cultura indipendente dal governo». È tempo di esami. I team messi in piedi dalle città si presentano in questi giorni davanti alla giuria del ministero per l’ammissione al secondo turno: arrivano attrezzati di dossier e di molte idee, ma devono mettere sul tavolo anche i possibili investimenti indispensabili a realizzarle, quelle idee.
Da ventuno i candidati dovranno scendere a cinque o sei, decideranno venerdì al ministero dopo aver completato il giro delle audizioni. Nel 2014 verrà decretato il vincitore che sarà ufficializzato nel 2015 e avrà tutto per prepararsi.
Intanto non mancano liti e polemiche da campanile. In Toscana per esempio, si presentano tre città e una, Grosseto, con un progetto di privati che non piace al Comune: «Facciamo il tifo per Siena», avrebbe detto il sindaco. E Bruno Valentini, neo eletto a Siena, ringrazia ma se la prende (in modo indiretto) con Pisa: «La Regione appoggia noi e il nostro piano di trasformare la cultura in un motore economico, abbiamo nel cassetto una grande iniziativa per i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci e un investimento con fondi europei per decine di milioni di euro». Ciascuno lucida l’argenteria che ha, in attesa della sentenza.

La Repubblica 13.11.13

“3.976: ecco quanti sarebbero i “Quota 96″”, di Pasquale Almirante

Manuela Ghizzoni dà nel suo blog i numeri degli aspiranti alla pensione compresi nella “Quota 96”. Ma tanti sarebbero già in uscita per effetto della legge contestata. Scrive la parlamentare Pd: “il Comitato ristretto ha preso atto dell’esito del monitoraggio: 3976. Questa platea di beneficiari è già stata depurata da coloro i quali hanno raggiunto o raggiungeranno i requisiti Fornero (mentre include ovviamente quelli che decideranno di restare in servizio, e che nella scuola rappresenta una percentuale significativa).
Come Comitato ristretto siamo riconvocati domani per approvare un nuovo testo unificato delle due proposte di legge Ghizzoni e Marzana alla luce del monitoraggio.
Ho sentito stamattina una collega affermare, alla lettura dei dati, che dovevamo festeggiare. No, non è lo stato d’animo che mi anima in questo momento. Non c’è nulla da festeggiare nell’avallo con due anni di ritardo di quanto sosteniamo dal gennaio 2012.
Sale, invece, l’amarezza. E si rafforza la consapevolezza che la distanza tra istanze della società e risposte della politica aumenta costantemente per responsabilità della seconda.”
Amara consolazione dunque per tutti, mentre un folto gruppo dei “Quota 96” va in pensione il primo settembre prossimo senza intervento alcuno della politica, ma per marea calante della stessa Legge Fornero che ha però in compenso rubato loro due anni in più di lavoro non desiderato e forse a danno anche dei ragazzi.
E in più, con questo nuovo calcolo, si dimostra la scarsa efficienza, sia del Miur, che non ha saputo dare, balbettandoli, i numeri esatti della platea interessata, e sia dell’Inps che ne aveva contati oltre 9000. Si è infatti dovuto ricorrere a una circolare inviata in tutte le scuole per avere una mappatura esatta di coloro che gravitavano tra i “Quota 96” i cui risultati solo oggi sono stati ufficializzati dall’on Ghizzoni che, a dire il vero, prese a cuora questa faccenda al suo nascere. Ma a distanza di due anni il resoconto complessivo dell’efficienza della politica non è del tutto soddisfacente.
Il 19 novembre intanto si attende la sentenza della Corte costituzionale sulla Legge Fornero, sul cui esito saranno poi gli avvocati di parte a disquisire, mentre in caso di esito favorevole si ventila pure l’ipotesi di un risarcimento danni.
Ma c’è pure un’altra spada sospesa sulla testa di questi lavoratori nelle forme della procedura di infrazione che l’Ue ha predisposto contro l’Italia perché non ha equiparato l’uscita degli uomini (65 anni) con quella della donne (61). Il timore sta nel fatto che il Governo possa, per evitare l’esborso di qualche milione di euro, innalzare a 65 anni l’età per tutti, invece di abbassare. Tra i “quota 96” non pare dunque che ci sia pace come fra gli uliveti che in questo periodo vengono bacchiati.

da La Tecnica della Scuola 12.11.13

“I crolli di Pompei. Storia di uno sfascio”, di Luca Dal Frà

Rumors, rumor di sciabole, manovre retroscniche si addensano su Pompei, celebre nel mondo più che per la sua bellezza, per l’incuria e il dilettantismo nelle italiche politiche culturali, un sito archeologico che vive una ennesima stagione ingloriosa, mentre continuano i crolli. L’ultimo è beffardamente avvenuto proprio su quella via dell’Abbondanza che tutti sanno essere maggiormente a rischio. Un crollo fortunatamente non poderoso, ma poderosamente amplificato dai media, per tirare la volata alla nomina di un direttore a Pompei figura prevista dal decreto Valore cultura -, per rilanciare una situazione in pesante stallo da due anni: a contendersi la poltrona sarebbero Fabrizio Magani e Giuseppe Scognamiglio.
Primo e probabilmente unico caso di un funzionario del Ministero degli Esteri distaccato presso una banca, Scognamiglio è stato consulente al Commercio con l’Estero, responsabile delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, è nei consigli direttivi più vari, dall’Abi a Save the children, oltre che promotore della camera di commercio italo-turca e presidente della società editoriale della banca dove è dirigente. E altro ancora, però non s’è mai occupato di cultura, e godrebbe dell’appoggio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Patroni Griffi e, a quanto pare, dello stesso presidente Enrico Letta.
Magani è invece un ottimo storico dell’arte in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A circa quattro anni dal terremoto di l’Aquila, dopo che la gestione commissariale e della Protezione civile pur potendo agire in deroga alla normativa non aveva iniziato alcuna ricostruzione, Magani è divenuto direttore regionale per l’Abruzzo e in breve tempo ha avviato molti cantieri, attraverso i regolari percorsi di legge, con precisi cronoprogrammi su cui chiedergli conto, gestiti con trasparenza sul sito ufficiale della sua direzione. Non è certo l’unico funzionario tecnico-scientifico in grado di far marciare la macchina dello Stato meglio di commissari e supermanager: ad appoggiarlo sarebbe il ministro competente Massimo Bray.
I media danno l’immagine dello scontro, oramai annoso, che in questo Paese vede opposti tecnici contro manager per la direzione di entità culturali, ma la cosa convince poco. Perché il profilo di Scognamiglio non è di un manager ma, nella migliore delle ipotesi, di un diplomatico al servizio delle banche, magari ottimo mediatore virtuoso nell’arte del compromesso, nella peggiore delle ipotesi di un lobbista. Il che non significa sia una delle due cose, ma la dice lunga su chi lo sostiene in quanto manager, mentre Magani non è un archeologo e allora perché spostarlo, rischiando di non risolvere i problemi di Pompei e riacutizzare quelli de L’Aquila.
Occorre andare oltre la querelle dei nomi per capire quella che oramai appare la più possente rogna della storia dell’archeologia, cioè Pompei e tutti i suoi guai. Siamo nel 2011, le casse svuotate dal supermanager della protezione civile Marcello Fiori per inutili lavori a dimostrarlo è anche una relazione della Corte dei Conti -, dopo i crolli quasi quotidiani che rimbalzavano sulla stampa come palle di fucile, a Pompei sembra consumarsi la sconfitta definitiva dei commissariamenti e dei supermanager culturali. Sul sito cala però una inquietante immobilità. In quel momento si comincia a parlare concretamente di 105 milioni di euro della Unione Europea (UE) da destinare a Pompei, un iter accelerato dall’allora ministro per la Coesione Territoriale, Raffaele Fitto. Di lì a poco alla Soprintendenza di Pompei viene affiancata Invitalia, con il compito di seguire gli aspetti amministrativi: è un nuovo semi-commissariamento, presentato come salvifico ma rivelatosi al di sotto delle aspettative, tanto che quasi nulla si muove.
Entra in scena Giancarlo Galan come Ministro della cultura: il suo famigerato Decreto salva Pompei, in realtà svuota ulteriormente le casse della Soprintendenza senza tuttavia intaccare i fondi Ue che non potevano essere distratti -, e scardina una parte della tutela intorno all’area archeologica, ipotizzando la creazione di edifici per il turismo da costruire in deroga alla normativa. Scende subito in campo una non meglio precisata cordata di imprenditori campani, che trova sponda politica in Scilipoti, e si mette a disposizione. Attenzione, non per dare danaro a Pompei, ma prenderne: realizzando quelle strutture che il decreto prevederebbe con soldi non loro ma pubblici (forse i 105 mln della Ue?).
Nello stesso periodo un consorzio di aziende francesi, queste sì pronte a dare di tasca loro decine di milioni di euro per ulteriori restauri sul sito vesuviano, si è dileguato nel nulla, e vagli a dar torto visto quanto accadeva altro che partecipazione dei privati, quelli che davvero vogliono dar soldi li facciamo scappare.
Entra in scena il Governo Monti, nel 2012 nasce il Grande Progetto Pompei (GPP) da realizzare con i 105 mln Ue, una gioiosa macchina da guerra con dentro 4 ministeri, la presidenza del Consiglio, sempre Invitalia e la prefettura antimafia a vegliare sui bandi perché, si disse, quelli di Pompei non dovevano essere inquinati dalla camorra, quasi gli altri bandi godessero invece di una franchigia.
Il piano, da un punto di vista archeologico curato dal Segretariato generale del Mibac, sbandiera una mezza dozzina di importanti interventi, per lo più risalenti a una decina di anni prima, all’epoca della soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, e mai realizzati nel successivo periodo della spendarella commissariale. È però un progetto culturalmente non ineccepibile: Pompei non abbisogna tanto e solo di progetti speciali ma, come dimostrano i crolli recenti, ha soprattutto urgenza, si sottolinea urgenza, di triviale manutenzione, che sarebbe ordinaria in un sito archeologico ma non si riesce a fare per la mancanza di personale specializzato. Difficile poi sfuggire all’impressione che rispetto all’ordinario i piani faraonici siano ben spendibili a livello di immagine.
Parola d’ordine del GPP è comunque «sinergie», termine che ama essere usato nelle conferenze stampa dal tempo dei socialisti craxiani che lo nobilitarono, ma fin da allora si traduce spesso o in compromessi talvolta consociativi, oppure in una macchina burocratica immobile. Forse prevedibilmente e, ahimè, anche previsto, a Pompei si verifica la seconda ipotesi: lo stallo continua.
Estate 2013, un nuovo rapporto Unesco al calor bianco minaccia velatamente di togliere il patrocinio al sito, mentre si fa reale il rischio di perdere i 105 mln UeE per scadenza termini. Si prova a correre ai ripari con il decreto Valore cultura, dove si torna all’idea di un plenipotenziario, un direttore con ampie deroghe che tanto assomiglia a un commissario straordinario. In sede parlamentare al momento della conversione in legge è aggiunto un vicedirettore, figura di non chiara funzione burocratica, dunque probabile omaggio alle larghe intese.
Oltre le buone intenzioni di tutti, il solo elenco di queste iniziative, percorse da un certo nervosismo normativo e forti incertezze politico-culturali, sembra convergere in un punto. Sorge lo spontaneo dubbio che ancora una volta il problema non sia Pompei ma i 105 mln dell’Ue, per i quali sarebbe in corso uno scontro di potere. Certo sommerso ma senza esclusione di colpi e dove si fronteggiano politica, impresa, clientelismi, allegre cordate e su cui pesa anche l’ombra della criminalità organizzata. Forse in questa luce si spiegano le titubanze, le pressioni, i minuetti istituzionali e i vestalici furori di questi giorni intorno alla nomina di un direttore per Pompei, che si troverà a dover fare in fretta e a rivedere profondamente il piano stilato due anni fa, già allora inadeguato.

L’Unità 12.11.13