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“Cinque miliardi dai capitali in Svizzera”, di Federico Fubini

Sanzioni più basse che in Austria o in Gran Bretagna, intorno al 12% delle somme rimpatriate, in cambio dei nomi dei consulenti che hanno aiutato i clienti a nascondere patrimoni in Svizzera. Un gettito supplementare per lo Stato che nel 2014 può arrivare intorno ai cinque miliardi di euro, con flussi di entrate fiscali di circa trecento milioni l’anno in seguito. E la depenalizzazione dei casi di evasione su cifre elevate, pur di invogliare i proprietari di grandi fortune ad alzare il velo sui loro fondi all’estero.
L’AGENZIA delle Entrate e il governo sono nella fase finale di preparazione delle misure per il rientro dei capitali, ma non sarà uno scudo fiscale: non è prevista tutela dell’anonimato degli italiani che fino ad ora hanno nascosto i loro soldi in Svizzera. Formalmente non sarà neppure un condono, ma una sanzione (ridotta) dopo una «dichiarazione volontaria» di chi fino ad oggi ha tenuto dei fondi in un paese che tutela il segreto bancario. Di certo però, come le varie misure di scudo, anche questa è destinata a sollevare problemi di equità: in cambio delle informazioni su se stessi e coloro che aiutano gli italiani ad evadere all’estero, chi ha evitato di pagare le tasse finora se la caverà con multe relativamente basse.
Entro il 15 dicembre l’Agenzia delle Entrate deve diffondere una circolare sul dispositivo di rientro dei capitali che scatterà nel 2014. Non esistono ancora posizioni ufficiali, ma di recente i funzionari del fisco ne hanno parlato in convegni per addetti ai lavori a più riprese. Ne emerge una scelta che potrebbe cambiare la posizione di decine di migliaia
di italiani con conti anonimi.
Molti fattori sono cambiato dall’ultimo scudo nel 2010 e fra questi uno determinante: le banche svizzere, a differenza del passato, non hanno più molto entusiasmo per clienti italiani, tedeschi o britannici in situazione illegale. Gli arresti per evasione dei banchieri di Ubs negli Stati Uniti, lo stritolamento della secolare banca Wegelin di San Gallo per lo stesso motivo, lo scandalo della lista Falciani della Hsbc di Ginevra spingono gli svizzeri a cambiare. Preferiscono conti che abbiano nome e cognome. Il costo per la loro reputazione è ormai troppo alto.
La prossima offensiva dell’Agenzia delle Entrate si inserisce in questo quadro dopo anni di avvicinamento. In silenzio, dopo la chiusura dello scudo del 2010, i proprietari di alcune grandi fortune d’Italia hanno continuato a autodenunciarsi e con loro il fisco ha negoziato accordi del tipo che ora proporrà a tutti: l’Agenzia delle Entrate applicherà le
sanzioni minime e, se non ci sono contestazioni, riducibili automaticamente di un terzo o forse più. Marco Cerrato, un avvocato tributarista socio dello studio milanese Maisto e Associati, si aspetta soprattutto «trasparenza »: i funzionari del fisco, prevede, «vorranno conoscere i meccanismi della fuoriuscita di capitali e i fiduciari che hanno organizzato le strutture off-shore». È una modalità del diritto civile simile a quella dei collaboratori di giustizia, con sconti sulle sanzioni per chi implica altre persone.
Per chi ottiene gli sconti, si tratterà di pagare le imposte sui redditi da capitale degli ultimi quattro-dieci anni (secondo le posizioni) più una sanzione del 9% del patrimonio fiscalmente rimpatriato. È probabile che il prelievo finale sarà appunto del 12%, con fluttuazioni fra il 10% e il 15% in base ai singoli casi. Nell’ultimo scudo di Giulio Tremonti era stato fra il 5% e il 7%. Negli accordi appena conclusi dalla Svizzera con Gran Bretagna, Austria e Germania invece il prelievo fluttua fra il 15 e il 25% del capitale detenuto all’estero, benché in quel caso il contribuente resti anonimo e non c’è quella che di fatto è la delazione al fisco del consulente che lo ha fatto evadere. E poiché in Svizzera oggi si contano fra 120 e 180 miliardi di euro su conti anonimi di molte decine di migliaia di italiani, se solo circa un terzo di loro si autodenuncia potrebbero rientrare circa 50 miliardi per un gettito sul 2014 di cinque. Quei 50 miliardi poi possono generare tasse sulle plusvalenze per circa 300 milioni ogni anno.
Un ruolo centrale lo avrà l’Ucifi, l’Unità centrale di contrasto all’evasione internazionale. Il suo direttore è Antonio Martino, un ex colonnello della Guardia di Finanza che ha lavorato con Francesco Greco nella Procura di Milano. Proprio Greco guida oggi una commissione sull’autoriciclaggio che studia una norma per incoraggiare le autodenunce dei più ricchi: una legge che depenalizzi la grande evasione, quella dei patrimoni sopra gli otto o nove milioni investiti offshore. Non un passo da poco, per un paese della storia (recente) dell’Italia.

La Repubblica 14.11.13

“L’egoismo del colosso tedesco”, di Andrea Bonanni

Il primo della classe finisce dietro la lavagna per eccesso di egoismo. In Europa può succedere anche questo. La Germania è stata messa sotto «inchiesta approfondita» da parte della Commissione europea per aver accumulato in modo continuativo un eccesso di surplus nella bilancia commerciale senza aver adeguatamente sviluppato la domanda interna. In altre parole: esporta troppo e soprattutto importa troppo poco dagli altri partner dell’Unione europea. CHE subiscono la sua concorrenza sui mercati esteri senza beneficiare per le proprie esportazioni di una corrispondente crescita del mercato tedesco. «Non possiamo essere messi sotto accusa per aver avuto successo», si lamenta il governo di Berlino che si sente oltraggiato. Ma in realtà non è la straordinaria performance dell’economia tedesca a finire sotto esame, quanto piuttosto l’egoismo della Germania che, comprimendo i consumi, non si presta, come potrebbe e dovrebbe, a fare da motore per le altre economie europee meno efficienti e meno competitive.
Il terzo rapporto della Commissione di Bruxelles sugli squilibri macroeconomici ha compiuto così un salto di qualità sottile ma importante. Se fino ad ora la governance economica europea si reggeva sull’applicazione un po’ meccanica di parametri solo apparentemente asettici, ora si entra nel merito di valori, come la solidarietà, che attengono alla politica più che all’economia. I successi dell’export tedesco, scrive la Commissione, «spingono l’euro a rivalutarsi e rendono così più difficile per i Paesi periferici recuperare competitività». Come già negli anni passati, la richiesta che da Bruxelles arriva a Berlino è quella di stimolare la domanda interna. Fino ad oggi era stata disattesa dalla coalizione di centro-destra. Ma ora l’apertura dell’inchiesta influirà pesantemente sui negoziati in corso per definire il programma di governo tra i conservatori di Angela Merkel e i socialdemocratici che chiedono un allargamento dei cordoni della spesa.
Le pagelle di Bruxelles sono una doccia fredda un po’ per tutti. Ben sedici governi finiscono sotto inchiesta perché sospettati di aver consentito la creazione di squilibri economici o, peggio ancora, di non aver fatto abbastanza per porre rimedio alle distorsioni già esistenti e già denunciate dalla Commissione. Tra questi, manco a dirlo, c’è anche l’Italia sulle cui fragilità la Commissione presenta un dossier severo e inquietante. E anche in questo caso l’analisi del caso italiano trascende in modo quasi impercettibile dall’economia alla politica.
Il principale fattore di distorsione per l’Italia è, come ovvio, l’enorme debito pubblico che pesa come un macigno su tutti gli aspetti dell’attività
economica. Ma l’attenzione di Bruxelles si concentra piuttosto su altri tre elementi che suscitano preoccupazione: la continua perdita di competitività del Paese, la lentezza e la «frammentarietà» con cui vengono messe in opera la riforme da troppo tempo annunciate, e infine i rischi di instabilità politica, che sono immediatamente raccolti e ingigantiti dai mercati. Paradossalmente, siamo sotto processo per colpe assolutamente opposte e simmetriche a quelle tedesche.
La perdita di quote di mercato «resta al di sopra dei parametri » e l’export italiano non è all’altezza di quello delle altre economie avanzate. Ma soprattutto «la desolante produttività continua a mantenere alto il costo unitario del lavoro nominale che è cresciuto più che nella media dei partner commerciali».
Questa immagine di un Paese in perdita di velocità è resa ancora più fosca dal lungo elenco di ritardi e inadeguatezze nelle misure annunciate. La messa in opera della riforma del mercato del lavoro «è in ritardo» e «la sua attuazione è lenta, soprattutto per quanto riguarda la modernizzazione dei servizi pubblici per il collocamento». La Giustizia non funziona ed «è necessario dare un seguito legislativo alle iniziative sull’efficienza giudiziaria e il miglioramento della gestione dei fondi Ue». La ristruttura del sistema bancario, pur iniziata, non va abbastanza in là e « pochi miglioramenti sono stati apportati alla ‘governance’ societaria delle banche». Quanto alla riforma del sistema fiscale «resta frammentaria » e il balletto delle tasse sulla casa deve essere risolto «in modo coerente».
In realtà, quello della Commissione è un pesante atto di accusa alla politica italiana che, pur avendo individuato le cose da cambiare, non riesce poi a mettere in pratica «in modo energico» le riforme annunciate e necessarie. Ed è proprio l’intrinseca fragilità del sistema politico italiano a destare la maggiore preoccupazione a Bruxelles. Lo ha detto apertamente il presidente della Commissione, Barroso, spiegando che «alcuni rischi che esistono in Italia sono di natura politica. Penso che sia importante evitare che qualunque instabilità politica metta a repentaglio le riforme ». Parole pronunciate proprio mentre, nel Parlamento italiano, è in corso l’arrembaggio alla legge di stabilità presentata dal governo.

La Repubblica 14.11.13

“La colpevole assenza dei padri diventati incapaci di educare”, di Matteo Lancini

Docente Facoltà di Psicologia Milano-Bicocca

I comportamenti delle adolescenti di Roma testimoniano in maniera evidente la «grande assenza» paterna. I dialoghi tra madre e figlia spingono a chiedersi dove fosse il padre, che funzione genitoriale svolgesse e perché non intervenisse. La crisi dell’autorità paterna, ormai sancita da decenni, apre importanti questioni. La ricontrattazione familiare ha avuto come esito una ridefinizione della figura materna, divenuta «acrobata» proprio per la straordinaria capacità di integrare funzioni tradizionali con più moderne competenze educative e professionali. Se possibile, per il padre la questione è più complessa. Da quando la crescita del bambino non avviene sotto la regia del modello educativo della colpa e della punizione somministrata per limitare il figlio nell’espressione di sé, il padre è alla ricerca di una nuova identità di ruolo.
I papà talvolta si commuovono nell’incontro precoce con il figlio, prima davanti all’ecografia e dopo in sala parto. Si inginocchiano ad altezza di bambino per adorarlo e per giocare, lo adagiano nella carrozzina o nel seggiolino della bicicletta per una passeggiata metropolitana che dona felicità al loro spirito e sollievo a quello della madre affaticata. L’arrivo dell’epoca della funzione paterna per eccellenza, l’adolescenza, fa tuttavia risuonare il pesante rimbombo dell’assenza dallo scenario educativo. È in questa fase soprattutto che il padre diviene disertore, pallido, debole, marginale, infantile, adolescente a sua volta.
Cosa è successo? La famiglia ha saputo riadattarsi molto bene al nuovo sistema educativo dell’amore verso i figli bambini, meno bene verso i figli adolescenti. L’ambivalenza e la complessità adolescenziale rendono più difficile il percorso di rivisitazione del modo di guardare alle nuove generazioni.
L’adolescenza come seconda nascita spinge i genitori a ricominciare da zero, ma non si può. Improvvisamente viene rispolverato dai padri, a volte su mandato materno, il modello educativo della propria infanzia, fino ad ora contrastato e rifiutato. L’autoritarismo e la punizione vengono promossi come strumenti privilegiati per limitare i comportamenti dei figli. Si tratta di scorciatoie educative inefficaci. Regolamentare in adolescenza bambini precedentemente adorati, sollecitati ad essere espressivi e di successo risulta impossibile. A questo punto il padre perde gli unici riferimenti in suo possesso, stordito dalla confusione di ruolo e dai continui richiami sulla necessità di porre dei limiti, rischia il ritiro, l’abbandono delle scene, proprio quando dovrebbe costituirsi come risorsa fondamentale a sostegno del dolore e della gioia della crescita.
Altre volte, purtroppo, ricorre alla violenza, e allora ci pensa l’adolescente ad eliminarlo definitivamente dalla scena educativa. Altre volte, ancora, i padri non sono mai stati presenti nella mente dei figli e quindi risulta del tutto inefficace una loro improvvisa comparsata educativa in adolescenza. Non sappiamo abbastanza della relazione intrattenuta dai padri con le figlie al centro dei fatti di cronaca di questi giorni. Sappiamo però delle possibili difficoltà che un padre incontra nell’integrare dentro di sé l’immagine femminile della bambina divenuta adolescente, soprattutto quando questa trasformazione è precoce, esibita ed agita nella società dell’immagine e del successo a tutti i costi.
In ogni caso, è fondamentale scongiurare la paralisi del ruolo paterno di fronte ai compiti di sviluppo e alle sperimentazioni dei figli adolescenti. La delega esclusiva della gestione educativa al ruolo materno può talvolta rivelarsi densa di rischi per la crescita dei figli, così come l’angosciante vicenda di Roma sembra testimoniare. I nuovi modelli educativi hanno contribuito a migliorare la relazione tra padri e figli, tuttavia non hanno saputo ancora offrire un chiaro modello di gestione di ruolo nel corso dell’adolescenza e delle sue inevitabili crisi. Il sostegno ai genitori dei nuovi adolescenti potrebbe partire dai corsi pre-parto per meglio valorizzare la funzione paterna, fin dalle origini, non solo nell’ottica di una capacità contenitiva della fatica e dell’angoscia gestazionale e post-parto materna. Potrebbe, ad esempio, essere interessante informare i genitori che il giudizio della madre è un fattore importante nell’orientare la valutazione del figlio o della figlia nei riguardi del proprio padre e che, più che in passato, l’autorità paterna dipende anche dalla presentazione effettuata dalla madre durante la crescita dei figli.

Docente Facoltà di Psicologia Milano-Bicocca

Il Corriere della Sera 13.11.13

“A trentacinque anni dalla legge gli aborti sono più che dimezzati”, di Mariella Gramaglia

Ha trentacinque anni. Quasi metà di una vita. Odiata, amata, combattuta, difesa, la legge 194 per l’interruzione di gravidanza, nella forma, è rimasta uguale a se stessa, ma nella sostanza? Dall’anno del rapimento di Aldo Moro e dell’elezione di Sandro Pertini al Quirinale a quello di Beppe Grillo e delle larghe intese, che tipo di acqua è passata sotto i ponti?
Le donne italiane studiano di più, hanno una vita sociale e lavorativa più intensa e meno falsi pudori: da ragazze è facile che chiedano consiglio alla madre, da adulte al medico o all’amica più saggia. Un dato per tutti per dire quanto l’istruzione sia importante per usare bene la contraccezione e prevenire una gravidanza indesiderata: il tasso di abortività fra le laureate è del 6 per mille, fra le donne che hanno solo la licenza elementare del 20 per mille.
Ma guardiamo più da vicino i numeri che compongono l’affresco generale.
Prima di tutto si abortisce molto di meno. Nel 2012 abbiamo raggiunto il minimo storico: 105.968 interruzioni, meno 4,9% rispetto al 2011, meno 54,9% rispetto al lontano inizio. E in nessun Paese le minorenni restano incinte così poco.
In secondo luogo, dunque, la famiglia, anche in questo caso, tiene stretti i suoi legami e non viene disgregata dalla maggiore laicità della cultura corrente. Abbiamo il tasso di abortività fra le minorenni più basso del mondo sviluppato (4,5 per mille) e, cosa ancor più straordinaria, la grande maggioranza arriva in ospedale con il consenso dei genitori, senza passare per il giudice tutelare. Più spesso in Sicilia e in Sardegna (83,6 per cento) che nel profondo Nord (Valle d’Aosta: 62,5). «Mai visto una ragazzina abbandonata a se stessa – dice un medico napoletano – se non ci sono i genitori, se non c’è il fidanzatino, almeno una zia non manca mai». Prendiamo il campione fino a 20 anni di età: la comparazione internazionale parla da sola. In Italia 6,4 per mille giovanissime donne interrompono la gravidanza, in Spagna 13,7, in Francia 15,2, in Usa 19,8, in Svezia 19,8.
Se non contassimo le immigrate, che pesano circa per il 30 per cento, il decremento sarebbe ancora più rilevante. Ma, oltre a essere più disagiate e meno informate, sono anche mediamente assai più giovani delle italiane. La crisi dell’Est e l’apertura delle frontiere cinesi, Paesi disabituati alla contraccezione, hanno avuto la loro parte. Per alcuni anni si è temuto un incremento esponenziale (8967 interruzioni nel 1995, 37.489 nel 2011) ma oggi gli stili di vita sono più omogenei ai nostri e, da un paio d’anni, la cifra si è stabilizzata intorno a quella del 2011, circa 40.000 interventi per le donne immigrate nel nostro Paese. Più meno che più.
Tutto bene, dunque? No. Lasciando per un momento da parte chi ritiene che ogni singola interruzione sia un ferita etica, restiamo alle questioni pratiche.
L’obiezione di coscienza è ormai un fiume in piena, anche se l’aborto farmacologico (Ru 486) sta scompaginano le carte. Si sottraggono all’applicazione della legge, comunque, più di due ginecologi su tre. Nel Sud si arriva a percentuali da boicottaggio, quasi il 90 per cento. L’anno nero, quello in cui l’obiezione aumenta più di dieci punti è il 2005. Perché?
In parte va in pensione la generazione dei medici dell’epopea, quella che ha affiancato il movimento femminista, che ha vissuto lo sdegno contro l’aborto clandestino. Mario Campogrande, primario stimatissimo del Sant’Anna di Torino, che ha creato attraverso colleghi e allievi, la via Subalpina alla 194, gentile, attenta alle pazienti, ma anche barricadiera quando ne vale la pena (come nel caso della sperimentazione dell’Ru486 da parte del dottor Silvio Viale) ricorda con nostalgia gli anni lontani: «Io presi posizione fin dal tempo della preparazione della legge: partecipavo a incontri con le donne, dibattiti, giravo l’Italia».
«Se ho pagato questa scelta? Onestamente no, mai. Io sono stato fortunato perché nel 1978 ero già aiuto. Partecipai al concorso da primario a Cuneo, non una città facile. Tutti sapevano che non ero obiettore, ma vinsi il concorso senza problemi e poco dopo divenni primario al Sant’Anna. Oggi sono presidente nazionale dell’associazione ostetrici e ginecologi. Sono soddisfatto della mia carriera, ma mi manca l’entusiasmo e la determinazione delle donne di allora. I medici giovani sono molto soli».
Tuttavia il 2005 è anche l’«annus horribilis» della cultura laica, quello in cui regnante Silvio Berlusconi e officiante il Cardinal Camillo Ruini, sinistre e radicali perdono il referendum contro la legge 40 sulla fecondazione assistita, che vieta la diagnosi pre-impianto e la fecondazione fuori dal matrimonio. Insomma rovescia l’intera filosofia della 194 (in proposito: Ritanna Armeni, La colpa delle donne. Ponte alle Grazie. 2006). Forse parve a molti medici un cambio di egemonia senza ritorno.
Ma nulla è mai lineare. Il 30 luglio 2009 il Consiglio d’amministrazione dell’Agenzia italiana del farmaco esprime parere favorevole all’uso dell’aborto medico (Ru 486). «A condizione di praticare un’ipocrisia: mi spiega Michele Grandolfo, epidemiologo e dirigente di ricerca all’Istituto superiore di sanità – le donne infatti dovrebbero restare ricoverate due giorni, ma il 90 per cento firma e si assume la responsabilità di uscire. Il medico non le trattiene, però questo giochino costa. Infatti – aggiunge – bisogna predisporre un piccolo reparto dedicato alla Ru 486».
Il ricorso a questo metodo, praticabile solo fino all’ottava settimana, è ancora molto minoritario, ma aumenta rapidamente: 3836 interventi il primo anno, più del doppio nel 2011.
Secondo Grandolfo è la speranza del futuro: gli aborti sarebbero più precoci e quindi meno traumatici per la donna e per il medico e il peso sulla struttura sanitaria più leggero.
Ma l’epidemiologo, benché il suo mestiere siano i numeri, ci tiene ad aggiungere altro. «Io vorrei che si ricordasse sempre l’importanza della legge sui consultori (29 luglio 1975): doveva esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti, in realtà, tranne in Piemonte (e anche lì a organici ridotti), la legge non è mai stata attuata; i consultori sono in media uno ogni 100.000 abitanti». Per Grandolfo quello che conta è «l’empowerment» delle donne: «Bisogna avere fiducia nell’autodeterminazione. Le donne sono soggetti forti, vanno favorite le loro competenze». Non sopporta, per esempio, che si dica comunemente che il medico «certifica» o «autorizza» l’interruzione di gravidanza. E’ la donna che sceglie, il medico si limita ad «attestare».
Intanto si vive in un limbo tra civiltà e arretratezza. Le liste d’attesa esistono: non di rado superano i 15 giorni e talvolta i 22. Gli aborti clandestini vengono stimati fra i 10.000 e i 15.000, di cui il 90 per cento al Sud. Qualche mese fa montò un’ansia collettiva anche nei mezzi d’informazione: aumentavano gli aborti spontanei e tutti pensarono a un ritorno delle mammane e dei loro interventi cruenti. In realtà i medici più seri spiegano che è assai aumentata l’età delle donne che tentano una gravidanza e quindi il rischio di aborto sale. Una questione che ha a che fare anche con l’aborto terapeutico, come vedremo.

La Stampa 13.11.13

Intervenire per decreto? Costituzionalisti divisi”, di Rachele Gonnelli

Scale che ripartono da dove iniziano, labirinti che evocano prospettive impossibili e circuiti infiniti. Volendo visualizzare il dibattito tortuoso sulla riforma della legge elettorale l’unico paragone che appare adatto è con i quadri di Escher. Un rompicapo e un enigma che incrocia prospettive politiche e scenari inusitati.
Si dice letteralmente «sconcertata», ad esempio, Lorenza Carlassarre, professoressa emerita di diritto costituzionale a Padova, passata dalla commissione dei saggi voluta del presidente Napolitano, da cui si è dimessa, in prima fila nell’associazione Libertà e Giustizia insieme a Gustavo Zagrebelsky. Proprio perché, a suo dire, «tutto è sovvertito, siamo in una situazione tale, con questo governo che non è negli schemi di un governo parlamentare di nessuna democrazia rappresentativa perché rappresenta gli opposti, forze che non possono esprimere una linea politica comune», che non è del tutto da escludere l’idea che il governo, di fronte al perdurare di uno stallo parlamentare sulla legge elettorale, possa intervenire per decreto. Per Carlassarre i requisiti richiesti la necessità e l’urgenza «ci sono tutti».
Stefano Ceccanti, costituzionalista del Pd vicino a Renzi, esclude il caso come «impraticabile». E snocciola: «In base all’articolo 74 ultimo…» e continua «in base alla legge 400 dell’88…». Insomma, è materia esclusiva del Parlamento, il governo non può entrarci. Anche se, ammette «il punto è politico». Se esiste una maggioranza parlamentare per cambiare la legge non c’è bisogno dell’intervento del governo, se non c’è la maggioranza, il decreto non è convertibile in legge.
È ancora più duro Pier Alberto Capotosti, ex presidente della Corte Costituzionale. Alla domanda se il governo può intervenire per decreto, risponde: «No, assolutamente». Lui non vede neanche la necessità e l’urgenza. Ma ciò che lo rende irremovibile è il sospetto che come un’ombra si insinuerebbe tra scale e corridoi del palazzo. «Il sospetto che il governo potrebbe fare una legge per sé, per perpetuarsi». E poi lo snaturamento del rapporto tra Parlamento e governo. Prevalendo il potere di quest’ultimo si metterebbe a rischio anche la forma di governo. «Forse non sarebbe anticostituzionale ma credo che il Quirinale avrebbe difficoltà a firmare una tale forzatura», ritiene Capotosti.
Però il tempo corre, si deve fare presto, l’ha detto Napolitano ieri, perché il giudizio della Consulta, atteso il 3 dicembre, è vicino. Cosa potrebbe decidere la Corte? Potrebbe abrogare in toto il Porcellum e far rivivere la legge precedente, il Mattarellum? Il no a questa ipotesi la «revivescenza» accumuna l’opinione dei costituzionalisti. Carlassarre, Capotosti, ma anche il «saggio» Luciano Violante, che la vede come «un’operazione troppo ardita». Ceccanti poi pensa che l’Alta corte non metterà proprio mano al Porcellum, si limiterà a proferire un monito e a indicare i nodi da risolvere. Monito che il Parlamento potrebbe disattendere e allora di fronte ad uno scioglimento delle Camere si tornerebbe di nuovo al voto a cavallo del «porco». Comunque per Ceccanti «sarebbe un’attività di supplenza anomala se la Corte si mettesse a riscrivere la legge».
LEGITTIMITÀ PARZIALE
L’opinione prevalente è invece che, se la Corte vorrà addentrarsi nei meandri della «porcata» di Calderoli, lo farà con una dichiarazione di legittimità parziale, annullando cioè solo le parti viziate come l’iper-premio di maggioranza senza soglia minima. Caldassarre e Capotosti spiegano che sarebbe esattamente nei compiti della Consulta e non obbligherebbe il Parlamento a rimettere le mani alla legge. «La parte residua, non toccata spiega Capotosti sarebbe come una nuova legge elettorale in grado di essere applicata subito». Sarebbe ripristinato un sistema proporzionale con soglie d’ingresso dal 2 al 4 per cento.
Negli scenari elaborati dai saggi, spalmando voti delle ultime elezioni con il Mattarellum, non ci sarebbe una maggioranza né alla Camera né al Senato perché un sistema tendenzialmente maggioritario con tre poli aggreganti non può funzionare e si avrebbe una geografia a macchie dai collegi uninominali: tre aree con diversi vincitori a seconda del maggior radicamento delle varie forze. Utilizzando invece una correzione parziale del Porcellum il cosiddetto «Super Porcellum», con un premio di maggioranza del 40-42 per cento e l’impianto proporzionale una ripartizione di seggi su tre poli probabilmente non farebbe vincere nessuno perché nessuno riuscirebbe a raggiungere la soglia. È in virtù di questa analisi che tanto Violante quanto Ceccanti, e con loro l’intero Pd, propendono per l’aggiunta di un secondo turno di ballottaggio su scala nazionale tra le due coalizioni maggiori, una sorta di spareggio con in palio il premio di maggioranza. Un sistema non molto dissimile a quello dell’elezione a sindaco nei Comuni.
Luciano Violante non è affatto convinto che non si possa raggiungere questo obiettivo, contenuto nell’ordine del giorno non approvato ieri dalla commissione Affari costituzionali del Senato, cabina di regia dei tentativi di riforma. Per Violante quella bocciatura ha un valore relativo e nessuna conseguenza. «Non c’è alcuno stallo del Parlamento dice ma solo del Senato». Perciò prima di arrivare «come ultima ratio, perché sarebbe una grave prova di impotenza del Parlamento» a un decreto sulla legge elettorale, ci sarebbero almeno altri due tentativi da fare. Primo: riproporre a Palazzo Madama un’intesa su tre cardini della nuova legge: scelta diretta dei rappresentanti da parte del cittadino-elettore, parità di genere, una maggioranza chiara che esca dalle urne. Se neanche su questo libro di intenti si dovesse trovare un accordo in grado di andare avanti, si potrebbe passare la camera di regia alla Camera, dove una maggioranza c’è. «A quel punto è il ragionamento di Violante con un testo già approvato da un ramo del Parlamento, si assumerebbe una grave responsabilità chi al Senato ne cercasse di impedire l’approvazione definitiva».
Per Capotosti però non è affatto detto che il Senato, nella sua piena autonomia, si senta condizionato a rispettare il voto della Camera. Inoltre, ricorda, «le leggi elettorali se non all’unanimità devono essere espressione della più larga maggioranza possibile, non funzionano se vengono da una prova di forza». E aggiunge: «Prova ne sia il Porcellum, legge approvata a maggioranza ricorda Per questo che non funziona».

L’Unità 13.11.13

“L’Istat fotografa le diseguaglianze della previdenza”, di Marco Ventimiglia

In questi giorni si fa un gran parlare di interventi sul sistema previdenziale nell’ambito della legge di Stabilità, per cercare di dare sollievo economico agli anziani con i trattamenti più bassi e gravare di un contributo fiscale le cosiddette pensioni d’oro. Naturalmente esiste il rischio che alla fine la montagna partorisca il classico topolino, quel che invece appare certo è che, così com’è, il sistema è fortemente squilibrato. A ribadirlo sono le cifre diffuse ieri dall’Istat, che analizzano il funzionamento della previdenza italiana nel- lo specifico territoriale. Un’indagine reativa al 2011, e quindi precedente alla discussa riforma Fornero, ma comunque capace di fotografare con efficacia le principali dinamiche previdenziale.

AUMENTO SUL 2010

Nel 2011 la spesa per prestazioni pensionistiche è stata pari a 265.976 milioni di euro. In quest’ambito la quota di spesa più elevata (30,1%) è stata eroga- ta nel Nord-Ovest, mentre valori abba- stanza simili e prossimi al 20% si sono registrati nel Sud (18,6%), nel Centro (21,4%) e nel Nord-Est (20,3%). Ed ancora, il 9,1% dei trattamenti è stato corrisposto ai pensionati delle Isole e il rimanente 0,6% a quelli che invece risiedono all’estero. Rispetto al 2010 la spesa pensionistica totale è aumentata del 2,9%. L’incremento è stato più elevato nelle Isole (3,7%), mentre in sensibile controtendenza si è mosso il dato relativo all’estero (-4%).

Oltre la metà dei pensionati che risiedono nelle Isole (il 52,7%) percepisce un reddito mensile inferiore ai 1.000 euro, mentre il 20,4% dei pensionati del Nord-Ovest beneficia di pensioni con importi superiori ai 2.000 euro. Andamenti che trovano spiegazione anche nella diversa incidenza delle tipologie pensionistiche sul territorio. Nel Nord-Ovest, infatti, le pensioni di vecchiaia assorbono il 59,8% della spesa totale, mentre quelle assistenziali soltanto il 12,9%. Una situazione ben diversa si rileva invece nelle Isole, dove l’incidenza sulla spesa è del 27,4% per le pensioni assistenziali e del 39,6% per quelle di vecchiaia.

Molto esplicativi pure i dati, a livello regionale, relativi all’incidenza dei trattamenti previdenziali sul Pil e alla ripartizione pro-capite. In particolare, l’incidenza sul Pil ha raggiunto il valore massimo in Liguria (21,25%) e il minimo (11,47%) nella provincia autonoma di Bolzano. Ma sono i pensionati del Lazio che percepiscono il reddito pensionistico mediamente più elevato (18.885 euro), superiore del 40% a quel- lo dei pensionati della Basilicata (13.486 euro), l’importo più basso tra le regioni italiane. Inoltre, in Calabria si rileva il valore più elevato del rapporto tra pensionati e occupati: 88,1 pensionati ogni 100 occupati. Il valore più basso si osserva invece in Trentino Al- to Adige, con 57,1 pensionati ogni 100 occupati.

Oltre al rapporto previdenziale dell’Istat, vanno registrate le parole del presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che pur «non amando le contrapposizioni tra diverse categorie di lavoratori e pensionati», ritiene che in questo momento, anche se la situazione è destinata a cambiare, gli immi- grati «pagano tanto» in previdenza e «ricevono poco». Un’affermazione che si basa innanzitutto su un’evidenza statistica, visto che i pensionati stranieri sono soltanto 30.000 su 2 milioni di stranieri iscritti all’Inps. Intervenuto al convegno «Il lavoro è cittadinanza» presso la Camera di Commercio di Milano, il presidente dell’Inps ha invitato dunque a ragionare secondo il modello «universale e solidaristico» alla base dell’Inps. «Mi rifiuto di vedere gli immi- grati come persone che pagano le pensioni degli italiani. È riduttivo, i lavoratori in Italia sono tutti uguali anche se è chiaro che poi noi studiamo le varie tendenze». Mastrapasqua ha sottolineato che il contributo degli stranieri in termini di apporto al Prodotto inter- no lordo del nostro Paese è pari al 10 per cento.

Il presidente dell’Inps ha anche parlato delle difficoltà legate ai trattati internazionali sulla reciprocità dei contributi. «Dobbiamo avere il coraggio di superare questo eccesso di rigore nei nu- meri – ha spiegato – sarebbe un segnale vero di un mondo unito». Di accordi di reciprocità ce ne sono pochissimi, ha ricordato Mastrapasqua, ribadendo l’impegno del Governo contenuto nel piano “Destinazione Italia”, ma citando anche il caso delle Filippine, il cui accordo di reciprocità da 20 anni non viene convertito in legge dal nostro Parlamento.

L’Unità 13-11-13

“Il prezzo della scissione”, di Piero Ignazi

Gli scontri all’interno della corte berlusconiana sembrano svolgersi in una cornice da ancien régime: chi viene cacciato dal re subisce l’ostracismo e l’esilio, e per lui non c’è altra sorte della solitudine e della miseria. Il Cavaliere ha evocato la fine mesta della ribellione di Gianfranco Fini per esorcizzare l’ipotesi di una scissione da parte dei “governativi” di Angelino Alfano. Ma è rimasto fermo allo schema vincente del dicembre 2010, quando si affermò per una manciata di voti. E rimuove i dati di realtà emersi in questi ultimi anni.
Il primo fatto dissonante riguarda il diverso assetto politico rispetto a tre anni fa. Allora Berlusconi era a capo del governo e gestiva tutte le risorse che derivavano da tale posizione. Abbandonare il Cavaliere in quella fase comportava un allontanamento dal locus del potere. Di fronte ad un Pd ancora ripiegato su stesso per le ferite della sconfitta elettorale e per gli strascichi del passaggio di consegne da Veltroni a Bersani via Franceschini, Berlusconi appariva il Re Sole della politica italiana.
In secondo luogo, Gianfranco Fini non solo veniva da un’altra storia, ma indicava una via nuova, ideologicamente lontana dal populismo forzaleghista, ancora in gestazione e non ben compresa – e forse nemmeno tanto appetibile – ad un mondo cresciuto all’ombra del Cavaliere. In più, era curioso e di difficile metabolizzazione che l’ex-fascista scavalcasse a sinistra il “campione della libertà”. Tutto questo disorientava l’elettorato moderato e, al netto dei successivi errori di Futuro e Libertà, i cattivi risultati si sono visti. Alfano e i suoi, invece, non costituiscono una componente estranea alla storia del Cavaliere. Ne sono parte integrante e sono (stati) legati a lui da fortissimi legami, anche personali. Il loro distacco incide nel corpo del partito: non rappresentano una scheggia impazzita o una anomalia. Inoltre, per quanto Fli abbia raccolto solo delle briciole alle ultime elezioni, quella rottura ha contribuito a disaffezionare gli elettori del centro-destra nei confronti del Pdl e del suo leader. La perdita di 6 milioni e mezzo di voti si deve anche allo sconcerto per una immagine di divisioni e spaccature interne. Tanto più in un partito che faceva dell’amore e dei buoni sentimenti una bandiera, contro i nemici della sinistra che «sanno solo odiare».
In terzo luogo, Berlusconi pensa di ridurre a più miti consigli il drappello dei contestatori ricordando loro la sua capacità di mobilitazione alle ultime elezioni. Anche qui il Cavaliere dimostra di non avere capito cosa sia successo con il terremoto del voto di febbraio. Non solo il Pdl ha trovato un competitore imprevisto e inafferrabile come i 5 Stelle che con molta maggior energia e credibilità sollecitano alcune corde sensibili di un elettorato moderato poco identificato con il Cavaliere. Ma soprattutto, dopo l’irruzione di Grillo, non ci sarà più uno scontro frontale con la sinistra, perché i moderati – che in Italia, spesso, sono i più arrabbiati (ma questa è un’altra storia) – hanno un’altra opzione elettorale.
Infine, e strettamente connesso con quest’ultimo aspetto, la base sociale che ha sorretto la destra in questo ventennio si sta sfaldando. All’origine del successo berlusconiano c’era una società animata da uno slancio vitalistico e fattivo, con una esaltazione dell’intrapresa e dell’individualità, in un clima di ottimismo e persino di disinvoltura. Una società dai mille impieghi, insofferente di uno Stato impiccione e di Chiese invadenti, volta alla espressione del sé in forme anche sregolate ed anarcoidi, con tratti persino gaudenti. Di quella società non sono rimasti altro che degli scampoli. La lunga crisi ha annichilito le basi strutturali su cui si reggeva quel clima di opinione. Il sole in tasca del Venditore si è spento, e il ritorno a Forza Italia si riduce ad un mesto ripiegarsi sui bei tempi che furono e che non torneranno.
Per tutte queste ragioni la separazione di una componente moderata che assicuri stabilità al governo Letta non sarà senza costi per il Cavaliere. Gli elettori di centrodestra vogliono la stabilità e difficilmente condanneranno senz’appello chi la garantirà.

La Repubblica 13-11-13