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“La ricetta per i Beni Culturali”, di Luca Del Frà

“Un’ottima relazione”: pacato come sempre nel tono di voce, il Ministro per i beni, le attività culturali e il turismo Massimo Bray non ha nascosto la sua soddisfazione ieri mattina durante la presentazione del lavoro della Commissione per la Riforma del dicastero da lui retto. È stata una conferenza stampa particolare, senza che ai giornalisti fosse fornito il testo della relazione ma solo dopo, via mail, un asciutto comunicato, mentre alcuni relatori che facevano parte della Commissione hanno illustrato a modo loro il contenuto delle proposte per rilanciare il Mibact: «Un lavoro di 2 mesi, con 29 audizioni, tra le quali quelle di molte associazioni, dei sindacati e anche del coordinamento dei precari e 8 riunioni ha spiegato il presidente della Commissione D’Alberti -. Abbiamo trovato grandi professionalità all’interno del ministero, ma anche dei limiti nella struttura centrale per la sovrapposizione di competenze e inefficienze».
Giurista e professore universitario considerato molto vicino a Salvatore Settis, D’Alberti è in certo senso il padre della Relazione e ha infatti spiegato come le direzioni generali e regionali possano scendere da 29 a 24, di cui circa una decina delle centrali dotate di maggiori poteri.
Il tutto in obbedienza alla Spending review e dunque al taglio di alcuni cospicui stipendi di direttore generale, ma anche con l’intenzione di rendere più efficiente la macchina ministeriale, e puntando anche sull’innovazione e sul personale e la sua formazione (che lascia perplessi considerando l’alta et à media dei dipendenti), per cui verrebbero create due nuove direzioni generali, cui se ne aggiungerebbe un’altra per il bilancio. «Un’apposita direzione, dovrebbe poi occuparsi della tutela di tutto il patrimonio culturale e paesaggistico, che significa ha continuato D’Alberti anche valorizzazione. Si dovrebbero aggiungere una direzione per Archivi e Biblioteche, una che gestisca gli istituti periferici e i musei, una per lo Spettacolo e una o due per il Turismo. Accanto a queste ci sono le direzioni regionali, attualmente 17 ma che scenderebbero a 14».
Il che comporterebbe sia l’abolizione della direzione alla valorizzazione, voluta dall’allora ministro Bondi per Mario Resca e che tante polemiche ha causato, sia l’accorpamento di cinema e spettacolo dal vivo e infine una nuova sistemazione dei beni culturali e del paesaggio. Buona parte dei suggerimenti contenuti nella relazione potranno diventare operativi grazie a un semplice decreto legge, mentre per la riduzione delle direzioni regionali, che implica un intervento legislativo probabilmente verrà presentato un emendamento alla Legge di stabilità.
Paolo Baratta, presidente di Biennale e membro della commissione ha ricordato come la Relazione si muova in direzione della riforma della pubblica amministrazione «vigente in Italia dal ’93, quindi da vent’anni. Pur imperfetta questa Relazione, segna comunque un passaggio importante». E di questo si è detto convinto anche il ministro Bray, perché: «Tornare a mettere al centro del Mibact la tutela del patrimonio culturale come conoscenza e capacità di promuovere la cultura, non è compito solo del ministero ma del paese, perché è sul patrimonio che si può costruire un futuro differente».
Più delicate la situazione del Segretariato generale, potentissimo ufficio di coordinamento del Mibact, sulla cui sopravvivenza futura la Relazione lascia molti margini di dubbio, così come sulla creazione di una nuova ma non precisata Unità di controllo alle strette dipendenze del ministro.
I tempi sono stretti, il 31 dicembre scadono i termini per l’attuazione della Spending review, e a giorni Bray ha annunciato che presenterà la proposta di riforma in consiglio dei ministri. Non mancheranno scontri e polemiche, come peraltro già avvenuto durante le audizioni: tra gli argomenti caldi, la scorporazione dei musei dalle sovrintendenze in direzione di una maggiore autonomia è un abbandono? da realizzare però con il contratto per i dipendenti bloccato, nonché la maggior forza data alle direzioni generali centrali con il mantenimento delle direzioni regionali che, pur ridotte nel numero, appaiono un «instrumentum regni» irrinunciabile.

L’Unità 06.11.13

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Più autonomia alle biblioteche, digitalizzazione e legami stretti con il turismo Scuole e musei sponsorizzati, la riforma di Bray
di Paolo Conti

Il ministero dei Beni culturali si ripensa e guarda al futuro partendo dal nostro straordinario passato. Dice il ministro Massimo Bray: «Tornare a mettere al centro la tutela del patrimonio culturale come conoscenza e capacità di promuovere la cultura non è compito solo del ministero ma del Paese perché è sul patrimonio, con uno stretto collegamento con lo sviluppo del turismo, che si può costruire un futuro differente. Non vedo altre prospettive per i troppi giovani che progettano di costruire il loro futuro lontano da qui…»
Bray ha esposto ieri mattina il risultato del lavoro della Commissione per la riforma presieduta dal giurista Marco D’Alberti. Due mesi di analisi, una trentina di audizioni. Ed ecco il piano che entusiasma Bray il quale conta «molto presto» di sottoporlo al capo del governo Enrico Letta (per avviarlo non occorre una legge ma solo un decreto del presidente del Consiglio) insieme al decreto Turismo.
Passano da 29 a 24 le direzioni generali del ministero: quelle regionali scenderebbero da 17 a 14. Tre le nuove direzioni centrali proiettate verso l’innovazione. La prima per i sistemi informativi e la digitalizzazione del patrimonio; una seconda per il personale, quindi per la formazione di professionalità adeguate alle scommesse della contemporaneità; una terza per appalti e contratti, anch’essa con visioni innovative: dovrebbe definire l’ambito delle «convenzioni da stipularsi con i privati per una più efficace valorizzazione di istituti e luoghi di cultura». Bray ha escluso il varo di nuovi codici, per esempio, sull’affitto o l’uso di parti di musei o di luoghi culturali (alla base delle lunghe e note polemiche, per esempio, sui ricevimenti a pagamento nei luoghi d’arte organizzati dai privati). Ci sarà un Comitato che affronterà il tema in termini generali: troppo diverse tra loro le realtà locali per un solo strumento operativo.
Poi un’unica struttura centrale per la tutela e valorizzazione del patrimonio e del paesaggio, per snellire il lavoro. Un’altra per archivi e biblioteche. Una sola (ora sono due) per le attività dello spettacolo. Infine una per il turismo, finalmente collegato in modo strutturale e organizzativo all’universo del patrimonio. Infatti le direzioni regionali dei Beni culturali avrebbero compiti di raccordo con gli enti territoriali anche in materia di turismo.
Soprintendenze, musei, archivi e biblioteche avrebbero maggiore autonomia gestionale e organizzativa anche in materia di orari di apertura e di prezzi dei biglietti. Per Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia e membro della commissione, questa autonomia dovrebbe «consentire di svolgere le funzioni di tutela ma anche il ruolo di centri vivi di ricerca e conoscenza capaci, in particolare, di contrattare interventi di privati come supporti e interlocutori, certo non sostituti delle responsabilità pubbliche che non possono essere abdicate». Ribadendo così la centralità della tutela da parte dello Stato.
Tra i grandi progetti (questo sostenuto soprattutto al professor Tomaso Montanari, uno dei membri della commissione) la creazione di una Scuola Nazionale per il Patrimonio, che assicuri nuove leve con elevata formazione specialistica.
Sul rapporto pubblico-privato la commissione suggerisce di chiarire la disciplina degli appalti dei lavori («ora oscura e frammentata»), di dare più spazio a forme di project financing per la ristrutturazione e innovazione di musei, di assicurare maggiore snellezza alle procedure per le sponsorizzazioni. Infine sul turismo, soprattutto in vista dell’Expo 2015, Bray immagina «percorsi di senso e di significato» per chi arriverà in Italia e che non si riducano alla sola Lombardia ma si estendano per tutto il Paese .

Il COrriere della Sera 06.11.13

Modena – A.N.DI.S. – D.L. 104, “Misure urgenti per la scuola” è legge : cosa cambia ?

Corso breve di formazione
per Dirigenti Scolastici aperto ai D.s.g.a.
D.L. 104, “Misure urgenti per la scuola” è legge : cosa cambia ?
lunedì 11 Novembre 2013 ore 10 (precise) -12.30
presso Liceo Sigonio, Via Lancillotto Modena
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Roberta Pinelli, vicepresidente ANDIS di Modena Apertura dei Lavori
Omer Bonezzi, presidente ANDIS di Modena Relazione
On.le Manuela Ghizzoni,
Vicepresidente commissione istruzione della Camera dei Deputati, relatrice del Disegno di Legge
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L’iniziativa si configura come aggiornamento, sarà rilasciato attestato di partecipazione

“I timori dei vescovi per i corsi sul genere”, di Orsola Riva

Il diavolo si nasconde nei dettagli. Più precisamente, stando a un articolo pubblicato ieri in prima pagina dall’Avvenire , starebbe nella lettera «d» del comma 1 dell’articolo 16 del decreto sulla scuola approvato la settimana scorsa alla Camera. Cosa dice l’articolo incriminato? Autorizza la spesa di 10 milioni di euro per attività di formazione obbligatoria dei professori. Le finalità sono diverse e articolate: tra esse anche aumentare «le competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere». Il sospetto del quotidiano dei vescovi è che dietro questa formulazione ci sia (o ci sia stato) il tentativo di far entrare in aula la cosiddetta teoria del «gender»: ovvero, secondo la definizione di Avvenire , la teoria per cui non c’è un legame biunivoco tra sessualità biologica e identità sessuale. Nelle pieghe del decreto scuola si nasconderebbe insomma un attacco alla famiglia «intesa come società naturale composta da un uomo, da una donna e dai loro figli». È così? L’onorevole Manuela Ghizzoni (Pd), relatrice del provvedimento, smentisce seccamente: «Ma quale attacco alla famiglia? Gli stereotipi di cui si parla sono quelli femminili propagandati da televisioni e pubblicità. L’articolo 16 si riferisce esplicitamente al decreto sul femminicidio, da poco convertito in legge, che volendo contrastare ma anche prevenire la violenza contro le donne, promuove la formazione dei docenti in modo da sradicare gli stereotipi di genere fin dalla scuola».

Il Corriere della Sera 06.11.13

“Un gioco pericoloso”, di Roberto Zaccaria

Singolare ultimatum di un condannato al Capo dello Stato. «Il Quirinale è ancora in tempo a concedermi la grazia». E se non lo fa è colpa sua. È questa, in sostanza, l’opinione che si coglie nelle parole di Berlusconi. Che sono state rilasciate a Vespa in occasione del suo ultimo libro. Un discutibile gioco di prestigio orchestrato in maniera disinvolta tra due partner sul filo della pura comunicazione. Non più la sola comunicazione del giornalista e quella del politico dettate dai propri personali e distinti interessi, ma una doppia tecnica di comunicazione combinata insieme per ottenere un risultato politico inquietante: la messa in mora di Napolitano sulla questione della «grazia» a Berlusconi.

Le anticipazioni di un libro in genere si riferiscono a notizie di alcune settimane precedenti che vengono offerte al lettore, in un contesto diverso dalla cronaca immediata, e destinato ad una riflessione più meditata! Niente di tutto questo. Le anticipazioni nei libri di Vespa sono l’esatto opposto: non anticipano niente ma sono dei veicoli pubblicitari per vendere meglio il libro, immergendolo nella stretta attualità e, al tempo stesso, degli amplificatori spesso acritici della comunicazione altrui.

La tecnica di comunicazione di Berlusconi, che si serve del lancio promozionale del libro di Vespa, è ormai fin troppo conosciuta per destare stupore, ma colpisce ugualmente per la sua spregiudicatezza nei confronti del capo dello Stato. Confidando nella memoria necessariamente incompleta della maggior parte del pubblico, si riprende una vecchia notizia (come se si trattasse di un libro già scritto) e la si ripropone disinvoltamente depurandola di alcuni aspetti essenziali e facendola apparire a proprio personale vantaggio.
La ormai vecchia notizia è il comunicato del Quirinale del 13 agosto di quest’anno ove il presidente della Repubblica chiarisce in maniera ineccepibile dal punto di vista costituzionale i limiti dell’esercizio del potere di grazia secondo l’art.87 della Costituzione.
Ricordiamo i passaggi essenziali di quel comunicato. L’articolo 681 codice di procedura penale con riferimento alla grazia indica le modalità di presentazione della relativa domanda. Negli ultimi anni, si è sempre ritenuta essenziale la presentazione di una domanda. A questa domanda, (necessaria ma non sufficiente aggiungiamo noi), deve seguire un esame obbiettivo e rigoroso, sulla base dell’istruttoria condotta dal ministro della Giustizia, per verificare se emergano valutazioni e sussistano condizioni che senza toccare la sostanza e la legittimità della sentenza passata in giudicato, possano motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale. Perché tutto questo possa avvenire è necessario un clima di comune consapevolezza degli imperativi della giustizia e delle esigenze complessive del Paese. Né è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni democratiche.

Dopo di allora cosa è successo? Un paio di fatti gravissimi e diametralmente opposti rispetto alle accorate esortazioni di Napolitano. Prima l’annuncio da parte dell’assemblea del gruppo parlamentare del pdl delle dimissioni collettive dei parlamentari del gruppo del Pdl: fatto senza precedenti nella storia repubblicana. E prontissima la risposta del Quirinale che definisce «inquietante» quel gesto destinato a ripercuotersi sulla funzionalità stessa delle Camere (26 settembre).

Poi, dopo pochi giorni, le pesanti insinuazioni orchestrate da un parlamentare Pdl, secondo le quali il presidente Napolitano sarebbe intervenuto sulla Cassazione nella vicenda del Lodo Mondadori per pilotare la sentenza della Corte suprema a sfavore del Cavaliere. Ed immediata la reazione del Quirinale: «Quel che sarebbe stato riferito al senatore Berlusconi circa le vicende della sentenza sul Lodo Mondadori è semplicemente un’altra delirante invenzione volgarmente diffamatoria nei confronti del Capo dello Stato» (30 settembre).

In questo quadro, ben lontano da quel clima auspicato dal presidente della Repubblica nel comunicato del 13 agosto, riproporre seccamente la questione della grazia, dimenticando la ricostruzione costituzionale del Quirinale e tutte le condizioni che avrebbero dovuto circondare quell’atto, rappresenta un modo disinvolto di «giocare» con le istituzioni e un tentativo maldestro di capovolgere la realtà. La comunicazione è una cosa, la deformazione dei fatti, decisamente un’altra.

L’Unità 06.11.13

“Primo Levi, quel capolavoro che ha rischiato di non essere creduto”, di Roberto Saviano

Il mio rapporto personale con Se questo è un uomo è un rapporto viscerale. Se questo è un uomo è uno di quei libri da cui, una volta che ci entri dentro, non ne esci più. Non sei più uguale e non è semplicemente perché ti rende più giusto o migliore, ma perché ti cambia. Cambia il tuo modo di sentire, di vedere, ti costringe ad avere un’altra mente e un’altra sensibilità. È un cataclisma che non ha mai smesso di muoversi e attraversarmi.
Il mio rapporto con Se questo è un uomo è talmente stretto che mi sembra quasi che Levi sia per me un maestro conosciuto, che mi giudica in maniera severa e sa confortarmi quando subisco ingiustizie.
Si tratta di un rapporto carnale. Mi stupisco ogni volta di incontrare qualcuno che non abbia letto il libro. Mi stupisco quando ne racconto un episodio, e chi mi ascolta non ne ha mai sentito parlare: mi sembra incredibile. Le pagine sono divenute carne propria, conosciute riga per riga tanto che mi sembra impossibile che si possa vivere senza aver letto Se questo è un uomo;
non una semplice seppur grande testimonianza – ci sono splendidi libri di testimonianze –, ma un capolavoro della letteratura. Un libro sull’uomo, le sue immonde azioni e le sue eroiche resistenze. Levi è un grande scrittore che usa la potenza della parola per raccontare e fare memoria. Ma non gli interessa solo costruire la bella pagina, riesce piuttosto a coniugare gli strumenti dell’uomo colto con la necessità di comunicare quello che è stato.
Se questo è un uomo è sicuramente il libro che più di ogni altro ha determinato la mia visione della letteratura. Cito la risposta che Philip Roth dà quando gli si chiede quale sia stato per lui il libro più importante. Roth risponde Primo Levi. Risponde
Se questo è un uomo
perché, dice, dopo averlo letto non vieni semplicemente a sapere che è esistito l’orrore di Auschwitz, no. Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì e hai la certezza che la tua vita non possa più andare avanti senza metabolizzare quella esperienza.
È la potenza della letteratura: non veicola semplicemente informazioni, benché necessarie e importanti, ma ti dà più vita o ti toglie vita.
Se questo è un uomo è il manifesto di questa potenza.
E poi c’è la scrittura, e quella di Primo Levi è un modello. È innanzitutto la scrittura di un chimico. Il dettaglio e il meccanismo in cui quel dettaglio è contemplato, non sono per lui una quinta del racconto, ma l’oggetto vero del racconto stesso. Primo Levi non fa un libro sul campo di concentramento ma un libro sull’uomo. Sull’uomo in quelle particolari condizioni, travolto da tutto ciò che accade. Descrive il suo uomo da chimico e da filosofo, ne fa sistema. In questo è sicuramente uno degli scrittori più creativi in assoluto.
Può sembrare un’esagerazione o una provocazione, ma mi piace parlare di Primo Levi come creativo, perché arriva a raccontare il lager attraverso diverse strade: da come si conserva una scodella a come si conserva la dignità, da come Dante possa salvarti la vita se ti
ricordi i suoi versi al momento giusto, a come il latino possa servire a comunicare con un prete che non parla la tua lingua. La sua versatilità letteraria è quindi infinita. Ci sono diversi registri nelle sue pagine: c’è quello naturalista, quello positivista, persino quello fantastico, quello teologico. Insomma Levi è un mondo e stare in questo mondo mi ha fatto sentire a mio agio. La sua scrittura del resto mi ha profondamente influenzato: in molti casi ho cercato di aderire alla sua tecnica narrativa a metà tra il reportage e la scelta di mettere dentro le sue pagine molto di sé. Il suo modo di affrontare il dettaglio e allo stesso tempo la descrizione dei grandi meccanismi che
hanno portato quel dettaglio ad accadere, a verificarsi.
Primo Levi ha saputo mediare tra una timidezza fuori dal comune e l’ossessione quasi militante per la memoria. In quegli anni, Levi, mettendo a dura prova la sua naturale ritrosia e la diffidenza della società intellettuale, spesso scelse la televisione per condividere queste storie perché l’obiettivo era far conoscere. Io devo molta della mia formazione a Primo Levi, del mio modo di essere scrittore spurio, bastardo, quasi figlio di un dio minore che decide di dare spazio alle telecamere e al web perché l’obiettivo è far conoscere, l’obiettivo è mettere a disposizione del maggior numero di persone possibile ciò che accade in terre dimenticate. Di cui ci si ricorda solo quando muoiono innocenti.
E poi c’è l’incubo ricorrente, quello di tornare a casa, di voler raccontare e non essere creduto: il tema dei temi. Anche in questo Levi mi ha molto aiutato, come ti aiuta un terapeuta, un amico, una madre, una persona che ti ama. Un aiuto vero, “tecnico” e carnale insieme. Perché chi scrive di mafia è spesso non creduto e soprattutto è spesso malvisto. Mostra una ferita e, facendolo, immediatamente assurge a un ruolo di coraggio, e chi ha coraggio talvolta è insopportabile alla vista. Allo stesso tempo ti senti smarrito: ti domandi come sia possibile che non vengano viste dinamiche tanto palesi e che raccontare, scegliere di raccontare, di fare bene il proprio lavoro, ti porti a essere bersaglio delle critiche più aspre, spesso scorrette, subdole. Tutto ciò ti toglie punti di riferimento, ti lascia smarrito. Poi comprendi che molti di coloro che ti insultano con la bava alla bocca lo fanno perché hai visibilità e allora pensi a quanto sei stato ingenuo a pensare che gli addetti ai lavori – o come spesso li definisco “ai livori” – non si sarebbero fermati a guardare il dito. Ti scopri assolutamente inadeguato a interpretare il mondo, se pensavi che a interessare potessero essere le tue storie e non chi le racconta. Se davvero pensavi che il tuo racconto avrebbe solo portato ad approfondire dei temi cruciali e non ad attaccare chi ne parla. Ma poi pensi a chi ha vissuto l’inferno in terra e per molto tempo non è stato creduto.
Se questo è un uomo non fu immediatamente recepito come un libro di verità. Lo si considerò un po’ esagerato, inattuale, in un tempo in cui si stava ricostruendo il paese materialmente ma anche e forse soprattutto moralmente. Ma Se questo è un uomo era avvertito come esagerato e inattuale perché disturbava.
Il non essere creduto di cui scrive nelle sue pagine Levi – per esempio nel sogno del ritorno a casa: mentre si sta a tavola e si mangia molto, a un certo punto inizia a raccontare quello che è successo e le persone sedute invece di ascoltare si alzano, motteggiano, scherzano
e non ci credono affatto – è il pensiero con cui apre il libro nei versi messi in esergo. Versi che sembrano quasi un’accusa, un monito. Su questo Levi è severissimo: che tu possa essere maledetto, che la tua vita possa andare in malora se non racconti tutto ciò che ho descritto, perché non raccontandolo staresti negando. Questa è l’accusa di un uomo che pone la memoria di ciò che è stato al centro di tutto, come motivo di vita. Il non essere creduti di fronte alla tragedia, l’essere colpevolmente fraintesi, è come essere condannati a morte, è come perdere la propria dignità.
Levi insegna ad avere fiducia nella parola e quindi ti insegna a difenderla, a starci dentro e sopportare. Come se la parola stessa, alla fine di tutto, fosse la ricompensa naturale, la cosa di cui più ritenersi soddisfatti. L’unica ricompensa è la parola.

La Repubblica 06.11.13

“Ma l’incertezza sfinisce i contribuenti”, di Francesco Manacorda

Scene di rivolta fiscale all’ora di punta. I venditori ambulanti dei mercati torinesi scendono in piazza per protestare contro il rincaro della Tares, la tassa sui rifiuti, e una città rimane semiparalizzata nei suoi collegamenti ferroviari per mezza giornata. Scene di incertezza fiscale all’ora dei telegiornali. Il ministro dell’Economia avverte di come sia difficile – sempre più difficile man mano che si avvicina la fine dell’anno, anche se non impossibile – trovare le risorse per evitare che si paghi la seconda rata dell’Imu. Scene da un Paese che stenta a trovare la chiave di quella ripresa che molti annunciano ma che pochi riescono a vedere e dove proprio il carico fiscale rischia di portare alla chiusura troppe piccole e piccolissime imprese.

Chi ha bloccato ieri la stazione torinese di Porta Susa non rappresenta certo tutti i commercianti di una città, anzi alcune associazioni di produttori e negozianti hanno denunciato intimidazioni contro chi aveva deciso di continuare regolarmente la sua attività. Ma che il malessere da tasse scenda in piazza e assuma la forma di una protesta clamorosa mette in evidenza due aspetti della questione fiscale.

Il primo è che alla rivolta silenziosa e individuale dell’evasione che fino ad ora ha funzionato alla grande – ad esempio il Comune di Torino ha calcolato proprio tra i venditori ambulanti un’evasione della Tarsu, la vecchia tassa sui rifiuti, pari al 40% – si affianca adesso una dimostrazione pubblica e collettiva che cambia il senso stesso della protesta, rivendicandone la legittimità e legandola a una questione di sopravvivenza economica.

Azioni, anche clamorose, contro le tasse non sono un’esclusiva italiana. Nelle stesse ore in cui a Torino c’era chi marciava sulla stazione di Porta Susa, sulle autostrade francesi venivano abbattuti alcuni «totem» che secondo i piani del governo di Parigi – già sospesi – sarebbero dovuti servire per imporre una tassa ecologica ai Tir in transito.

Ma è invece una nostra esclusiva quel mix di incertezza e di rimpalli che da mesi alimenta le cronache dei giornali e sfinisce i contribuenti. Privati e aziende non sanno quanto dovranno pagare da qui a poche settimane e in alcuni casi – ad esempio la seconda rata Imu – non sanno nemmeno se dovranno pagare. In molti scopriranno, proprio con il saldo di dicembre della nuova Tares, quanto peseranno sui loro bilanci gli aumenti decisi dai Comuni.

Questo ci porta al secondo aspetto della questione fiscale, che riguarda la sostanza politica del governo delle larghe intese. Sottoposto fin dall’inizio alle tensioni di forze divergenti – specie e soprattutto sulle tasse, partendo dalla promessa elettorale del centrodestra di abolire l’Imu – non c’è ovviamente da stupirsi se sul Fisco maggioranza e esecutivo non sembrino in grado di trovare una sintesi soddisfacente, ma procedano più che altro per tentativi ed errori. La Legge di Stabilità ha evidenti limiti, legati specialmente alle risorse limitate che può mettere in campo. Ma le richieste – chiamarle proposte sarebbe troppo – che arrivano da destra e da sinistra, specie per una maggior riduzione del cuneo fiscale, sono accomunate da un’assoluta leggerezza nell’identificare le coperture per le maggiori spese. Il populismo fa paura a molti, ma un peso delle tasse che non cala e una giungla fiscale che si fa sempre più intricata sono l’habitat migliore per farlo crescere ancora.

La Stampa 06.11.13

“Il sindaco rosso espugna la New York dei ricchi”, di Federico Rampini

Istigatore della lotta di classe. Marito di un’ex-lesbica. Papà di due adolescenti così orgogliosi della loro identità afro-italoamericana, da sembrare i nipotini di Jimi Hendrix e Angela Davis. Gliele hanno dette tutte a Bill de Blasio. Contro di lui hanno usato la sua giovinezza marxista, i viaggi in Urss, Cuba e Nicaragua. La famiglia multietnica e atipica. Di certo colui che si è candidato a guidare una mega-azienda come New York City (8,6 milioni di abitanti, 300.000 dipendenti municipali, 70 miliardi di budget annuo) non ha fatto la carriera del top manager. Come ex Public Advocate, difensore dei cittadini contro abusi e disservizi dell’amministrazione locale, il suo profilo è a metà strada fra il magistrato e il politico di professione. È una storia lontana anni luce dall’imprenditore miliardario Michael Bloomberg (quest’ultimo peraltro un self-made man, non l’erede dinastico di fortune altrui).
Con la sua piattaforma radicale, all’insegna della lotta alle diseguaglianze, De Blasio ha voluto sfidare il dogma per cui un democratico vince solo facendo campagna al centro: fu quello il teorema di Bill Clinton, in parte seguito da Barack Obama, anche se i tentativi di intese bipartisan dell’attuale presidente sono stati regolarmente respinti da una destra oltranzista.
La rivoluzione de Blasio si misura per contrasto. Perchè New York, pur essendo una città solidamente democratica (vota sempre a sinistra nelle elezioni presidenziali e congressuali), da 20 anni non eleggeva un sindaco progressista? Prima ci furono i due mandati di Rudolph Giuliani, repubblicano, poi i tre mandati di Michael Bloomberg, indipendente. Due grandi sindaci, che hanno impresso il loro segno nella rinascita di questa metropoli. Pur molto diversi tra loro, Giuliani e Bloomberg hanno proposto lo stesso contratto sociale alla città. Un equilibrio fatto di ordine pubblico (“tolleranza zero” verso la criminalità grande o piccola; crollo degli omicidi dai 2.245 del 1990 ai 418 dell’anno scorso), liberismo economico, atteggiamento “liberal” sui temi valoriali. Bloomberg piaceva a sinistra perché favorevole ai matrimoni gay, impegnato nel salutismo e nella difesa dell’ambiente (verde pubblico, piste ciclabili, aree pedonali, campagne contro il junk-food), attivo nella promozione della cultura (nuovi poli universitari e museali), coraggiosamente mobilitato contro la lobby delle armi. Ma Bloomberg non ha mai detto o fatto nulla che potesse disturbare i poteri forti del capitalismo, da Wall Street ai grandi costruttori edili. Il risultato è una metropoli tornata a risplendere, con un rinnovamento urbanistico stupefacente: 40.000 nuovi grattacieli, un ritmo di trasformazione più consono alle megalopoli delle nazioni emergenti. E 50.000 senzatetto, molti dei quali non sono disoccupati bensì lavoratori dipendenti dal reddito insufficiente per pagare un canone di affitto.
Dopo vent’anni di quel contratto sociale, la Grande Mela racchiude tutto il meglio e il peggio del modello americano. Nei suoi “boroughs” (Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island) abitano ben 400.000 milionari, la più fantastica concentrazione di ricchezze del pianeta. Ma il 48,5% dei residenti vivono sotto la soglia della povertà (fissata a 30.000 dollari di reddito annuo per una famiglia di quattro persone) o nell’area della “quasi-povertà” che per il costo della vita locale si misura sotto i 46.000 dollari a nucleo familiare.
De Blasio vuole un contratto sociale diverso. Nel suo programma c’è la costruzione di 200.000 alloggi popolari per contrastare la “gentrification” che sta trasformando perfino Harlem e Brooklyn in quartieri alto-borghesi. Asilinido e dopo-scuola per tutti. Un sostegno alla scuola pubblica contro i costosissimi istituti privati. Un salario “vitale” obbligatorio di 11,75 dollari l’ora, contro un minimo attuale di soli 7,25. Il tutto finanziato con un aumento delle imposte sui ricchi, compresa ovviamente la tassa sulla casa. Poiché già oggi New York contende a San Francisco la palma della città a più alta pressione fiscale degli Stati Uniti, la destra agita lo spettro di… Gerard Depardieu. Cioè una fuga dei ricchi che impoverirebbe tutti. Ma se la Grande Mela e la Silicon Valley californiana sono diventate quel che sono oggi, non è in virtù di un’attrattiva fiscale. La loro forza sta nell’essere dei formidabili bacini di talenti umani, sta nelle “sinergie culturali” che offrono un habitat favorevole all’innovazione. Sembrano averlo capito quei ceti medio- alti che hanno accolto con simpatia la sfida di de Blasio, convinti che un nuovo patto sociale è indispensabile per uscire da questa crisi. New York è un laboratorio multietnico unico al mondo: solo 33% dei residenti sono bianchi, il 29% ispanici, 23% afroamericani, 13% asiatici. È un caso estremo e tuttavia indica la direzione verso la quale si evolve l’America intera. A questa trasformazione si può rispondere, come il Tea Party, con una rivolta anti- Stato che è anche una psicosi da fortino assediato della minoranza bianca. De Blasio è certo che un’altra risposta è quella vincente.

La Repubblica 06.11.13