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Due classi del Liceo Fanti di Carpi a Montecitorio
Se la vera democrazia è quella che parte dal basso, questo caso ne è davvero un buon esempio. Da Carpi, infatti, lunedì prossimo partiranno alla volta del Parlamento due classi del liceo Fanti, la quarta e quinta sezione “B” dell’indirizzo tradizionale. In valigetta, pronta per essere consegnata alla presidente della Camera, Laura Boldrini, una proposta di legge per cancellare una parte della “riforma Gelmini”. «Noi – dicono i ragazzi che abbiamo incontrato ieri in un’aula del Fanti – saremo gli ultimi ad avere nel programma due lingue straniere. I futuri liceali, ad esclusione degli iscritti all’indirizzo Linguistico, si dovranno accontentare di una sola lingua straniera. Ci sembra davvero aberrante vista la direzione multilinguistica e multiculturale che ha preso la nostra società». Orgogliose dei loro studenti le prof. Chiara Carnelli e Fausta Casarini, ieri pomeriggio rifinivano i dettagli dell’incontro in Parlamento. «È la prima volta – dice la docente di Lettere, Fausta Casarini – che una scuola di Carpi viene selezionata per questa iniziativa. Un rigraziamento per questa bellissima esperienza va all’onorevole carpigiana Manuela Ghizzoni che ci ha assistito nelle prime fasi dell’adesione del progetto nazionale che esiste ormai da alcuni anni. Quello che mi auguro – spiega la prof. – è che i nostri interlocutori prendano sul serio questa proposta di legge che i nostri giovani hanno preparato con la massima cura». «Le due classi – aggiunge la prof. Chiara Carnelli – hanno anche preparato alcune proposte che integrano il progetto di legge. In particolare ritengo che vada segnalata la stesura di un canale televisivo dedicato ai programmi in lingua straniera. Il progetto si chiama “Free from dubbing”, cioè liberi dal doppiaggio. Si tratta – continua – di una iniziativa maturata dal confronto con altri studenti europei i quali hanno sottolineato quanto sia importante per apprendere nuove lingue, evitare film e programmi doppiati». Anche il preside del liceo Fanti, il prof. Gian Michele Spaggiari ha parole di elogio per l’iniziativa. «Non si tratterà – commenta il dirigente scolastico – della solita gita ai luoghi istituzionali. Sarà, invece, l’occasione per avere un rapporto diretto con le maggiori cariche istituzionali del Paese con le quali avremo un dialogo concreto finalizzato a progetti che hanno l’ambizione di migliorare l’istruzione scolastica a livello nazionale. Sarà presentato un lavoro complesso e minuzioso realizzato in mesi di lavoro e collaborazione tra docenti e studenti». Oltre al preside Spaggiari, ai ragazzi e alle due prof. Casarini e Carnelli, si unirà al gruppo la vice preside Viviana Valentini.
da La Gazzetta di Modena
"Il presidenzialismo preterintenzionale", di Ilvo Diamanti
Da giovedì prossimo il Parlamento si riunirà, in seduta comune, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ancora non sappiamo chi sarà. Sappiamo, tuttavia, che sarà difficile succedere a Napolitano. Per il modo in cui ha interpretato questa carica. Ma anche per il profondo cambiamento che ha conosciuto il ruolo del Presidente, nell’ultima fase. D’altronde, è sufficiente scorrere l’andamento della fiducia espressa dai cittadini nei confronti dei principali soggetti istituzionali e po-litici, negli ultimi sette anni. Il credito attribuito al presidente della Repubblica è superiore a tutte le altre istituzioni considerate: dalla Ue allo Stato. Per non parlare dei partiti, la cui considerazione, tra gli italiani, è minima. Peraltro, la distanza, a favore del presidente della Repubblica, è cresciuta notevolmente durante il settennato di Napolitano. Attualmente (Indagine LaPolis, marzo 2013) il grado di fiducia verso il Presidente supera quello verso la Ue di circa 15 punti. Il doppio rispetto al 2007. (Anche a causa del calo della Ue). Mentre il distacco nei confronti degli altri attori istituzionali e politici – lo Stato e i partiti – risulta quasi un abisso. Oltre 50 punti. Ciò riflette l’accresciuta credibilità del Presidente e la parallela, crescente, in-credibilità degli altri organismi. Eppure, l’elezione di Napolitano era stata accompagnata da polemiche. In un clima politico reso difficile dall’esito del voto del 2006, che rammenta, in qualche misura, quello dello scorso febbraio. Anche allora il centrosinistra, o meglio: l’Ulivo guidato da Prodi, appariva pre-destinato a una vittoria di larga misura. Prevalse, invece, con pochi voti di vantaggio sulla Casa delle Libertà di Silvio Berlusconi. A differenza di oggi, però, non c’era un polo alternativo agli altri, come il M5S di Beppe Grillo, capace di intercettare oltre un quarto dei voti – contro tutto e tutti. Così l’elezione di Napolitano venne accolta come un gesto di arroganza: una scelta imposta da una maggioranza che non era tale. Il Presidente venne etichettato per la sua storia “comunista”. Un marchio (ab) usato da Berlusconi per dividere il mondo. Fra i suoi amici e i nemici. I comunisti, appunto. Anche da ciò deriva l’insofferenza verso Prodi. L’unico ad averlo battuto – per due volte. Non a caso, il Cavaliere, nella manifestazione di sabato, ha annunciato che, se venisse eletto Prodi al Quirinale, non esiterebbe ad andarsene dall’Italia. (Per molti elettori, un auspicio più che una minaccia …) Napolitano, peraltro, succedeva a Ciampi. Il quale aveva rafforzato l’immagine e la credibilità dell’istituto presidenziale in misura rilevante, dopo le tensioni degli anni Novanta. Segnati da Tangentopoli, dalla caduta della Prima Repubblica e dalla sfida secessionista della Lega.
Napolitano, tuttavia, non ha impiegato molto tempo a riconquistare la fiducia popolare. Già nel novembre 2008, infatti, oltre il 70% degli italiani esprimeva (molta o moltissima) fiducia nei suoi confronti (indagini Demos e LaPolis). Cioè, 12 punti in più, rispetto al momento dell’elezione, un anno e mezzo prima. “Premiato”, già allora, per le qualità che ne caratterizzeranno il percorso. A) La capacità di “unire” un Paese diviso. Politicamente e non solo. B) Il ruolo di supplenza, dapprima, e, dunque, di guida in un sistema frammentato e im-potente.
In altri termini, Napolitano offre un riferimento comune a una società dove l’antiberlusconismo si incrocia con l’anticomunismo. Dove la Lega continua a evocare l’indipendenza padana. Dove gli schieramenti sono, a loro volta, attraversati da fazioni e frazioni. Dove, quindi, è difficile ogni maggioranza stabile.
L’occasione definitiva, che ha permesso a Napolitano di rafforzare questo ruolo è, sicuramente, costituito dalle celebrazioni del 150enario dell’Unità nazionale. Nel corso del 2011. Quando il Presidente gira l’Italia, facendosi testimone e sostenitore dello spirito unitario. A cui offre e da cui ricava grande legittimazione. Tanto che, durante l’anno, avvicina e talora supera l’80% dei consensi, fra gli italiani. Un riconoscimento così elevato, tuttavia, riflette anche ragioni “politiche”. In primo luogo, la capacità di Napolitano di garantire rappresentanza a un Paese provato dalla crisi. E da un governo debole e poco credibile. In ambito nazionale e internazionale. Così, l’Italia evolve in una Repubblica quasi-presidenziale.
Dove i poteri del Presidente sono dettati e moltiplicati dall’impotenza altrui. Delle istituzioni e degli attori politici più importanti. Il Parlamento, i partiti. I leader. L’esperienza del “governo tecnico”, guidato da Mario Monti, ne è la logica conseguenza. È, infatti, il “governo del Presidente”. Napolitano, non Monti. Perché è Napolitano che lo sceglie e lo propone. Anzi, lo impone ai principali partiti e al Parlamento. Ed è Napolitano che lo sostiene gli fornisce il consenso – personale e istituzionale – di cui dispone. Venendone, a sua volta, influenzato. Perché l’andamento della fiducia nel Presidente riflette quello nel governo Monti. Dal 78%, nel novembre 2011, all’avvio del governo tecnico, il consenso declina, seppure in modo non lineare, nel corso del 2012. Al momento delle dimissioni di Monti, a dicembre, scende al 55% e tale resta fino alla vigilia delle elezioni. Per poi risalire un mese dopo, verso metà marzo, fino quasi al 67%. Oggi dispone di un grado di fiducia elevato dalla maggioranza di tutti gli elettorati, salvo i leghisti. Anche dagli elettori del Pdl e del M5S. Secondo i dati di Ipsos, la fiducia nei confronti del Presidente sarebbe ulteriormente cresciuta (circa 5 punti in più nell’ultimo mese). Per la dissociazione di Napolitano da Monti, dopo la “scelta politica” del Professore. Ma, soprattutto, perché il Presidente è tornato a costituire un riferimento unitario — forse l’unico esistente — in un Paese di minoranze incomunicanti, nella società e in Parlamento. Ancor più diviso di prima.
Da ciò il motivo che rende particolarmente critica la scelta del prossimo Presidente. Ancor più di prima. Perché l’Italia è divenuta una Repubblica a “presidenzialismo preterintenzionale”. Dove le riforme istituzionali avvengono quasi per caso. Prodotte da pressioni sociali e colpi di mano. Dove le riforme sociali ed economiche vengono spinte dall’emergenza. Per questo occorre scegliere bene il prossimo Presidente. L’unico potere certo in questo Paese incerto. Cercando intese larghe. Se possibile “larghissime”. Ma non “basse”. E, comunque, non ad ogni costo.
La repubblica 15.04.13
“Europa macchina senza freni guidata dall’egemonia tedesca solo la solidarietà può salvarla”, di Eugenio Occorsio
«Non c’è altro da fare che riconoscere che la politica di austerity è un disastro. Purtroppo è il governo tedesco a dimostrare di essere poco pragmatico, come fosse legato alla volontà di affermare il principio codificato da Martin Lutero e Max Weber: solo i protestanti e in generale i nordici sanno gestire l’economia». Ulrich Beck, sociologo ed economista, docente alla Ludwig Maximilian University di Monaco nonché visiting professor ad Harvard e alla London School of Economics, teorico con Anthony Giddens della terza via di Blair e Schroeder, è in Sudamerica per una serie di conferenze sulla “modernità europea”: «Qui c’è molto interesse ci dice al telefono – ma anche molta sorpresa perché un’area così grande e importante come l’Europa non riesce ad uscire dalle secche della crisi».
Forse, professore, tutta questa modernità è invecchiata…
«Se è per questo, oggi può apparire anche un progetto suicida. L’Europa è come un’automobile di prestigio, costruita con cura e con meravigliose cromature, alla quale però si sono dimenticati di mettere i freni. Corre impazzita e nessuno riesce a prevedere come andrà a finire, salvo essere tutti pessimisti. Non è la prima volta che la modernità è messa in discussione. Dai tempi della rivoluzione industriale di fine ‘700, l’Europa segna la linea per il mondo. Lo ha fatto con l’energia valorizzando il nucleare. Poi è arrivato Chernobyl ma intanto erano state costruite centinaia di centrali atomiche in ogni angolo del pianeta. E i cambiamenti climatici? Una drammatica incapacità di risolvere il problema».
Cosa manca all’Europa per diventare un’area di sviluppo e non un focolaio d’infezione?
«La consapevolezza del significato della solidarietà. E’ qui la risposta alla domanda: come superare l’austerity? Altro che rigore fiscale imposto con le buone o più spesso con le cattive. Solidarietà vuol dire democrazia: non è possibile che un Paese, sia pure forte e rispettato come la Germania, decida del destino di un altro, mettiamo la Grecia. Il multilateralismo si è trasformato in unilateralismo, l’eguaglianza in egemonia, la sovranità in dipendenza. Dov’è la dignità di un Paese?
Perfino la Francia, ora che il suo rating è in discussione, deve ottemperare con cura alle disposizioni tedesche».
C’è da dire che se la Grecia crolla, il crac lo pagano i contribuenti tedeschi…
«Ho appena pubblicato un libro, German Europe, per spiegare che non è possibile che la crisi dell’euro renda Angela Merkel la regina d’Europa, che impone la sua disciplina di bilancio provocando rivolte e povertà. È vero, in Germania c’è stata una specie di rivoluzione.
Sembrava un paese rigido, incapace di modificare il suo mercato del lavoro, poi il governo è riuscito a vincere la sfida con la collaborazione dei sindacati. Ma questo non giustifica l’arroganza. Egoismi e nazionalismi, e mi fa paura usare questo termine, si annidano ovunque: manca la prospettiva europea in senso genuino, non dominata dagli interessi nazionali, manca pensare come europei. Non solo per la crisi dell’euro ma per il corollario di aspetti sociali, umani, politici che sono l’essenza del sogno comune».
È destinato a rimanere un sogno?
«Era partito benissimo. Pensi a quale miracolo è stato mettere insieme Stati che tante volte erano stati nemici. Con gli anni si è materializzato poi il vero motivo per cui dall’Europa non si deve sfuggire: i singoli Paesi sono troppo piccoli per reggere alla sfida della globalizzazione. Essere uniti nell’Europa fa sentire forti».
Forti ma instabili…
«Lo sa di cosa c’è bisogno? Del contributo degli intellettuali. I governanti sono ossessionati dall’economia, invece dovrebbero armarsi di umiltà e ascoltarci. Con Daniel Cohn-Bendit e qualche altro studioso, abbiamo creato un movimento d’intellettuali di ampie vedute e stiamo raccogliendo le adesioni in Europa».
Eppure i padri fondatori, Spaak, Adenauer, De Gasperi, e poi Delors e Kohl, non erano economisti. Perché i temi economici hanno assunto questa centralità?
«Difficile spiegarlo, ma le dirò di più: c’è un’ipertrofica presenza della finanza, che dovrebbe essere solo una parte dell’economia. E il lavoro, i redditi, le disuguaglianze, la formazione? E poi lo sguardo deve andare oltre, all’insieme delle istanze sociali, della cultura, della storia. Tutto questo deve tenere unita l’Europa. Stiamo mancando gli elementi più importanti per l’ossessione dell’unione monetaria. Che porta a forzare i Paesi a risolvere i problemi delle banche tagliando i fondi per l’educazione, per l’assistenza sanitaria, per i sistemi pensionistici. Una follia. Si crea un gigantesco problema di ingiustizie sociali che serviranno decenni per risolvere, e si apre lo spazio per forze politiche antieuropee: c’è il pericolo che questi partiti asimmetrici conquistino un ruolo rilevante al Parlamento europeo fra un anno e mezzo. Sarebbe grottesco».
Visto che il governo tedesco ha il ruolo centrale, pensa che qualcosa cambierà, e quindi si allenterà la morsa dell’austerity, dopo le elezioni del prossimo autunno?
«Mi faccia precisare un punto per completezza. La Germania non ha cercato la leadership. Anzi, all’inizio il Paese dominante sembrava dovesse essere la Francia, che ottenne di portare Berlino all’interno dell’euro nel contesto del post-riunificazione pensando di poter condurre i giochi. Non è andata così per l’imprevista potenza economica assunta dalla Germania, come dicevo, negli ultimi anni. Ora la speranza è che si ricrei la grosse koalition con verdi e socialdemocratici, che però in questa fase mostrano una sconcertante scarsezza di proposte, come fossero annichiliti di fronte alla forza della Merkel. Eppure è da questo dibattito che dipendono il futuro dell’euro e le politiche di maggiore o minore rigore che saranno imposte».
La Repubblica 15.04.13
"Tagli, ecco come hanno costruito le classi pollaio", di Alessandro Giuliani
Un dettagliato report della Flc-Cgil mette in evidenza come negli ultimi 5 anni a fronte di un incremento di 90mila alunni siano stati tagliati quasi altrettanti docenti e 43mila Ata. Tranne che all’infanzia, le cattedre sono state cancellate ovunque: 28mila nella primaria, 22mila alle medie e 31 alle superiori. Col dimensionamento scomparse quasi 2.000 scuole. Il leader Mimmo Pantaleo si appella ai politici: si facciano carico delle emergenze, serve un piano d’investimenti.
E’ davvero impietoso il quadro numerico sui tagli al personale della scuola pubblica tracciato dalla Flc-Cgil: secondo una serie di dettagliate tabelle, il sindacato ha riassunto quanto accaduto nell’ultimo quinquennio.
Il dato più allarmante, anche perché contraddittorio, è quello che al sostanzioso aumento degli alunni (+90.000 alunni) non è stato dato seguito alcun incremento di docenti. Anzi. I dati in possesso del sindacato indicano che sono spariti quasi altrettanti insegnanti: ben 81.600.
“Con oltre 90.000 alunni in più – spiega la Flc-Cgil – si sarebbero dovute creare non meno di 4.500 classi in più (con media di 20 alunni per classe), invece ne sono state tagliate oltre 9.000. La conseguenza è evidente: le cosiddette classi pollaio sempre più numerose, spesso anche oltre il tetto massimo previsto per norma”.
Il sindacato confederale ricorda che, se si eccettua la materna, si è andato a mettere mano in tutti i settori scolastici: “si taglia ovunque, – 28.032 posti nella primaria – 22.616 nella secondaria di primo grado – 31.464 nella secondaria di secondo grado, eccetto la scuola dell’infanzia dove le sezioni registrano un piccolo aumento +518”.
La “sforbiciata” non ha esentato il personale amministrativo: “-17,5 % dei posti in cinque anni”, pari a “43.878 posti in meno: ciò significa meno sicurezza, meno servizi, meno laboratori”.
E non manca uno sguardo anche alla razionalizzazione: infatti “sono state consistentemente ridotte di quasi il 20%, cioé scomparse quasi 2.000 scuole”.
Il segretario generale della Flc-Cgil, Domenico Pantaleo, ha detto alla luce di questi dati allarmanti la Flc Cgil “chiede alla politica tutta che si faccia carico delle emergenze della scuola italiana e chiede che si avvii un piano di investimenti che consenta di invertire questo drammatico trend. Nel sud occorre garantire l’estensione del tempo pieno e della scuola dell’infanzia, l’innalzamento qualitativo dell’offerta formativa, un piano di edilizia scolastica e una decisa azione per contrastare l’evasione dell’obbligo scolastico”.
Pantaleo ha quindi rivendicato “più risorse, più scuola pubblica, più insegnanti e personale ATA, più qualità, più equità, livelli di istruzione più alti devono essere obiettivi prioritari per il Paese. Proseguiremo nei prossimi giorni la nostra campagna per la qualità della scuola pubblica statale dimostrando ciò che si può mettere immediatamente in campo nel breve e medio periodo e dando così continuità – ha concluso il leader della Flc-Cgil – alle iniziative dei giorni scorsi: dall’appello per la scuola dell’infanzia al presidio del personale precario”.
da La Tecnica della Scuola 15.04.13
"L'Italia malata ora pretende risposte concrete", di Carlo Buttaroni
La risposta a quanti ritengono percorribile la strada che porta a un governo Pd-Pdl arriva da Bari e da Roma, dove hanno parlato Berlusconi e Bersani. Sono passati quasi cinquanta giorni dal voto e la distanza tra i leader delle due principali coalizioni non si è ridotta. Era prevedibile, altrimenti sarebbe nato subito un governo con una maggioranza analoga a quella che ha sostenuto Monti. Il passare del tempo, invece, ha complicato la ricerca di una soluzione coabitativi che non era nelle corde delle due principali forze politiche. Distanze marcate da vent’anni di bipolarismo che ha posto centrosinistra e centrodestra su piani diametralmente opposti. A complicare il quadro, un’area Monti che non è riuscita a diventare una forza parlamentare in grado di sostenere un governo di centrosinistra o di centrodestra. L’unica alternativa possibile sarebbe stata quindi nelle mani del movimento di Beppe Grillo che, però, ha continuato a escludere ogni ipotesi di collaborazione con il Pd. Dopo le manifestazioni di Bari e di Roma, si alzano di nuovo le probabilità di un rapido ritorno al voto, anche se non è detto che le urne possano offrire una soluzione all’impasse. A coalizioni invariate, infatti, i risultati elettorali potrebbero restituire una situazione analoga a quella del 24 e 25 febbraio scorso. Con la differenza, se gli ultimi sondaggi fossero confermati, che ad avere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera (e quella relativa al Senato) sarebbe la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Variando gli addendi, comunque, il risultato molto probabilmente non cambierebbe. Il centrodestra non avrebbe i numeri per dar vita a un governo e si tornerebbe al punto di partenza.
NON BASTA LA RIFORMA ELETTORALE E l’eventualità di cambiare la legge elettorale, tornando al «Mattarellum» (cioè un sistema misto con il 75% dei seggi assegnati in collegi uninominali e il 25% di proporzionale) rappresenterebbe una non-soluzione. Da uno studio realizzato da Antonio Agosta e Nico D’Amelio, dell’Università di Roma Tre, emerge che il ritorno al sistema elettorale in vigore tra il ’94 e il 2001 non renderebbe più facile la formazione di un governo. Secondo le simulazioni dei due studiosi di sistemi elettorali, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, con il «Mattarellum» il centrodestra, pur avendo ottenuto meno voti del centrosinistra, avrebbe più seggi a Montecitorio ma assai meno di quanti ne ha assegnati l’attuale legge alla coalizione di Bersani. La coalizione guidata da Berlusconi avrebbe vinto, infatti, in 216 collegi uninominali conquistando altri 43 seggi dalla quota proporzionale, ottenendo in totale 259 deputati. Il centrosinistra, invece, avrebbe vinto in 192 collegi uninominali e altri 43 seggi sarebbero stati assegnati con la quota proporzionale, per un totale di 235 deputati. Il Movimento 5 Stelle avrebbe ottenuto 108 deputati (65 dai collegi uninominali e 43 proporzionali) e altri 15 sarebbero scattati alla coalizione guidata da Mario Monti, di cui uno solo proveniente dalla quota uninominale. Anche abolendo del tutto la quota proporzionale, e assegnando tutti i seggi in collegi uninominali (dando quindi un’impronta maggioritaria), gli effetti istituzionali non cambierebbero e nessuna coalizione otterrebbe la maggioranza assoluta. I risultati dello studio si riferiscono alla Camera, ma sarebbero analoghi al Senato. È pur vero che una competizione uninominale potrebbe spingere l’area montiana ad allearsi con il centrosinistra o con il centrodestra. Anche con l’attuale legge elettorale, però, se Monti si fosse alleato con l’una o l’altra parte, si sarebbe determinata una maggioranza solida. Il problema dello stallo non è, quindi, nella formula elettorale, ma nel sistema politico. La geografia del consenso uscita dal voto del 24 e 25 febbraio potrebbe non avere alcuna soluzione, anche cambiando la legge elettorale. Sia chiaro, la riforma resta una priorità assoluta, perché il «Porcellum» è una legge indegna per un Paese civile e democratico. Tuttavia, rovesciare i termini della questione, affidando alla tecnica elettorale la speranza di una soluzione ai problemi politici, rischia di allungare la durata di un blocco istituzionale che non possiamo permetterci, perché la crisi non attende. L’allarme del presidente di Confindustria Squinzi circa la situazione economica delle imprese è drammatico: lo stallo istituzionale è costato un punto di Pil e parlare di crescita è un miraggio. La Cgil segnala che la Cassa integrazione è aumentata, che sia ordinaria, straordinaria e in deroga. Le ore registrate a marzo (quasi 100 milioni) segnano un incremento sul mese precedente pari al +22,4%. Nel trimestre l’aumento è del +12% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Se si considera solo la cassa a «zero ore», i lavoratori coinvolti sono circa 520 mila e il taglio del reddito, rispetto al 2012, è pari a un miliardo di euro. I lavoratori coinvolti da una cassa integrazione sul 50% del tempo lavorabile, invece, sono oltre un milione.
IL CARRELLO DELLA SPESA PIÙ LEGGERO Per il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, l’intero mondo del lavoro sta precipitando, travolto da una valanga che non trova argini. Gli effetti della crisi si respirano anche nel mondo scolastico, tra gli studenti: la Coldiretti stima che due alunni su tre rinunciano alle gite scolastiche e sono spesso i genitori a chiedere di evitare o ridurre i viaggi organizzati per evitare discriminazioni tra i ragazzi che non possono più permetterseli. Il carrello della spesa degli italiani è sempre più vuoto, come evidenzia il monitor socioeconomico di Tecnè. Un terzo degli intervistati ha ridotto la quantità (o evita di comprare) pesce, insaccati e carne. Il 25% fa a meno dei prodotti per la prima colazione e circa il 7% rinuncia al latte, alla pasta e al pane. Ma la profondità della crisi è anche in altre rinunce. Più voluttuarie (come il cinema, il ristorante, la palestra), ma anche in quelle che segnano il grado di sviluppo qualitativo di un Paese, come le spese per la salute (analisi cliniche, visite specialistiche), rinviate da quasi un italiano su tre. Nel com- , plesso, il 98% degli intervistati esprime un giudizio negativo sulla situazione economica dell’Italia e solo il 21% prevede che le cose possano migliorare nei prossimi 12 mesi. Il Paese sta precipitando nella sfiducia e occorre la consapevolezza che non ci sarà un secondo tempo. Ciò che serve è una la politica che torni alla responsabilità delle scelte. Continuare a sostenere che i risultati elettorali sono il risultato di una protesta «antipolitica » significa non aver capito nulla di quanto è accaduto. Nemmeno Grillo si è dimostrato capace di interpretare i risultati che l’hanno incoronato «vincitore morale». Perché il voto ha dato voce a una società che non vuole arrendersi e non vuole solo urlare il proprio disagio, ma rafforzarsi nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, l’efficienza del sistema sanitario, l’assistenza ai più deboli, la lotta alle disuguaglianze, l’attenzione al bene comune.
*Presidente Tecnè
L’Unità 15.04.13
"Sul lavoro l'allarme della Cgil. Non si ferma il boom della cassa", di Roberto Giovannini
La Cgia di Mestre dice – per quel che valgono i confronti – che questa crisi per l’Italia è peggio di quella del ’29. Certo è che gli effetti che l’attività economica sta subendo per questa recessione sono davvero rovinosi. Le imprese si fermano, la produzione si blocca, e i posti di lavoro vengono congelati. E si trasformano in cassa integrazione. Grazie agli ammortizzatori sociali i dipendenti non perdono il loro impiego; ma per chi lavora in un’azienda in crisi riuscire a vivere di cassa integrazione diventa una vera e propria impresa. Negli anni ’80 si diceva che i cassintegrati alla fine se la passavano meglio degli altri, potendo incassare un discreto assegno e magari svolgere qualche «lavoretto» al nero. Oggi lavoretti al nero o al bianco non ce ne sono, e allora per un operaio o un impiegato la questione è riuscire a far campare una famiglia con 850 euro al mese, invece dei 1800-2000 normalmente percepiti.
Sono in tanti a vivere questa situazione di estrema difficoltà, quasi 520mila lavoratori dall’inizio del 2013. Secondo un rapporto della Cgil diffuso ieri, a marzo si è registrato un vero e proprio boom di Cassa integrazione , con poco meno di 100 milioni di ore richieste nel corso del mese. Le 96.973.927 ore registrate a marzo segnano infatti un incremento consistente su febbraio (pari ad un +22,44%), mentre da inizio anno il monte ore complessivo è pari a 265.043.645 per un +11,98% sul primo trimestre del 2012. Dietro questa mole di ore sono coinvolti da inizio anno circa 520mila lavoratori che hanno subito un taglio del reddito per 1 miliardo di euro, pari a 1.900 euro netti in meno per ogni singolo lavoratore. A questa cifra si arriva considerando i «lavoratori equivalenti a zero ore», cioè se si considera l’assenza completa dall’attività produttiva per 13 settimane lavorative. Se invece si considera il «ricorso medio alla Cig», cioè il 50% del tempo lavorabile, la cassa coinvolge oltre 1 milione di lavoratori.
Il rapporto della Cgil segnala come a partire da gennaio del 2009 ad oggi le ore di Cig autorizzate siano state stabilmente intorno alle 80 milioni per mese. Un trend che al momento porta a prevedere anche per l’intero 2013 di superare il miliardo. La Cig ordinaria è cresciuta di quasi un terzo nei tre mesi iniziali del 2013. Di ben 53 punti percentuali invece il balzo delle richieste di ore di cassa straordinaria, mentre quella in deroga ha registrato un impressionante +147% mensile a marzo, ma una diminuzione del 46,6% nel raffronto annuo tra trimestri. Un dato che è però da ascrivere – secondo la Cgil più a problemi procedurali e di pagamenti che a un miglioramento della situazione. A livello regionale, la Lombardia è al primo posto per ore autorizzate, seguita da Piemonte e Veneto. Nel resto del Paese situazioni tese si segnalano nel Lazio e in Campania. Quanto alla tipologia produttiva, la meccanica è ancora il settore più colpito.
«Da tempo stiamo dicendo che l’andamento del 2012 ci diceva che il 2013 avrebbe moltiplicato la necessità di risorse della cassa integrazione», commenta la leader della Cgil Susanna Camusso. «È la ragione – aggiunge – per cui durante la discussione sulla legge di stabilità chiedevamo che le risorse venissero incrementate, ed è la ragione per cui il 16 saremo con una manifestazione nazionale a chiedere risorse per la cassa integrazione in deroga». E per il leader di Sel Nichi Vendola, «l’Italia sta crepando e le pubbliche amministrazioni sono i curatori fallimentari».
La Stampa 14.04.13
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«QUESTA CRISI È PEGGIORE DEL ’29» RECORD DELLA CASSA INTEGRAZIONE, di Giuseppe Caruso
La cassa integrazione continua a crescere. Secondo i dati che emergono dalle elaborazioni effettuate dalla Cgil sulle rilevazioni Inps, a marzo le richieste per la Cig, con poco meno di 100 milioni di ore registrate, sono aumentata in tutti i suoi segmenti (ordinaria, straordinaria e deroga), sia sul mese che sull’anno. Le ore registrate nel mese scorso segnano infatti un incremento consistente su febbraio (pari ad un +22,44%), mentre da inizio anno il monte ore complessivo è arrivato ad un eloquente +11,98% sul primo trimestre del 2012.
SENZA ARGINE Dietro questa montagna di ore ci sono circa 520 mila lavoratori che hanno subito un taglio del reddito per 1 miliardo di euro, pari a 1.900 euro netti in meno per ogni singolo. Il rapporto della Cgil segnala come a partire da gennaio del 2009 e fino ad oggi, le ore di cassa integrazione autorizzate siano state stabilmente intorno alle 80 milioni di ore per mese. Un andamento che al momento fa prevedere anche per il 2013 un totale di ore di cassa integrazione oltre il miliardo. Il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, commentando i numeri della cig ha sottolineato come «l’intero mondo del lavoro, sta letteralmente precipitando, trascinando dietro di sé l’intero Paese, travolto com’è da una valanga che non trova davanti a sé alcun argine. Servono risposte con urgenza che mettano al centro il lavoro, a partire dal finanziamento della cassa in deroga e per questo saremo in piazza unitariamente il 16 aprile a Roma. Un appuntamento che potrebbe rappresentare l’avvio di un percorso di iniziativa sui temi del lavoro ». Lattuada ha segnalato anche «la forte preoccupazione determinata dall’aumento delle richieste di intervento sulle crisi di grandi gruppi industriali che non trovano risposte soddisfacenti e che rappresentano un ulteriore segnale della profondità della crisi e della necessità di una politica industriale a tutela dei settori manifatturieri e dell’occupazione ». Il segretario confederale della Cisl, Luigi Sbarra, spiega invece che «con la cig intorno alle 100 milioni di ore mensili e con la recessione, è illusorio pensare che tutti i lavoratori coinvolti possano rientrare nelle aziende di provenienza. Ministero del lavoro e Regioni progettino, insieme alle parti sociali, un programma straordinario di riqualificazione per accompagnare i lavoratori verso altri mestieri e altri settori in cui vi sono maggiori possibilità». Stessa preoccupazione in casa Uil, espressa dal segretario confederale Guglielmo Loy: «C’è il rischio concreto che undici lavoratori su cento del settore privato nel 2013 possano finire in cig. I lavoratori contribuenti dovranno sborsare mediamente 712 euro tra Imu, Tares e addizionali locali nel 2013, ma pochissime amministrazioni locali prevedono agevolazioni per chi ha perso il lavoro». A confermare la tesi dell’assoluta gravità della situazione italiana, ieri è arrivato uno studio della Cgia di Mestre, secondo cui gli effetti negativi della crisi economica attuale sono più pesanti di quelli registrati negli anni Trenta. Mettendo a confronto l’andamento di alcuni indicatori economici censiti nei periodi 1929-1934 e 2007-2012, spicca il dato sugli investimenti: negli anni Trenta hanno avuto una contrazione del 12,8%, mentre oggi del 27,6%. Peggiore anche il dato sul Pil, con un -5,1% per la crisi del ’29 contro il 6,9% di quello attuale e del Pil pro capite (-8,6% contro -9,4%).
L’Unità 14.04.13
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“CAMUSSO: DOBBIAMO FERMARE LA VALANGA”, di Bianca Di Giovanni
«Un patto dei produttori o no? Per la Cgil è un’ipotesi che affascina se non altro perché di Trentiniana memoria, ne possediamo il copyright». Susanna Camusso interviene, attesissima, all’assise di Confindustria a Torino. Il giorno prima il presidente della piccola industria Vincenzo Boccia aveva lanciato l’idea di un patto per salvare la fabbrica e il lavoro, insomma per l’economia reale. La risposta era affidata al dibattito di ieri, con la partecipazione dei big sindacali: oltre alla leader di Cgil anche Raffaele Bonanni. Ed è puntualmente arrivata. Certo che il sindacato di Di Vittorio non può dirsi contrario a un accordo tra produttori, ma i «paletti» posti da Camusso sono chiari e imprescindibili. –
LA CONTROPROPOSTA Una stagione di collaborazione non può non partire da un riconoscimento dei reciproci ruoli. «Ridefiniamo le parti di ciascuno, rimettiamo in ordine le regole della rappresentanza – continua Camusso – chiudiamo la lunga stagione di strappi e divisioni». Detto proprio qui, a Torino, sede della fabbrica epicentro degli «strappi» sindacali, degli accordi separati, dei non riconoscimenti reciproci, la cosa assume un peso specifico rilevante. Eppure qui Camusso c’è, mentre manca il vertice Fiat uscito da Confindustria, tanto per far capire chi vuole patti e chi no. Certo, il presidente degli industriali Giorgio Squinzi «si augura un rientro in tempi brevi». Ma per ora non si vede nulla. Il fatto è che sono i corpi intermedi ad aver bisogno di una nuova stagione: quei corpi che forse Sergio Marchionne vorrebbe eliminare. Il patto, tuttavia, non si fa a tutti i costi. Non basta la sola evidenza dell’emergenza economica, mai così allarmante, per costruire quel comune sentire che costruisce un’azione univoca. Bisogna anche che ci si chiarisca su priorità e percorsi, sull’effettivo significato di sviluppo e ripresa, per fermare quella che il segretario di Corso Italia definisce «una valanga ingovernabile ». Ecco perché Camusso costruisce un’agenda come contro-proposta al piano per lo sviluppo confezionato dal Centro studi di Confindustria. Non che manchino i punti di contatto, ma è la prospettiva ha connotazioni inevitabilmente diverse. Per la Cgil non si può evitare di partire dall’impoverimento complessivo delle famiglie. Un dato tenuto in troppo poco conto dal governo tecnico. «Si sono pretesi i compiti a casa per essere i primi della classe», è la stilettata a Mario Monti, che pure la Confindustria di oggi condividerebbe. Altro che primi: siamo finiti ultimi. L’approccio va cambiato, individuando i nodi da sciogliere. «Per noi le parole-chiave sono lavoro e fisco, che connesse tra loro pongono il tema della redistribuzione». Questo il punto di partenza che la Cgil avanza. Per gli industriali, naturalmente, tutto parte invece dalla crescita, da nuovi investimenti, da un aumento di liquidità. Giorgio Squinzi, nelle conclusioni, ribadisce la necessità di «utilizzare le risorse europee, un intervento sul credito, una modifica sull’ammortamento dei beni strumentali, information technology e sostegno ai mercati esteri». E non solo: Confindustria chiede di aprire cantieri, grandi e piccoli, chiede di finanziare innovazione e ricerca. Insomma, Camusso pensa prima alle famiglie, Squinzi alle imprese. Sarebbe innaturale il contrario, ma i punti di contatto non mancano, soprattutto sull’abbassamento delle tasse sul lavoro. Chi non vorrebbe meno pressione fiscale su aziende e lavoratori? Anche Camusso ne parla, ricordando che sui bilanci di lavoratori e imprenditori pesa la non restituzione del fiscal drag, pesano le addizionali, e oggi Imu, Tares e aumento dell’Iva. Micce incandescenti. «Con questo non si ricrea la domanda interna»,osserva la sindacalista. Per questo bisogna agire subito per evitare il picco fiscale di giugno e luglio. Gli imprenditori non sono lontani da questa richiesta, anche se su un punto la proposta diverge notevolmente: la creazione della domanda. Confindustria punta alla domanda estera, cioè all’export, che potrebbe fare da propellente per creare ricchezza e solo in un secondo momento ricadere positivamente sulla domanda interna. Per questo Viale dell’Astronomia non si oppone all’aumento Iva (che le imprese esportatrici non pagano) proponendo in cambio un taglio alle tasse sul lavoro. L’ottica della Cgil è naturalmente rovesciata: le famiglie vanno tutelate subito. «E dobbiamo dire chiaramente che non si può chiedere tutto – continua Camusso – Se vogliamo meno tasse sul lavoro, se vogliamo tagliare quella parte di Iva che pesa sugli occupati, dobbiamo spostare il prelievo da un’altra parte. Dobbiamo colpire le rendite e le grandi proprietà, cioè colpire quelli che durante la crisi hanno migliorato la loro posizione». E non basta redistribuire il reddito: per Camusso occorre redistribuire anche il lavoro. Ovvero, favorire i contratti di solidarietà per mantenere un legame dei lavoratori con l’azienda. Senza dimenticare l’istruzione e la ricerca. Le imprese non parlano di rendite, né di nuove tasse sui patrimoni. Eppure si dicono convinte di un possibile percorso condiviso. La pensa così anche Bonanni, il quale batte i pugni sul tavolo per chiedere un governo. «Sentiamo forte la nostra responsabilità, anche di classe dirigente», dichiara Squinzi. Ai sindacati lo unisce l’urgenza di salvare il lavoro, difendere quelle imprese che rischiano di chiudere anche se hanno innovato e investito, di dare un’opportunità ai giovani tenuti ai margini del mondo produttivo. Per questo il presidente confida in un «comune sentire» con le controparti. «siamo dalla stessa parte del tavolo oggi», dicono a Torino. Tutto bene, a patto che a quel tavolo si siedano anche i più poveri.
L’Unità 14.03.13