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"Il senso del limite", di Pietro Spataro

Un partito che discute in modo anche aspro è un bene da difendere. Perchè un vero partito non ha padroni, non c’è uno che detta la linea e altri che eseguono. È invece la sintesi del confronto tra sensibilità e visioni diverse, tra opzioni e strategie differenti. Questo vale per tutti, ma vale soprattutto per il Pd che ha nel suo Dna quella parola democratico che è così fortemente impegnativa e che è il frutto di storie che hanno segnato la vita della Repubblica e la crescita civile dell’Italia. Non bisogna spaventarsi delle diversità, perché esse sono una ricchezza e perché solo la battaglia delle idee può dare forza e coesione a un progetto di cambiamento. Il Pd non è nato per appiccicare l’una all’altra le correnti del riformismo democratico. È nato invece perché da quelle spinte venisse fuori una nuova idea, una nuova sfida per l’Italia del nuovo millennio.
A quelle storie lontane, che hanno radici forti nel Paese, si sono unite storie più giovani e tutte insieme hanno cercato un modo originale di guardare e di capire il mondo. Con l’obiettivo di fare finalmente, con la forza del pluralismo, quella riforma intellettuale e morale della nazione che va oltre lo spazio dell’oggi.
È giusto che dentro un partito così ci siano forti passioni. Sta qui, in fondo, l’ambizione del progetto: laici e cattolici, la radicalità della sinistra e il pragmatismo liberale, il socialismo europeo e la visione democratica di Obama, la prateria di un welfare rinnovato e la difesa dei più deboli, l’innovazione come motore di cambiamento e lo sforzo di portare tutti nel nuovo mondo, senza escludere nessuno. Sono proprio queste correnti di pensiero, con tutte le contraddizioni che creano, a dare dignità e sostanza a una battaglia comune. Perché la rendono più viva, più contendibile, e possono offrire linfa alla buona politica.
Questa deve essere la forza del Pd. Un partito nel quale nessuno ha paura di dire la sua, di sostenere un’altra linea, di suggerire un altro percorso. Nel quale ci si divide e si litiga perché la politica è fatta di visioni nette, di scelte coraggiose. Anche di rotture, di contestazioni, di contrapposizioni. Ma c’è un limite invalicabile: tutto questo deve avere un senso comune. C’è una comunità che il Pd deve rappresentare, e quella comunità è fatta di donne e di uomini che hanno a cuore il futuro del loro Paese, che si battono in ogni città perché le cose funzionino meglio e perché il cambiamento non sia solo una parola da spendere nei comizi o nei talk show. Una visione del bene comune tiene unito questo popolo, che immagina un’Italia diversa e che porta con sé parole come giustizia, equità, solidarietà, lavoro. Prima di tutto a loro occorre rispondere.
Il Pd non è un monolite, né una caserma con i generali e gli ordini scritti. Tutto è consentito, anche lo scontro più feroce. Però no, non è consentito che nella battaglia si trascinino le istituzioni, soprattutto l’istituzione più alta e più delicata del nostro sistema democratico quale è il Quirinale.
Perché il capo dello Stato è una figura di garanzia su cui va ricercata, in modo ostinato, la condivisione piuttosto che la separazione. La responsabilità nazionale deve impedire, perciò, che si combatta una guerra senza esclusione di colpi all’ombra del Colle. Perché ciò può produrre ferite che rischiano di danneggiare non solo la propria comunità e la propria «mission», ma lo spirito democratico del Paese. Sì, in un partito democratico è consentito tutto ma non l’insulto, l’offesa, il dileggio che trascinano le persone sulla piazza. C’è una regola basilare che tiene unita qualsiasi comunità: il rispetto reciproco.
Sospetti e veleni appartengono a un altro mondo, a un’altra idea della politica. Il Pd e ciascuno dentro il Pd deve spegnere l’incendio finché si è in tempo. Prima che il fuoco di un’insensata controversia bruci la casa.

L’Unità 16.04.13

"Non si tratta solo di eleggere un presidente", di Gianni Riotta

In 48 ore il Partito democratico gioca una partita che peserà a lungo sul futuro italiano e che, altrettanto a lungo, determinerà l’identità del Pd, la sua strategia, il suo modo di esistere. Molti dei nomi che circolano in queste ore per il Quirinale, per la successione del saggio presidente Napolitano, sono di politici perbene, dagli ex premier Prodi e Amato, all’ex presidente del Senato Marini, alla senatrice Finocchiaro.

E  anche nella lista dei nove prescelti da Beppe Grillo e dai suoi militanti M5S, tra giuristi come Rodotà e Zagrebelsky e lo stesso Prodi, si nomina Emma Bonino, apprezzata ex Commissario Europeo.

Ma come sa bene il segretario Bersani, il nome che il Pd dovrà indicare al Parlamento ha una doppia importanza. L’uomo, o la donna, che andrà al Quirinale rappresenterà l’Italia in sette cruciali anni in cui l’Europa diventerà nuova comunità politica, dovrà ritrovare in Patria dialogo e sviluppo, ma soprattutto darà – al di là delle sue intenzioni – il segnale per un possibile governo a quasi due mesi dal voto.

Nell’indicare un Presidente, il Pd sceglierà che partito essere. Ogni formula è legittima, ma la rotta presa non si invertirà senza fatica. Rompere con il centro-destra, non con Silvio Berlusconi o il suo Pdl ma con la comunità di cittadini che vota a destra, bocciandola come «non democratica», implica un Pd militante, sintonizzato sugli umori di base e iscritti, meno su quelli degli elettori, favorevoli a intese parlamentari per sbloccare lo stagno, minaccioso in crisi economica.

I giornali indicano in Romano Prodi il candidato che incarnerebbe questa scelta per il Pd, lettura paradossale visto che Prodi, tecnocrate cattolico raziocinante, ha vinto le elezioni contro Berlusconi nel 1996 e nel 2006 proprio con i voti centristi, perdendo poi il governo per i capricci della sinistra radicale.

L’altra scelta è riconoscere, con pragmatismo, la situazione di arrocco del 24 febbraio, prendere atto dei no irridenti di Grillo e Casaleggio e fare quel che i padri del Pd, la vecchia Dc e il vecchio Pci, dal 1946 al 1994 tante volte hanno fatto, rinunciare agli slogan e lavorare nella realtà. Per i militanti che si sono sacrificati con entusiasmo potrebbe non essere gratificante, per i cittadini che vedranno un governo che mette mano all’economia, finalmente, sarebbe una preoccupazione in meno.

In questo caso il candidato favorito dai media sarebbe Giuliano Amato, e anche qui non manca il paradosso, visto che a guardare a tanti voti cattolici e moderati sarebbe chiamato un laico rigoroso (malgrado una sensibilità seria sull’aborto), l’ex direttore del Centro Studi della Cgil, un uomo della classica sinistra europea.

Il doppio paradosso, in realtà, non ha ragion d’essere, arrivati al Quirinale i candidati responsabili, da Prodi ad Amato, sanno di dovere guardare all’interesse nazionale e lo faranno. La scelta strategica di Bersani e dell’intero Pd è dunque, più che il nome, che «mandato» dare all’eletto, e in che direzione cercargli una maggioranza. Per un governo largo, sia pure a tempo, o per un governo che viva, come in Sicilia, con le mance di Grillo?

Il Pd è il partito che con più forza ha pagato prezzo al sacrosanto rinnovamento della politica e alle sue code populiste. Veltroni e D’Alema, che sono stati rispettivamente il software e l’hardware dei partiti nati dal Pci, hanno rinunciato al Parlamento. Alla Camera e al Senato sono andati due non dirigenti Pd. In campagna elettorale non una parola è stata spesa contro Grillo, nell’illusione che M5S mordesse Berlusconi, mentre dissanguava il Pd. Molti grillini, dice lo studio dei flussi elettorali di D’Alimonte e Mannheimer, hanno votato Berlusconi nel passato, il suo braccio destro Casaleggio si candidò perfino in una lista fiancheggiatrice, la loro ostilità va alla «Kasta», non alla Destra.

Il Pd sta decidendo in queste ore come toccava un tempo alla Dc, chiamata ogni sette anni a dare, o lasciar passare, un nome per il Quirinale. Da questo nome vedremo quanto «forza di governo» è oggi, quanto capace di «egemonia» politica e culturale, nel senso dettato dal fondatore del Pci Gramsci. Gramsci sapeva che in politica si è «egemoni», non quando si persuadono gli iscritti al partito, ma quando si porta in sintonia con le proprie ragioni chi è lontano, avversario. Gramsci studiava Machiavelli, distingueva politica, morale, propaganda e temeva il populismo.

Chiunque vada al Quirinale dovrà lavorare a un governo possibile o a elezioni senza caos. Perché, e qui forse la foga post voto qualche amnesia nel Pd l’ha aperta, i problemi italiani di non crescita, stagno economico, disoccupazione e perdita di peso internazionale (vedi caso India) restano interi. Chiunque vada a Palazzo Chigi dovrà combattere la disoccupazione e per farlo dovrà leggere il rapporto McKinsey Global Institute sul lavoro di marzo (integrale http://goo.gl/5uB0x ). I 40 milioni di disoccupati del mondo industriale pagano pegno alla tecnologia, che negli Usa ha cancellato 2.000.000 di posti tradizionali, creandone meno di 500.000, tutti però per personale qualificato. Dove il lavoro c’è, i lavoratori non hanno il sapere necessario: nel 2020 agli Stati Uniti mancheranno un milione e mezzo di laureati e 6 milioni di diplomati, in Francia oltre due milioni di laureati e due e mezzo di diplomati. Da noi la situazione peggiore.

La sinistra italiana ha una lunga tradizione di lavoro sull’educazione dei lavoratori, dall’Umanitaria di Milano alle 150 ore dei metalmeccanici: la rispolveri per creare lavoro dove c’è nel mondo globale, non dove manca. Se Matteo Renzi, malgrado gli scatti che fanno arrabbiare qualcuno, piace agli elettori è perché dà l’impressione di volersi misurare con questa realtà, di non fermarsi a una sinistra industriale, ma di vivere in quella post industriale di oggi. Inutile dividersi se avesse ragione la Thatcher o no, se Blair è stato leader laburista grande o no. Quella stagione è finita, la sinistra deve saper vivere in un mondo con più robot e meno operai. Vedremo se il Pd sarà capace di questo salto perché stavolta, come cantavano gli Inti Illimani in un altro tempo: «Non si tratta solo di eleggere un Presidente…».

La Stampa 16.04.13

"Dalla battaglia del ’48 al sì al maggioritario così il 18 aprile è un simbolo della Repubblica", di Filippo Ceccarelli

Vorrà dire qualcosa che si comincia a votare proprio il 18 aprile? Nella storia ci sono infatti date non solo memorabili, ma così ricorrenti e perfino insistite nella loro risonanza che è quasi impossibile far finta di nulla.
Così dopodomani la corsa per il Quirinale finisce per collocarsi sulla scia di altri significativi 18 aprile, richiamandone implicitamente le luci e le ombre in una specie di cabalistico calendario storico della Repubblica.
Il primo è com’è ovvio quello del 1948, «Con Cristo o con Stalin», vale a dire lo scontro elettorale che diede la maggioranza alla Democrazia cristiana segnando la storica sconfitta del Fronte popolare costituito, all’insegna di Garibaldi, dal Pci e dal Psi. Ed è curioso dopo 65 anni ricostruire il clima, i timori, il turismo primaverile bloccato, gli stranieri che anticipavano le partenze, il mercato immobiliare che crollava per paura che i comunisti
distribuissero le case sfitte ai poveri; chi ritirava i risparmi dalle banche, chi rimandava acquisti, villeggiature e perfino matrimoni «a dopo il 18 aprile».
A Cinecittà corre voce che alcuni film in produzione abbiano due diversi finali, a seconda del voto. C’è un unico sondaggio, Doxa, che assegna il 36 per cento alla Dc, il 20 al Fronte, il 14 alla destra, il 13 ai laici e un altro 13 agli indecisi. Dc e Comitati civici spingono per la partecipazione: «Vota anche se piove». Domenica è una giornata nuvolosa, ma senza gli scrosci dei giorni precedenti. Dopo la vittoria, con gioiosa metafora meteorologica, il segretario dc Piccioni commenta: «Credevo che piovesse, ma ha grandinato ».
Qualche anno fa Cossiga raccontò che a Sassari arrivarono delle armi, per precauzione. Ma nel delizioso «Al Viminale con il morto» (Baldini&Castoldi, 1996) Ugo Zatterin rende noto che l’unico fatto d’armi verificatosi il 18 aprile avviene a Pievepelago, Modena, dove un marito geloso minaccia con un revolver la moglie che si è fatta accompagnare al seggio da un giovanotto. Per il resto, a Milano, comunisti e cattolici si litigano i vecchietti da portare al voto; a Torino una coppia di sposi pastrocchiano sulle schede e si mettono a piangere; a Palermo il prefetto dispone un rimborso di denaro per i molti elettori che, borseggiati nei seggi, non hanno più soldi per tornare a casa. Lo spoglio dura fino al 20 aprile. I comunisti fanno finta di aver vinto. Vittorio Sereni, in una poesia, ricorda Umberto Saba «un giorno o due dopo il 18 aprile» girovagare per Milano «inseguito dalla radio. / Porca – vociferando – porca. Lo guardava/ stupefatta la gente./ Lo diceva all’Italia. Di schianto, come una donna/ che ignara o no a morte ci ha ferito».
Ma i poeti non fanno la storia. E nemmeno i brigatisti fasulli. Però: «Oggi 18 aprile 1978 si conclude il periodo “dittatoriale” della Dc che per ben trent’anni ha tristemente dominato con la logica del soppruso». Sì, «soppruso”, con due “p”, come si legge nel volantino tarocco che in pieno sequestro Moro spedisce uomini, mezzi, ministri e giornalisti in alta quota appenninica, a 1800 metri, confini
tra Lazio e Abruzzo, precisamente sul lago della Duchessa, peraltro ghiacciato – per le più infruttuose e grottesche ricerche che sia dato immaginare.
Mentre a Roma, non lontano da via Fani, con congruo e controverso ritardo per via di una doccia che perde proprio quel giorno si scopre una base brigatista davvero piena di materiale molto interessante: in quel di via Gradoli, non Gradoli paese, come invano suggerito da spiritisti molto ben informati. E insomma, ecco anche qui e allora l’eterno dramma, ma anche la commedia dell’Italia.
Passano altri 15 anni. E il 18 aprile del 1993, mentre sta andando in pezzi la Prima Repubblica, gli italiani votano una sventagliata di referendum di vario genere, anche se il più importante è sulle leggi elettorali, che in ogni caso assesta al sistema il colpo finale. Il vincitore è Mariotto Segni. Che stappa champagne e festeggia a piazza Navona con Occhetto, Pannella, Ayala e un migliaio di entusiasti referendari che sfoggiano distintivi su cui è scritto: «Sfida finale alla partitocrazia».
Falcidiato dagli avvisi di garanzia, il governo semi-tecnico di Amato deve solo formalizzare le dimissioni al Quirinale. Arresti, giunte regionali che cadono. «Mi sembra che la situazione politica – commenta il presidente della Camera Napolitano – sia molto imprevedibile ». Dalla Procura di Palermo, proprio quel 18 aprile arrivano altre carte su Andreotti, che pure trova il tempo di commemorare un francobollo sul bimillenario di Orazio. Il pentito Di Maggio racconta di aver accompagnato Totò Riina dall’esattore Salvo, dove lo aspettavano Lima e appunto Andreotti, con cui si è baciato. Dopo l’esito referendario Martinazzoli ha ormai perso il controllo della Dc. Di lì a qualche giorno proporrà di scioglierla. Tutti si aspettano Segni, vincitore morale di quella stagione, a Palazzo Chigi. Occhetto prenota il posto di vice. Ma Scalfaro risolve diversamente, con Ciampi.
Il 18 aprile del 1996 è l’ultimo giovedì della campagna elettorale che per la prima volta porterà il centrosinistra al governo. Cambio di direzione a
Repubblicae La Stampa.
In serata tele-duello Berlusconi-Prodi da Mentana. Il Polo della libertà chiude al Palatrussardi: «Siete bellissimi!» è l’esordio del Cavaliere. L’Ulivo si raccoglie a Roma, sul palco presenta Miriam Mafai: «Ammazza – apre Rutelli – quanto è bella Piazza del popolo!». D’Alema cita la Turandot, «là dove c’è la famosa aria “All’alba vincerò”». In realtà in politica si vince e si perde, mai essere troppo sicuri.

La Repubblica 16.04.13

"La paura nelle vene dell’America", di Vittorio Zucconi

Le bombe sono arrivate dal nulla e hanno fatto riesplodere il senso di vulnerabilità di una nazione che sperava di averlo sepolto. Infatti nessuno, nell’immenso macchinario della sicurezza nazionale americana, ne sapeva nulla e ancora ne sa nulla, un vortice di vuoto che risucchia e alimenta la paura. Lo ha ammesso Barack Obama, che rifiuta di usare la parola «terrorismo».
Neppure lui sa «chi» o «perché», dice. Eppure l’attacco è stato un’offensiva coordinata, preciso, teleguidato e ideologicamente mirato. Ha colpito i simboli più alti dell’America che il mondo ama e odia, Boston, la culla dell’Indipendenza, il giorno della Festa solenne del Patriota ribelle nel primo sparo contro l’impero britannico, la maratona che aveva raccolto entusiasti da 56 nazioni. E in diretta tv, per ottenere il massimo effetto.
Chiunque abbia progettato questo attentato, e fatto saltare probabilmente con segnali dal telefonino quegli ordigni in sequenza, sapeva che ci sarebbero state telecamere per l’arrivo della Maratona di Boston. E dunque la paura, non i molti morti, i cento feriti, le vittime o i danni, era il bersaglio. Bersaglio centrato.
Nella semplice, quanto vile «intelligenza » dell’assassino, o assassini, ancora senza un profilo, ma con un preciso movente di odio antiamericano, la più inoffensiva e pacifica delle manifestazioni popolari, come una maratona rappresenta un palcoscenico ideale per riesumare in un’America che se ne stava dimenticando il fantasma del terrore. Quindici mila uomini e undici mila donne, venuti da 56 nazioni, alcuni arrancando in carrozzella e muovendosi su protesi, si erano ritrovati per competere o soltanto partecipare a una competizione che di fatto è soltanto una festa popolare, organizzata nella Giornata del Patriota. È la commemorazione che lo Stato del Massachusetts organizza per celebrare la battaglia di Lexington, che segnò nell’aprile del 1775 l’inizio della guerra di Indipendenza e dunque della nascita degli Stati Uniti.
La povere della smemoratezza, e della indifferenza, che lentamente era scesa sul ricordo dell’11 settembre e aveva permesso all’America di illudersi che i fanatici fossero stati sconfitti o si fossero arresi, è stata soffiata via dalle quello spostamento d’aria e da quelle piume rosse e gialle di fuoco che i fotogrammi delle esplosioni hanno immortalato. Non soltanto a Boston la polvere si è alzata, dove la Guardia Nazionale, la forza armata di volontari che in ogni Stato riproduce lo spirito dei “Minutemen”, dei ribelli del 1775, è stata immediatamente mobilitata e schierata a difesa delle strade e dei luoghi più cruciali, come le centrali nucleari.
In tutte le metropoli della Costa Atlantica, il piano per le grandi emergenze e i dispositivi anti terrorismo sono entrati in azione. Cieli chiusi sopra Boston, la città dalla quale decollarono gli aerei lanciati contro le Torri Geme; a Washington, nelle strade attorno a Lafayette Square e alla Pennsylvania Avenue, l’arteria della democrazia rappresentativa fra il Congresso e la Casa Bianca, i posti di blocco hanno isolato e dirottato il traffico civile. A Manhattan non soltanto le zone più turistiche, ma soprattutto i ponti e tunnel che collegano l’isola al New Jersey, a Brooklyn, a Queens, sono presidiati dalle 3 di ieri, quando la prima bomba è esplosa, subito seguita da una seconda, da una terza e forse da altre, disinnescate.
L’ultimo miglio della Maratona di Boston, quello che metà dei partecipanti aveva già percorso e l’altra metà ha percorso barcollando incredula fra i rottami, i detriti e il sangue che le telecamere inquadravano e rilanciavano nel mondo, è stato l’ultimo miglio del falso senso di sicurezza che da più di dieci anni ormai aveva cullato gli americani. Dai giorni, ancora molto oscuri, delle buste con le spore dell’antrace che seguirono il massacro delle Torri e del Pentagono, il serbatoio dell’angoscia era rimasto quieto sotto la superficie. Altri terrori avevano lentamente, quanto inevitabilmente, rimpiazzato i ricordi di quei giorni, concentrandosi sulle catastrofi della finanza e poi dell’economia, o sugli orrori delle stragi di innocenti nei cinema o nelle scuole elementari.
Ma il genio malefico che nessuna spedizione militare, nessuna illusione ideologica, nessuna invasione ha mai potuto esorcizzare, era ancora vivo, dormiente. Altri attentanti, come nella metropolitana di New York, come a Times Square, come sulla tomba di Martin Luther King da parte di terroristi neo nazi, sventati, avevano scosso per pochi momenti il sonno della paura, ma da quel settembre del 2001 non c’erano più state
vittime dirette di azioni terroristiche. E se le autorità hanno esitato a lungo prima di proclamare ufficialmente che questi di Boston erano attentati, le circostanze — le esplosioni in sequenza, per massimizzare lo shock — il momento, la celebrazione dell’americanità nella incubatrice della propria storia, la giornata di festa con una folla di spettatori assiepati lungo quell’ultimo miglio, lasciano aperta ogni ipotesi sui responsabili, ma non sulla natura dell’attacco. Colpire il cuore della storia Usa.
Nel vortice di possibilità e di attribuzioni che ieri sera turbinavano — la Cnn aveva ricordato che la giornata coincideva con il 101esimo anniversario della nascita dell’“Amato Padre” della Corea comunista, Kim il Jong, possibile giorno della «vendetta» anti Usa — la sola verità già accertata è la vulnerabilità di una nazione, e di una società, che non può garantire sempre e ovunque la protezione dei propri cittadini. Se sono rafforzati e sigillati i trasporti aerei, restano spalancati i treni. Se si installano metal detector agli ingressi delle scuole superiori, non si possono sigillare gli ospedali. E una festa popolare con centinaia di migliaia di spettatori e quasi 40 mila partecipanti non può essere trasformata in quelle lugubri parate militari sovietiche sulla Piazza Rossa, nel cuore di una Mosca militarizzata e svuotata attorno. A lungo, in futuro, non ci saranno altre maratone, altre feste popolari, senza il pensiero di quelle piume di fumo e fuoco a Boston.
Obama era nello Studio Ovale quando Lisa Monaco, la sua assistente per la Sicurezza interna, lo ha avvertito e ha subito preparato le poche parole che avrebbe detto più tardi nella serata. Ma non c’era molto che lui, o il vice Biden, che l’ha scoperto guardando la tv accesa nel proprio ufficio alla Casa Bianca, il governatore del Massachusetts Patrick o nessun altro potesse fare per rinchiudere nella bottiglia il genio malefico della paura che ne era uscito. Nessuno di loro, nessuna autorità, ha ancora la più vaga idea di chi abbia armato questi ordigni, fortunatamente molto artigianali, molto rozzi e senza C4 o plastico, l’esplosivo preferito dai terroristi organizzati, e questa è la piccola consolazione che se ne può finora trarre.
C’è già chi parla di al Qaeda, chi ricorda le chiacchiere del dittatore nordcoreano, e chi nota che aprile è il mese del peggior attentato terroristico in territorio americano prima delle Due Torri, la strage di Oklahoma City compiuta da fanatici di estrema destra, e del massacro di Waco, Texas, quando le forze federali uccisero 82 seguaci di una setta arroccati in un edificio per 50 giorni. Aprile è il mese della tasse: ieri, il 15, era il “
tax day”, il giorno nel quale si deve pagare tributo, dunque il tempo dell’odio contro il governo federale «succhiasangue ». Ma il «chi» oggi è meno doloroso del «che cosa». Non c’è stato ieri sera un newyorkese, bostoniano, washingtoniano, un americano che non sia rientrato a casa chiedendosi se sul treno, sul ponte, sulla strada ci fosse, come per i soldati in Afghanistan, un ordigno pronto a esplodere.

La Repubblica 16.04.13

Insegnanti inidonei, un decreto scomparso", di Franco Bastianini

Non si hanno più notizie del decreto interministeriale contenente le disposizioni per il passaggio nel personale Ata (assistenti amministrativi e tecnici) dei docenti inidonei all’insegnamento per motivi di salute e degli insegnanti tecnico pratici titolari dei contingenti ad esaurimento denominati C999 e C555.

Le ultime notizie provenienti da fonti sia sindacali che ministeriali davano il decreto firmato, verso la fine di marzo, dal ministro dell’istruzione e trasmesso al ministro dell’economia e delle finanze e a quello per la pubblica amministrazione per la sottoscrizione di competenza.

Nonostante se ne siano perse le tracce, sul presunto testo del decreto che sarebbe stato firmato dal ministro Profumo sono continuate ad essere registrate reazioni, tutte negative, provenienti sia da parte sindacale che da qualche partito politico e, addirittura, da parte del nuovo presidente della camera. Laura Boldrini ha infatti definito inaccettabile il provvedimento e dichiarato di rendersi conto di quanta possa essere la frustrazione delle categorie coinvolte e di quante vite sarebbero sconvolte da quel provvedimento.

Decisamente negativo anche il giudizio espresso dalla responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi che, ai docenti inidonei riuniti in presidio a Roma nei giorni scorsi, ha promesso una modifica dell’articolo 14, comma 14, della legge 7 agosto 2012, n. 135, anticipando di aver chiesto l’adesione anche alle altre forse politiche. E in tal senso la Puglisi ha anche depositato un disegno di legge al senato che abroga la norma sul trasferimento forzoso tra gli Ata.

Una prima risposta alla richiesta della Puglisi sembrerebbe essere l’interrogazione al ministro Francesco Profumo presentata da alcuni senatori del Movimento Cinque Stelle. Con l’interrogazione i senatori chiedono, tra l’altro, al ministro di astenersi dall’adozione del decreto in modo da permettere l’avvio di iniziative legislative rivolte a tutelate i diritti dei lavoratori – contrattuali, professionali ed economici – che sarebbero pesantemente colpiti.

Come sostenuto in diverse occasioni da quanti sono intervenuti su un problema che si trascina da oltre dieci anni, una soluzione che soddisfi tutti non sembra vicina, almeno per quanto riguarda gli oltre 3.500 docenti già dichiarati inidonei e da anni utilizzati in altri compiti. Appare infatti difficile cancellare con un tratto di penna diritti acquisiti e posizioni lavorative ed economiche consolidate.

Le incertezze normative non hanno effetti solo su quanti sono già stati dichiarati inidonei, ma si riflettono anche su quanti lo saranno dichiarati in un prossimo futuro.

Una soluzione potrebbe essere quella di tenere distinte le due categorie di docenti. Per quella degli anziani offrendo loro tre alternative: se confermati inidonei, chiedere di transitare volontariamente tra gli assistenti amministrativi o tecnici, mantenendo lo status giuridico ed economico dei docenti; consentire loro di continuare a prestare servizio in altri compiti fino al raggiungimento dei requisiti minimi per accedere al trattamento pensionistico oppure, sempre previa visita medico collegiale, consentire loro di tornare all’insegnamento.

da ItaliaOggi 16.04.13

"Lo dice anche Fornero: niente soldi per la Cig", di Massimo Franchi

Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Veneto. A cui presto seguiranno Abruzzo e Liguria. È il triste elenco delle moltissime Regioni che hanno finito i fondi degli ammortizzatori in deroga. E che quindi non possono più pagare i circa 400 mila lavoratori che fino a ieri usufruivano degli assegni per la cassa integrazione e la mobilità in deroga. Si tratta dei lavoratori di aziende sotto i 15 dipendenti (che non godono della Cig ordinaria e straordinaria, autofinanziata da imprese e lavoratori) e di quelle che hanno finito altri ammortizzatori sociali. Il grido di dolore delle Regioni, che hanno il compito di autorizzare le richieste delle imprese (perché negli anni passati li co-finanziavano tramite fondi regionali) e girarle all’Inps, che materialmente eroga i fondi, viene ripreso dai sindacati che questa mattina dalle 9,30 manifesteranno unitariamente davanti a Montecitorio. I segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti a quell’ora saranno ricevuti dal presidente del Senato Pietro Grasso e un’ora più tardi dal presidente della Camera Laura Boldrini per un colloquio sulla drammaticità della crisi occupazionale e sul problema del finanziamento degli ammortizzatori. I comizi sono previsti a partire dalle 10.30. Anche l’Ugl sarà in piazza. Ieri intanto Elsa Fornero ha finalmente ammesso che, per quanto riguarda i fondi per coprire le necessità per tutto il 2013, il miliardo da lei citato non basta e ha preso atto che i soldi, diversamente da quanto sempre dichiarato, stanno già finendo. In un’intervista al Gr1 la ministra del Lavoro ha dichiarato: «Se riuscissi a destinare al finanziamento della cassa integrazione (in deroga, ndr) un altro miliardo di euro potrei dirmi soddisfatta, anche se c’è il rischio che possa non essere ancora sufficiente».

IL BUCO È DI 2,8 MILIARDI La cifra necessaria, come scritto da l’Unità il 10 aprile, è molto superiore. E va oltre quota 2,5 miliardi. Il conto si basa sulle aspettative rispetto all’anno appena concluso (per il ritardo nei pagamenti dovuti proprio ad una circolare di Fornero). Nel 2012 gli ammortizzatori in deroga sono costati 2,4 miliardi. Il dato è stato comunicato proprio nei giorni scorsi dalla stessa Fornero che ha comunicato come l’Inps ha aumentato il consultivo rispetto ai 2,2 miliardi precedenti. Ora l’aumento della domanda di ammortizzatori in deroga (la mobilità incide sul 20 per cento del totale, anche se la percentuale è più alta al Sud) viene stimata dalle Regioni nel 60% in più rispetto al 2012 per un totale di oltre 3,8 miliardi. Per il momento i fondi stanziati sono meno di un miliardo: esattamente 980 milioni. Dove verranno trovati gli oltre 2,8 miliardi mancanti? Fornero ieri ha precisato: «Non sarà necessaria una manovra aggiuntiva per trovare le risorse necessarie. Sono convinta che se riusciamo a ridurre ancora qualche spesa, riusciremo a trovare almeno un po’ di risorse». Il governo Monti, anche se è «in carica soltanto per l’ordinaria amministrazione, non resterà con le mani in mano». Fornero ha poi bacchettato le forze politiche: «auspico la collaborazione del Parlamento anche se mi sembra che siano ancora poco concentrate ha detto in tono critico sui problemi del paese». Fornero ha poi annunciato che oggi pomeriggio alle 16,15 incontrerà sindacati, Regioni e imprese per discutere «delle esigenze di intervento». Al tavolo del ministero siederanno anche Confindustria, Rete Imprese, Abi, Ania e Confcooperative.

FASSINA:FINALMENTE È chiaro a tutti però che toccherà al nuovo governo risolvere il problema. A rispondere alle parole della Fornero è il responsabile economia e lavoro del Pd, Stefano Fassina: «Finalmente il governo affronta il problema della carenza di risorse per la cassa integrazione in deroga» commenta Fassina ricordando che «contrariamente a quanto la ministra afferma, è stato un emendamento dei relatori alla Legge di Stabilità a reperire risorse aggiuntive, seppur insufficienti, per la cassa in deroga».

L’Unità 16.04.13

"I saggi: niente classi ma gruppi", di Alessandra Ricciardi

Ai saggi piace il modello nordico. Lezioni non solo frontali, gruppi organizzati in base ai livelli di apprendimento e non solo per classi di età. Tempo pieno esteso a modello generale del primo ciclo, attività pomeridiane di recupero individualizzate. E poi valutazione del sistema per il miglioramento delle performance.

La ricetta per innalzare il livello del sistema educativo è stilata nel documento presentato nei giorni scorsi dai saggi al capo dello stato, Giorgio Napolitano. Una lista ragionata di priorità, è l’intento del comitato che si è occupato delle riforme istituzionali e sociali, da sottoporre al prossimo esecutivo per un’azione mirata e condivisa su progetti specifici e da realizzare nel breve periodo. Un documento in cui si parte da alcune emergenze, come il contrasto all’abbandono scolastico, per le quali tra l’altro è possibile agganciare risorse fresche, come quelle già messe in campo dall’Unione europea per il piano di Coesione del ministro Fabrizio Barca. «Tutte le analisi condotte sul tema della crescita economica indicano nella disponibilità di un capitale umano di qualità uno degli ingredienti fondamentali per sfruttare a pieno le nuove tecnologie, per favorire l’innovazione e l’aumento di produttività», si legge nella sezione della proposta dei saggi dedicata all’istruzione. Le principali rilevazioni internazionali denunciano per l’Italia «il forte deficit in termini di qualità del capitale umano rispetto ai principali paesi europei». Si propone così di «adottare a breve termine misure in grado di alleviare alcune situazioni particolarmente gravi» e al tempo stesso di influire «sulla sostenibilità a lungo termine di un’area particolarmente rilevante per la pubblica amministrazione». Si parte dal contrasto all’abbandono scolastico: l’ultimo dato disponibile, riferito al 2011, dice che il 18,2% dei giovani non completa il percorsi di studi, lasciando il sistema senza un diploma e un titolo professionalizzante. In Europa il campione è quasi tre punti percentuali sotto.

I saggi propongono di incentivare il piano dell’azione di Coesione, in speciale modo nelle aree territoriali a rischio. Una delle misure individuate è il prolungamento negli anni del primo ciclo del tempo pieno, ovvero la scuola anche di pomeriggio. Ma come dovrebbero essere riempite le ore pomeridiane? Non più con lezioni frontali, ma con attività anche pratiche, non più con suddivisioni dei ragazzi per classi ma per gruppi, proprio così come avviene nei paesi del Nord. Lavorare su piccoli gruppi consentirebbe tra l’altro di sperimentare metodologie didattiche innovative e percorsi individualizzati, che possono ricomprendere per esempio i corsi di recupero per le competenze di base in cui i ragazzi hanno maggiori difficoltà. La proposta può raccogliere consensi a destra come a sinistra, visti i programmi messi in campo in questi anni dagli schieramenti. Restano però due problemi,a cui non si fa cenno nel documento: la sostenibilità finanziaria dell’operazione, visto che eventuali fondi europei non potrebbero coprire tutte le spese di personale e di strutture; una nuova e diversa organizzazione del lavoro, e forse anche provenienza, dei docenti e degli assistenti.

da ItaliaOggi 16.04.13