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Fassino: «Ci sono soltanto due strade Esecutivo Bersani o del Presidente», di Aldo Cazzullo

Piero Fassino, lei come segretario Ds fu cofondatore del partito democratico. Ora teme per la sua sopravvivenza?
«Qui non è in gioco solo il destino di un partito, e neppure solo del Quirinale e del governo, ma della democrazia. Il voto del 24 febbraio ha segnato la conclusione di una lunghissima era politica, la Prima Repubblica. Dopo tanto blaterare di Seconda Repubblica, in realtà l’assetto seguito alla guerra finisce adesso».
Perché dice questo?
«Perché l’Italia in cui siamo cresciuti non c’è più. Siamo cresciuti in una democrazia rappresentativa che aveva come pilastro i grandi corpi intermedi: partiti, sindacati, associazioni di categoria; soggetti di rappresentanza, mediatori di conflitti, elaboratori di proposte. Oggi un quarto del Paese non solo non si riconosce nei partiti, ma si organizza contestando la funzione di quei corpi intermedi. Come siamo mortali noi, sono mortali le forme della politica; e la democrazia del 2000 non può essere la stessa del ‘900. Del resto, è normale che sia così. Ogni secolo è segnato dall’evoluzione delle forme della politica. Il ‘700 con l’Illuminismo vide la fine dell’assolutismo feudale, e con la Rivoluzione francese l’eguaglianza dei cittadini. L’800 vide la fine degli imperi, la nascita degli Stati nazionali, l’egemonia della borghesia liberale. Il ‘900 fu il secolo del suffragio universale, della democrazia parlamentare, dei grandi soggetti politici di massa». Il nostro sarà il secolo della democrazia online?
«Noi oggi dobbiamo pensare le nuove forme e modalità della democrazia, nell’era del web, della globalizzazione, della società flessibile. Dal ’45 a oggi tutti siamo cresciuti in una democrazia rappresentativa il cui cuore era il Parlamento. Oggi se il Parlamento restasse chiuso sei mesi, c’è il rischio che nessuno ne chieda la riapertura. Questo è il vero tema. E nessuno lo affronta. Eppure è un tema affascinante: reinventare la democrazia. Non è un fenomeno solo italiano. Lo ritrovi in Francia, in Spagna, in tanti Paesi. Lo ritrovi in Europa».
L’Europa da sogno è diventata bersaglio.
«Appunto. La politica era forte quando mercato, nazione e Stato coincidevano e la sovranità della politica era piena. Oggi, di fronte alla globalizzazione, quante cose che investono la nostra vita non passano più per la sovranità di chi governa un Paese? Il primo scossone fu Chernobyl, che ha cambiato l’agenda ambientale mondiale. Il crollo delle banche americane e del sistema finanziario internazionale ha evidenziato l’impotenza dei governi nazionali. Fare l’Europa è più che mai necessario. Ma non puoi riuscirci se non hai con te i cittadini. Ovunque emergono forme di ripiegamento nazionale o territoriale; perché l’Europa non ha individuato ancora i modi che consentano ai cittadini di riconoscersi in essa. Il deficit non riguarda solo i bilanci, ma anche la democrazia. Che va ripensata su scala europea».
Torniamo al Pd. Lei teme una scissione?
«No, e in ogni caso va evitata qualsiasi nostalgia del passato. All’epoca dissi che doveva essere un partito nuovo per un secolo nuovo. Non era il prolungamento di ciò che c’era prima; era lo sforzo di mettere in campo una forza in grado di interpretare una società che stava cambiando tutte le sue forme di organizzazione. Se il Pd ha una missione, è questa. La sua tenuta e la sua riuscita dipendono dalla capacità di compierla, reinventando la democrazia».
All’interno del partito molte voci indicano il rischio di una rottura.
«Io credo invece che ci siano tutte le condizioni per discutere senza spaccarci, senza dividerci. Renzi, o Barca, o qualunque di noi: il problema non è il destino personale, è la responsabilità verso la nostra gente e il Paese. Ridisegnare democrazia e futuro dell’Italia, questa è la discussione vera da fare all’indomani dell’elezione del capo dello Stato e della nascita di un governo. Sono passaggi importantissimi, che però non risolvono la questione di fondo».
Già si parla di Renzi candidato a Palazzo Chigi per prendere voti al centro e di Barca segretario per rassicurare la sinistra del partito. Ma può funzionare lo schema?
«Se affrontiamo il tema in questi termini, partiamo dalla coda e non dalla testa. Dobbiamo ricostruire forme e modalità della politica: linguaggio, ruolo delle istituzioni, rapporto con gli italiani, che oggi non hanno fiducia in noi; se gli proponiamo di passare dai partiti così come sono, non ci vengono. Renzi per un verso e Barca per un altro, ognuno di noi con la sua storia e il suo lessico, hanno già aperto la discussione. Il Pd deve avere coraggio e spronare tutto il sistema politico ad avviare la fase costituente di una nuova democrazia. Non sono cose che si decidono con una direzione di partito o con un referendum tra due leader; è il momento di alzare il tono. Va ripensato tutto, anche il rapporto tra partecipazione e tecnologia. Per mezzo secolo, i partiti si sono organizzati in forme fisiche: sezioni, convegni, congressi. Radunavi gente in una stanza, un teatro, un palasport, e discutevi. Oggi i luoghi della discussione sono anche altri: il web, twitter, facebook».
Quindi è sbagliato irridere i grillini per le consultazioni online per il Quirinale?
«Io non irrido, anzi la rete ci dà un’enorme potenzialità. Ma è uno strumento, non un fine. Può essere un metodo straordinario di socializzazione, ma può anche essere usato come un luogo di stalking politico».
Lei al Quirinale chi vede?
«I nomi deve farli chi ne ha la responsabilità. Io nel 2006 fui il regista dell’elezione di Giorgio Napolitano, e ne sono molto orgoglioso».
Quali caratteristiche deve avere il suo successore?
«Deve essere frutto di una scelta condivisa. E deve essere una personalità riconosciuta nel Paese e anche fuori. La riconoscibilità internazionale del presidente della Repubblica è decisiva. In questi anni di crisi acutissime, se non avessimo avuto Ciampi e Napolitano il mondo non avrebbe saputo con chi parlare. Quando Obama chiuse il suo primo incontro con Napolitano, che doveva durare mezz’ora e durò un’ora e 40 minuti senza interprete, disse che non aveva mai conosciuto un uomo politico così…».
Napolitano però non ebbe i voti del centrodestra.
«È vero. Quando feci il suo nome a Berlusconi, lui mi disse: “Noi non lo votiamo, però posso conviverci”. Era una forma di condivisione, per quanto minima».
Meglio un’intesa con il Pdl o con i Cinque Stelle?
«L’importante è che sia una personalità in cui la società italiana possa riconoscersi e avere fiducia».
E per il governo, si può pensare a un accordo con Berlusconi?
«Guardi, intanto cerchiamo di evitare un nuovo ricorso alle urne. Da sindaco incontro ogni giorno centinaia di persone. Nessuno mi dice: torniamo alle elezioni. Il voto anticipato aggraverebbe la credibilità di tutti i partiti e del sistema. Le ipotesi sono due: un governo Bersani, espressione del centrosinistra; o un governo del Presidente, che assuma la piattaforma indicata dai saggi. Saranno decisivi l’elezione del capo dello Stato e il clima che creerà nel Paese».

Il Corriere della Sera 14.04.13

I sette anni di Re Giorgio l’ex “comunista moderato” che ha conquistato il Paese, di Filippo Ceccarelli

Per quanto il finale sia amaro, che più amaro forse non si potrebbe, e perfino «surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente», ecco, come sempre toccherà alla storia il giudizio definitivo. Ma fin d’ora, e senza troppi timori, ci si può prendere la responsabilità di sostenere con dovizia di pezze d’appoggio che il settennato di Giorgio Napolitano è stato politicamente lunghissimo, quasi tutto eccellente, per certi versi magistrale e a tratti anche straordinario, nel duplice senso di inconsueto ed eccezionale nel suo dispiegarsi.
Se proprio bisogna pescare il pelo nell’uovo, il dubbio, il sospetto, o forse la maliziosa suggestione è che le cose abbiano cominciato a girare male – intercettazioni e polemiche con la Procura di Palermo, morte di D’Ambrosio, malevolenze grilline, dissapori con Monti, equivoci con il Pd, impotenza e sfinimento dopo le elezioni, propositi poi
rientrati di anticipare le dimissioni, accuse per la commissione dei dieci presunti saggi o facilitatori, critiche sulla grazia concessa in extremis agli americani del sequestro di Abu Omar – dal momento in cui (inverno 2012) i mezzi d’informazione, a partire dal
New York Times,
hanno cominciato a chiamare Napolitano “Re Giorgio”.
E non per le antiche dicerie pseudodinastiche che lo volevano figlio naturale di Umberto di Savoia, maturate in tempi remoti ai margini di un Pci ancora intriso di diffidenze staliniste, ma perché fino a quando il presidente della Repubblica ha svolto da par suo il ruolo del contrappeso di Berlusconi gli equilibri erano chiari e visibili; e poi invece, dopo la fuoriuscita del Cavaliere, molto meno. E quella che per un tempo assai lungo si è potuto considerare a pieno titolo un’“autorità”, è diventata per forza di circostanze un “potere” – e il potere trova sempre i suoi detrattori, ed è anche un bene che sia così.
Però questo non toglie che per intensità i sette anni di Napolitano sono durati almeno il doppio, e che in quello che una volta lui stesso ha definito l’”angoscioso presente”, giorno dopo giorno, monito dopo monito, consiglio discreto dopo consiglio segreto, controfirma pacifica dopo controfirma al calor bianco, egli sia rimasto il primo della classe che è sempre stato nella sua vita. Un uomo molto preciso, anzi pignolo, anche superbo ma proprio per questo contegnosamente solido, costantemente dedito a perfezionare il rapporto tra forma e sostanza. E soprattutto: una persona seria e dignitosa in un paese sempre più di buffoni e
cialtroni.
La sintesi è brutale. Ma nell’Italia dei talk-show e dell’”Isola dei famosi”, del lifting ostentato dai capi, delle pernacchie di Bossi e delle Asl calabresi, del bunga bunga, di Schettino e delle varie cricche o P3, ben prima che dai pallidi, fragili e svuotatissimi partiti Napolitano fu indicato per quel posto da Carlo Azeglio Ciampi come il classico uomo d’altri tempi. Non esattamente come l’erede di una cultura politica, ma il sopravvissuto di una classe di uomini politici ormai in via d’estinzione. Una figura che poteva tenere assieme il paese con il fil di ferro dell’esperienza, della cultura e dei sacrifici effettuati in un tempo di ferro e di fuoco, e con duttile intransigenza adattare quel passato al presente.
Allo stesso modo sono poi stati gli eventi tempestosi di questi sette anni ad aver trasformato, o per meglio dire ad aver costretto questo ottantenne comunista dai tanti aggettivi (“inglese”, “moderato”, “migliorista”, “riformista”, “liberale”, “napoletano”) a farsi leader nazionale e rassicurante. Il processo è assai ben descritto nell’introduzione della recentissima biografia di Pasquale Chessa, “ L’ultimo comunista” (Chiarelettere, 248 pagine, 15 euro), che di Napolitano tratteggia le radici anche psicologiche e nella vita del personaggio individua bene le costanti del suo settennato.
Certo, è stato per il presidente difficile e faticoso. Dopo che ebbe un malore, a Bolzano, nel 2008, una lunga cerimonia, un caldo terribile, la moglie Clio disse che il Quirinale “non è una passeggiata di salute”. E tuttavia, l’imprevedibile sorpresa è che quella poltrona l’ha anche reso meno freddo, meno distante, più spontaneo, quindi più amato e popolare, o pop, se si preferisce.
Pare di rivederlo, i primissimi giorni, a Napoli, tra l’atterrito e il divertito, mentre si allungava sul petto una t-shirt ricevuta in dono su cui era scritto: “Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli”. Mai metamorfosi è apparsa più lieta e insieme sorvegliata. Pochi sanno che il presidente da giovane ha recitato da attore, ma certo faceva impressione sentirlo con quel suo vocione alle prese con scolaresche, oppure vederlo indossare pettorine sgargianti,
giubbotti da top-gun, o tagliare torte a forma di stivale, o beccarsi schizzi di aranciata negli spogliatoi dopo la vittoria degli azzurri al Mundial.
Una volta, a teatro, dei bimbi di Scampia vestiti da Pulcinella si sono divertiti a stropicciargli sul volto – e lui gliel’ha fatto fare – il nerofumo di scena. E allora Clio rapidamente, affettuosamente, ma allegra, l’ha ripulito con il fazzoletto. Ed è parso di cogliere in questa scena più che un’attitudine adattarsi ai vistosi moduli correnti, l’accettazione di un’umanità fino ad allora compressa, almeno in pubblico, se non ritenuta sconveniente e dannosa. Come se nella sgangheratissima Italia d’inizio secolo Napolitano, di cui Chessa racconta l’immane traversata fra le più gloriose e terribili vicende della guerra fredda, avesse conquistato il suo cuore. Quello stesso che in questi ultimi mesi l’ha portato spesso a commuoversi.
Ci saranno tempo e modo e degne competenze per analizzare le novità costituzionali del suo settennato. Ma anche qui, con qualche sussidio documentale si azzarda l’ipotesi che la presidenza di Napolitano sia stata la più politica fra tutte quelle della storia repubblicana. Specie per quello che riguarda la partita giocata con Berlusconi, e più in generale la necessità di mantenere dei punti fermi in una situazione segnata – come volle specificare un giorno – dai “rischi di una regressione civile”.
Ed è difficile dargli torto, considerate le condizioni in cui il Capo dello Stato si è dovuto muovere, anche da parte di chi non riesce a perdonargli di aver apposto la sua firma su tante, forse troppe “leggi vergogna”, a cominciare dal Lodo Alfano e proseguendo con il legittimo impedimento, la prima cancellata dalla Corte costituzionale e la seconda da un referendum.
E le orribili norme sull’immigrazione, i pastrocchi sul federalismo, i favori di ogni tipo a Mediaset. Senza aprire discussioni sui poteri che assegna la Carta costituzionale, in diversi casi forse il Quirinale poteva fare di più. Però sulle intercettazioni e sul cosiddetto “decreto-Eluana” il presidente si è scoperto parecchio lasciando capire che avrebbe ingaggiato battaglia, andando sino in fondo. Difficile dire che cosa sarebbe successo. Così come una fitta coltre di riservatezza avvolge tuttora passaggi cruciali nei quali è possibile che Napolitano, che più di una volta il Cavaliere ha presentato come un vero e proprio sabotatore, abbia detto e fatto più di quanto gli convenisse far sapere all’esterno.
Di rilevante si sa solo che quando Berlusconi andò al Quirinale per sfogarsi sui giudici e il caso Ruby, e cominciò a fare un numero dei suoi, il presidente lo gelò: “Si calmi”. Al momento del 150° dell’unità si registra il massimo del successo demoscopico. Tra colpi di sonno, spread alle stelle, mercimonio parlamentare, manovre economiche a vuoto e intercettazioni che calavano a picco la credibilità del governo, la scelta sull’intervento militare in Libia fu praticamente gestita sul Colle, per non dire dal Colle.
Al netto delle polemiche di Di Pietro, delle corna di Bossi e delle insolenze di Grillo, è ancora troppo presto per un giudizio complessivo. Eppure, al di là di presunta arrendevolezza e astuto realismo, l’impressione è che Napolitano abbia al dunque e con indubbia abilità alternato prudenza e decisione prima per contenere Berlusconi, poi per cercare di porre riparo ai suoi guasti e quindi, allorché Obama e la Merkel non si fidavano più, per sostituirlo in modo indolore con Monti.
E qui per ora ci deve fermare. Poi forse tutto è proseguito accelerandosi in uno smottamento cataclismatico di cui l’esito elettorale è un chiaro segno; e allora nessuno più ha potuto fare nulla, nemmeno Giorgio Napolitano.

La Repubblica 14.04.13

"Pdl e Pd recuperano 3 punti. Avanti (di poco) il centrodestra", di Renato Mannheimer

Solo una minoranza degli italiani vorrebbe nuove elezioni a breve. La maggior parte auspica la celere formazione di un governo, dividendosi tra chi chiede una «grande coalizione» e chi preferirebbe ancora l’accordo Pd-M5S. Ciononostante, la prospettiva di tornare alle urne continua ad essere all’ordine del giorno. Secondo molti osservatori, anche il nuovo presidente della Repubblica non riuscirà a dipanare la matassa e sarà costretto a indire nuovamente le consultazioni per il Parlamento.
Come si comporterebbero gli elettori in questo caso? Nessuno può saperlo con precisione, in quanto molto conterebbe, ancora una volta, la campagna elettorale. Come si sa, sempre più cittadini elaborano la loro scelta in relazione a quest’ultima. Non a caso, in occasione del voto di febbraio, più di un terzo (35%) degli italiani ha dichiarato di avere formato la propria decisione nell’ultima settimana, influenzati anche dalla propaganda di questo o quel partito. È possibile, tuttavia, avere un’indicazione dell’evoluzione degli orientamenti intervenuti dal momento delle elezioni a oggi, basandosi sulle più recenti inchieste di opinione.
Uno dei trend più significativi, sul quale ci siamo già soffermati, è il progressivo decremento di consensi per il M5S. Dopo avere avuto un forte exploit subito dopo le elezioni, il Movimento di Grillo ha fatto registrare, settimana dopo settimana, una flessione, che si è confermata anche in questi ultimi giorni: il M5S si colloca, per la prima volta, sotto il 24%, con un regresso di quasi il 2% rispetto all’esito del voto di febbraio. Si tratta, beninteso, di una erosione modesta, ma, dato il suo andamento costante nel tempo (solo nell’ultima settimana, si registra un calo dell’1%), significativa di uno stato di insoddisfazione che caratterizza sempre più una parte del seguito di Grillo.
Una larga quota dei consensi persi dal M5S è andata a favore dei partiti maggiori: il Pdl e, specialmente, il Pd. In qualche modo, parrebbe che un segmento dei voti «in libera uscita» giunti a Grillo, motivati spesso dalla protesta, stiano, sulla base dell’esperienza di queste settimane, tornando ai partiti di origine. Il Pd, in particolare, ha visto, rispetto all’esito elettorale, un accrescimento di più del 3% e si attesta oggi poco sotto il 29%. Il buon risultato del partito di Bersani può apparire sorprendente, a fronte dei crescenti conflitti interni e dello scarso successo sin qui dei tentativi del segretario di formare un governo. Con tutta evidenza, questi fattori non hanno impedito il «ritorno» di un certo numero di consensi dati alle elezioni da un verso al M5S (i voti dati a Grillo e tornati oggi al Pd costituiscono l’8% del seguito attuale del partito di Bersani) e dall’altro, in misura però nettamente minore, a Scelta civica di Monti (analogamente, i voti dati a Monti oggi passati al Pd rappresentano il 4% dell’elettorato di quest’ultimo).
Anche il Pdl di Berlusconi fa registrare un aumento di consensi, che il Cavaliere non manca di far rilevare in ogni suo intervento. Oggi il suo partito sfiora il 25%, a fronte di poco meno del 22% ottenuto a febbraio, con un incremento di quasi il 3%. I «nuovi» elettori che oggi scelgono il Pdl provengono da diversi partiti, specie dal centro, ma anche dalle forze minori di centrodestra e dal M5S.
Si assiste dunque a una sorta di polarizzazione dei consensi, con un incremento contemporaneo di entrambe le forze politiche maggiori. Come se gli italiani tornassero a preferire la presenza di due grandi partiti e auspicassero una sorta di semplificazione del quadro politico. Ciò avviene a scapito sia, come si è detto, del M5S, ma anche, in misura rilevante, delle forze collocate nel centro. In particolare, la lista Scelta civica, capeggiata da Mario Monti, subisce un netto arretramento, attestandosi oggi al 6,5%, con un calo, rispetto al risultato elettorale, di quasi due punti. Questo andamento è dovuto, oltre che a una sorta di «delusione» frequentemente sentita nei confronti delle forze di centro, anche al fatto che la comunicazione originata da queste ultime si è, in queste settimane, molto attenuata, se non scomparsa, mentre quella delle due forze politiche maggiori sembra inalterata anche rispetto alla campagna elettorale.
Il quadro di insieme ci comunica uno spostamento di lieve entità, ma di grande importanza, rispetto all’esito del voto di febbraio. Come si ricorderà, quest’ultimo ha visto il centrosinistra prevalere, seppur di poco (0,4%) e conquistare così il decisivo premio di maggioranza alla Camera. Oggi la situazione è all’inverso: secondo i nostri dati, il centrodestra prevale per lo 0,3%. È un esito confermato in diversa misura anche da tutte le altre ricerche pubblicate in questi giorni. Dunque, se queste intenzioni di voto trovassero conferma nei comportamenti effettivi (ma su questi, come si è detto, conta la campagna elettorale) la maggioranza dei deputati sarebbe appannaggio della coalizione guidata da Berlusconi. Ma l’esiguità della differenza da noi rilevata non comporterebbe necessariamente un analogo vantaggio al Senato. Riproducendo probabilmente l’attuale situazione di ingovernabilità. Di qui, una delle prime esigenze della nuova legislatura, sempre ricordata, ma, significativamente, mai attuata: la revisione dell’attuale pessima legge elettorale.

Il Corriere della Sera 13.04.13

"Ora la politica deve decidere", di Michele Ainis

I nostri dieci saggi si sono trasformati in dei saggisti. Nel senso che hanno generato un saggio, e nemmeno tanto breve: 83 pagine la parte scritta dal gruppo di lavoro sull’economia, 29 pagine quella firmata dal gruppo sulle riforme istituzionali. Ne valuteremo (pardon, ne saggeremo) a mente fredda le proposte, dove indubbiamente non manca qualche buona idea, specie sulla crescita, sulla concorrenza, sul lavoro. Quanto alle istituzioni, s’incontrano alcune idee esatte e altre originali. Peccato che le idee esatte non siano originali, mentre quelle originali suonino inesatte.
È il caso, per dirne una, dell’intenzione di rinvigorire il referendum, in modo che i cittadini possano contare davvero. Come? Elevando il numero delle sottoscrizioni necessarie per indirlo. Idem sulle leggi popolari, tanto per raffreddare gli entusiasmi. È il caso, per dirne un’altra, del progetto d’istituire la quarta Bicamerale, come se tre flop di fila non fossero abbastanza. È infine il caso delle sanzioni disciplinari ai magistrati: qui i saggi propongono una Consulta bis, disegnata e designata con i medesimi criteri. Dopo di che ci sarà un bel derby da giocare.
Quanto al resto, il gruppo di lavoro ha brevettato una nuova Camera: la Camera dell’ovvio. E dunque via al processo breve, come se qualcuno lo desiderasse lungo. Stop al sovraffollamento carcerario, riducendo le pene detentive. Una legge sui partiti, peraltro già suggerita da don Sturzo nel 1958. Un’altra sulle lobby, sollecitata invano da 40 progetti finora depositati in Parlamento. Robuste sforbiciate al numero dei parlamentari, così come alle competenze regionali (silenzio, però, sulle Province). Superamento del bicameralismo paritario. Pensose riflessioni sul troppo diritto che ci portiamo sul groppone. E la forma di governo? Qui i 4 saggi si dividono; ma quella parlamentare batte il presidenzialismo per 3 a 1.
Sarà stato per questo, per non alimentare ulteriori divisioni, che sulla legge elettorale il gruppo di lavoro ha scelto di non scegliere. Squadernando sullo scrittoio del presidente tutto il rosario dei modelli: francese, tedesco, spagnolo o altrimenti misto com’era il Mattarellum. Sicché Solone diventa Rigoletto: «Questa o quella per me pari sono». Certo, noi poveri mortali ci saremmo attesi una più netta indicazione. Tuttavia per ottenerla avremmo dovuto prelevare i saggi da Oltreoceano. Oppure anche in Italia, però da una parrocchia sola.
È la nostra tragedia nazionale: non sappiamo più parlarci. Se metti due italiani attorno a un tavolo, tirano fuori tre soluzioni contrapposte. E per conseguenza siamo incapaci di decidere, mentre là fuori il mondo corre veloce come un jet, mentre l’economia reclama risposte rapide, immediate. Anche l’espediente dei due gruppi di lavoro, escogitato da Napolitano per favorire la decantazione della crisi, si è concluso con una messa cantata. Per forza: ogni partito è affetto dal vizio di Narciso, si specchia nella propria immagine riflessa, osserva il proprio ombelico senza curarsi dell’ombelico altrui.
Almeno un risultato, tuttavia, i saggi ce lo hanno consegnato: per la prima volta si legge in un documento ufficiale il ripudio del Porcellum. Sempre ieri, il presidente Gallo ci ha ricordato come il monito della Corte costituzionale sia caduto nel vuoto, rendendo il Parlamento inadempiente. Chissà, forse questo doppio altolà potrà smuovere l’inerzia del governo a provvedere con decreto. Sempre che il governo decida di decidere.

Il Corriere della Sera 13.04.13

"Ogni surplus vada all'emergenza lavoro", di Laura Mattucci

Nei prossimi mesi destinare qualunque sopravvenienza finanziaria all’emergenza lavoro e al sostegno delle persone e delle famiglie in grave difficoltà economica». Anche per i saggi la crisi e il lavoro sono un priorità, e la relazione sulle materie economiche presentata ieri al presidente Giorgio Napolitano ruota intorno a questi nodi. Tra le prime proposte, quella di «rifinanziare gli ammortizzatori sociali in deroga per il secondo semestre dell’anno 2013 (circa un miliardo), e affrontare la grave questione dei cosiddetti esodati». C’è anche quella di rivedere il patto di stabilità interno, e di completare il pagamento dell’intero ammontare dei debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese e far sì che l’obbligatorio termine di 30 giorni per i pagamenti, in vigore da inizio anno, sia rispettato. Priorità è anche «rilanciare il ruolo dell’Italia negli scambi internazionali», punto che parla diffusamente anche di Expo 2015. Lavoro da creare, da tutelare, da favorire, soprattutto quello giovanile e femminile, «potenziando, tra l’altro, il telelavoro, e gli strumenti per migliorare la concilizione dei tempi di lavoro e di cura familiare e realizzare l’alternanza scuola- lavoro, anche per gli universitari». Si parla molto di come «creare e sostenere il lavoro», insomma, nella relazione del gruppo di lavoro in materia economico- sociale ed europea, composta da Filippo Bubbico, Giancarlo Giorgetti, Enrico Giovannini, Enzo Moavero Milanesi, Giovanni Pitruzzella e Salvatore Rossi: 83 pagine che Napolitano ha intenzione di lasciare in eredità al presidente prossimo venturo. Ecco alcuni punti contenuti nella relazione. Conti pubblici. Mantenere l’impegno all’equilibrio di bilancio è reso più difficile dal fatto che l’indebolimento della capacità dell’economia italiana di generare reddito dura ormai da almeno 15 anni. Infatti, è il reddito nazionale che garantisce, anche agli occhi dei creditori, il rimborso potenziale del debito pubblico. Ciò nonostante, quell’impegno va mantenuto. Lo Stato dovrà collocare nei restanti mesi di quest’anno oltre 200 miliardi di titoli sul mercato. Il favore dei potenziali acquirenti dipenderà anzitutto dai comportamenti correnti di gestione del bilancio pubblico. Riforma Fornero «da rivedere sul tempo determinato. Vi è il rischio che le imprese siano estremamente prudenti nel procedere ad assunzioni a tempo indeterminato: sarebbe utile riconsiderare le attuali regole restrittive nei confronti del lavoro a termine ». Reddito minimo di inserimento. Si tratta di misure «onerose e quindi difficilmente realizzabili, a meno di una decisa redistribuzione delle risorse disponibili », ma si suggerisce «un approfondimento della questione nell’ambito di un possibile ridisegno delle politiche sociali ». Tra le altre proposte anche il riconoscimento di un credito d’imposta ai lavoratori a bassa retribuzione (tra cui molti giovani), che si trasformi in sussidio monetario se eccede l’imposta dovuta. Fisco. La pressione fiscale è troppo alta, va presentato al Parlamento il disegno di legge delega fiscale, garantire la redistribuzione, e tagliare il carico fiscale sui redditi da lavoro. Vengono inoltre suggerite «diverse misure per migliorare il rapporto tra fisco e cittadino e per rafforzare la lotta all’evasione». Necessario modificare alcune delle procedure Equitalia: l’amministrazione deve adottare comportamenti proporzionati al singolo contribuente, non vessatori. Spending review. Va rafforzata l’opera di riduzione e riorientamento della spesa pubblica delle amministrazioni. Lobby. Da disciplinare con albo per trasparenza. I gruppi di interesse particolare svolgono una legittima ma non sempre trasparente attività di pressione sulle decisioni politiche. Il gruppo di lavoro propone «una disciplina che riprenda i modelli del Parlamento europeo e quello degli Stati Uniti». Isee. È da rivedere, perché oggi è iniquo, distorsivo, inefficiente, a parire dalla proposta già discussa dalla Conferenza Stato-Regioni. Liberalizzazioni. Nel settore Re auto è necessario modificare «il meccanismo del rimborso diretto e vanno diffuse le clausole contrattuali che associano l’uso della scatola nera a congrui sconti sui premi pagati dai consumatori. Va poi favorita la mobilità degli assicurati». Nel mercato elettrico vanno effettuati «interventi finalizzati allo sviluppo del mercato libero retaib. Sul versante della generazione di energia, invece, l’Italia dovrebbe diventare un esportatore netto dei servizi di flessibilità. I saggi sollecitano l’immediata attuazione degli «indirizzi contenuti nella Strategia Energetica Nazionale, che insiste sulla necessità di creare abbondanza di offerta di gas. Nel settore farmaceutico, ci sono proposte per favorire l’ingresso dei farmaci generici, mentre in ambito postale «andrebbe ridefinito l’ambito del servizio riservato a Poste italiane e migliorate le condizioni alle quali gli altri operatori possono accedere alla rete dell’operatore dominante». Servizi pubblici locali. La presenza dei privati va «bilanciata da forti poteri di regolazione delle autorità pubbliche, dall’indirizzo generale e dal controllo politico degli enti locali, dalla proprietà pubblica delle infrastrutture fisiche. Per l’acqua va garantito lo status di bene comune e assicurato ai consumatori a basso reddito l’accesso a condizioni di favore per le percentuali necessarie, mentre vanno incrementati i prezzi per altri usi

L’Unità 13.04.13

"La grande illusione della web-democrazia", di Giovanni Valentini

Una pena del contrappasso mediatico o un segnale di avvertimento sulle illusioni della cosiddetta democrazia elettronica? L´annullamento delle “quirinarie” online del Movimento 5 Stelle, può essere interpretato in entrambi i sensi,anche, contemporaneamente, nell´uno e nell´altro. Ma si tratta comunque di un flop, tanto più clamoroso perché colpisce un movimento che proprio sulla Rete ha fondato la sua natura costitutiva, la sua identità culturale e politica. Quale che sia ora il responso del “popolo di Internet” a cinque stelle sulle candidature al Quirinale, risulterà fatalmente viziato da una riserva di legittimità e attendibilità che ne compromette il valore. Dai brogli elettorali di antica memoria, nell´era della Democrazia 2.0 si passa così agli imbrogli informatici.
Qualsiasi cosa sia successa (Grillo parla di un´intrusione di hacker, la società di controllo di semplici “anomalie”), il vertice del M5S, ha dovuto annullare questa prima tornata della consultazione online. E non è poco per un soggetto politico che finora non ha dimostrato una particolare responsabilità nel suo esordio parlamentare. Ma ora dovrebbe essere lo stesso Movimento a trarne le conseguenze, per riconoscere i limiti oggettivi di un tale strumento e adottare regole di trasparenza “erga omnes”. Per non restare prigioniero e vittima del suo totalitarismo mediatico.
La vulnerabilità del sistema non è soltanto un dato tecnologico. È più propriamente un fattore genetico di quella che un autorevole studioso come Stefano Rodotà, nel suo illuminante libro Il diritto di avere diritti, chiama “la dittatura dell´algoritmo”. E non certo per disconoscere la “cittadinanza digitale”, ma anzi per rafforzarla e tutelarla. “Nella società dell´algoritmo – avverte Rodotà – svaniscono garanzie che avrebbero dovuto mettere le persone al riparo dal potere tecnologico”. Da qui, dunque, la necessità di disciplinare la Rete in modo che non diventi il Far West o la giungla della comunicazione globale, a rischio di screditare se stessa, la propria funzione e i propri utenti. È una nuova frontiera della democrazia, da presidiare e difendere in funzione dell´interesse generale, favorendo la sua crescita sociale e civile.
Applicata alla vita politica, la lezione insegna che i legittimi diritti della “piazza virtuale” non possono essere delegati a un clic né quando si tratta di scegliere i propri rappresentanti né tantomeno un candidato alla presidenza della Repubblica. Quando è in gioco appunto la democrazia, occorrono evidentemente regole e garanzie superiori a quelle dell´e-commerce. Altrimenti, si rischia di mandare in Parlamento con una cinquantina di voti elettronici qualche sprovveduto o qualche screanzato che non conosce neppure la differenza fra Camera e Senato o, peggio ancora, di “eleggere” alla più alta carica dello Stato qualche star televisiva o qualche “cittadino comune” come fosse una nomination del Grande Fratello. Ovvero, di essere costretti alla ritirata o alla resa dai “pirati informatici”.
Con i suoi otto milioni e passa di voti depositati nelle urne, il Movimento 5 Stelle rappresenta ormai una forza politica popolare che come tale va rispettata e con la quale è necessario confrontarsi a livello istituzionale. Può rappresentare una “scossa salutare” per sconfiggere la partitocrazia, la corruzione e il malaffare, se sarà capace di contribuire in modo costruttivo al rinnovamento della democrazia italiana. Quella autentica, fatta di uomini e donne, di persone e di cittadini, non solo di clic spesso anonimi o addirittura clandestini.

La Repubblica 13.04.13

"L’ostinato pregiudizio", di Claudio Sardo

Il paese è impaurito, sfiduciato: le imprese chiedono aiuto, troppe famiglie precipitano nella povertà, i giovani sono derubati del futuro. Le elezioni hanno prodotto un quadro di ingovernabilità, eppure c’è assoluto bisogno di un governo che provi finalmente a cambiare rotta.

Il Paese è stremato anche perché la politica si è dimostrata in questi anni sempre più impotente e la seconda Repubblica ha prodotto un vero e proprio collasso del sistema.

Le elezioni hanno prodotto un quadro di ingovernabilità, eppure c’è assoluto bisogno di una riforma della politica, di una stagione costituente, di fare insomma ciò che per vent’anni non si è fatto.
Il governo e le riforme. Due binari distinti, ugualmente necessari. Oppure qualcuno pensa che si possa incidere nell’economia reale, e magari agganciare la ripresa, trascurando questo diffuso sentimento di rifiuto verso la mediazione politica e la stessa rappresentanza? O che si possa domare la tigre di Grillo con un governo di tecnici, di ortodossia europea, di continuo dosaggio tra tagli e incentivi, spending review e laboriose trattative a Bruxelles? Nonostante l’insuccesso elettorale, Pier Luigi Bersani ha avanzato subito dopo le elezioni una proposta politica che muove dalle difficoltà numeriche del Parlamento, ma al tempo stesso sfida tutte le forze parlamentari. Un governo di centrosinistra, che ovviamente dovrà fare i conti con più robusti contrappesi nelle Camere. E un percorso condiviso che, in tempi certi, raggiunga il traguardo della riforma delle istituzioni. A questa proposta finora è stato risposto di no. Per ragioni tattiche. Grillo ha deciso di giocare a favore di Berlusconi: invece di consentire la nascita del governo Bersani (instaurando un rapporto dialettico, sul «modello Sicilia») ha dilatato il potere di interdizione del Cavaliere. Grillo, come Berlusconi, vuole il governissimo Pd-Pdl, seppure per ragioni opposte.
Il leader del centrodestra, per parte sua, ha utilizzato il vantaggio regalatogli dal M5S per cercare di portare la trattativa di governo allo stesso tavolo di quella per il presidente della Repubblica. E così siamo finiti in questo stallo insopportabile. Eppure c’è chi grida, scandalizzato, che la colpa è tutta di Bersani. Il Corriere della Sera è il capofila di questo fronte. Antonio Polito, ieri, è stato perentorio nell’accusa: «La ragione del caos sta nella debolezza della proposta del Pd per uscire dalla crisi». La sola proposta adeguata, manco a dirlo, sarebbe il governissimo Pd-Pdl. Ma chi ha detto che un simile governo avrebbe la forza di fare ciò che oggi serve all’Italia? Non è bastato il modo con il quale Berlusconi ha affondato Monti per chiarire che la compartecipazione al governo sarebbe fonte di incertezze e paralisi, e dunque di un deficit di credibilità anche in Europa? Non è bastato il modo con il quale il Corriere ha puntato negli ultimi anni sulla contrapposizione tra politica e anti-politica per capire che un governissimo sarebbe sotto lo schiaffo di poteri esterni, i quali, all’occorrenza, non hanno remore nel foraggiare le forze anti-sistema?
Si vuole la capitolazione del Pd perché, senza la politica, ci si illude che le fragili forze del capitalismo italiano possano trovare un riscatto. Ma si rendono conto che oggi il Pd – pur con tutti i suoi difetti e le sue innegabili contraddizioni – resta uno dei pilastri su cui si regge l’unità nazionale e la stessa possibilità di rilancio del Paese? Certo, il Pd deve cambiare molte cose. Ma la politica va rigenerata – non azzoppata ulteriormente – se si vuole rilanciare l’economia reale. Ricreare un bipolarismo politica-antipolitica sarebbe come spingere l’Italia al suicidio. I cittadini devono ritrovare la trasparenza delle proposte di governo: devono conoscere cosa propone la sinistra, cosa propone la destra, cosa propongono i Cinquestelle. E i governi devono avere al loro interno un certo grado di omogeneità, anche per presentarsi con efficacia all’esterno.
Non c’è nulla di fazioso, in una simile proposta. Nel ’76 si poteva ancora pensare che «il potere logora chi non ce l’ha». Guidare la crisi oggi, provare a traghettare un Paese in difficoltà, è in tutta evidenza un sacrificio, assai più di quanto non sia una rendita. Peraltro, la proposta del Pd prevede che la guida del processo di riforme – non meno importanti per i cittadini – venga affidata alle forze esterne al governo. I «saggi» nominati dal Presidente hanno dimostrato ieri che un’intesa in quel campo è possibile. Ma occorre tenere distinti i piani. Come occorre distinguere tra governo ed elezione del nuovo Capo dello Stato. Mescolare le cose sarebbe l’inciucio più sgradevole. Perché la politica dimostrerebbe ancora una volta di confondere le scelte opinabili di governo dalle funzioni di garanzia e dalle regole valide per tutti.

L’Unità 13.04.13