Latest Posts

"Il peso delle riforme incompiute", di Vincenzo Visco

Alcuni studi hanno valutato che l’effetto della decisione del governo spagnolo di liquidare lo scorso anno circa 30 miliardi di crediti delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni (circa 3 punti di Pil) è stato quello di rendere molto meno grave la recessione economica rispetto a quanto si sarebbe verificato in assenza dell’intervento. In Italia – come è noto – i debiti nei confronti dei fornitori raggiungono i 5-6 punti di Pil il che significa che il drenaggio di risorse operato nei confronti del sistema produttivo è stato enorme e con effetti devastanti, soprattutto in un periodo di forte restrizione creditizia come quello attuale, contribuendo in modo rilevante alla crisi attuale.
Quindi l’approvazione del decreto legge che sblocca e rende possibili pagamenti di debiti pregressi per 40 miliardi è un fatto positivo, da tempo dovuto, e da altrettanto tempo rinviato, e la cui formulazione finale riflette anche un contrasto interno molto forte tra Tesoro e Sviluppo economico, risoltosi alla fine (forse per la prima volta) a favore di quest’ultimo. L’intervento tuttavia è limitato a meno della metà dei crediti stimati, e la sua riformulazione è stata caratterizzata da resistenze e prudenza soprattutto da parte della Ragioneria Generale dello Stato. Può quindi essere utile qualche considerazione in proposito.
Si è sottolineato più volte nei giorni passati come il pagamento dei debiti nei confronti delle imprese fornitrici non dovrebbe comportare un aumento dell’indebitamento in quanto dovrebbe trattarsi prevalentemente (80%) di debiti commerciali già contabilizzati per competenza in bilancio, l’effetto quindi si manifesterebbe esclusivamente in un aumento dello stock di debito pubblico peraltro già noto e scontato da tempo dai mercati. Vi sono poi debiti relativi a spese di investimento effettuate, non solo dagli enti locali e per il cui finanziamento è necessaria la deroga al patto di stabilità, ma anche da Anas, Ferrovie, ecc. con gravi danni (rischio di insolvenza) per le imprese edilizie. Il pagamento di questi debiti comporta un incremento sia dell’indebitamento netto (disavanzo) che del debito pubblico, ed è a questi fini che la Commissione ha consentito la possibilità di aumentare il disavanzo per spese di investimento utili allo sviluppo, a condizione che non si superi il limite del 3% previsto nel Trattato di Maastricht (si tratta dell’inizio di una applicazione prudente della “golden rule”). In conseguenza il Governo ha previsto un incremento del nostro indebitamento dal 2,4% al 2,9%, per l’anno in corso. Questo è il quadro che viene rappresentato. Tuttavia la realtà è alquanto più complessa in quanto, soprattutto per quanto riguarda le spese correnti, non sempre le fatture emesse corrispondono ad un onere registrato per competenza, bensì non di rado esse riguardano spese effettuate senza alcuna copertura, molto spesso con la collusione tra imprese e amministrazione appaltante. L’entità di questi debiti è ignota ed emergerà gradualmente, man mano che essi verranno certificati, ma essa è sicuramente notevole ed implica che non solo il debito, ma anche i disavanzi reali sono stati (sono) più elevati di quanto finora contabilizzato. In altre parole in riferimento questo tipo di situazione il rimborso dei debiti assomiglia molto ad una sanatoria.
Gli esempi riportati in proposito episodicamente nella stampa sono numerosi: per esempio, si è riportato che le forze di polizia non hanno gli stanziamenti sufficienti per pagare gli affitti dei commissariati o i rifornimenti e le riparazioni delle auto di servizio e quindi si sono accumulati debiti ingenti (che i creditori tollerano perché sanno che prima o poi saranno pagati comunque). La Telecom vanta crediti rilevanti per intercettazioni effettuate in seguito a disposizioni delle autorità giudiziarie, ma per il cui finanziamento mancano gli stanziamenti. Ma soprattutto il fenomeno riguarda la spesa sanitaria e le forniture ospedaliere la cui dinamica rimane fuori controllo nonostante l’osservatorio affidato al dottor Massicci costituito da chi scrive come Ministro del Tesoro nel lontano 2000, ma che non ha avuto una evoluzione istituzionale e organizzativa adeguata.
Va anche notato che i crediti che oggi vogliamo rimborsare sono praticamente raddoppiati nel periodo 2008-11 e cioè proprio quando si introducevano misure che, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbero dovuto contenere e ridurre l’entità della spesa pubblica. In pochi casi quei vincoli non sono stati rispettati anzi sono stati ignorati ed elusi.

Se le cose stanno così, è evidente che ci troviamo di fronte, ancora una volta, ad una finanza pubblica non sotto controllo, e al fallimento o per lo meno alla scarsa efficacia, di una strategia basata su tagli più o meno lineari, vincoli di cassa e competenza, patti di stabilità interni, ecc.; nonché all’assenza di vincoli di bilancio effettivi e alle deresponsabilizzazione degli enti decentrati che appena possono eludono o ignorano i vincoli. Si capisce quindi la cautela del governo e la preoccupazione della Ragioneria. Infatti il rischio del superamento del limite del 3% è reale. Tuttavia non è più tollerabile proseguire su una linea sbagliata, improduttiva e autolesionista. Occorrono riforme radicali nel funzionamento del ministero del Tesoro anche nei suoi rapporti con gli altri enti di spesa decentrati, riforma del sistema di federalismo finora introdotto, spending review effettive (il che significa essenzialmente la riforma delle strutture organizzative della P.A.), bilanci standard per gli enti locali, prontuario e classificazione delle singole voci di spesa uniformi e condivisi, monitoraggio continuo dei processi di spesa e dell’andamento delle entrate a tutti i livelli di governo con la ricostruzione/integrazione dei sistemi informativi esistenti, responsabilità personale degli amministratori (politici e non), programmazione dei tagli e dei risparmi da effettuare che siano sostenibili e quindi attuabili ecc.
Questi sono i problemi di cui dovrebbe occuparsi un auspicabile nuovo governo. Il governo attuale ha invece preferito operare in continuità con quello precedente; forse non aveva altra scelta, soprattutto per il tempo a disposizione, ma i risultati si vedono e non sono né positivi né tranquillizzanti. E del resto la formazione di un eventuale governo più o meno di grande coalizione, o di transizione/decantazione, debole e a termine, composto da persone non pienamente consapevoli dei problemi reali, come quello che molti prospettano, difficilmente potrebbe dare un contributo alla soluzione dei problemi reali.

Il SOle 24 Ore 13.04.13

Per gli elettori di centrosinistra urgenti misure sociali e per il lavoro

Sono stati oltre 18.800 i questionari online riempiti dagli iscritti del Pd e dagli elettori delle primarie, ai quali il Pd aveva inviato gli otto punti di programma per il governo di cambiamento proposti dal segretario, Pier Luigi Bersani, ed approvati dalla Direzione nazionale del partito.

Tra le proposte sottoposte agli elettori del centrosinistra e agli iscritti sotto forma di risposta multipla, quella risultata più necessaria e condivisa, scelta dall’81,5% degli oltre diciottomila partecipanti, è quella sulle “Misure urgenti sul fronte sociale e del lavoro”.

Tra queste, figurano nell’ordine il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese, la possibilità che i comuni possano fare piccoli investimenti per creare lavoro e mettere in sicurezza scuola e ospedali, lo sviluppo della banda larga, la riduzione del costo del lavoro stabile per renderlo più conveniente del lavoro precario, la lotta all’evasione fiscale anche attraverso la riduzione dell’uso del contante, una vera revisione degli sprechi nella spesa pubblica. In questo capitolo molto indicate sono state anche le proposte del Pd sulla revisione dell’Imu, con lo sconto fino a 500 euro per le prime case ed i capannoni e gli immobili di commercianti e artigiani.

Le altre priorità indicate dagli elettori del centrosinistra sono risultate la Riforma della politica, con il 59,9% tra le risposte multiple offerte dal questionario, con in testa la riduzione del numero dei parlamentari, la legge sul conflitto di interesse e sull’ineleggibilità (53,9%).

Nell’ordine, gli elettori delle primarie e gli iscritti al Pd hanno poi indicato l’istruzione e la ricerca (36,6%), l’economia verde e le prime norme sui diritti.

"Le responsabilità delle classi dirigenti" di Vittorio Emiliani

Gli industriali italiani esprimono ogni giorno il loro comprensibile allarme. Non pochi continuano a dirsi stupiti per la impossibilità di fare subito un nuovo governo di unità nazionale. Alcuni attribuiscono questa impossibilità ad una «casta» che pensa solo a se stessa. Due dichiarazioni mi sono sembrate particolarmente deludenti e pericolose: il presidente degli industriali emiliani, Marchesini, ha detto in sostanza «mentre l’industria muore, loro (quelli della Casta, n.d.r.) sono impegnati a concordare il prezzo del caffè alla buvette di Montecitorio»; Diego Della Valle ha affermato: i politici sono lì, «ad occuparsi delle loro sedie».
Onestamente da due personaggi del loro livello era legittimo aspettarsi di più e di meglio. Magari un’analisi anche più dura, ma un’analisi vera. Queste sono battute da twitter grillino. Che, pronunciate da loro, «fanno opinione». Non è possibile che anche l’élite della classe dirigente del Paese riduca tutto – come fanno ormai alcuni grandi giornali – alla cosiddetta casta senza operare distinzioni fondamentali fra i partiti. Senza attribuire le colpe a chi ce le ha, ma continuando a sparare nel mucchio. In tal modo si è finito per assimilare alla cosiddetta casta chiunque faccia politica, anche nel modo più onesto e civile. A forza di stereotipi si è data e si dà per acquisita, spesso coi termini più volgari e insultanti (l’ha notato giustamente Ilvo Diamanti), l’equazione politica= casta, a tutti i livelli. Così come ogni mediazione politica diventa subito «inciucio». Con guasti culturali spaventosi in un Paese dove, se l’acculturazione media rimane fra le più basse d’Europa, quella politica sembra ormai vicina allo zero. Basta leggere i commenti rilasciati anonimamente ai vari siti (anche a quello di Google): solo squallore e degradazione, con mitragliate di insulti fecali. Ma se è questo è il livello di una parte degli elettori, perché dovrebbe essere migliore quello di una parte degli eletti?

Il Porcellum firmato Calderoli è stato voluto da Berlusconi e dalla Lega: lo si è dimenticato? Perché non si attribuiscono le colpe a chi ce l’ha, nome e cognome? Quella legge elettorale ha stravolto e degradato molte cose. Ora ci troviamo con un assetto quanto meno tripolare. Con due forze, Pd e Pdl, reduci da una «unità nazionale» a sostegno del governo «tecnico» che è stata rotta da Berlusconi in vista delle nuove elezioni in modo plateale, clamoroso, violento. Una solidarietà che pertanto, con Berlusconi in campo, non può venire ripristinata dal Pd pena il suo auto-affossamento. C’è un terzo polo, il M5S, che numerosi industriali e artigiani, specie del Nord Est, hanno dichiarato di aver votato in massa. Ma è proprio il M5S che si rifiuta di collaborare con qualsiasi altra forza, che un giorno propone convergenze episodiche e l’altro giorno le esclude perché farnetica di «sbancare il sistema rappresentativo», di poter un giorno proporre agli italiani le gioie del «partito unico» (tragedia delle tragedie del ’900) coi parlamentari scelti in rete, di fatto «nominati» dal Capo e comunque da lui irreggimentati come mai era accaduto dopo il 1945. Che si riuniscono a porte sigillate e però pretendono dagli altri porte aperte. Con la «mente» della Camera, la cittadina Roberta Lombardi che si diverte molto. Magari a insultare, come ieri, il presidente della Repubblica (salvo smentirsi…che pena). Con la «mente» del Senato il cittadino Bruno Crimi che prima dà dell’addormentato al presidente della Repubblica e poi viene colto mentre ronfa a Palazzo Madama. Un rinnovamento rivoluzionario.

A complicare un quadro già complesso, c’è proprio la scadenza del settennato di Giorgio Napolitano, il suo semestre bianco, la scelta di un nuovo presidente. Che ormai è a giorni e che determinerà una svolta anche per il governo. Saggiamente Napolitano ha ricordato che per fare un governo in un Paese non poco travagliato come Israele sono occorsi più di cinquanta giorni. E tanti ne saranno, più o meno, trascorsi dal 25 febbraio quando le Camere, il 18 aprile, cominceranno a votare. Un governo in carica c’è. I «facilitatori» nominati dal Quirinale finiranno prestissimo i loro, speriamo fruttuosi, lavori. Lo spread non vola e la Borsa tiene, anzi va. «A situazioni calde, istituzioni fredde», scrisse Giuseppe De Rita in pieno terrorismo e con l’inflazione al 21,2 per cento. Se ne ricordino qualche volta i nostri imprenditori invece di partecipare alla quotidiana scarica di liquami sulla casta (in realtà sulla Politica). Secondo qualche grande giornale, questo attacco continuo – ora dedicato in specie a Bersani – doveva servire a promuovere i Tecnici sui Politici e invece ha soltanto favorito Grillo e Berlusconi. Un bell’autogol, ragazzi. L’indimenticato Comunardo Niccolai non avrebbe fatto di meglio.

L’Unità 12.04.13

"Né tecnocrati né folle virtuali", di Fabrizio Barca

«Non cerco adesione, ma confronto». Questa mia dichiarazione, rilasciata a Milano un paio di giorni fa, ha destato stupore in chi schiaccia la politica in una gara fra protagonisti e al tempo stesso dimentica che è solo dal con- fronto, dal conflitto acceso ma ragionevole fra idee, che viene il cambiamento. Il mio scritto «Un partito nuovo per il buon governo» è figlio dell’azione ministeriale per la «coesione territoriale», un’esperienza che mi ha portato a concludere che senza una nuova «forma partito» non si governa l’Italia.

Ho dunque provato a immaginare i tratti e le funzioni di questa nuova forma, concentrando l’attenzione su un partito di sinistra, essendo questo ciò che risponde ai miei convincimenti.

Per capire ciò di cui sto parlando, faccio riferimento alla storia più recente. Il solco profondo apertosi fra cittadini e «politici», la debolezza dei partiti nell’interpretare bisogni, e soprattutto nel promuovere nei territori il confronto sulle soluzioni, la loro incapacità di incalzare lo Stato, anzi la «fratellanza siamese» con esso, l’ho avvertita pesantemente in questi mesi di governo. L’ho riconosciuta nella solitudine dei sindaci, chiamati a fidarsi di un ministro della Repubblica che li invitava a cambiare metodo, senza il conforto di un partito che li aiutasse a verificare i propri dubbi. L’ho percepita nella diffidenza di militanti delle associazioni del Terzo settore, restie a travasare le proprie conoscenze in una rete aperta. Mi è apparsa evidente, infine, nella scarsa attitudine dei partiti a confrontarsi sui metodi innovativi che mettevamo sul tavolo per spendere bene i soldi pubblici.

Sono queste esperienze che mi hanno spinto a scrivere questa memoria, che hanno dato corpo alle idee e ai concetti su cui da anni mi cimentavo. Che hanno reso vivida l’ipotesi di un partito che faccia riavvicinare le persone all’azione comune, sollecitando lo Stato ad una pratica dell’azione pubblica di «sperimentalismo democratico». Ossia un metodo che superi l’errore secondo cui pochi individui, gli esperti, i tecnocrati, dispongono della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse, indipendentemente dai contesti. Ed eviti l’altro, nuovo errore della nostra epoca: quello di pensare che la folla possa esprimere quelle decisioni in modo spontaneo, attraverso la Rete.
Non è così. Serve un processo di azione pubblica che promuova in ogni luogo il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine d’individui e consenta decisioni sottoposte a una continua verifica degli esiti, usando le potenzialità della Rete.
A questo fine, per realizzare i profondi cambiamenti che la procedura deliberativa aperta richiede, e assieme superare le forti resistenze che il rinnovamento incontrerà, sono necessari un aperto e governato conflitto sociale e la coesione attorno ad alcuni convincimenti generali che parlino ai nostri sentimenti. Serve allora un partito di sinistra – se dico left fa meno impressione? – saldamente radicato nel territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto.

Non si tratta di tornare al partito scuola di vita, il partito di massa dove si ascoltano i bisogni e si insegna la «linea» per soddisfarli e per costruire un nuovo «avvenire» che già conosciamo. Né certo di abbracciare il partito liquido, vetrina dove si espongono – con nefasta contaminazione dell’economia – «prodotti politici». Si tratta di chiudere con forza per sempre la stagione dei partiti Stato-centrici o di occupazione dello Stato, e di costruire un «partito palestra» che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del pubblico denaro. Un partito che sviluppi un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle «avanguardie», ossia realizzando una diffusa «mobilitazione cognitiva».
È mio convincimento che a questo partito nuovo si possa arrivare muovendo dai partiti di sinistra che esistono, segnatamente dal Partito democratico, dalle esperienze più avanzate che essi stanno realizzando. Per farlo è necessario il lavoro di molte persone di buona volontà, coese e capaci di lunghi cammini. Che sappiano accompagnare alla risposta (politicamente possibile) alla domanda di governo, anche la costruzione di un partito capace poi di onorare tale impegno.
Se il confronto ci sarà, se dal confronto anche acceso uscirà un’ipotesi robusta e condivisa, sarà poi possibile scrivere le regole, anche quelle del finanziamento pubblico, che dovranno rendere attuabile il partito nuovo.

L’Unità 12.04.13

"Monito Eurostat: solo in Italia gli abbandoni scolastici non diminuiscono!", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Se nell’Ue a 27 lasciano prematuramente i banchi di scuola il 12,8% di giovani, nel nostro Paese siamo fermi al 17,6%: centinaia di migliaia di giovani che vanno a riempire la lista dei neet. E all’Università va peggio: nel rapporto iscritti/laureati siamo gli ultimi. Ancora numeri allarmanti per l’Italia da parte dell’istituto di statistica europeo. Dopo quelli di alcuni giorni fa, riguardanti gli scarsi investimenti su cultura e istruzione, l’11 aprile è arrivato quello sul tasso di abbandono scolastico relativo allo scorso anno. Ebbene, se in Europa la tendenza è in calo, con una media del 12,8 per cento di giovani che lasciano la scuola prematuramente (ormai sempre più vicina a quel 10 per cento indicato dall’Unione Europea da raggiungere entro il 2020), in Italia si va verso la direzione opposta: il numero di alunni che lascia i banchi prima dei sedici anni rimane fermo al 17,6 per cento. Che in termini pratici si traduce in centinaia di migliaia di ragazzi che vanno quasi sempre ad allargare le fila deicosiddetti neet, ovvero dei giovani che non studiano né lavorano.
Anche il resto dei dati fornite da Eurostat risultano davvero preoccupanti: se nell’Ue a 27 i diplomati sono in assoluto il 35,8 per cento, nel nostro Paese non arriviamo al 22 per cento. E non va meglio a livello universitario, visto che se l’Unione Europea detiene ormai circa il 36 per cento di “dottori” 30-34enni, rispetto a quelli che avevano iniziato gli studi, l’Italia nella stessa fascia di età si ferma al 21,7 per cento. Che rappresenta il risultato peggiore dei 27 Paesi europei esaminati. Anche se su questo fronte le cose vanno leggermente meglio rispetto al passato, è un dato di fatto che pure l’abbandono universitario assume una valenza tutt’altro che trascurabile. Ma quando se ne accorgeranno i nostri governanti? Quando capiranno che la situazione è sempre più allarmante?

da La Tecnica della Scuola 12.04.13

"Calano gli occupati, riforma Fornero fallita", di Fulvio Flammoni*

Tutto, dalla disoccupazione al numero dei licenziamenti, conferma che il 2012 è stato un vero anno nero per il lavoro in Italia. Ma il peggio non smette di manifestarsi e il 2013 è iniziato molto male, come testimoniano i dati sull’occupazione e sulla cassa integrazione. Molti commentano: era prevedibile per il calo del Pil che continua per il blocco produttivo e dei consumi e per gli effetti di trascinamento di una crisi che non finisce. Ma proprio per questo è ingiustificabile la mancanza di interventi urgenti e di emergenza per cambiare questo stato di cose, sapendo che anche una eventuale ripresa (quando ci sarà e se non affossata dalle nuove tasse) non ha effetti direttamente proporzionali sull’occupazione. Nell’immediato le tendenze confermano sospensione o chiusura di attività, con una base produttiva che si restringe senza nemmeno certezze di copertura economica di tutta la cassa integrazione in deroga. Ma soprattutto, è sempre più frequente il passaggio al licenziamento e la progressiva mancanza di requisiti delle persone per accedere agli ammortizzatori a partire dalla disoccupazione. I dati sull’occupazione confermano che la legge Fornero non va: non solo non guarda al futuro, come afferma il Ministro, ma aumenta le difficoltà del presente. Le assunzioni a tempo indeterminato sono meno del 20%, e quelle a tempo determinato attorno ai 2/3 e i licenziamenti aumentano. Ma il calo del lavoro non è solo numerico, è anche di durata oraria. Ci sono meno occupati e si lavora meno ore. Esplodono i contratti part time (per il 57% involontari) spesso con un numero di ore così basso da poter essere assimilati a forme di lavoro precarie a tutti gli effetti. Infine c’è un anomalo addensamento dei lavoratori nelle qualifiche medio basse con stipendi molto bassi, ma nonostante questo la formazione per e nel lavoro è agli ultimi posti in Europa. Non è un caso, sono dati che riflettono l’arretratezza della qualità del modello produttivo e l’iniquità del sistema fiscale. Il problema dunque non è di ulteriore flessibilità per creare lavoro, ce n’è fin troppa. Mancano invece drammaticamente salario e lavoro. Questo è il punto che va affrontato con immediati interventi: redistribuzione del reddito, finanziamento Cig in deroga, risorse per mantenere lavoro e incentivare occupazione stabile e risorse per lo sviluppo. Per questo le più grandi organizzazioni sindacali d’Europa avanzano proposte in questa direzione. Il Piano del Lavoro della Cgil come noto ha obiettivi di breve e medio periodo per creare lavoro a partire dai giovani, ha l’ambizione di ridare senso all’intervento pubblico e di ridistribuire la ricchezza. Un altro grande sindacato europeo (Dgb) propone un piano Marshall per l’Europa con un mix di interventi istituzionali, investimenti pubblici diretti, sussidi d’investimento per le imprese e incentivi al consumo. Come si vede, le assonanze fra le due proposte sono davvero notevoli. Ed entrambi i sindacati propongono tra le forme di finanziamento una tassa sulle grandi ricchezze. Dice il documento del Dgb: «dal momento che ad oggi solo i contribuenti e i lavoratori dipendenti si sono sobbarcati il peso della crisi, è giunto il momento che le persone facoltose e i ricchi siano chiamati a partecipare al conferimento straordinario di capitale». Proposte concrete e realizzabili immediatamente, nei singoli paesi e a livello Europeo. Il problema è la volontà politica. La situazione è drammatica. Da crisi finanziaria si è passati a crisi economica e sociale e occorre in tutti i modi, è responsabilità di tutti, evitare che sfoci in scoppi di protesta sociale estrema, in crisi democratica.

*Presidente Fondazione Di Vittorio

L’Unità 12.04.13

"Università. Maglia nera in Europa", di Rosario Trafiletti

Il dato relativo ai laureati in Italia è il peggiore d’Europa. Lo rende noto oggi Eurostat, segnalando che, nel 2012, solo il 21,7% di coloro che hanno intrapreso gli studi universitari si è laureato. Un primato allarmante che, purtroppo, è il frutto delle gravi carenze del nostro Paese sul fronte dell’istruzione, della ricerca e dello sviluppo.
A determinare tale situazione, infatti, contribuiscono da un lato i costi, per molti proibitivi, delle rette e, dall’altro, la mancanza di incentivi per favorire l’accesso allo studio.
È di pochi giorni fa la notizia che prospetta, nei prossimi tre anni, il taglio del 92% delle borse di studio. Tale mossa equivale alla condanna a morte del diritto allo studio nel nostro Paese. Un diritto che, ricordiamo, è garantito dalla Costituzione.
Trascurare l’istruzione, inoltre, vuol dire infliggere gravi danni all’intero sistema economico.
I fatti lo dimostrano. Sono 243 i brevetti importanti realizzati dai cinquanta migliori ricercatori italiani registrati all’estero che denotano grandi capacità intellettuali e scientifiche. Secondo uno studio dell’Istituto per la Competitività (ICom), si tratta di un valore di 1,2 miliardi di euro destinato a crescere nei prossimi anni.
Dal 2002 al 2011 è triplicato il numero dei laureati che ha lasciato l’Italia. Secondo alcune stime, se l’andamento rimarrà tale, entro il 2020 potrebbero lasciare l’Italia 30.000 ricercatori.
Siamo un Paese sempre più povero anche perché sempre meno istruito e abbiamo difficoltà a valorizzare il capitale umano più qualificato.
Investire sulla conoscenza e sulla valorizzazione delle competenze significa investire sul futuro del nostro Paese.
Per questo riteniamo indispensabile, per la nostra economia, promuovere un più ampio accesso all’università, potenziare le esperienze di studio/lavoro e offrire opportunità concrete ai nostri giovani laureati.

da Dazebao.org