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Non chiedete al Pd di inseguirlo, di Stefano Menichini

Neanche il tempo per Berlusconi di completare l’esternazione sulle sue “proposte shock”, e subito tutti girano lo sguardo verso il Pd con l’interrogativo espresso o inespresso: «E ora come rispondete?». Domanda alla quale fa di solito seguito una serie fitta di critiche, in genere contraddittorie fra loro: non dovete dare corda alle sparate di quell’uomo; siete troppo mosci; sbagliate a demonizzarlo; gli avete lasciato il centro della scena; non fate proposte altrettanto forti; dovete distinguervi per serietà; non inseguitelo; inseguitelo.
Premere sui democratici perché in questa campagna elettorale facciano di più e meglio è giusto. Qualche segnale interessante da questo punto di vista c’è, come conferma la notizia data ieri in rete da Europa sui prossimi appuntamenti comuni di Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi.
Pretendere che essi regolino la propria marcia sulle uscite di Berlusconi è invece un grossolano errore, dovuto alla solita ansia tipica dell’elettorato progressista di cui abbiamo già scritto (senza alcuna speranza di placarla). Oltre tutto, come s’è visto ieri sul “condono tombale”, non fai in tempo a contestare una sparata del Cavaliere che lui l’ha già smentita.
In ogni caso, il problema è che chiedere al Pd di arginare l’esondazione berlusconiana è questa volta del tutto inutile. Diversamente dalle elezioni dal 2001 a oggi, ci sono altre forze in campo oltre a centrosinistra e centrodestra. E due di esse – le liste Monti e Cinquestelle – sono molto più adiacenti di quanto sia il Pd all’elettorato al quale si rivolge Berlusconi.
È una verità, amara ma è la verità: gli italiani entrati nel mirino del Pdl non considereranno mai Bersani un’alternativa. Ed è molto improbabile che siano sensibili alle controproposte o alle critiche che possono venire da sinistra, anche per una serie di scelte fatte dallo stesso Pd (direi che in proposito fu definitiva la replica che dovette beccarsi Renzi durante le primarie quando disse di volersi rivolgere anche ai berlusconiani delusi).
La competizione elettorale su quella fascia di popolazione, che Berlusconi ha individuato con precisione millimetrica, riguarda quasi solo Grillo e Monti.
Con quest’ultimo s’è accesa ieri una disputa violenta. Grillo, bontà sua, continua a essere equanime nelle sue sfuriate contro gli avversari. Ma manca tanto alla data del voto, venti giorni: sapremo presto se anche M5S ha una sua flessibilità tattica.
da Europaquotidiano.it

Franceschini: “Silvio ha perso ogni credibilità ma chi non vota per noi favorisce lui”, di Giovanna Casadio

Franceschini, dopo la restituzione dell’Imu, ora è la volta del condono tombale. Berlusconi lancia proposte appetitose per l’elettorato e che mandano in tilt i mercati?
«È un copione che abbiamo già visto 6 volte in vent’anni, sempre uguale. Diciamo che normalmente un uomo politico ha un confine rispetto alle cose che può dire. Pensa alla propria credibilità, alla faccia. Berlusconi ha superato ogni limite. Avendo perso faccia e credibilità dappertutto, sente di potere dire e fare qualsiasi cosa, dalla restituzione dell’Imu al condono tombale. Non ha più confini ».
Però interpreta il malcontento degli elettori?
«Non ha nessuna possibilità di conquistare elettori nuovi. E quindi cerca solo di riprendersi i suoi elettori che hanno scelto l’astensionismo o Grillo. Anche questo fatto prova il danno culturale e diseducativo di questi anni: in qualsiasi altro paese un elettore che ha votato partito conservatore, e che è deluso, vota progressista e viceversa. Qui da noi, i delusi di Berlusconi votano Grillo, passando da un populismo ad un altro che sembra opposto ma è confinante: Berlusconi fa la battuta su Mussolini e Grillo ammicca a Casa Pound; il Cavaliere fa promesse roboanti e il leader del M5S annuncia mille euro al mese per 3 anni a ogni disoccupato, cioè 35 miliardi che non spiega dove troverà».
Pochi crederanno a Berlusconi o non va sottovalutato?
«Non va assolutamente sottovalutato. È incapace di governare, ma è abile e spregiudicato nelle campagne elettorali. Eppure a ogni persona di buonsenso dovrebbero venire i brividi soltanto a pensare all’Italia dopo una sua vittoria: lo spread alle stelle, la derisione nel mondo, le ripercussioni in Europa. E un’altra volta, il suo abuso totale di ogni regola…uno scenario fanta-horror, l’Italia una specie di Gotham City».
Intanto tutti sparano addosso al Pd?
«Lo vedo. Proprio per questo lancio un appello: attenti a non disperdere voti. Non tutti gli italiani sanno come funziona questa legge elettorale: chi prende un voto in più a livello nazionale, ha il premio di maggioranza alla Camera; e al Senato il premio va, regione per regione, a chi arriva primo. Un elettore moderato, che vota Monti pensando comunque di contrastare Berlusconi o un elettore di sinistra che vota Ingroia, o un elettore arrabbiato che vota Grillo, in realtà togliendo un voto al Pd, aumenta le possibilità del sorpasso
del Cavaliere».
I mercati sono in fibrillazione, temono l’incertezza delle elezioni italiane. Avete paura di perdere il vostro vantaggio? State sbagliando qualcosa?
«Mano a mano che si avvicinano le elezioni, il differenziale tra i due competitori, si assottiglia sempre. Però noi non ci metteremo sul piano delle promesse elettorali roboanti e miracolose. Ma continueremo a dire che la campagna elettorale è per noi il luogo in cui assumere impegni mantenibili non spararle grosse, anche a costo di avere meno visibilità, perché più l’idiozia è grande, più la visibilità è grande».
Lo scandalo Monte dei Paschi è un altra componente della sfiducia sull’Italia: quanto sta danneggiando il Pd ?
«In campagna elettorale c’è sempre chi usa e strumentalizza tutto. Su Mps se ci sono responsabilità penali e le accerterà la magistratura, se ci sono responsabilità gestionali le accerteranno gli organi societari e di vigilanza. Il Pd è trascinato dentro questa vicenda solo da quelli che sperano così di raccattare qualche voto. Il giorno dopo le elezioni smetteranno anche loro».
da La Repubblica

Prima apertura nella Chiesa “Diritti alle coppie gay”, di Vito Mancuso

In carica dalla fine di giugno, il nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia è laureato, oltre che in teologia e filosofia, anche in pedagogia, e si vede.
Nella sua prima conferenza stampa da responsabile vaticano per la famiglia monsignor Vincenzo Paglia ha infatti pronunciato parole che, in Vaticano, sull’argomento spinosissimo dei diritti civili delle coppie gay, io non ricordo siano mai state pronunciate.
Naturalmente, nelle sue parole al primo posto non poteva non esserci la difesa del primato della famiglia tradizionale, come è giusto che sia nell’impostazione cattolica e non solo cattolica, visto che il primato della famiglia tradizionale è un’impostazione condivisa da tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, sia religiose sia filosofiche, che non hanno mai conosciuto un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma non può non sorprendere il fatto che monsignor Paglia abbia parlato di un necessario riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, includendo esplicitamente tra queste, oltre alle coppie eterosessuali, anche quelle omosessuali. «I diritti individuali vanno garantiti », ha detto, aggiungendo che vanno trovate «soluzioni di diritto privato», «all’interno del codice di diritto privato», per tenere conto anche degli aspetti «patrimoniali ». È la prima volta che un ministro vaticano riconosce esplicitamente e pubblicamente l’esistenza delle coppie omosessuali rendendole soggetto di diritti? A me pare di sì, e non posso non salutare questa affermazione come un significativo passo in avanti. Ricordo infatti che la Santa Sede si è espressa sempre in modo contrario rispetto alla tutela delle coppie omosessuali anche a livello di diritto privato: in Italia tutti ricordano la ferma opposizione contro il progetto del governo Prodi a proposito dei cosiddetti “dico”, mentre nel 2008 l’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, monsignor Celestino Migliore, si espresse contro un progetto della Francia che chiedeva la depenalizzazione universale dell’omosessualità, contrarietà ribadita nel 2011 dall’osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio dell’Onu a Ginevra monsignor Silvano Tomasi. Ieri invece, in Vaticano, monsignor Paglia ha dichiarato che «un conto è il tema del matrimonio gay, sul quale è nota la nostra posizione, un altro sono le discriminazioni. Nel mondo ci sono forse 25 Paesi dove l’omosessualità è reato. Mi augurerei che come Chiesa combatteremo tutto questo».
Una sterzata abbastanza netta rispetto all’intransigenza esibita finora, anche in considerazione del fatto che alla fine del 2012 papa Benedetto XVI in un’udienza pubblica aveva ricevuto una politica ugandese di nome Rebecca Kadaga, promotrice di azioni legislative particolarmente dure contro la convivenza degli omosessuali. Monsignor Paglia ha detto invece che occorre riaffermare «la pari dignità di tutti i figli di Dio, tutti in questo senso sono santi, perché hanno il sigillo di Dio, nessuno non ce l’ha; e dunque tutti sono intoccabili », parole che hanno fatto risentire un po’ di profumo evangelico nelle sale del potere vaticano.
Il cardinal Martini aveva espresso una posizione analoga. Dopo aver sottolineato
che «Dio ci ha creati uomo e donna, e perciò la dottrina morale tradizionale conserva delle buone ragioni» di modo che «la coppia omosessuale in quanto tale non potrà mai essere equiparata in tutto al matrimonio», aveva aggiunto: «Sono pronto ad ammettere il valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso », quindi «non è male che due persone abbiano una certa stabilità e in questo lo Stato potrebbe anche favorirli; non condivido la posizione di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili». Fino a ieri la posizione di chi se la prende con le unioni civili era ampiamente maggioritaria nella Chiesa cattolica. Dopo le aperture del nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia le cose sono cambiate?
da La Repubblica

Diritto allo studio, i ragazzi contro il decreto

Era un atto dovuto, richiesto dalla legge Gelmini, ma il decreto sul diritto allo studio proposto dal ministro Profumo non ha avuto l’accoglienza riservata alle grandi riforme. «Siamo convinti che non si possa in nessun modo approvare un decreto del genere così frettolosamente e prima della fine della legislatura dichiara il sindacato studentesco Link -, non si può fare finta che non esista un problema d’accesso e diritto allo studio in Italia che di certo non si risolve, ma si aggraverebbe ancora di più con l’emanazione di questo decreto». Ieri gli studenti si sono ritrovati a Roma per la seduta del Consiglio nazionale degli studenti universitari che avrebbe dovuto varare il proprio parere. Gli studenti delle liste di sinistra, che sono il gruppo più numeroso, hanno scelto però di non partecipare alla seduta e di richiedere al ministro Profumo una pausa di riflessione. «Chiediamo al ministro di ritirare questo decreto. Pensiamo sia meglio che a occuparsi di questa materia sia il prossimo governo e non un ministro in scadenza», spiega Enrico Lippo, capogruppo degli studenti di sinistra al Cnsu. Molti, secondo gli studenti, gli elementi di criticità. Negli ultimi due anni le borse di studio erogate sono calate del 31%, passando da 147.000 a poco più di 110.000. E, stando alle stime degli studenti, fra pochi mesi il numero dei borsisti potrebbe assottigliarsi a poco più di 89mila beneficiari. Il decreto infatti abbassa le soglie massime di reddito di accesso alle borse di studio e le differenzia per Regione: 20mila euro in Lombardia, 17.150 nel Lazio e 14.300 in Sicilia e Campania. Attualmente, il limite per tutti è di 20.124,71 euro annui. Raddoppiano poi i crediti che ogni studente deve acquisire per vedersi garantita la borsa di studio negli anni successivi al primo. A prescindere dalle condizioni sociali di partenza, il diritto allo studio dovrebbe garantire a tutti di accedere ai livelli più elevati dell’istruzione. Purtroppo non è così. La trappola sociale che blocca la mobilità sociale dei giovani italiani infatti non ha pari in Europa, almeno secondo i dati Ocse dell’annuale rapporto sull’istruzione che analizza la provenienza sociale degli studenti italiani: nel loro percorso educativo è ancora troppo forte il peso del background sociale dei genitori. Anche i recenti dati del Cun (il Consiglio universitario nazionale) evidenziano un crollo delle iscrizioni che coinvolge soprattutto le fasce più deboli della popolazione. «Ieri il ministro ha contestato in un’intervista a La Stampa i numeri del crollo, sostenendo che a diminuire sono solamente gli iscritti “tardivi”. Peccato però che i dati del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario dicano il contrario. Nel 2007 il 68% dei dicianovenni si iscriveva all’università, oggi questa percentuale è scesa al 61%», così Federico Nastasi, portavoce della Rete universitaria nazionale, parlando del crollo delle immatricolazioni accusa esplicitamente il sistema italiano di essere inefficiente e iniquo. E dagli studenti è partito l’appello al presidente della Repubblica e ai governatori della Puglia e della Toscana per cercare di bloccare in extremis questa riforma. Il 7 il decreto arriverà sul tavolo della conferenza Stato-Regioni per il parere obbligatorio degli enti locali. Anche in quella sede ci sarà più di un assessore regionale disponibile ad alzare un po’ la voce. Anche loro infatti lamentano il fatto di esser stati abbandonati dallo Stato nel contrasto alla crescente crisi dei ceti medi. E se anche da loro arrivasse una bocciatura al decreto, sarebbe veramente necessaria una pausa di riflessione.
da L’Unità

L'università che vogliamo, di Giuseppe Caliceti

Negli ultimi venticinque anni si è fatta strata in Italia l’idea che la funzione principale dell’università e dell’intero sistema formativo sia fornire forza-lavoro al mondo del lavoro e dell’economia. Un’ idea forte, che ha messo al centro dei processi educativi il concetto di formazione (a breve termine), mettendo nell’ombra quello di educazione (a lungo termine). È un’idea derivata dall’unione fondamentalmente economica dell’Europa. Che ha trovato diversi adepti anche tra pedagogisti e politici, non solo legati al centrodestra ma anche al centrosinistra. Potremmo chiamarla un’idea di politica scolastica di matrice neoliberista. Anche il linguaggio dell’amministrazione scolastica è cambiato: si è parlato di scuola-azienda, con tutto ciò che questo comporta in termini didattici e pedagogici. Si sono ripetute parole d’ordine come meritocrazia, sorvolando sulla funzione sociale e di uguaglianza delle opportunità di un sistema scolastico statale. Si è provato in ogni modo a proporre test sulla qualità delle scuole e della formazione utili più a ricerche di mercato che a e nuove strategie educative; ricordiamoci sempre che l’Ocse che misura i nostri ragazzi è un organismo economico, non filosofico o pedagogico. La domanda che pongo è questa: che fine fa la visione di un’università e di una scuola che hanno come stella polare quello di creare forza-lavoro nel tempo della crisi del mercato del lavoro? Dove magari, come accade in Italia, il cui tessuto economico è fatto in gran parte di piccole aziende semiartigianali, il laureato specializzato è meno attraente di un lavoratore non specializzato, magari d’origine straniera e a bassocosto. Non sono domande nuove: negli Stati Uniti e in Inghilterra, quel sistema scolastico anglosassone che noi oggi cerchiamo di replicare fuori tempo massimo in Italia, è già sotto accusa e si sta correndo ai ripari. Intanto il risultato delle cattive politiche scolastiche messe in atto dagli ultimi governi italiani ha portato ai primi cattivi frutti. Uno: la scuola primaria italiana che era prima per qualità in Europa nel 2008, dopo la controriforma Gelmini è precipitata in classifica. Due: oltre 50.000 immatricolazioni universitarie in meno negli ultimi dieci anni; che è assurdo attribuire solo al calo demografico. Credo che occorra riflettere, specie nel centrosinistra italiano, sulla visione di scuola e università che vogliamo. Magari rivalutando quella pedagogia popolare italiana del Novecento non togata, che va da Gianni Rodari a don Milani a Loris Malaguzzi, che parlavano più di educazione permanente, civile, della persona, che di formazione temporanea. E che mettevano la scuola al centro della vita sociale e democratica di un Paese, come suo cuore pulsante, piuttosto che subordinarla acriticamente al mercato o a ideologie neoliberiste.
da L’Unità

La demagogia irresponsabile, di Ezio Mauro

A tre settimane dalle elezioni, i mercati hanno votato ieri, segnalando tutto il loro allarme. Borsa in calo di 4 punti e mezzo (la più debole d’Europa), le banche che arrivano a perdere più di 6 punti, lo spread che risale di 20 punti base, a quota 285. La tregua è finita, il recupero di credibilità del governo Monti rischia di essere mangiato pezzo a pezzo, insieme col rigore e le riforme dell’ultimo anno, dalla confusione politica che porta nuovamente a galla – com’è inevitabile – tutte le debolezze drammatiche dell’Italia. Un Paese, non dimentichiamolo, che nel 2013 dovrà collocare sul mercato ben 410 miliardi di titoli per finanziarsi il debito: appena 60 in meno del 2012, l’anno peggiore del dopoguerra.
Quel che è successo è sotto gli occhi di tutti. Gli scandali Mps e Saipem trasmettono l’immagine di un sistema inaffidabile, che trucca i conti in un caso e nell’altro inganna la stessa vigilanza: Siena in più manda il segnale d’allarme di una contiguità di interessi e di potere tra la terza banca del Paese e la politica (in questo caso la sinistra), e soprattutto getta un’ombra sul mondo bancario italiano, fino ad oggi più riparato di altri mondi davanti all’urto della crisi.
In questo paesaggio di fragilità e di nuovi dubbi sul-l’Italia, irrompe il fattore Berlusconi. I report di tutte le banche d’affari occidentali, ieri, lo citano espressamente, per nome e cognome. Gli operatori finanziari, com’è evidente, non inseguono la piccola politica quotidiana, badano agli scarti di sistema, alle svolte, alle incognite, ai rapporti di forza. Non hanno certo in simpatia la sinistra, in qualunque Paese operi. Non è dunque il recupero di qualche percentuale da parte di Berlusconi che spaventa i mercati. È la combinazione tra il populismo elettorale, di propaganda, della destra italiana, e le possibili conseguenze che questa avventura politica rischia di proiettare sull’azione del prossimo governo, sulla linea della futura maggioranza, sullo spirito del nuovo parlamento. Sul ruolo quindi che l’Italia giocherà in Europa.
È evidente a tutti che la campagna elettorale è il luogo della radicalità, degli slogan, delle promesse, e dunque di un linguaggio forte e persino estremo. Ma in politica, almeno da parte di chi compete per governare, la radicalità elettorale va combinata con la responsabilità dell’amministrazione. Bisogna sostenere le promesse con la credibilità che si è conquistata quando si governava. Bisogna misurarle con la sostenibilità della fase in cui si governerà. Ora è evidente a tutti che l’annuncio di Berlusconi di voler cancellare l’Imu sulla prima casa (3,7 miliardi) e di restituire «in contanti» quella già pagata (altri 3,7 miliardi, per un totale di mezzo punto di Pil) è una promessa impossibile, resa non credibile dalle promesse non mantenute dal passato governo, e resa semplicemente insostenibile dalle condizioni in cui si trovano l’Italia e i suoi conti pubblici.
Ma ciò che allarma l’Europa è l’assoluta irresponsabilità politica e di governo che c’è dietro questo populismo demagogico, nel senso letterale di adulazione del popolo, attraverso i suoi istinti e i suoi interessi a breve. L’uomo che promette di cancellare l’Imu lo ha votato, per scelta libera e autonoma, nel parlamento della repubblica. L’uomo che vuole scardinare le politiche di rigore e di risanamento che Monti ha dovuto varare per rimediare ai disastri del suo governo è lo stesso leader che si è fatto garante con l’Europa del fiscal compact, prendendo impegni precisi a nome dell’Italia con la Ue e con la Bce in un momento drammatico della crisi finanziaria che minacciava di travolgere il nostro Paese. Che credibilità può avere nel suo ultimo voltafaccia?
L’irresponsabilità è massima quando si pensa che Berlusconi sa che non toccherà a lui governare, e quindi non dovrà onorare le promesse, o farsi carico delle bugie elettorali. Quindi può tranquillamente drogare il mercato elettorale alzando la posta senza pagare dazio, introducendo dinamiche politiche impazzite, perché cozzano contro la condotta tenuta fino a ieri dal suo partito in parlamento, contro gli impegni e i vincoli precisi che lui personalmente ha sottoscritto con l’Europa, compreso il pareggio di bilancio imposto a partire da quest’anno dalla Costituzione. Soprattutto, Berlusconi sa che gli avversari non possono seguirlo sul terreno dell’irresponsabilità: Monti infatti ha detto che quello dell’ex premier è un tentativo di «comprarsi i voti» dei cittadini con i soldi dei buchi di bilancio che proprio lui ha lasciato, una sorta di tentativo di corruzione elettorale, prendendo a schiaffi i sacrifici degli italiani. E Bersani ha parlato di «barzellette da Bengodi» per strizzare l’occhio agli evasori, come la proposta del Cavaliere di un nuovo condono tombale.
Ma la demagogia sull’Imu del Cavaliere cade su un terreno già dissodato dal populismo, abbondantemente arato dall’antipolitica: dunque pronto ad accogliere il seme dell’irresponsabilità nei confronti del futuro governo e del patto fiscale europeo che quel governo dovrà onorare. Se i politici sono tutti uguali e il “vaffa” mortuario di Grillo è la cifra politica della fase che stiamo vivendo, allora perché non puntare il voto sulla riffa berlusconiana e scommettere sull’ennesimo vantaggio privato — lo sconto fiscale — a danno dei conti pubblici? Basta col rigore, basta con l’Europa e magari basta anche con l’euro come dice Berlusconi ammiccando prima di ritrattare. L’Italia può farcela da sola, in fondo si stava meglio quando si stava peggio, nessuno diceva
la verità e il governo procedeva nell’inganno ottimista, perché sacrifici e rigore hanno un costo elettorale che il leader populista non può permettersi, innocente e invulnerabile com’è nel cerchio perenne del carisma perfetto.
Due disperazioni rischiano di unirsi: quella politica di Berlusconi, che ha perso tutto compreso l’onore e gioca qualsiasi carta titanica pur di vincere in un campionato a parte, che è quello dell’interdizione e del condizionamento, mandando in stallo il sistema; e quella di cittadini che si sentono senza rappresentanza, soli davanti a tasse troppo alte, impoveriti e indifesi. E si capisce perché.
Ciò che non si capisce è perché la sinistra sia sulla difensiva sul tema delle tasse, come se non fosse evidente a tutti che il fisco è arrivato a livelli eccessivi nel nostro Paese, l’evasione cresce e dunque il tema è per forza di cose centrale nella contesa elettorale. Il Pd dovrebbe affrontarlo a testa alta, all’attacco, nella convinzione che i suoi strumenti culturali e politici possono essere i più adatti ad affrontare l’emergenza e la crisi, se sono capaci come dovrebbero di coniugare rigore ed equità, cioè proprio quel che è mancato a
Monti. La questione fiscale deve essere discussa davanti al Paese, spiegando come la tassazione faccia parte di uno scambio civico tra lo Stato e il cittadino, che quando va a votare giudica anche la qualità e la quantità dei servizi forniti dall’amministrazione pubblica in cambio del pagamento delle tasse, in un circuito di andata e ritorno e non di solo prelievo. È questo il “capitale simbolico” che lo Stato accumula con il fisco, insieme con il capitale economico centrale, ed è questo che dà legittimità alla tassazione moderna, a differenza dei gabelli medievali imposti dal sovrano ai sudditi come “dono”.
Dentro questo quadro, bisogna ricordare ai cittadini che la tassazione è cresciuta per il malgoverno di Berlusconi, la dissipazione di una maggioranza enorme, l’incapacità di realizzare le riforme promesse, il negazionismo davanti alla crisi più pesante degli ultimi decenni. Bisogna dire con chiarezza che la tassazione è troppo alta, senza lasciare questa carta alla demagogia della destra. E bisogna spiegare che si proverà a ridurla puntando sui redditi più bassi e sul lavoro, con responsabilità e coerenza davanti all’Europa. Non perché l’Europa è un vincolo: ma perché è l’unica scelta di sopravvivenza e di garanzia che il Paese può liberamente fare per il suo futuro.
Chi ci guarda, vede il rischio che la demagogia porti voti a Berlusconi proprio mentre mina le politiche di rigore e dunque la credibilità italiana. Un doppio rischio per l’Italia e per l’Europa, secondo i mercati: che il Cavaliere torni competitivo, dopo essersi rivelato incapace di governare, e che la sua predicazione irresponsabile condizioni l’opinione pubblica e dunque il futuro parlamento e il governo, facendo credere agli italiani che la crisi è passata solo perché elettoralmente conviene a Berlusconi.
Davanti a questo pericolo, si capisce che i mercati vedano, capiscano e reagiscano. Si capisce meno che non facciano altrettanto gli italiani.
da La Repubblica

Boom a elementari e licei tornano le classi-pollaio, di Corrado Zunino

Crescono gli studenti italiani, e cresceranno ancora il prossimo anno. Gli ultimi dati forniti dal ministero dell’Istruzione ai sindacati prevedono che ai tre cicli scolastici (dai sei ai diciannove anni) si iscriveranno 6 milioni e 832 mila studenti, 26.706 in più dell’anno scorso.
L’incremento della popolazione scolastica si sente fortemente alle elementari: più 21.049. Ma anche alle superiori: più 13.384. Il boom viene frenato dal dato delle scuole medie, che il prossimo settembre vedrà una flessione degli iscritti pari a 7.727. È un dato rilevante, che accelera in realtà un percorso di crescita che dura da cinque anni di fila, secondo le rilevazioni del Miur. Dal 2008 al 2013 il numero degli iscritti è aumentato di 56.486 studenti (+0,8% complessivo) e sul quinquennio resta molto forte l’accelerazione alle elementari (59.362 in più, +3,7%), una crescita più contenuta alle medie (10.079, +0,4%) mentre il calo qui si vede invece alle scuole superiori: 12.955 alunni in meno (-0,5%).
I demografi, ma anche i dirigenti dell’Istruzione di lungo corso, imputano questa generale crescita scolastica alla forte immigrazione straniera pre-crisi, ovvero fino al 2008. D’altro canto l’ultimo censimento ha registrato 59 milioni e 433 mila residenti in Italia (la cifra più alta di sempre) a fronte di 250 mila italiani in meno. Il dato generale è attribuibile all’onda degli stranieri, che oggi superano i quattro milioni. E così accade nella scuola, che sempre più riceve figli di extracomunitari.
Il paese a due facce vede — come ha sottolineato il sito di Tuttoscuola —
il crollo della scolarità al Sud e un aumento potente degli iscritti negli istituti lombardi (65 mila alunni in più negli ultimi cinque anni) e in Emilia Romagna (+10 per cento). Nel-l’Italia meridionale, isole comprese, nel quinquennio si sono registrati 148 mila alunni in meno. La flessione demografica di quell’area, tutt’altro che nuova, è costante e gli esperti prevedono che continuerà ancora per molto tempo, senza risparmiare nessuna regione. Basilicata, Calabria ma anche il Molise hanno picchi negativi tra il 7% e il 9%. Negli istituti superiori di alcune aree del Sud la decrescita formativa ha superato il 10%, e questo è un grave sintomo di dispersione scolastica. Fra l’altro, il ministero è in grave disagio perché al prosciugamento dei ragazzi iscritti non corrisponde una fuoriuscita di insegnanti. Nelle
classi calabresi e molisane c’è un insegnante ogni 17 ragazzi, in Emilia Romagna uno ogni 21.
Nello stesso periodo considerato, i cinque anni che arrivano al 2013, in tutto il Centro-nord si è registrato un deciso incremento: 88 mila scolari in più nel Nord Ovest, 76 mila nel Nord Est, 41 mila in più nelle regioni centrali. Più che un’immigrazione scolastica interna, meridionali che salgono con le famiglie nel produttivo Settentrione, anche qui siamo in presenza di uno spostamento di immigrati verso il Nord Italia dopo il primo approdo: i bambini-ragazzi in età scolare seguono, ovviamente, i loro genitori in cerca di un lavoro.
Con la crescita scolastica dell’Italia centro-settentrionale prossima ventura, sono inevitabili e prevedibili gli effetti sulle classi da chiudere o aprire, le strutture scolastiche da ridurre o ampliare (gli accorpamenti). Si segnalano in crescita le classi pollaio, quelle dove si stipano oltre trenta alunni. Nel 2010 le classi “over 30” in Italia erano 2.108 (su 350 mila), pari allo 0,6%, dato in salita. Le proiezioni sulla stagione 2013-2014 fanno immaginare il superamento della soglia dell’un per cento con le classi pollaio stimate intorno a quattromila. Fra l’altro, una sentenza del Consiglio di Stato e tre del Tar del Molise hanno fissato il tetto, oltre il quale una classe diventa un pollaio, a quota 25. Fissando lo spazio per alunno in 1,96 metri quadrati a testa. Il Miur ha già fatto sapere che, per i vincoli posti dalla legge, il prossimo anno non potrà esserci un aumento dei posti (e quindi delle classi). Gli ultimi record della scuola italiana — 42 alunni allo scientifico D’Assisi di Roma, 37 alunni di cui due disabili in un istituto tecnico di Colleferro, nell’hinterland della capitale, 41 in un tecnico di Fucecchio — saranno probabilmente infranti.

da La Repubblica

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Più alunni, ma stesse classi, di Carlo Forte

Dal prossimo anno scenderà di 100 unità, da 1000 a 900 alunni, il numero minimo di alunni per costituire un’istituzione scolastica dotata di un preside e di un direttore dei servizi generali e amministrativi titolari. La determinazione del numero dei dirigenti scolastici da assegnare regione per regione sarà attribuita, infatti, utilizzando come dividendo il numero degli alunni complessivamente frequentanti nella regione e come divisore il numero 900. É quanto trapela da una serie di incontri al ministero dell’istruzione in vista dell’intesa con le regioni. L’amministrazione ha reso noto che il numero degli alunni è cresciuto di circa 26mila unità, ma il numero delle classi (e quindi dei docenti) non subirà variazioni. Ciò per rispettare i vincoli di spesa imposti dalle disposizioni in vigore. Tanto più che per rientrare nei limiti bisognerebbe che il numero delle istituzioni scolastiche scendesse di almeno 1000 unità. Resta il fatto, però, che il numero dei dirigenti scolastici subirà riduzioni molte modeste. Dal prossimo anno, infatti, l’organico dei dirigenti sarà ridotto di appena 38 unità, passando dagli attuali 8880 a 8842. E l’anno scorso il taglio era stato altrettanto modesto : 37 dirigenti in meno. Le regioni potranno scegliere di costituire istituzioni scolastiche anche in deroga ai parametri di massima fissati dal ministero. Ma i dirigenti scolastici e i direttori dei servizi generali e amministrativi non saranno assegnati alle istituzioni scolastiche con meno di 600 alunni, che scendono a 400 nelle scuole di montagna. Quanto al coordinamento delle disposizioni per la costituzione degli organici e gli effetti della sentenza della corte costituzionale 147/2012, l’amministrazione sarebbe orientata a non rivedere la propria posizione. La Consulta, infatti, si è limitata a dire che è incostituzionale la norma che impone alle regioni di non costituire istituti comprensivi al di sotto dei mille alunni. E cioè l’articolo 19 comma 4 del decreto legge 98/2001.Perchè è una norma di dettaglio che rientra nella competenza delle regioni. Ma ha fatto salva la facoltà dell’amministrazione scolastica di definire gli organici dei dirigenti scolastici. E quindi anche il successivo comma 5 il quale dispone che «alle istituzioni scolastiche autonome costituite con un numero di alunni inferiore a 600 unità, ridotto fino a 400 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche, non possono essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato. Le stesse sono conferite in reggenza a dirigenti scolastici con incarico su altre istituzioni scolastiche autonome». Ciò vuole dire che l’amministrazione ha pieno titolo a dire quanti dirigenti scolastici intende assegnare alle regioni. Sta alle regioni, poi, stabilire quante istituzioni scolastiche istituire. Fermo restando che la differenza tra il numero delle scuole istituite dalla regione e il numero dei dirigenti da assegnare non comporterà aumenti nella dotazione organica dei medesimi. Pertanto, se i dirigenti scolastici assegnati non basteranno, le scuole che non otterranno un titolare dovranno accontentarsi di un reggente. Idem per quanto riguarda i direttori dei servizi. E sarà questa la sorte che toccherà, in ogni caso, alle scuole con meno di 600 alunni, in via ordinaria, o con meno di 400 alunni, se si tratta di scuole di montagna.

da Italia Oggi