Primo piano di Montecitorio, studio della vicepresidente Rosy Bindi, che è di passaggio a Roma in una pausa della campagna che sta combattendo in Calabria. Ha ragione D’Alema a lanciare l’allarme, annotando che mentre i democratici si trastullavano a parlare già di ministri Berlusconi guadagnava 8 punti percentuali? La presidente dell’Assemblea nazionale Pd ci pensa un attimo poi risponde: «Non io. Se stanno discutendo di ministri – e a me non risulta – certo non lo sto facendo io, che passo le giornate a fare campagna elettorale in Calabria».
Allarme infondato, allora? Lei non è preoccupata dalla rimonta del Cavaliere?
«Siamo in testa secondo tutti i sondaggi, e ce la giochiamo nelle regioni cosiddette a rischio. Questo per dire che non sono preoccupata, ma occupata: a fare campagna per vincere. Poi, è chiaro che non dobbiamo pensare di avercela già fatta; e che non si può mai sottovalutare Berlusconi».
Lo avete sottovalutato?
«Non mi pare, ma certo sono accadute cose imprevedibili ancora due mesi fa».
Intende?
«Qualcuno si aspettava che Berlusconi si ricandidasse? E chi avrebbe scommesso sulla ricostruzione dell’alleanza con la Lega? E ancora: quanti avrebbero immaginato un’altra campagna a base di promesse choc?».
Questo per dire che il quadro si è complicato?
«Noi abbiamo due avversari politici, che sono Berlusconi e Grillo – versioni diverse del populismo nostrano – e due competitori: Monti e Ingroia. Questo ci consegna una campagna elettorale impegnativa, non c’è dubbio. Se vuole, più impegnativa di quel che immaginavamo».
E’ una campagna che Bersani sta conducendo bene? I sondaggi vi danno in costante flessione.
«Il messaggio di Bersani mi sembra giusto e serio: noi buffonate non ne facciamo e non ne diciamo. Poi, scelga il Paese: se vuole mettersi in mani sicure, vota noi; se cerca avventure, è un altro discorso. Ma noi non inseguiremo nessuno su quella strada: la nostra forza sono l’affidabilità e la coerenza. E vuole che le dica una cosa su Monti?».
Certo.
«Credo che non sfondi proprio per mancanza di coerenza rispetto “a quello che ha fatto e a quello che aveva detto: ha cambiato abito, e la gente non apprezza».
Torniamo al centrosinistra, però. I sondaggi vi danno in calo ma lei dice che il messaggio di Bersani è giusto: non lo trova singolare?
«Noi siamo in campagna elettorale praticamente da metà settembre, quando abbiamo avviato le primarie per la scelta del candidato premier. Due, tre mesi di mobilitazione hanno portato i consensi al Pd molto in alto, e del resto eravamo gli unici in campo…».
Sì, ma ora calano: e il centrosinistra non pare in grado di invertire il trend.
«Ma siamo ampiamente in vantaggio, dobbiamo mantenere questo tono – fatto di responsabilità e serietà – anche nelle prossime settimane. Quel che occorre è essere più esaustivi e precisi nelle proposte».
A cosa pensa?
«Dobbiamo esporre con maggior chiarezza il nostro progetto di governo. Se parliamo di lavoro, possiamo spiegare meglio come e dove troviamo le risorse, senza aggravare i conti pubblici o tagliando il welfare: su questo dobbiamo essere netti. Taglio alle spese militari, recupero dell’evasione fiscale, vendita di parte del patrimonio immobiliare dello Stato, riduzioni mirate delle spese, liberalizzazioni: i soldi devono venire da lì, non da tagli all’istruzione, alla ricerca o dalla sanità. E dobbiamo soprattutto dire con chiarezza, da Nord a Sud, che l’Italia riparte se riparte il Mezzogiorno».
E’ il solito elenco…
«Capisco che in una campagna elettorale che qualcuno vorrebbe vincere con gli “effetti speciali”, può apparire il solito elenco: ma è ciò di cui ha bisogno il Paese. E siamo un po’ sorpresi da certo propagandismo elettorale che ha contagiato anche il professor Monti». Col quale, però, già dite di voler governare dopo il voto. «Noi vinceremo le elezioni, e dopo non andremo col cappello in mano da nessuno. A Monti dico che sbaglia se pensa che il Pd vince con Vendola – al quale riconosciamo grande senso di responsabilità – e poi governa con lui, magari scaricando Sel».
E allora?
«Saranno decisivi i risultati elettorali. Quando la tanto citata Germania scelse la via della grande coalizione, premier diventò la Merkel e non Schroeder, perché aveva ottenuto più voti. A Palazzo Chigi ci va chi vince le elezioni…».
Quindi a Palazzo Chigi ci va Bersani.
«Ci va chi vince le elezioni. E se si farà un accordo dopo il voto, credo che Monti possa e debba impegnarsi nella squadra di Bersani…».
da La Stampa
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Ma Franceschini punge il Prof: "Pasticcia, strategia mediocre", di Elena G. Polidori
Il Presidente dei deputati del Pd Dario Franceschini è stato ospite ieri dei videoforum del Quotidiano Nazionale, in diretta web su Quotidiano.net.
Onorevole Franceschini, s’immaginava che Monti potesse vestire i panni del politico cosi spregiudicato?
«Cominciare un mestiere nuovo è come prendere la patente: fra frizione e acceleratore si combinano un po’ di pasticci. In Parlamento Monti esprimeva lodi sperticate ai partiti…. Tirar fuori queste cose oggi è molto mediocre. Consiglierei a Monti di non andare avanti così. Altrimenti sembra ci sia uno sdoppiamento».
Berlusconi parla di tasse, voi del Pd gli ridete dietro…
«Berlusconi dice sempre le stesse cose, ma noi crediamo che gli italiani siano vaccinati e intelligenti. D’altra parte i numeri dimostrano che durante il governo Berlusconi la pressione fiscale è cresciuta. Cinque anni fa disse anche che voleva eliminare il bollo auto, poi non lo fece».
Perché lo fa?
«Lui ha il vantaggio di non avere una faccia da difendere. Noi non ci metteremo sullo stesso piano. Cominciamo, invece, a fare un discorso di equità sociale, con una gerarchia dei bisogni e da chi ha più bisogno»
È probabile che dopo le elezioni vi dobbiate alleare con Monti che miro a tirare fuori Vendola. E possibile pensare a una sostituzione di Monti con Sel?
«Quando c’è un partito al 30%, uno al 4-5% e uno al 9-10% la domanda va rovesciata e occorre chiedere ai due partiti più piccoli chi è più vicino a quello più grosso. Il baricentro è il Pd».
Ma è stato Vendola a dire o me o Monti…
«La campagna elettorale spinge ad accentuare i toni. Noi abbiamo lasciato fuori dall’alleanza di governo tutti gli estremismi: Diliberto, Prc, i Verdi, Di Pietro, Ingroia, anche se erano voti. Con Sel siamo orgogliosamente alleati; Vendola ha cultura di governo e rappresenta legittimamente una posizione di sinistra. Resteremo alleati con lui, e se ci sarà la necessità di allargare l’alleanza vedremo».
Perché quando si arriva vicino alle elezioni accade spesso che il Pd pare perdere il vantaggio accumulato? Paura di vincere?
«Paura di vincere proprio no. È solo una ‘regola’ in tutte le democrazie, quando ci si avvicina alle elezioni il differenziale si assottiglia perché la gente si colloca. Stavolta, però, bisogna dirlo: ogni voto sottratto a noi, quindi anche ogni voto per Ingroia o per Monti, per via di questa legge elettorale aiuta a far vincere Berlusconi»
Vista la crisi, dove pensate di trovare i soldi e dove pensate di destinarli nella prima fase di governo, per le cose più urgenti?
«Dobbiamo cominciare da chi sta peggio. Poi si deve creare un’indennità di disoccupazione universale con i proventi dell’evasione fiscale. Poi, ci vuole una tassa sui grandi patrimoni immobiliari, lavorando sull’Imu, sulla seconda e terza casa. Credo che sia giusto chiedere a chi ha molto per sostenere chi non ha neppure i soldi per fare la spesa».
Dopo l’esperienza parlamentare, le piacerebbe fare il presidente della sua regione, come hanno fatto altri politici tipo Cota, Vendola, Maroni?
«Ho un forte legame con la mia terra e faccio ancora il pendolare con Ferrara, ma per i prossimi cinque anni il mio impegno sarà a Roma»
Da quotidiano.net
Università, la fuga dei meno abbienti. Non si iscrivono da tecnici e professionali, di Salvo Intravaia
Il calo degli immatricolati all’università colpisce quasi esclusivamente le classi meno abbienti. Qualche giorno fa, il Consiglio universitario nazionale – il “parlamento” del sistema universitario italiano – ha denunciato la fuga di iscritti che in appena otto anni ha colpito le università. Dal 2003/2004 al 2011/2012, cioè in meno di un decennio, il contatore ha fatto registrare un preoccupante meno 17 per cento netto in termini di immatricolazioni. Il Cun, appoggiandosi ai dati forniti dal Cineca, si è accorto che in due quadrienni le immatricolazioni ai corsi triennali e a ciclo unico sono passate da 338mila a 280mila, con un saldo negativo di ben 58mila immatricolazioni. Il calo di new entry all’università si verifica in un momento di particolare difficoltà delle economie europee, e soprattutto di quella italiana, che secondo la Commissione europea può essere superata soltanto puntando sull’innovazione. E per farlo occorrono più e non meno laureati. Ma come spesso avviene la media in statistica descrive fenomeni complessivi ed è come i polli di Trilussa: a chi troppo e a chi niente. Basta quindi approfondire l’analisi per avere qualche elemento in più di valutazione. Passando infatti ai diplomi in possesso dei nuovi adepti all’università si può vedere come il 17 per cento di calo delle immatricolazioni sia stato quasi esclusivamente a carico degli strati sociali meno abbienti. Confermando una volta ancora che in Italia l’ascensore sociale è ormai fermo da tempo. Se infatti il calo di immatricolazioni avesse colpito equamente tutti avremmo avuto meno immatricolati fra i diplomati di tutti gli indirizzi. Ma così non è stato. Dal 2003/2004 al 2011/2012, gli immatricolati all’università in possesso di un diploma di maturità liceale (classica o scientifica), anziché diminuire, sono aumentati dell’8 per cento. Mentre sono crollate le immatricolazioni di coloro che erano in possesso di un diploma tecnico o professionale: meno 44 per cento per i primi e meno 37 per cento per i secondi. E in Italia, si sa, gli istituti tecnici e professionali sono frequentati proprio dai figli delle famiglie meno abbienti. E anche depurando i dati dall’aumento di iscritti, e di diplomati, nei licei verificatosi negli anni presi in considerazione dal Cun, e dal conseguente calo di iscritti registrato dagli istituti tecnici, le cose non cambiano molto. Negli otto anni in questione, infatti, il numero di diplomati dei licei è cresciuto del 22 per cento mentre quello sfornato dagli istituti tecnici è calato del 13 per cento. Nulla a che vedere col crollo del 44 per cento di immatricolazioni che ha colpito i possessori di una diploma tecnico. Addirittura i diplomati degli istituti professionali, negli otto anni di riferimento, sono aumentati – del 7 per cento – ma coloro che hanno deciso di continuare gli studi hanno fatto registrare una flessione del 37 per cento. Ma a condizionare la scelta di proseguire o meno gli studi, oltre alle difficoltà economiche, potrebbe essere anche stata la sfiducia nei confronti di un titolo di studi, la laurea, che un tempo assicurava ottime prospettive di lavoro e di guadagno, oltre che una diversa considerazione sociale dei “semplici” diplomati. Ma andando a guardare cos’è avvenuto nelle diverse aree geografiche del Paese si è portati ancora una volta ad attribuire il calo degli immatricolati a considerazioni di tipo economico, che il possibile calo delle borse di studio – conseguente alla prossima approvazione del decreto sul diritto allo studio – denunciato dagli studenti universitari, potrà solo accentuare. Il 17 per cento complessivo di calo delle immatricolazioni, si ridimensiona al 7,7 per cento nelle regioni del Nord, col Piemonte e il Trentino Alto Adige che fanno registrare addirittura incrementi. Ma scendendo per lo Stivale le cose cambiano rapidamente. Nelle regioni dell’Italia centrale il calo delle immatricolazioni è già pesante – meno 19 per cento – e diventa pesantissimo nelle aree meridionali dove arriva a sfiorare il 27 per cento. In buona sostanza, al Sud in pochi anni oltre un ragazzo su quattro ha abbandonato i sogni di conseguire una laurea. Proprio dove, in questi ultimi anni, la disoccupazione e la crisi economica a fatto sentire i suoi effetti più nefasti
Da Repubblica.it
Scuola, in tre mosse il PD archivia Gelmini, di Mario Castagna
Risorse, stabilità, fiducia. Si potrebbe sintetizzare così il programma del PD sulla scuola del futuro. «Siamo qui per presentare le idee che abbiamo messo nel nostro documento e con le quali ci presentiamo alle elezioni – ha sostenuto Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd insieme a Manuela Ghizzoni, Maria Coscia, Maria Grazia Rocchi e Simona Malpezzi, nel corso della conferenza stampa di presentazione – la scuola ha bisogno di risorse, stabilità e fiducia dopo anni di tagli. Le emergenze, come quella legata all’edilizia scolastica, devono trovare una risposta». Primo punto dell’agenda è infatti il contrasto a tre emergenze che oggi colpiscono la scuola italiana: la sicurezza degli edifici scolastici, la dispersione e l’abbandono scolastico e il settore 0-6, cioè quello degli asili nidi e della scuola dell’infanzia. Sulla prima emergenza Pierluigi Bersani aveva già anticipato il piano straordinario per la manutenzione e la ristrutturazione degli edifici scolastici. Una vera e propria emergenza che minaccia in primis la sicurezza dei nostri ragazzi. Da uno studio della Krls Network of Business Ethics, emerge che in Italia solo il 46% delle scuole è agibile. Siamo addirittura sotto l’Albania che con il 53% è l’ultima in classifica. Ma non sono solo le statistiche internazionali a dimostrare la pericolosità delle nostre scuole. È soprattutto l’esperienza quotidiana di milioni di famiglie alle prese ogni giorno con aule fatiscenti e scuole che crollano. I finanziamenti in questo caso verranno garantiti da un allentamento dei parametri del patto di stabilità interno che blocca le spese degli enti locali. Quattro miliardi di euro subito a disposizione per mettere in sicurezza gli edifici scolastici. Altri soldi potranno arrivare dai fondi comunitari che lo Stato italiano spesso non utilizza con efficacia. I DATI DELLA DISPERSIONE L’altra urgenza da affrontare è la dispersione scolastica che in Italia raggiunge livelli preoccupanti. Oggi i giovani che hanno deciso di lasciare la scuola prima della maturità sono il 18,8% della popolazione. L’obiettivo è portare questa percentuale sotto il 10% così come raccomandato dal documento Europa 2020. Combattere la dispersione scolastica significa anche investire maggiori risorse nelle situazione più problematiche come le grandi periferie urbane e il Mezzogiorno. Infatti i dati sull’abbandono scolastico si differenziano molto a seconda delle regioni italiane: in Sicilia la percentuale di studenti che hanno lasciato gli studi prima del diploma è del 26%, seguono la Sardegna con il 23,9% e la Puglia con il 23,4%. «Nessuno rimanga indietro» è lo slogan che il Pd ha utilizzato per illustrare questo piano straordinario di lotta alla dispersione scolastica. L’altra emergenza da affrontare è la fascia di età dei piccolissimi scolari. Gli asili nido e la scuola dell’infanzia, anche a causa dei tagli agli enti locali, sono oggi un campo di attività abbandonato dallo Stato centrale. Tutto è lasciato alla volontà dei singoli enti locali che si barcamenano tra le ristrettezze di bilancio e le poche competenze assegnate. In particolare il Pd pensa ad un piano straordinario per raggiungere l’obiettivo del 33% di copertura dei posti all’asilo nido come chiesto dall’Europa. Per affrontare queste emergenze il governo Bersani è pronto a ridurre la spesa per investimenti del ministero della Difesa. Si spera che questa proposta raggiunga il cuore dell’elettorato democratico tanto che ieri sul sito del Pd è campeggiata tutto il giorno l’immagine di un aereo da guerra affianco ad un’aula scolastica e la scritta «facciamo decollare la scuola italiana». Meno F-35 e più investimenti in scuola, cultura, istruzione. Ma accanto a queste tre grandi emergenze il Pd ha preparato una serie di proposte dedicate alla risoluzione dei mille problemi quotidiani della scuola italiana. Nessuna riforma epocale in vista ma un intervento di vera trasformazione del sistema. Non è più il tempo delle riforme sempre «epocali e decisive», calate dall’alto e mai condivise dal tessuto sociale che ogni giorno fa vivere il sistema educativo italiano. Per il Pd la migliore riforma è quella che nasce dal basso, grazie all’autonomia, si tratta ora di metterla a sistema. La valutazione non dovrà quindi essere dei singoli docenti, né competitiva, ma dovrà indicare se gli investimenti fatti vanno nella direzione giusta. Dovrà essere restituita la fiducia agli insegnanti, anche grazie ad un nuovo contratto collettivo che riconosca loro l’enorme quantità di lavoro che fanno al di fuori delle aule scolastiche. Gli organici delle scuole dovranno essere stabili e non cambiare ogni anno. Solo in questo modo le scuole sapranno su quante risorse potranno fare affidamento così come le risorse finanziarie dovranno essere stabili e mai più tagliate. Il reclutamento dovrà essere anch’esso certo, senza cambiare ogni anno sistema e si dovranno esaurire le graduatorie dei precari. Il tempo scuola dovrà essere allungato, incentivando nuovamente il tempo pieno e le compresenze. SUPERIORI, BIENNIO UNITARIO Per quel che riguarda le scuole superiori il Pd propone un biennio unitario iniziale e la differenziazione dei percorsi solo a partire dal terzo anno. Gli istituti tecnici dovranno essere rivalutati e non abbandonati alla competenza delle regioni sulla formazione professionale. Però quello che il Pd propone è soprattutto un metodo. Mai più una scuola umiliata, mai più una scuola offesa. E proprio per questo, per affrontare al meglio un lavoro difficilissimo, il primo passo del governo Bersani sarà una grande consultazione pubblica con tutto il mondo della scuola. Solo così si pensa di riformare, veramente, una scuola pubblica che un tempo era un orgoglio italiano.
Da L’Unità
Fitoussi: “Si riapre la voragine debito pubblico così fate un favore agli speculatori”, di Eugenio Occorsio
«I mercati sono spaventati perché colgono che Berlusconi è in pista ed è l’uomo identificato come la causa di tanti problemi. Ma ancor più sono terrorizzati all’idea che, di qualsiasi contendente si parli, vengano buttate lì delle proposte isolate, che non rispondono a nessun programma organico di crescita compatibile con le esigenze di razionalità della finanza pubblica. E che hanno l’aggravante, imperdonabile per i governi europei, di riaprire la voragine del debito pubblico. L’Italia che riparte sulla via del debito è una benedizione per la speculazione». Jean-Paul Fitoussi, il prestigioso economista di SciencesPo, sta per pubblicare in Francia il libro Theoreme du Lampadaire: «Un uomo sta cercando qualcosa sotto un lampione, un altro gli si avvicina e gli chiede: cosa cerca? Le chiavi, ma non le ho perse qui. E allora? Vede, questo è l’unico posto della strada dove c’è la luce. I politici si comportano spesso nello stesso modo».
Berlusconi è l’uomo del lampione, non sapendo cosa proporre lancia l’unica idea ad effetto che gli viene in mente?
«Forse, anche se bisogna aspettare il resto del suo programma su una materia cruciale come il fisco. In ogni caso è tempo che l’Italia si doti di una riforma fiscale complessiva, coerente e moderna, che dia luogo ad una giusta redistribuzione delle risorse e non, come tante volte è successo, purtroppo anche con l’Imu, a ingiustizie e squilibri, vere e proprie redistribuzioni in senso sbagliato che arricchiscono chi già è ricco e viceversa».
Nell’attesa di questa riforma è meglio non modificare niente?
«Alcuni aggiustamenti per ritoccare le più evidenti aberrazioni sono urgenti. Ma mi pare che siano tutti d’accordo, compreso Monti: l’Imu va rimodulata per la prima casa a favore delle categorie più svantaggiate. Bisogna agire con attenzione e razionalità, senza manovre avventate prive di logica o copertura. Né boutade demagogiche e incoscienti».
Cos’è che tornerebbe a rassicurare i mercati?
«Un’Italia stabile in grado di realizzare un grande piano di crescita, che tenga presente che è indispensabile avere i conti in ordine ma anche che è impossibile diminuire il debito azzerando la domanda di consumi nel pieno di una recessione così grave. Grazie al governo Monti, il Paese è uscito dall’emergenza. Fra minore spread e maggiori entrate, non rischia più la bancarotta, rischio peraltro al quale io non ho mai creduto. Con le acque quasi calme, è il momento di pensare sul lungo termine. Bisogna rinegoziare con l’Europa le scadenze e posticipare il problema della finanza pubblica per 2-3 anni concentrandosi sulle altre questioni a partire dal lavoro. Solo garantendo più occupazione oggi è possibile ridurre domani in modo strutturale il debito. Servono investimenti in scuola e sanità, iniziative di assistenza attive per la riqualificazione professionale, opere infrastrutturali ».
Tutto questo costa, altro che la restituzione dell’Imu…
«Ma queste sono spese sane e irrinunciabili. Certo, sono necessari il consenso e la cooperazione europei. Ma mi sembra che, stando all’ultimo incontro fra Monti e Merkel, la Germania stia scendendo sullo stesso terreno. Anche lì la crescita è vicina a zero, così come in Francia. Guardate all’America: già tracciò la linea con il new deal keynesiano
negli anni ’30, mentre in Europa si inseguivano vaghi progetti di autarchia e stretta monetaria. Volete che vada a finire come allora? O più democraticamente, che acquistino potere i partiti demagogici, nazionalisti e qualunquisti che si affacciano non solo in Italia, guardate a Le Pen? Per questo dico che bisogna cambiare rotta subito e non fra due o tre anni. Allora sarà tardi».
da La Repubblica
I condoni, di Roberto Petrini
La strizzatina d’occhio c’era stata nell’estate del 2011, quando il governo Berlusconi ancora in carica cominciava a navigare nella tempesta della crisi finanziaria che avrebbe portato il paese sull’orlo del baratro. Un manipolo di quaranta deputati guidati dall’azzurro Amedeo Laboccetta firmò una lettera a favore di un condono fiscale tombale. In autunno Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera disse che si doveva discutere dell’argomento «senza tabù».
Arrivò anche Scilipoti che affermò senza pudore: «Milioni di italiani ci chiedono il condono ». Il governo cadde nelle settimane successive e non se ne fece nulla ma il meccanismo che si era messo in moto era assai simile a quello del dicembre del 2001 quando, durante la discussione della Finanziaria, l’azzurro Gianfranco Conte lanciò l’idea del «condono di Natale»: in prima battuta l’operazione fu bloccata ma sei mesi dopo le truppe d’assalto, da Daniela Santanché allo stesso Cicchitto, tornarono a chiedere a viva voce la sanatoria, che Berlusconi annunciò a settembre, a Bari, alla Fiera del Levante. Fu una carneficina: forse il più grande condono della storia d’Italia, che sommava dodici sanatorie e che consentì nel biennio 2002-2003 di raccogliere 20 miliardi di euro. Fu tombale, definitivo e anonimo. Con la firma di Berlusconi e del suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
Oggi Berlusconi torna alla carica, in piena campagna elettorale e garantisce, nel caso di una sua improbabile vittoria alle elezioni, un «condono tombale» nuovo di zecca e invia un messaggio esplicito al popolo dei 3 milioni e 200 mila evasori che aderirono alla sanatoria dieci anni fa. Con il rischio documentato e quasi matematico che l’evasione fiscale nei prossimi anni eroda ancor più di oggi il bilancio pubblico: basti pensare che è stato calcolato che se in Italia si fossero pagate le tasse come negli Stati Uniti o in Svezia il debito pubblico sarebbe abbondantemente sotto quota 100 per cento del Pil da anni.
Ed invece si rischia il contrario. Se si prende l’indicatore
della fedeltà fiscale nel nostro paese, redatto da una istituzione indipendente come il World Competitiveness, si scopre che dopo un elevato tasso di fedeltà fiscale, che arriva ai massimi proprio nel biennio del condono, dal 2004 in poi la curva precipita. Capìta l’antifona e aspettandosi nuove sanatorie, gli italiani hanno preferito non pagare. «Quando all’“ultimo condono” se ne aggiungono altri, a distanza di poco tempo uno dall’altro si generano aspettative di nuovi condoni nel futuro », ha spiegato la specialista di fisco Maria Cecilia Guerra sulla Voce.info. Ed infatti: la precedente sanatoria, varata
sempre dal governo Berlusconi nel 1994 e portata a termine nel 1996, era assi fresca nella memoria dei contribuenti. Un giudizio severo condiviso dalla Corte dei Conti che nella relazione al Parlamento, scritta da Luigi Mazzillo, tracciava un amaro bilancio del «condono tombale» e ne indicava con chiarezza «l’effetto diseducativo » per aver premiato gli evasori e non gli onesti.
Senza contare che a consolidare la presenza dell’iceberg da 120 miliardi che rappresenta l’evasione fiscale italiana c’è anche la paralisi dell’amministrazione finanziaria: tra moduli, circolari e assistenza ai contribuenti resta bloccata per almeno due anni e deve sottrarre risorse alla lotta all’evasione.
Se è vero dunque che l’evasore è una sorta di «animale razionale » in grado di fiutare nell’aria l’arrivo di un condono, il debutto di una nuova sanatoria rischierebbe di buttare a mare tutto quanto si è fatto con i blitz a Cortina, con le indagini sugli scontrini e sulla tracciabilità del contante negli ultimi anni, soprattutto dall’ultimo governo Prodi e, in parte, anche sotto il governo Monti. E a dimostrazione che condono chiama condono c’è una indagine della Demoskopea fatta, a caldo, nel 2004: il 75 per cento dei contribuenti intervistati dichiarò che il condono, in qualche misura, era atteso. Allora perché pagare le tasse?
Oggi il rischio di un nuovo devastante crollo della onesta adesione alle ragioni del fisco degli italiani si ripresenta. Del resto la storia degli ultimi vent’anni parla chiaro: ogni volta che il centrodestra arriva al governo c’è un condono. In questo modo dal 1994 abbiamo totalizzato due condoni fiscali, due scudi per il rientro dei capitali dall’estero e due condoni edilizi. Dell’abusivismo Berlusconi non ha ancora parlato, ma sono passati circa dieci anni dall’ultima sanatoria e non per niente nelle ultime settimane del 2012 un blitz guidato dall’azzurro Nitto Palma tentò di far passare il colpo di spugna al Senato. Dipenderà dall’esito delle elezioni.
da La Repubblica
Bersani: «Un piano per scuole e ospedali», di Simone Collini
Un piano di riqualificazione per scuole e ospedali da finanziare con i fondi strutturali europei e con quanto recuperato da una riduzione delle spese militari. Pier Luigi Bersani evita di inseguire Silvio Berlusconi limitandosi a dire «con noi mai più condoni», e invece mette sul piatto un’operazione che se attuata avrebbe un impatto immediato dal punto di vista economico, sociale, ambientale, occupazionale. Il leader del Pd ha fatto mettere a punto dai diversi dipartimenti del partito un piano di riqualificazione per gli ospedali e le 10.761 scuole statali dove studiano e lavorano 9 milioni di persone.
Secondo i calcoli effettuati al quartier generale del Pd, le operazioni per la messa in sicurezza, l’efficienza energetica, la manutenzione e la bonifica da amianto dovrebbero ammontare a 7 miliardi e mezzo da investire nell’arco di tre anni. Per la copertura di questa spesa, il Pd ha lavorato su una diminuzione delle spese militari, che sono state di 19,96 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil, nel 2012, e che in prospettiva dovrebbero aumentare a 20,93 miliardi di euro per il 2013. Bersani ritiene queste cifre insostenibili e ingiustificate, e intende rivedere, in caso di vittoria alle elezioni, il bilancio del ministero della Difesa. «Bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno per gli F-35, la nostra priorità non sono i caccia ma il lavoro», aveva detto non a caso Bersani una decina di giorni fa.
È però chiaro che le risorse ottenute grazie al taglio della spesa del ministero della Difesa non basteranno a coprire i 7 miliardi e mezzo necessari per il piano di riqualificazione di scuole e ospedali. E infatti il dipartimento Economia del Pd ha individuato le altre fonti di copertura in un allentamento del Patto di stabilità per i Comuni e nei fondi strutturali europei (siamo alla vigilia del nuovo settennato 2014-2020).
Oltre ai vantaggi per chi vive in quei luoghi, l’operazione solo dal punto di vista della riqualificazione degli istituti scolastici porterebbe a risparmi per quasi due milioni in bolletta energetica, a 500 milioni di gettito fiscale aggiuntivo, a oltre 3 miliardi di incremento potenziale del reddito immobiliare e a un sostegno al tessuto produttivo e all’occupazione (è stato calcolato che nel piano saranno coinvolti oltre 17 mila nuovi occupati soltanto nelle zone del centro e del sud Italia). È questa la proposta che Bersani lancia mentre Berlusconi promette la restituzione dell’Imu e parla di condono tombale. Il leader del Pd sa che nel tentativo di recuperare altri punti nei sondaggi, l’ex premier ogni giorno «sparerà fuochi artificiali» inverosimili. Magari una volta attaccando Angela Merkel e una volta evocando l’uscita dell’Italia dall’euro.
È proprio ciò che non possiamo permetterci, secondo Bersani. Che oggi volerà a Berlino per incontrare il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble. «Litigare con la Germania è un non senso», dice il leader del Pd alla vigilia del viaggio. «È necessario invece discutere seriamente. Bisogna prendere impegni sulla stabilità e convincere dell’urgenza di dare spazio alla crescita. Bisogna stringere collaborazioni tra i nostri Paesi nel vastissimo campo dell’economia reale, degli investimenti e del lavoro. Nel corso degli incontri, a proposito di tutto questo, porteremo la nostra idea».
Non sarà questo l’unico appuntamento fissato sotto la voce agenda europea. Venerdì e sabato arriveranno a Torino da ogni angolo dell’Unione leader politici, capi di Stato e di governo, ministri delle principali forze progressiste europee. Spiega Massimo D’Alema, che come presidente della Fondazione per gli studi progressisti europei ha organizzato questa iniziativa, così come quella che si è svolta a Parigi nel marzo scorso. «La Conferenza è la seconda tappa di un percorso, che abbiamo avviato da circa un anno e mezzo, “Renaissance for Europe”, con l’idea di accompagnare il momento elettorale con uno sforzo di programma e proposta sui temi europei. Dopo l’appuntamento di Parigi, durante le presidenziali di Francia, la Conferenza di Torino sarà dedicata ai temi dell’unione politica e della questione della democrazia in Europa». Ci sarà però anche un’altra tappa, dopo quella al Cirque D’Hiver del marzo scorso e questa al Teatro Regio di Torino. Sarà a Lipsia, a maggio, cioè alla vigilia delle elezioni in Germania.
Bersani interverrà sabato mattina. Poi, la sera, andrà allo Juventus Stadium a vedere la partita. Gioca la Juventus, squadra del cuore del leader Pd, contro la Fiorentina. E insieme a chi andrà allo stadio Bersani? A Matteo Renzi, gran tifoso viola. Sarà il bis della bella serata di venedì a Firenze? Dipenderà dal risultato, scherzano da ambo le parti i membri degli staff. Ma al di là delle battute, la nuova uscita a due degli ex sfidanti delle primarie è un altro colpo mediatico messo a segno dal Pd.
da unita.it
