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"Campagna elettorale formato reality", di Ilvo Diamanti

Manca ancora un mese al voto. Anzi, qualcosa di più. Ma è come se, a spoglio iniziato, si discutesse degli exit poll. In attesa delle proiezioni. Con il timore che le stime fornite si rivelino sbagliate. È già avvenuto. Nel 2006, in particolare. Quando gli exit poll annunciarono la larga vittoria dell’Ulivo di Prodi. Mentre, a spoglio concluso, la competizione si risolse in un
quasi-pareggio.
Oggi, a un mese al voto, è come se fossimo ancora lì, dentro e davanti gli schermi, a interrogarci sull’attendibilità delle stime prodotte dai sondaggi. Che da troppo tempo e con troppo anticipo, hanno decretato il successo del centrosinistra e del Pd, guidato da Bersani. Oggi, come nel 2006, si teme – oppure si spera, a seconda dei punti di vista – l’idea della rimonta di Berlusconi. Alimentata da alcuni sondaggi, che registrano un avvicinamento tra il centrosinistra e il centrodestra. Tra Bersani e Berlusconi la forbice si stringe, è la voce che corre. Amplificata da Berlusconi, che, come highlander, affolla gli schermi, più volte al giorno, per narrare la leggenda del proprio eterno ritorno. E che è lì, addosso a Bersani. Anzi, l’ha praticamente superato. Sondaggi alla mano. I propri, naturalmente. Come nel 2006. Oggi, quel precedente incombe. E legittima ogni timore e ogni speranza. Tanto che Luca Ricolfi, sulla Stampa, autorevolmente, si chiede e chiede: “E se Berlusconi vincesse ancora?”. Tanto più dopo la performance a “Servizio Pubblico”, la trasmissione di Santoro. All’indomani, giornali e giornalisti, sondaggi alla mano, “hanno dato i numeri” del (presunto) recupero prodotto da quella prestazione.
Il problema è che mai come oggi i sondaggi sono apparsi tanto discordanti. A livello nazionale, infatti, il centrosinistra oscilla dal 33% a oltre il 40%. Il centrodestra dal 24% a 34%. Così tutto – ma davvero tutto – diventa possibile. La vittoria larga e schiacciante del centrosinistra. Oppure la rimonta di Berlusconi. Peraltro, questa carovana di sondaggi e di dati si snoda ovunque. In televisione e sui giornali. Non c’è emittente, tg e talk politico che non abbia il suo istituto demoscopico e il suo pollster di riferimento. Che fornisce i suoi numeri e le sue stime ogni settimana, a volte ogni giorno. La Rete, da parte sua, rilancia tutti i sondaggi, tutte le stime e tutte le statistiche. Così viviamo immersi in una sorta di reality a reti – e testate – unificate. Di cui tutti sono al tempo stesso attori e spettatori. D’altronde, i talk politici e di approfondimento stanno ottenendo indici di ascolto elevati. In particolare, quando va in scena Berlusconi. Possibilmente, in terreno nemico o comunque insidioso. Dove gli è possibile recitare la parte del Cavaliere di Münchausen. Che si risolleva, per miracolo, quando tutti lo danno per finito. Berlusconi: può contare sull’assuefazione al modello che egli stesso ha inventato e affermato – in Italia. La politica come marketing e come spettacolo. A cui è difficile sottrarsi. Non vi riescono neppure gli avversari. Per cui recitano, insieme a lui, nel teatro della (media) politica. Affiancati da altri attori. I conduttori televisivi, i giornalisti, gli esperti. I pollster. (Lo preferisco a “sondaggisti”). Nuovi protagonisti. Perché recitano la parte dei “garanti”. E dei giudici. Quelli che misurano il gradimento e il consenso dei partiti e dei politici presso l’opinione pubblica. Per cui traducono la competizione elettorale – che avverrà tra un mese oppure una settimana – in un plebiscito continuo. Che si rinnova e si ripropone ogni giorno e in ogni momento del giorno. Con il limite – oppure il vantaggio – che non c’è un solo risultato, un solo indice, una sola misura. Ce ne sono molte. Così nessuno vince e nessuno perde, in modo definitivo. Dipende dal momento, dal sondaggio, dalla trasmissione.
Naturalmente, l’approssimazione che caratterizza le stime dei sondaggi riflette alcune ragioni molto ragionevoli. Ne segnalo solo alcune, a cui ho fatto cenno in altre occasioni.
1. I sondaggi rilevano le opinioni degli elettori, che però cambiano, via via che il voto si avvicina. Gran parte degli elettori non si interroga sulla propria scelta a mesi e neppure a settimane di distanza. Anche per questo la quota degli indecisi è alta. E tende a ridursi insieme alla distanza dalle elezioni.
2. Le scelte degli elettori (sondati) dipendono dall’offerta politica. Fino a un mese fa solo il Centrosinistra era sceso in campo. Trainato, peraltro, dalle primarie. Tutto il resto era sospeso. Il ruolo di Berlusconi, l’alleanza fra Pdl e Lega. La presenza di Ingroia a Sinistra. E, in particolare, l’iniziativa e lo spazio di Monti. Ciò spiega l’ampiezza dei consensi attribuiti al Pd e al centrosinistra. Fino a qualche settimana fa, soli in un campo politico confuso. Ma ciò spiega anche la “riduzione” della forbice registrata dai sondaggi, nell’ultima fase. Perché oggi il centrosinistra fa i conti con altri soggetti politici. Veri e definiti.
3. Tuttavia, la “misura” di questa tendenza è difficile da dimostrare. Perché manca ancora oltre un mese al voto e gli indecisi sono ancora circa il 30%. E molto può cambiare. Anche perché la campagna elettorale serve proprio a questo: a rafforzare oppure a modificare le tendenze rilevate dai sondaggi.
Infine c’è la questione fondamentale. I sondaggi, come ha sottolineato Nando Pagnoncelli, si sono trasformati “da strumento di conoscenza ed analisi … a strumento di propaganda e di previsione”. E, aggiungo, di spettacolo. Più che rilevare l’opinione pubblica, la mettono in scena e la costruiscono. Un’evoluzione particolarmente favorevole a Berlusconi. Che prima degli altri ha introdotto la politica come marketing. E meglio di altri ne controlla gli strumenti e le tecniche. Così, nella confusione demoscopica e nel reality della campagna elettorale, che oggi impazzano, il Cavaliere è riuscito a rilanciare il bipolarismo personale: Pdl-Berlusconi vs Pd-Bersani. Complice l’afasia di. Ha messo all’angolo Monti e la sua coalizione. Ma anche Grillo e la Sinistra di Ingroia.
È riuscito, inoltre a sollevare il dubbio: “E se vincesse di nuovo Berlusconi?”. Non importa se sia vero. Un altro autorevole analista di sondaggi, come Paolo Natale (su “Europa”), anzi, definisce la rimonta una “leggenda”. Ma sollevare il dubbio e perfino contestarne il fondamento, in fondo, significa legittimarlo. E accettare il gioco della (video) politica come marketing significa riprodurre il berlusconismo. Una recita ormai stanca e invecchiata. Come il protagonista. E come gli altri attori che lo assecondano, pur recitando la parte degli avversari. Come gli spettatori-elettori. Noi. Che abbiamo l’occasione, tra un mese, di chiudere il reality show a cui partecipiamo da
vent’anni.

La Repubblica 21.01.13

"Lavoro, immigrati, Imu, giustizia Pd, le leggi dei primi cento giorni", di Simone Collini

Cittadinanza per i figli degli immigrati che nascono in Italia, niente Imu per chi quest’anno ha pagato fino a 500 euro, reintroduzione dei reati di falso in bilancio, autoreciclaggio e voto di scambio, cancellazione delle norme ad personam come la ex Cirielli utile a tagliare i tempi di prescrizione. E poi conflitto di interessi, rappresentanza sindacale, diritto di partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese.
Queste sono le principali leggi che approverà il governo Bersani nei primi cento giorni, in caso di vittoria della coalizione dei progressisti e dei democratici alle elezioni di febbraio. Il leader del Pd ha dato mandato ai responsabili dei diversi settori del partito di scrivere la parte del programma di loro competenza. I lavori sono pressoché terminati, ma al di là delle ultime limature sul testo complessivo, ci sono una serie di interventi già dati per assodati, che Bersani vuole portare a casa entro l’ estate. Interventi che nelle intenzioni del leader Pd servono a dare da subito il segno di quella «riscossa civica e morale» che deve chiudere il ventennio berlusconiano.
La prima legge che vuole approvare, come Bersani ha già detto in varie occasione, è quella per dare la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia da una coppia di immigrati residenti nel nostro Paese da almeno cinque anni. Una norma «di civiltà», per il leader Pd, che sarà affiancata dall’abrogazione del reato di immigrazione clandestina e della tassa sul permesso di soggiorno, dal superamento dei Cie (gli stranieri potranno essere trattenuti solo per il tempo necessario all’identificazione), da una nuova legge quadro sull’immigrazione alternativa alla Bossi-Fini e a quella Maroni-Berlusconi.
IL LAVORO AL CENTRO
Un capitolo sostanzioso riguarda le misure da approvare sul fronte del lavoro, che per Bersani dovrà essere messo «al centro» dell’attività del prossimo esecutivo. Tra le leggi che non hanno bisogno di particolari operazioni per garantire una copertura economica e che vengono giudicate fondamentali per il rapporto tra democrazia e lavoro c’è la modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo è quello di garantire alle organizzazioni sindacali con significativa rappresentanza a livello nazionale la facoltà di costituire proprie rappresentanze sindacali aziendali, anche se non hanno firmato gli accordi applicati nell’unità produttiva. Si tratta di una legge che impedirebbe il perpetuarsi o il moltiplicarsi di casi come quello della
Fiom, che è esclusa in molti stabilimenti Fiat nei quali non ha firmato il contratto «modello Pomigliano». Bersani vuole però portare a casa in tempi rapidi anche un intervento sull’articolo 8 del decreto 138 del 2011, col quale l’allora ministro Sacconi ha introdotto la possibilità di derogare, nella contrattazione decentrata, a leggi vigenti e al contratto nazionale.
LENZUOLATE DI MORALITÀ
Ma nei primi cento giorni Bersani vuole anche approvare quelle che definisce delle «lenzuolate di moralità». In cima alla lista c’è la modifica della legge sull’anticorruzione, con la reintroduzione dei reati di falso in bilancio, di autoreciclaggio, di voto di scambio (bisogna andare oltre il solo caso di elargizione di denaro). Tra le leggi ad personam che Bersani vuole abrogare c’è la ex Cirielli, ribattezzata salva-Previti, che taglia i tempi di prescrizione, mentre più in generale sul fronte giustizia si partirà da norme che garantiscano il funzionamento del processo civile, un adeguamento degli organici del personale amministrativo e giudiziario, un processo di depenalizzazione per tutti i reati contravvenzionali, il rilancio delle pene alternative al carcere.
Tra le pratiche che Bersani vuole aprire subito, anche se la discussione non si chiuderà in soli cento giorni, c’è anche la legge elettorale: «Dal primo giorno ripresenteremo il doppio turno di collegio». E poi c’è invece un provvedimento che non vorrebbe dover approvare: una nuova manovra di correzione dei conti pubblici, «perché di manovra in manovra si finisce per aggravare la recessione».

L’Unità 20.01.13

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Bersani: «Siamo noi la sola alternativa alla destra», di Laura Matteucci

MILANO «Siamo alla sfida più alta, all’appuntamento storico per cui abbiamo lavorato per anni: portare il cambiamento alla dimensione del governo. E stavolta la vittoria è a portata di mano. La politica unita alla riscossa civica ci ha già fatto vincere, ci farà vincere ancora». Pier Luigi Bersani intende in Italia e in Lombardia, la regione chiave, quella che farà la differenza tra una vittoria certa e un rischioso pareggio: è a Milano prima e a Brescia poi insieme al candidato alla presidenza della Regione Umberto Ambrosoli, la prima di una serie di incursioni in terra lombarda in vista delle elezioni. La premessa del segretario del Pd è una riflessione: «I voti sono tutti utili: solo che alcuni lo sono come testimonianza, o come protesta, votare per noi invece è utile per battere la destra e vincere». Il riferimento è soprattutto al movimento di Ingroia Rivoluzione civile, col quale «non c’è mai stata né ci sarà l’ipotesi di un patto di desistenza». Perché «vince chi arriva primo in una logica di bipolarismo commenta Bersani Dunque a Ingroia dico “attenzione, sono i progressisti e il Pd che possono costruire un’alternativa alla destra”. Posizioni di radicalizzazione e di riduzione del tema della legalità su posizioni faziose, non favoriscono il cambiamento». Corollario: la rottura tra Ingroia e il Pd è a livello nazionale, perché per le regionali lombarde alcuni esponenti del movimento sono confluiti nella lista «Etico per un’altra Lombardia» che appoggia Ambrosoli.
Il segretario del Pd conferma anche l’intenzione di procedere con una legge sul conflitto di interessi: «Abbiamo già diverse proposte». E a Grillo che vorrebbe far sparire i sindacati replica: «Il qualunquismo parte da qualsiasi punto e poi arriva sempre a destra, a posizioni fascistoidi». Bersani conferma invece la possibilità di dialogo con Monti dopo le elezioni: «Siamo aperti al confronto con le forze antipopuliste, europeiste e costituzionaliste per un pacchetto di riforme. La nostra è una posizione chiara da due anni». Di sicuro però la politica economica, con una recessione che secondo Bankitalia è attribuibile alle misure correttive, dovrà cambiare: «Non si può rincorrere la recessione con manovre continue, che la recessione finiscono per aggravarla», dice Bersani. Sì, allora, a maggiori stimoli per gli investimenti e per il lavoro («se non si crea la convenienza alla stabilizzazione, non se ne viene fuori»), no ad altre patrimoniali oltre all’Imu, che va resa progressiva e affiancata ad un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari. «Il resto, la ricchezza finanziaria continua Bersani va fatto emergere, perché il problema è che in Italia i ricchi non sappiamo chi siano».
LA LEGA E IL MILIARDARIO
Ma il punto ora è vincere in Lombardia. Regione ostica, dove, nonostante vent’anni di scorribande e lottizzazioni di Lega e Pdl, di Berlusconi, Bossi e Formigoni, ancora i sondaggi li danno pur lievemente in testa (anche se in realtà alle ultime amministrative il centrosinistra ha vinto quasi ovunque). Nulla di cui stupirsi, tantomeno scoraggiarsi: «La destra esiste», e Bersani e Ambrosoli invitano a «guardare il bicchiere dall’altro verso, perché loro hanno perso un sacco di consensi, e per la prima volta la sfida è aperta». «Tutte le promesse che fanno oggi attacca Ambrosoli le avrebbero potute realizzare in quasi 20 anni di governo. Invece niente, non ne hanno realizzata nemmeno una. E quella di trattenere il 75% dei proventi delle tasse in Lombardia l’avevano già detta anni fa». Il centrosinistra, continua Ambrosoli, oppone la «solidità» dei propri obiettivi di «rigenerazione» della politica, della Lombardia all’«ipocrisia di chi fa finta di non avere responsabilità per i vent’anni di un governo incapace di rispondere ai bisogni dei lombardi». In campo contro Ambrosoli, Maroni per la riedizione dell’alleanza Lega-Pdl (come dice Bersani: «leghisti, siete tornati col miliardario solo per un seggiolone in Regione»), Albertini per i montiani («il mio vero dispiacere commenta Bersani visto che Monti ha deciso di puntare su una scelta civica, più civico di Ambrosoli non c’è nessuno, e appogiare altri è una scelta che rischia di dare una mano di là»). E poi, i grillini: «Ma l’elettorato di Grillo è in forte diminuzione dice Ambrosoli anche per la capacità del centrosinistra di coinvolgere attraverso forme di partecipazione programmatica. Lo dico non perché pensiamo a quell’elettorato come ad una riserva indiana da conquistare, ma perché siamo convinti che la partecipazione sia un valore». Risorse finanziarie per la campagna elettorale non tantissime, anche perché Ambrosoli non intende usare fondi pubblici, voglia di vincere invece parecchia: «Siamo consapevoli di essere più forti. Siamo convinti di far proposte capaci di farsi carico dei problemi e dei bisogni dei cittadini e delle imprese, di dare risposte di lungo respiro, e anche immediate. Gli imprenditori ci chiedono di essere liberati da una burocrazia asfissiante, e questo per esempio lo possiamo fare subito».

L’Unità 20.01.13

"Più scuola per favorire l'uguaglianza", di Benedetto Vertecchi

Il confronto sull’ordinamento del sistema scolastico italiano continua a trascinarsi stancamente. Oggetto prevalente d’interesse è l’architettura del sistema, la sua articolazione tra i livelli, il modello di organizzazione dei curricoli, ridotto all’indicazione del numero di ore da assicurare per questa o quella materia. Non si tiene conto che l’architettura è solo uno degli aspetti ai quali occorre prestare attenzione. Se ne deve prendere in considerazione almeno un altro, costituito dalle regole di funzionamento delle scuole. L’architettura del sistema riflette le concezioni che sono alla base dell’educazione scolastica, mentre le regole di funzionamento stabiliscono in che modo si ritiene che gli intenti del sistema possano essere raggiunti. Gli interventi legislativi promossi dai governi della Destra si sono caratterizzati da un lato per l’incerto disegno del modello architetturale, dall’altro per la semplicità, al limite del banale, delle regole di funzionamento. L’architettura del sistema è stata piegata ad assecondare un proposito di contenimento della popolazione scolastica, che ha come condizione iniziale l’interruzione della tendenza all’aumento del numero di anni compreso nella fascia dell’istruzione obbligatoria. Non si è trattato di una novità: anche la riforma scolastica del 1923 aveva perseguito, peraltro senza raggiungerlo, il medesimo intento. Si trattava, e si tratta, di una linea interpretativa dei processi di scolarizzazione inevitabilmente astratta, perché definita prescindendo dall’evoluzione della domanda sociale d’istruzione. La variante attualizzata di tale linea è consistita nello sfumare il principio (peraltro sancito nella Costituzione) dell’istruzione obbligatoria per almeno otto anni. Oggi i limiti dell’obbligo sono piuttosto incerti. Non si sa bene quando l’obbligo abbia inizio, né quando possa considerarsi soddisfatto. La destra, e i tecnici, non sono apparsi particolarmente interessati a incrementare la cultura di base della popolazione, lasciando che variabili esterne al sistema educativo finissero col prevalere nella definizione del profilo culturale della popolazione. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: dilaga una comunicazione sociale di cattiva qualità, si è affermato un insidioso mitridatismo nei confronti della sciatteria grammaticale, la sintassi si è impoverita, si manifestano difficoltà crescenti nella comprensione e nell’espressione di messaggi scritti, crescono le incertezze ortografiche e via lamentando. D’altra parte, le regole di funzionamento delle scuole hanno teso prioritariamente a ridurre le spese, diminuendo la consistenza del servizio. La semplicità, dunque, è solo il riflesso di un’offerta d’istruzione sempre più angusta. Si è affermato, fraintendendo o mistificando, che l’orario delle attività delle nostre scuole è tra i più alti d’Europa, superiore a quello delle scuole di Paesi che nelle rilevazioni internazionali ottengono risultati di gran lunga migliori. Quest’affermazione è possibile accreditando l’equivoco per il quale si confrontano solo gli orari delle lezioni, non quello complessivo delle attività. I nostri bambini e i nostri ragazzi trascorrono a scuola unicamente il tempo necessario a fruire delle lezioni. Altrove l’orario delle lezioni rappresenta una parte, talvolta neanche maggioritaria, dell’orario di funzionamento, a comporre il quale concorrono sia le attività che comportano l’applicazione degli apprendimenti conseguiti, sia quelle che hanno come scopo lo sviluppo della socializzazione, le interazioni col reale che contorna la scuola, l’incremento della motivazione ad apprendere, la fruizione di un sostegno individualizzato. È nell’ambito di tale nozione estesa del tempo scolastico che si acquisiscono le competenze che consentono di risalire nelle graduatorie internazionali: per esempio, è difficile che si possano ottenere risultati migliori negli apprendimenti scientifici se la proposta di apprendimento è solo teorica e, spesso, virtuale. C’è bisogno di impegnarsi in attività che compongano il pensiero con l’azione, come sono quelle che si possono svolgere in un laboratorio di fisica, di chimica o di biologia, impegnandosi in progetti che coinvolgano il contesto, sociale o fisico, in cui la scuola opera, aprendo spazi per la manifestazione di interessi in settori che, pur rilevanti dal punto di vista conoscitivo, non trovano spazi per esprimersi nei recinti tradizionali della cultura scolastica (teatro, musica, arti plastiche e pittoriche, ma anche giardinaggio, orticultura o manutenzione di beni strumentali). In analogia a quanto è già avvenuto in altri Paesi, occorre impegnarsi per ridefinire l’ordinamento del sistema educativo. Per cominciare, c’è bisogno di una legge che stabilisca in modo inequivoco che l’obbligo d’istruzione riguarda tutti fino al compimento dei18 anni (fino a 16 se gli ultimi due anni sono cogestiti col sistema per la formazione professionale). In parallelo, c’è bisogno di razionalizzare e generalizzare l’offerta educativa per l’infanzia, dai primi mesi di vita all’inizio dell’istruzione primaria (sarebbe anche un modo per riavviare in Italia una tendenza positiva nell’evoluzione demografica). Sul versante delle regole di funzionamento si deve prevedere un orario che comprenda gran parte della giornata nei primi cinque giorni della settimana (le dotazioni dovrebbero essere disponibili anche il sabato per attività individuali o di piccoli gruppi). Saranno le scuole, nella loro autonomia, a definire il quadro dell’attività educativa, nel quale troveranno posto sia le lezioni, sia le esperienze rivolte ad applicare e stabilizzare l’apprendimento e a consentire agli allievi di manifestare una progettualità originale. L’estensione dell’orario di funzionamento delle scuole è essenziale per conferire equità al sistema educativo. Bambini e ragazzi saranno meno esposti alle sollecitazioni consumiste che dominano al di fuori della scuola. L’esperienza di altri Paesi (a cominciare dalla Finlandia, il Paese che svetta nelle graduatorie internazionali) ha mostrato che l’impegno nella scuola, oltre l’orario delle lezioni, ha effetti positivi sull’evoluzione della competenza linguistica, sulla socializzazione e, in generale sull’apprendimento. Potrebbe essere superato l’attuale divario fra allievi che dispongono e quelli che non dispongono di opportunità educative integrative o sostitutive di quelle scolastiche.

L’Unità 20.01.13

"Equità, la differenza fra destra e sinistra", di Nicola Cacace

Tutti parlano di equità, dopo che il Pd ne ha fatto tema centrale della campagna elettorale. Questo per almeno due motivi,la misura crescente del livello italiano di diseguaglianza sociale e l’evidenza dei risultati internazionali che mostrano il successo dei Paesi a più alta eguaglianza. Dai dati Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie risulta infatti che metà della ricchezza privata, immobiliare e finanziaria, è concentrata nel 10% delle famiglie. Gli stessi dati che mostrano che la ricchezza privata italiana è superiore a quella tedesca e francese, rimandano ad una nota vecchia espressione del senatore socialista Formica «il convento è povero ma i frati sono ricchi». I dati internazionali sono ancora più evidenti: gli otto Paesi europei a più alta eguaglianza, i quattro Paesi scandinavi, più Olanda, Germania, Francia ed Austria, tutti con indice Gini (misura della diseguaglianza) inferiore a 0,3 sono anche quelli a più alto sviluppo. Sulla base di questi dati equità e sviluppo sono divenuti temi evocati anche dalle forze del centro e della destra, ma con delle differenze fondamentali. Mentre per la sinistra l’equità resta «componente essenziale e strutturale di un nuovo modello di sviluppo», per le altre forze in campo l’equità è materia di «un secondo tempo», come suggerisce il Sole 24 ore (14/1) in un articolo dalle inequivocabili conclusioni «priorità assoluta è quella di rilanciare lo sviluppo economico, condizione ineludibile non solo per tenere in ordine i conti ma anche per dare risposta alla domanda di equità». Perché non può esserci un nuovo sviluppo senza equità? Primo per motivi di domanda interna che concorre all’80% del Pil: è l’impoverimento dei due terzi della popolazione che fa crollare la domanda. Un secondo fattore di crisi, finanziaria questa, deriva dall’uso che la minoranza di super ricchi fa dei super guadagni: aumentano gli investimenti finanziari più o meno speculativi a danno degli investimenti produttivi, come è successo dagli anni ’90 quando il grande capitale italiano ha preferito investire in finanza ed in attività regolate e sicure come Enel ed Autostrade piuttosto che in attività produttive concorrenziali. Un terzo motivo per cui una alta diseguaglianza sociale limita lo sviluppo riguarda direttamente le caratteristiche della società della conoscenza e della globalizzazione. Data l’alta mobilità del capitale l’attrattività produttiva di un territorio oggi deriva soprattutto dalla quantità, qualità e costo del fattore lavoro. Sinchè permangono le attuali differenze di costo lavoro con i Paesi emergenti, nei Paesi industriali, Italia compresa, c’è spazio solo per prodotti ad alto valore aggiunto, in agricoltura, industria e soprattutto nei servizi, che richiedono livelli di istruzione e preparazione professionale mediamente alta e diffusa. È difficile avere una elevata formazione media dei cittadini in presenza di grandi diseguaglianze, come in Italia. E questo, insieme all’invecchiamento della popolazione, spiega il record italiano negativo del tasso di occupazione, 57 cittadini su 100 in età da lavoro, contro 65 in Europa e 75 nel nord Europa. Se non si opera un profondo riequilibrio sociale con le sole politiche possibili, un fisco più progressivo ed efficace contro evasione ed elusione e dei servizi sociali universali ed efficienti, contemporaneamente a riforme pro concorrenza, è inutile parlare di vera ripresa e vero sviluppo. Non è con la politica dei due tempi che rimanda alle calende greche il recupero di equità che può aversi vero sviluppo. È questa la differenza tra destra e sinistra sulla equità che il confuso dibattito elettorale spesso confonde.

L’Unità 20.01.13

"Incubo miseria, 12 milioni di italiani vivono ai margini", di Raffaello Masci

«I poveri li avrete sempre con voi» dice il Vangelo di san Marco (14,7) e l’Istat dà sostanza numerica a questa verità consacrata, rilevando (l’ultima volta nel luglio scorso) che in questo paese c’è uno zoccolo duro di famiglie che proprio non ce la fa. Sono l’11,1% e il dato – salvo lievi oscillazioni – è costante negli ultimi anni. In termini assoluti significa che ci sono oltre 8 milioni di italiani (8 milioni 173 mila) che arrancano in una condizione di «povertà relativa», cioè campano in due con mille euro al mese. Poi ci sono quelli che stanno ancora peggio e vivono nella condizione che l’Istat definisce di «povertà assoluta» per i quali il reddito mensile è di 785 euro al mese, e sono il 5,2% delle famiglie, cioè 3 milioni e 400 mila italiani. Anche qui l’oscillazione numerica e percentuale è minima negli ultimi anni: chi non ce la fa, non ce la fa: in tutto quasi 12 milioni di persone. E basta. Ma la crisi non ha certo aiutato.

Il dato medio che l’Istat rileva, però, non ci dà il senso di questo disagio se non lo decliniamo per aree geografiche e per tipologia di persone. Lungo lo Stivale la situazione è, insomma, assai diversificata e – diciamolo subito – i poveri, in Italia, sono al Sud. Prendendo come esempio l’ultimo anno censito, il 2011, la sola povertà relativa (quella meno grave) riguardava 4 famiglie su 100 al Nord, 6 su 100 al Centro e quasi 24 su 100 al Sud.

Il Centro specie nelle realtà di provincia è prospero, solidale e l’incidenza della povertà – sia assoluta che relativa – è quasi solo fisiologica. Quella che c’è – peraltro – riguarda le periferie delle grandi aree urbane, Roma in primis. Per il Nord vale lo stesso discorso e, all’incirca, con gli stessi valori: i poveri sono nelle sacche di emarginazione urbana, mentre le piccole realtà conoscono una rete di protezione sociale e parentale che solo occasionalmente lascia qualcuno nell’indigenza estrema.

Se analizziamo, poi, la condizione sociale e personale di chi vive in povertà, troviamo uno spaccato di tutte le criticità italiane: se in casa arriva un solo reddito e a portarlo è una donna, questo è un handicap. Se sei povero e per giunta con un basso livello di istruzione, questo è un altro handicap. Se sei povero e vivi al Sud in una grande città, questo è un doppio handicap. Se sei povero con l’aggravante dell’età (sei vecchio) e della solitudine (vedovo, single, separato) questo è un triplice handicap.

Questo quadro è all’incirca sempre uguale dal 2006 ad oggi, ma negli ultimi anni sono cresciute numericamente le situazioni di criticità estrema che vanno oltre la mera povertà assoluta derivante dal basso reddito: parliamo di persone che non stanno più semplicemente male, ma sono finite sotto i ponti o in strada. L’Istat solo nel dicembre scorso ne ha censite circa 50 mila (47.648) e il 59,5% di questi è costituito da una nuova e inedita categoria di emarginati: i separati senza un adeguato reddito. Dare gli alimenti e spesso la casa all’ex moglie può voler dire ricorrere alla mensa della Caritas e, spesso, anche all’annesso dormitorio. Oppure vivere in macchina.

Discorso analogo per gli stranieri a cui basta perdere il lavoro per diventare homeless. Il dato allarmante è che tra i nuovi barboni 1 su sei ha meno di 40 anni (57,9%) e il 32% ne ha meno di 34: il prezzo più alto della crisi è constatare che i nuovi poveri sono i giovani.

La Stampa 20.01.13

"L'Araba Fenice della società civile", di Eugenio Scalfari

Alcuni commentatori lamentano che i protagonisti della campagna elettorale parlino poco o niente di economia e concentrano la loro attenzione soprattutto sulla politica.
A me non pare che sia così, si parla – e molto – di tasse, di disoccupazione, di precariato per giovani e anziani, di sgravi fiscali, di rilancio della domanda, di disuguaglianze. Ed anche, ovviamente, di politica e di visioni diverse e contrapposte del bene comune.
Sarebbe ben strano che si tacesse di politica. Un’economia senza politica non esiste. Non esiste senza legalità, non esiste senza un richiamo costante alla moralità dei comportamenti pubblici, non esiste senza criteri di scelta dei candidati al Parlamento, cioè di coloro che vengono proposti come delegati a rappresentare il popolo sovrano nel grande consesso dove ha la sua sede il potere legislativo.
Da questo punto di vista una decisione rimarchevole è stata presa nei giorni scorsi. Il Pd ha cancellato dalle sue liste tre candidati (due in Sicilia e uno a Napoli) investigati dalla magistratura privandosi con questo atto di molte migliaia di voti che quei candidati avevano ottenuto nelle primarie in due regioni-chiave per ottenere al Senato la maggioranza dei seggi. La moralità ha avuto la meglio sui calcoli di convenienza; è un elemento di merito che il direttore del “Fatto Quotidiano”, Padellaro, ha riconosciuto al Pd, mentre il suo vicedirettore, Travaglio, nella stessa pagina dileggiava e insultava Bersani che si sarebbe arreso alle tesi di quel giornale.
Ieri il vertice del Pdl — pare anche Berlusconi, spinto da alcuni sondaggi interni —, ha tentato di compiere la stessa scelta escludendo tutti i candidati indagati e alcuni addirittura colpiti da sentenze di primo grado, a cominciare da Dell’Utri e Cosentino. Nel partito si è scatenata la rivolta degli inquisiti, spalleggiati dai loro accoliti. Si annuncia una guerra breve e sanguinosa. Dell’Utri sa tutto di Berlusconi e ha voglia e necessità di parlare. Il Pdl propone che sia lui a decidere di ritirarsi; escluderlo contro il suo parere potrebbe avere conseguenze letali. Il popolo sovrano rischia dunque d’esser rappresentato ancora da Dell’Utri, esperto bibliografo, cofondatore di Forza Italia e sotto processo per rapporti di lunga durata con le famiglie mafiose Bontate e Graviano.
In un paese serio questi fatti sarebbero di per sé sufficienti per un giudizio complessivo su quel partito. Qui invece non accade. Perché?

* * *
Questa domanda ci riporta a discutere della società civile. È un tema che abbiamo già toccato parecchie volte ma che vale la pena d’esser ripreso poiché ha particolare importanza.
I vizi, i difetti, l’immoralità allignano in tutti i paesi e in tutti ceti, ma da noi hanno un’intensità particolare che deriva da un atteggiamento di generale disprezzo verso le istituzioni e verso lo Stato che tutte le contiene.
Lo Stato è considerato un corpo estraneo o addirittura nemico, che taglieggia i cittadini, impone immotivati sacrifici e fornisce pessimi servizi. Chi lo rappresenta viene odiato oppure – se se ne ha la possibilità – corrotto da persone della società civile che sarebbe la sede di tutte le virtù.
La scarsa efficienza e il tasso di corruzione di chi giudica le istituzioni è sicuramente più elevato che altrove, ma purtroppo non si limita alla sfera del potere pubblico: ha gli stessi vizi anche in quella parte della società civile dalla quale emerge la classe dirigente economica. Ogni paese ha la classe dirigente che si merita poiché quest’ultima non spunta dal cielo ma ha le sue radici nella terra che amministra.
Constatare questa situazione non significa dare un giudizio morale sugli italiani ma comporta un giudizio storico. Fu anticipato, quel giudizio, da Machiavelli e da Guicciardini che fecero nei primi anni del Cinquecento un’analisi accurata ed anche rattristata e memorabile della società in cui vivevano.
Machiavelli arrivò alla conclusione che per creare lo Stato italiano ci volesse un Principe che con ogni mezzo, anche il più violento e immorale, unificasse un paese altrimenti ingovernabile. Guicciardini aborriva la violenza e constatò anche lui che il paese era ingovernabile perché ogni cittadino badava soltanto al suo “particulare” interesse e disprezzava quello pubblico e le regole che la convivenza sociale inevitabilmente comporta.
Questi giudizi sono purtroppo ancora attuali anche se la democrazia è ormai diffusa in tutto l’Occidente. Quell’indifferenza alla “res publica” che Guicciardini descrisse perdura purtroppo tuttora anche perché lo Stato italiano nacque soltanto 150 anni fa, quando in tutta Europa gli Stati si erano formati tre o quattro secoli prima. Perciò la nostra indifferenza alla vita pubblica, la nostra scelta del “particulare”, il tasso di corruzione, di evasione fiscale, d’illegalità, il nostro disprezzo per le regole, la nostra disponibilità alla demagogia, sono un derivato della nostra storia. «Francia o Spagna purché se magna» è un proverbio che sintetizza quattro secoli di servitù a potenze straniere e a Signorie servili e corrotte.
Siamo molto migliorati da allora, ma gli altri paesi sono assai più avanti e in tempi di società globale questo distacco si vede, si sente, si soffre.

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E parliamo di economia, dove questi confronti si scaricano in tempi di crisi profonde e diffuse.
I “media” negli ultimi giorni hanno dato un’immagine di nuovo pessimistica dopo un intervallo di barlumi speranzosi: la recessione non cala anzi aumenta, i capitali scappano, il Pil diminuisce, la disoccupazione aumenta, il governo tecnico ha sbagliato tutto. E perfino – forse – si stava meglio quando si stava peggio, “Silvio consule”. Infatti (così parrebbe) i sondaggi danno il Cavaliere in rimonta. È proprio così? Direi di no.
Quanto ai sondaggi, i più recenti danno sempre il centrosinistra a dieci punti sopra il Pdl-Lega e il Veneto anziché al 25 per cento.
Il governatore della Banca d’Italia stima il Pil del 2012 al meno 2 per cento (finora le previsioni Istat parlavano del meno 3 o anche peggio) e nel 2013 al meno 0,7; ma nella seconda metà dell’anno a più 0,1. Nel 2014 più 1. La risalita è lenta ma dovrebbe avere un (timido) inizio tra sei mesi. Così pure la vendita di beni durevoli e la loro produzione.
Quanto ai capitali Visco dichiara che non c’è stata fuga dall’Italia, anzi c’è un afflusso come testimoniano le aste di questi ultimi mesi sia dei Bot sia dei Btp a 5, 10 e 15 anni di scadenza.
Il credito invece ancora non riparte anche perché molte aziende medie e piccole sono in grave sofferenza. A questo proposito Bersani ha proposto un credito d’imposta (l’aveva istituito Prodi e lo abolì Tremonti) per tutte le assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato. Ha inoltre proposto l’abolizione dell’Imu per tutti quelli che pagano fino a 500 euro d’imposta e soprattutto ha proposto l’immediato pagamento di quei 70 miliardi di debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese fornitrici. I soldi in gran parte sono già stanziati ma Regioni e Comuni non li hanno e la Tesoreria generale resiste. Il ministro Passera, almeno per 30 miliardi, aveva trovato la copertura ma la Ragioneria oppose un rifiuto. Questa questione va risolta e i pagamenti vanno fatti nell’immediato, ogni ulteriore indugio sarebbe vergognoso. Monti è ancora il premier credibile, si impegni su questo punto che è più importante della campagna elettorale ed è ora di sua esclusiva pertinenza.
Due parole sulle famose tasse e sulla altrettanto famosa “spending review”. Le tasse purtroppo erano assolutamente necessarie in quell’ormai lontano novembre del 2011: l’Italia era sull’orlo del fallimento e non c’erano alternative.
Non tutte quelle attuate sono a regime, ci andranno nei prossimi mesi ed il loro morso sarà ancor più doloroso. Perciò ci vogliono correttivi e soprattutto ci vogliono investimenti redditizi e le risorse che essi richiederanno siano considerate un elemento di politica anticongiunturale imposto dalla situazione e quindi accettato dall’Europa come i trattati prevedono.
Quanto al taglio delle spese, esso è certamente opportuno per quanto riguarda gli sprechi, ma per il resto ci vuole una prudenza estrema: un corpo obeso deve sottoporsi a una dieta molto rigorosa e perfino a qualche intervento di chirurgia estetica sul grasso sovrabbondante e deformante; ma in un corpo scheletrito non si taglia il grasso ma le ossa e cioè un’operazione mortale o una mutilazione permanente.
Tutto il resto è chiacchiera. Pensi ogni partito a dare il meglio di sé avendo di mira soltanto l’interesse del paese.

La Repubblica 20.01.13

L’Europa infelice. Il Nobel Amartya Sen: «Troppa austerità Non c’è spazio per crescita e sviluppo», di Bianca Di Giovanni

Deve apparire un continente davvero infelice l’Europa di oggi agli occhi di Amartya Sen. Ospite del Festival delle Scienze (in corso all’Auditorium di Roma) dedicato quest’anno al tema della felicità, il premio Nobel dell’economia nel 1998 concentra tutta la sua attenzione sulla nostra parte di mondo. Usa termini inequivocabili: il «pasticcio», di più, il «disastro», il cammino «sbagliato» dell’Europa. Un percorso perseguito con cieca ostinazione, trasformandosi, secondo Sen, nella negazione della scienza economica. «L’economia insegna che se provi una cosa, e non funziona, la riprovi e ancora non funziona, allora devi imparare qualcosa e non continuare». Lo hanno fatto gli Stati Uniti negli anni 30, lo ha fatto il Giappone. Invece l’Europa non si ferma sulla strada dell’austerità che mette a rischio la sua storia, fatta di welfare state, la sua democrazia, inibìta da decisioni prese senza confronto pubblico, e infine il principio stesso di solidarietà su cui si fondava l’idea dell’unione nel manifesto di Ventotene.
Oggi «i tedeschi odiano i greci e viceversa», osserva il premio Nobel. Tutto questo a causa del rigore che oggi si confonde e si coniuga con le riforme. Qui sta l’errore. «L’austerità è una cosa, le riforme un’altra spiega -. L’Europa ha certamente bisogno di riforme, quella delle pensioni, quella dell’imposizione sui redditi. Ma non ha bisogno di austerità». Su questo punto, purtroppo, manca ancora un pensiero politico ragionato, una proposta alternativa riconoscibile.
Nell’incontro con la stampa che precede la lectio magistralis anticipa che la sua teoria della felicità è antitetica a quella di Jeremy Bentham e alla schiera dei suoi allievi. L’approccio degli utilitaristi è «ristretto, limitato, formale». Il tema è ben più complesso e articolato della lotta per i diritti che caratterizzò il pensiero degli utilitaristi. E molto, molto più ampio. «Più che a Bentham spiega Sen la mia ispirazione si rifà a Antonio Gramsci e alla sua filosofia spontanea» Difficile tracciare una differenza tra felicità di destra o di sinistra. «Molto dipende dalla definizione che si dà, che fin dai tempi antichi è stata molto fluida continua Sen Per esempio per Aristotele la felicità è ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».
All’interno di questa vasta gamma di attributi, può essere compresa la libertà umana. «E la disoccupazione, ad esempio è un fattore della libertà aggiunge pertanto economia e felicità sono collegate. Io affermo ad esempio che l’Europa è infelice a causa dell’economia. Diverso è quando affermo che l’Europa sbaglia, perché in questo caso do un giudizio personale». Ma quella distinzione tra felicità per la destra e per la sinistra esiste eccome. E risiede nelle priorità di ciascuna parte. «La sinistra ha sempre fatto più attenzione alle diseguaglianze e all’equità spiega ancora l’economista La destra in passato alla proprietà, oggi alla libertà. Io mi colloco sicuramente a sinistra, ma non per questo non credo che il tema della libertà non sia importante. Non c’è conflitto, ma restano valide le distinzioni, soprattutto sul ruolo dello Stato. È noto che la destra è sempre stata ostile all’intervento dello Stato nell’economia. Io credo che oggi ci sia bisogno di studiare attentamente questi due programmi. E trovo deprimente che nel Paese natale di Gramsci non si veda un’agenda di sinistra ben riconoscibile». Poi il pensiero torna ai mali d’Europa, di cui aveva scritto nel 2011, poi nel 2012 e oggi le cose non sono cambiate. Il baratro in cui l’Europa si ritrova lo raccontano due telefonate, ricevute da Sen la stessa mattina. La prima dall’India. «Ha visto professore lo scenario deprimente dell’economia indiana, che quest’anno cresce solo del 6%?», gli chiede il giornalista. «Evidentemente prima cresceva di più», osserva Sen. Seconda chiamata da Parigi: «L’economia europea quest’anno è a zero, non le sembra che dobbiamo rallegrarci?» «Se questa è la domanda continua Sen l’Europa ha un problema». L’austerità sta danneggiando i Paesi periferici, ma oggi anche la Germania, che non riesce più a mantenere l’export se gli altri si impoveriscono. Berlino sta subendo un poderoso effetto boomerang, perché «le politiche deflazionistiche danneggiano non solo la domanda interna, ma anche quella estera. Lo sa l’Italia, ma lo sa bene anche la Gran Bretagna, che non aveva alcun bisogno di austerità». Quello che manca per fronteggiare questo disastro è una voce politica ragionata contro «quello che sembra essere un consenso tra i leader sulla politica finanziaria. Se fossi impegnato immagina Sen direi che occorre una dichiarazione congiunta paneuropea, dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda, dall’Italia, insomma di tutti. Ma per ora non la vedo. Occorrerebbe una visione che contrasti questi problemi, ma non c’è». La nuova visione economica è il leitmotiv da cui Sen non si allontana. Si irrita quasi con chi chiede se i tassi vanno abbassati, se l’euro è troppo forte. «Il problema non è qui. Potrei anche rispondere di sì, che i tassi vanno abbassati, e persino spiegarlo aggiunge Ma il disastro europeo non nasce qui, nasce dall’austerità». Vero è che il processo, secondo Sen, è nato male: per lui serviva prima l’integrazione politica e sociale, e solo dopo doveva arrivare la moneta. Si è fatto il contrario, ma l’euro comune senza politiche di bilancio integrate non fa altro che creare tensioni. Ma oggi sotto tiro c’è quel rigore che dimentica di coniugare l’economia di mercato al sociale. «Come diceva Adam Smith spiega il professore un mercato buono aumenta il reddito delle persone, una vita buona aumenta le entrate dello Stato per i servizi sociali e per la buona società. In questo economia di mercato e sociale sono complementari. Questa è in realtà la tradizione europea, quella che ha creato il servizio sanitario nazionale, che ha creato il welfare, e lo ha insegnato al resto del mondo. Ma oggi sembra tutto dimenticato».

L’Unità 19.01.13