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"Scuola, riportiamo gli investimenti ai livelli OCSE", di Francesca Puglisi

Egregio Direttore, dalle colonne del Suo giornale il Sottosegretario Rossi Doria ci invita a parlare di scuola in questa campagna elettorale. L’impegno dei democratici e dei progressisti per il nuovo governo è scritto nella Carta di Intenti: occorre smettere di cambiare la scuola attraverso norme contraddittorie e tagli nelle leggi finanziarie. La scuola ha bisogno di stabilità, risorse e fiducia. Altri sono i settori della spesa statale da sacrificare. E’ la scuola che deve svolgere il «compito» espresso dall’art.3 della Costituzione. Quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono fra i cittadini e la loro piena partecipazione alla vita economica e sociale. La scuola per noi è il luogo dove combattere le disuguaglianze, formare cittadini consapevoli, il vero motore della crescita economica e sociale del Paese. Il governo di centrodestra non ha affrontato i problemi cronici della scuola italiana, ma li ha aggravati, tagliando 8 miliardi e 132 mila posti di lavoro, e il governo Monti non ha interrotto la sottrazione di risorse, apostrofando gli insegnanti come «conservatori». Sono state effettuate scelte in direzione contraria al resto d’Europa, pensando che il contenimento della spesa pubblica si potesse ottenere con la riduzione delle spese per l’educazione, mentre altrove si sono limitate le spese in altri settori. L’impegno dei Democratici e dei Progressisti oggi non può essere fatto di roboanti promesse, ma di un confronto aperto, affinché l’istruzione non sia il luogo delle divisioni, ma dell’unità del Paese, per rendere il sistema scolastico italiano più efficace e più equo. Non basta difendere l’esistente, dobbiamo dare a questo Paese una prospettiva di cambiamento reale, con l’impegno, innanzitutto, di riportare gradualmente l’investimento al livello medio dei Paesi Ocse. Serve una «Costituente per la scuola» che sappia mobilitare energie e intelligenze, se si vuole uscire dalla rincorsa delle emergenze, individuando una nuova direzione per lo sviluppo dell’educazione. Cambiare passo per raggiungere obiettivi concreti: la sfida che si troverà di fronte il nuovo governo è quella di abbattere oltre il 18% di dispersione in 7 anni. Il punto di sofferenza è lo snodo che va dagli 11 ai 16 anni, che coincide con il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza. E’ qui che si registra il tasso più alto di dispersione scolastica, con punte del 30%. L’allungamento del tempo scuola è il miglior antidoto alle disuguaglianze scolastiche (tempo pieno nella primaria, scuole aperte il pomeriggio per la secondaria); comporta sicuramente oneri aggiuntivi, ma nettamente inferiori al guadagno potenziale che ne deriverebbe al Paese. E servono investimenti per la formazione in servizio degli insegnanti e un reclutamento ad hoc per questa fascia delicata di età. Alle superiori serve un biennio unitario affinché non ci siano scelte premature, che aggravano la dispersione. Va poi rafforzato il sistema dell’istruzione e della formazione tecnica e professionale, facendo dialogare scuole, enti locali, imprese, università e mondo della ricerca. Perchè siamo stati un grande Paese industriale quando abbiamo avuto eccellenti Periti Industriali. Dare stabilità, significa assicurare un organico funzionale stabile ad ogni scuola autonoma (l’unica vera riforma «epocale»), verificandone i risultati non per premiare o punire chicchessia, ma per accompagnare ogni scuola verso il miglioramento dell’efficacia della didattica.

E’ urgente un piano straordinario per l’edilizia scolastica e per attuarlo bisogna allentare il patto di stabilità interno per gli enti locali che investono nella ristrutturazione o nella edificazione di nuove scuole, e offrire la possibilità ai cittadini di destinare l’8 x mille dello Stato in modo mirato all’edilizia scolastica. Se saremo chiamati a governare vogliamo rimboccarci le maniche come si è fatto in Emilia-Romagna dopo il terremoto. E ricostruire il Paese dalle macerie economiche, sociali e morali in cui lo sta lasciando la destra, a partire dalle scuole.

La Stampa 21.01.13

"Ricerca, finora soltanto tagli. Serve un piano credibile", di Massimiliano Mazzanti e Salvatore Monni

Dobbiamo ancora scrivere prosaicamente di investimenti alla ricerca in talia, in modo negativo. E’ vero che la situazione è nota ai più, ma la realtà supera sempre le aspettative, anche se non positive. Soprattutto in questa fase politica e di ricostruzione di un’agenda delle priorità per una «nuova crescita», occorre porre chiaramente i problemi sul tavolo. Ci ha colpito che, nei giorni finali dell’anno, i giorni del giusto tributo a Rita Levi Montalcini, sia uscito il nuovo bando Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) e Firb «Futuro in ricerca». Vi sono meritoriamente spazi dedicati ai giovani ricercatori, e la struttura del bando coerentemente «imita» quella dei fondi europei (European Research Grant). Ciò che lascia basiti, ma forse siamo ingenui, è ancora una volta l’ammontare del finanziamento, che di «nazionale» non ha nulla. Occorre guardare i dati chiaramente. Il finanziamento Prin 2009 (fondi allocati dal governo Prodi) era di circa 105 milioni di euro, che scende a 87 milioni di euro – annualizzati – nel bando accorpato 2010-11. Il nuovo bando di fine dicembre è circa 38milioni di euro: il 36% del fondo 2009, già in calo rispetto agli anni precedenti. In termini reali, siamo di fronte ad un taglio di oltre il 70% rispetto a 6-7 anni fa. Sul Firb le cose non mutano. Si passa dai 50 milioni del 2009 ai 29 attuali. Il Pil Italiano è in sofferenza ma decresce «solo» del 2-2.5%. La domanda è quindi semplice: cosa si nasconde dietro queste cifre? Che ratio? Fare cassa. Può essere, ma si parla di cifre abbastanza irrisorie. Disimpegno? Punizione alla ricerca italiana per scarsi risultati? Non si direbbe, la nostra area (scienza economica) è sesta al mondo nel 2012 (fonte: Repec), soprattutto grazie a tanti giovani bravi e capaci, formati dal nostro sistema scolastico. Andrebbero sostenuti. Se no, i rischi di uno svuotamento del sistema sono noti. Non è chiaro. Tanto più che si nota un’assoluta incoerenza tra la «forma», pur a volte criticabile e farraginosa come nella valutazione dei dipartimenti e dei candidati all’abilitazione effettuata dall’Anvur, e la «sostanza». Si cerca giustamente di mettere una seria «valutazione» al centro del discorso. E si svuota la stessa riducendo le risorse. Anche l’Anvur ha criticato i tagli. Ormai valutare «costa» come le risorse in gioco. Processi di valutazione più rigorosi e orientati al merito andrebbero «fatti funzionare» erogando più risorse. Quante? Questa è scelta politica. Riteniamo che un bando di finanziamento come quello Prin dovrebbe potrebbe erogare annualmente 200-300 milioni di euro. sono cifre sopportabili, e pure lontane da quelle dei «soliti noti». I nostri partner europei. Germania e Paesi nordici sono intorno al 3% del Pil di spesa in R&S. Un solo centro tedesco di ricerca economica può avere 5 volte le risorse pubbliche di tutta l’area economica in Italia. Non è possibile competere. Anche senza tirare in ballo i modelli anglosassoni, spesso da noi imitati (male, e senza associare i necessari investimenti pubblici da questi dedicati), la cifra totale destinata dalla Francia alla ricerca, Paese simile al nostro, è 42,7 miliardi di euro, più del doppio di quella italiana. Tutti questi Paesi ci sorpassano sia per spesa sul Pil che per numero di ricercatori per abitanti. Su questi due indicatori, l’Italia è con molto imbarazzo fuori da ogni media europea, anche riferita ai Paesi dell’est (Le Monde, 24 Novembre 2012, Science & Techno, inserto speciale sulle riforme nella ricerca). Si chiede un «piano» credibile sulla ricerca. Si propongono cose semplici da attuare. Maggiori risorse erogate, eliminando la destabilizzante – per i giovani soprattutto volatilità e imprevedibilità. Una rigorosa e celere valutazione delle stesse – la burocrazia di Bruxelles impiega 2 mesi a selezionare i progetti meritevoli. Investimenti maggiori, più certi, più attenti al valore dei progetti. Siamo in grado di farlo. Serve un ruolo centrale dell’azione pubblica, che proietti un progetto di lungo periodo, non tanti precari progetti di breve. Fanno per questo temere, ma possiamo sbagliarci, i riferimenti a «progetti europei» e «finanziamenti privati» che troviamo citati nell’agenda Monti. Questi sono molto importanti, ma sono complementari. Non possono essere i pilastri dell’investimento in ricerca in un Paese avanzato, né garantiscono certezza e stabilità. Poniamo in modo semplice questo tema sul tavolo dell’agenda politica. Che finanziamento vogliamo dedicare alla ricerca italiana? In che forme? Con che processi di valutazione? Speriamo che questo tema sia parte cruciale del dibattito prima e dopo le elezioni. Il Pd deve prendere una strada chiara sui finanziamenti e la valutazione alla ricerca al fine di creare aspettative virtuose.

L’Unità 21.01.13

"Malati di Cie", di Flore Murard-Yovanovitch

Al di là di quelle sbarre, le cure sono minime. Nei Centri di Identificazione e Espulsione (CIE), come da Capitolato d’appalto del Ministero dell’Interno, l’assistenza sanitaria è di primo soccorso. Un approccio emergenziale che risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998, che non è però più adeguato all’allungamento del trattenimento a 18 mesi negli odierni Cie, perché interrompe de facto i percorsi terapeutici e i trattamenti di medio-lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti, privati dalla loro libertà personale, perché senza permessi di soggiorno – per la violazione, cioè, di una disposizione amministrativa e non per aver commesso un reato -, e trattenuti nei 13 CIE operativi in Italia. 7.735 persone, per cui un diritto fondamentale come quello della salute, come emerge dal monitoraggio sistematico effettuato dall’ong Medici per i Diritti Umani (Medu), non è stato sempre garantito.
All’ingresso in quella istituzione chiusa, il check-up iniziale è relativamente superficiale. Il personale sanitario delle ASL non ci ha accesso. I medici che ci operano sono privati “chiamati” direttamente dall’ente gestore che gestisce il centro per conto dello Stato, e mancano spesso delle competenze specialistiche in ambiti come ginecologia e psichiatria. Inoltre, scarseggiano i servizi di mediazione culturali e gli interpreti qualificati per le consultazioni medicali, come esige invece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT Standards). Se l’ente gestore assicura spesso di avere stabilito un buon collegamento con i servizi delle Aziende Sanitarie Locali (Asl), o strutture sanitarie esterne, in realtà la maggior parte dei centri non ha stipulato protocolli. Cioè, non esiste nessun regolamento per il riferimento e l’invio dei pazienti a visite specialistiche o analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive come TBC, HIV ed epatiti o altre patologie grave o croniche.
Per una visita medica fuori dal Cie, è obbligatoria la scorta di polizia. Ma la paura che il detenuto simuli o usi il trasferimento in strutture esterne per allontanarsi, porta spesso a sottovalutare la sua richiesta o sottostimare i sintomi denunciati. I pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, e loro, il timore delle simulazioni. In bocca di un medico del Cie di Lamezia Terme, essi limiterebbero il più possibile questi trasferimenti all’esterno. All’interno di una struttura del tutto simile al carcere ma che non ne possiede i requisiti né le garanzie, viene quindi meno il normale rapporto di fiducia tra medico e paziente: sostituito da una relazione carceriere-sorvegliato.
Se ti senti male, quindi, devi chiamare la guardia, che chiama l’ente gestore, che chiama il medico, e vieni inserito in una lunga lista d’attesa… Dall’indagine dell’International University College (IUC) sul Cie di Torino (“Betwixt and Between”) emerge che i casi di gravi ritardi nella prestazione delle cure sarebbero numerosi. I detenuti hanno raccontato di un ragazzo che aveva ingerito un oggetto e che è rimasto per ore disteso a terra vicino al cancello, senza soccorso. Un altro, soggetto a crisi epilettiche avrebbe dovuto essere ricoverato in ambito ospedaliero visto i gravi pericoli insiti nella patologia. A Omar, caso reso pubblico dall’Ong Medu, i ritardi nella corretta diagnosi di un cancro maligno, sono stati devastanti, quasi fatali. Ma nei carceri per solo migranti, i casi di negazione delle cure, potrebbero essere ancora largamente sconosciuti e più numerosi.
Quando non è il corpo, in quelle “gabbie”, è la psiche ad ammalarsi. La promiscuità totale. I percorsi di vita diversi. Tra migranti appena giunti, persone che vivono e lavorano da anni in Italia, ex-carcerati, richiedenti asilo, persino cittadini dell’UE (romeni), e categorie particolarmente vulnerabili come tossicodipendenti e vittime della tratta. Persone quindi, che hanno esigenze fondamentali diverse e sarebbero bisognose di accedere a percorsi individuali di aiuto. Invece, la prospettiva di 18 mesi, senza attività ricreativa, separati dai propri figli spesso nati in Italia e senza visite dei propri famigliari, è un incubo. Mesi vuoti, obbligati in uno stato di ozio coatto, dove non è consentito ai cosiddetti “ospiti”, per motivi di sicurezza, il possesso di un giornale, di una penna, di un pettine. Nemmeno di un libro. Un nulla spazio-temporale – che il Rapporto della Commissione diritti umani del Senato non esitava a definire “peggiore del carcere”, per l’assenza delle garanzie offerte dal sistema penale. Una detenzione arbitraria e inutile, visto che meno della metà dei trattenuti viene effettivamente rimpatriata, ma che ha invece pesanti conseguenze sulla loro vita.
Il profondo e diffuso malessere, è testimoniato dai continui tentativi di suicidio e dalle numerose autolesioni inferte sui corpi. Viti, tubi, batterie, tutto va ingoiato o le vene tagliuzzate purché essere trasferiti all’ospedale. Nel solo 2011 nel Cie di Torino, sono stati riscontrati 156 episodi di autolesionismo (100 dei quali per ingestione di medicinali e corpi estranei, 56 per ferite da arma da taglio). L’indicibile, lo svelano le dirompenti perdite di peso, l’insonnia, la depressione, le patologie ansiose quando non i veri e propri disturbi mentali.
Ma nei Cie non sempre è prevista la presenza di un servizio di sostegno psicologico, o solitamente esso è minimo e reattivo. Solo dopo i ripetuti atti violenti nel centro di via Brunelleschi a Torino, sono stati recentemente introdotti degli psicologi ma in altre strutture non ce ne sono sempre. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, molti professionisti e volontari riferiscono di un ampio, e presumibilmente poco ponderato, ricorso ai psicotrop, a base di benzodiazepine. Ritrovil, Tavor, Talofen, ecc… Il problema: si somministrerebbe senza prescrizione o supervisione di un medico psichiatra specialista. “Mi danno 40 gocce di Minias e 30 di Tavor ogni sera”, confessa una detenuta nel Cie di Torino. Come racconta un ragazzo diciottenne al 26 giorno di trattenimento: “Certo che prendo psicofarmaci, se non lo fai, vai fuori di testa qua”. Difficile, poi in caso di sovraffollamento gestire adeguatamente tutti i casi.
Angoli bui, opachi, inquietanti della salute pubblica. Lasciati alla discrezionalità totale dalla parte degli enti gestori. Nei Cie, presidi sanitari, livelli igienici e di vivibilità degli ambienti e condizioni sanitarie degli stranieri detenuti non sono monitorati dalle autorità sanitarie pubbliche. I dati sanitari sono gravemente carenti – per assente raccolta e sistematizzazione – e non ci sono linee guida a livello centrale. I continui dinieghi del Ministero dell’Interno di rendere disponibili a MEDU o a MSF, a parte singoli casi, le convenzioni stipulate tra i singoli enti gestori e le Prefetture locali testimoniano di questa mancata trasparenza.
Oltre quelle mura, le veridicità delle indegne condizioni di detenzione è raccontata, in silenzio, dai ripetuti scioperi della fame, incendi dolosi e atti di vandalismo, dalle continue rivolte e fughe – raddoppiate in quasi tutti centri visitati da Medu dall’anno precedente. Senza nominare le denunce di abuso – punizioni in cella di isolamento, manganellate, quotidiane imposizioni, insulti verbali, a volte a contenuto razziale – che costituiscono potenziali casi di trattamento inumano e degradante della persona umana.

“Qui è peggio di un carcere” è la frase che si capita sempre di sentire con più frequenza quando si ha accesso ad un Cie. “Vorrei che questo centro scomparisse e basta”, dice un’altra trattenuta a Torino; altri si vedono come “corpi a disposizione totale della struttura”. Le testimonianze dirette dei trattenuti, non lasciano dubbio. In 18 mesi, la mente e il corpo hanno tempo di ammalarsi e da quel luogo, si esce in generale con condizioni peggiori di salute.
L’unità 21.01.13

"Sono oltre 8 milioni gli italiani che vivono al di sotto della soglia di povertà. Quanto peserà sulle elezioni il disagio sociale" di Carlo Buttaroni

La cattiva notizia è che la crisi è ancora in corso e farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. Quella buona è che sembra affermarsi la consapevolezza che politiche economiche eccessivamente restrittive rischiano di aggravarla. È questo il parere di molti economisti, tra i quali il premio Nobel Paul Krugman. Ultimo, in ordine di tempo, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, il quale ha recentemente dichiarato che le politiche del rigore richieste agli Stati con i conti pubblici non a posto, hanno prodotto la più grave crisi recessiva che si ricordi.
Per l’Italia l’anno si preannuncia dalle prospettive tutt’altro che rosee. Le stime, già negative, sono state corrette al ribasso e non è escluso che si presenti la necessità di una nuova manovra di aggiustamento dei conti pubblici già nel primo semestre, se il quadro economico dovesse mostrare i segni di un ulteriore deterioramento.
Il prezzo della crisi è salato: disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. E più passa il tempo, più affiorano le conseguenze drammatiche, che non riguardano soltanto gli indicatori economici tradizionali, come il Pil o la produzione industriale, ma anche quelli che rappresentano il cruscotto sociale, come la povertà e l’aumento delle disuguaglianze.
La questione sociale emersa con la crisi, si presenta con un quadro allarmante, i cui tratti provengono dalle statistiche economiche ufficiali, ma anche, indirettamente, dalla crescita del numero di persone che, nell’ultimo anno, hanno acceduto al sistema solidale, istituzionale e non. Aumentano le indennità di disoccupazione o l’inserimento in regimi di assistenza sociale e le stesse organizzazioni caritatevoli e non governative evidenziano, in generale, un aumento della richiesta di servizi d’emergenza, quali la distribuzione di beni alimentari, le mense per i poveri o i ricoveri per i senzatetto.
Per il nostro Paese, la crisi sembra essere sempre meno di passaggio e sempre più strutturale. L’Istat traduce in cifre le parole: le famiglie povere sono 2,8 milioni (in crescita) e complessivamente sono oltre 8 milioni gli individui al di sotto della soglia di povertà.
Rispetto ad altri Paesi europei le famiglie italiane sono le più colpite dalla crisi e quelle costrette a fronteggiare livelli d’incertezza più elevati. Basti pensare che, nel momento peggiore, la riduzione dei redditi delle famiglie è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella maggior parte degli altri Paesi avanzati, invece, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). Questa dinamica coincide anche per quanto riguarda i trasferimenti sociali: nel 2007, la spesa sociale per la famiglia e per i bambini, per l’abitazione, per il sostegno delle persone in cerca di lavoro e per il contrasto dell’esclusione sociale, in Italia era inferiore al 2% del Pil, mentre nell’area Ue si attestava al 4,3% e a valori superiori al 5% in Francia e Germania.
Al momento, l’Italia sembra non avere riserve sufficienti per uscire dalle sabbie mobili. Servirebbero investimenti per sostenere l’offerta e una crescita delle retribuzioni per stimolare la domanda. L’aggiustamento dei conti pubblici sembra non bastare, almeno per il momento perché il Paese ha bisogno di recuperare terreno, sia sul fronte delle infrastrutture, che su quello delle retribuzioni. In un’ipotetica classifica degli stipendi, i lavoratori italiani si collocano solo al 23esimo posto, con circa 15mila euro l’anno, dopo Paesi come la Corea del Sud (28mila), Regno Unito (27mila), Svizzera (25mila), Usa (22mila), Germania (21mila), Francia (18mila) o Spagna (17 mila). Le retribuzioni sono inferiori del 17% a quelle medie dei Paesi Ocse, pari al 56% di quelle degli inglesi, al 71% di quelle dei tedeschi, all’83% di quelle dei francesi e all’88% degli spagnoli. Non che la vita costi meno. Al contrario, fatto 100 il costo della vita nei Paesi della zona euro, l’Italia è a quota 104.Ammodernare il Paese, investire in ricerca, stimolare le imprese anche intervenendo sull’accesso al credito: queste le leve per immettere nuova energia nel sistema e per uscire dalla crisi. Ma incrociare la ripresa potrebbe non essere sufficiente perché nel nostro Paese la “questione sociale” rischia di farci perdere il traino di Paesi che sembrano già mostrare i primi segnali d’inversione di tendenza.
Il clima di generale disagio che il nostro Paese sta vivendo, genera numerose domande, per le quali i cittadini attendono risposte. Domande “sociali” che necessitano risposte politiche nuove, in termini di equità e di riduzione delle disuguaglianze. S’impongono scelte di politica economica volte a rimettere in equilibrio l’asse sociale, oggi sbilanciato, e devono coinvolgere direttamente il nostro welfare. Un modello che ha rappresentato una storia straordinaria di progresso civile, che necessita però di un percorso di evoluzione e adeguamento ai cambiamenti che hanno interessato le società contemporanee. Un modello che va comunque tutelato, garantito ma anche ripensato, soprattutto nel momento in cui gli stessi meccanismi di protezione sociale soffrono a causa dell’impossibilità di continuare a finanziarli.
La questione sociale e l’adeguamento del modello di welfare rappresentano temi chiave intorno ai quali i partiti, alla prova del voto, devono misurarsi, perché è su di essi che si tracceranno le linee del nuovo modello di sviluppo post-crisi.
È proprio l’emergenza sociale a imporre nuove misure che non facciano più riferimento solo al Prodotto interno lordo quale indicatore dello stato di salute di un Paese, ma anche a un nuovo tasso di equità, capace di misurare il grado di ricomposizione delle fratture sociali ed economiche che sembrano oggi caratterizzare l’Italia. Non si tratta, cioè, soltanto di invertire l’andamento negativo del Pil, ma di accompagnarlo con una riduzione delle distanze economiche e sociali e con una nuova griglia interpretativa della società.
Nell’ambito delle politiche di welfare, la prospettiva della governance sociale dovrà necessariamente porre l’accento sulle ricadute dei programmi d’intervento e dei risultati che questi producono in termini d’impatto sul sistema economico. Un’impostazione, questa, in grado di produrre effetti positivi sulle politiche di contrasto alla povertà e sulle più generali politiche sociali. Resta da dipanare il nodo di come e soprattutto quanto il peso di questo sistema di welfare cadrà sulle spalle delle famiglie, che sembrano attori senza copione all’interno di una sceneggiatura ancora tutta da definire. Solo la politica adesso può dare risposte concrete, scegliendo con convinzione una strada piuttosto che un’altra. Perché il modo in cui verrà assemblato questo puzzle darà vita al modello economico e sociale del futuro per il nostro Paese.

L’Unità 21.01.13

"Ecco le nostre proposte sul fisco", di Stefano Fassina

I meccanismi della comunicazione sono difficilmente prevedibili. Tuttavia, su alcuni temi, come «la patrimoniale», sono davvero sorprendenti. Venerdì scorso, Pier Luigi Bersani ha ribadito, per l’ennesima volta, la posizione del Partito democratico sulla tassazione dei patrimoni. A stretto giro, nella demagogia elettorale, tanti si sono impegnati a dare alle sue parole la rappresentazione di novità assoluta, in presunta incoerenza con le proposte precedentemente annunciate e addirittura in contraddizione con le posizioni di altri importanti interlocutori del centrosinistra e delle forze sindacali. Prima di entrare nel merito delle dichiarazioni di Bersani, è utile ribadire quanto scrivemmo in un commento per Europa del 9 settembre 2011, sempre in risposta alle accuse di incoerenza: «Primo: la patrimoniale non esiste… La patrimoniale si distingue, innanzitutto, in due fattispecie: un’imposta straordinaria, una tantum, ad aliquota molto elevata su una qualche definizione del patrimonio; un’imposta ordinaria, ad aliquota molto contenuta anche qui su una qualche definizione della base imponibile. Secondo: il Pd rimane convinto che la via della patrimoniale straordinaria sia una via suggestiva ad uno sguardo superficiale, ma impraticabile sul piano tecnico e comunque marginale ai fini della sostenibilità del debito pubblico. Quindi, terzo: non c’è stata nessuna svolta del Pd. La nostra proposta di patrimoniale ordinaria era già nel documento presentato da Bersani il 13 Agosto (2011). Al punto 3 si prevede: l’introduzione di una imposta ordinaria sui valori immobiliari di mercato, fortemente progressiva, con larghe esenzioni».

L’impostazione appena richiamata, contrapposta agli aumenti di imposte approvati dal governo Berlusconi nella torrida estate di due anni fa, è stata riproposta a dicembre 2011 per tentare, anche allora inutilmente, di emendare il decreto Salva-Italia. E’ utile anche ribadire che, su scala nazionale, data la libera circolazione dei capitali e la presenza anche nell’Unione europea di paradisi fiscali, la ricchezza finanziaria si sottrae facilmente al fisco. Infine va ricordato che, grazie all’insistenza del Pd, la tassazione sui redditi da capitale è stata innalzata al 20% e che l’Italia, tra i primi Paesi in Europa, con la legge di stabilità approvata a dicembre scorso, ha introdotto un’imposta sulle transazioni finanziarie («Tobin tax» nella semplificazione dei media).

Veniamo alle parole di Bersani. Che cosa ha detto? Ha ricordato che un’imposta patrimoniale ordinaria è già presente nel nostro sistema fiscale. Si chiama Imu. Ha ricordato anche che il Pd non intende introdurre ulteriori imposizioni patrimoniali. Ha indicato, invece, che il Pd punta a redistribuire in senso progressivo l’imposta patrimoniale in vigore, ossia l’Imu, per alleggerire il carico sulle abitazioni di valore modesto e medio e sui patrimoni strumentali delle imprese, in particolare le micro imprese. Come? La proposta è la seguente. Un’imposta comunale del 4 per mille su tutti gli immobili (anche gli immobili diversi dall’abitazione principale), applicata a una base imponibile corretta in riferimento ai valori di mercato da definire attraverso la riforma del catasto (sulla base del disegno di legge delega bloccato dal Pdl in Parlamento). All’imposta dovuta per la prima abitazione, si applica una detrazione pari a 500 euro. Ai Comuni sono lasciati margini di manovra per modulare la detrazione prevista in relazione alle caratteristiche del nucleo familiare e per limitate variazioni delle aliquote. All’imposta comunale come riformulata sopra, si affianca un’imposta erariale (statale) personale sul patrimonio immobiliare, ad esclusione dell’abitazione di residenza dal valore inferiore a 1,5 milioni di euro e dei fabbricati direttamente adibiti dal proprietario ad attività di impresa. L’imposta è progressiva. La prima aliquota è al 3 per mille e si applica ai patrimoni immobiliari di valore inferiore ai 300.000 euro. L’aliquota aumenta fino allo scaglione di patrimonio immobiliare superiore ai 3 milioni di euro. È evidente che, in relazione all’Imu vigente, beneficiano della proposta le abitazioni di residenza di valore inferiore a 1,5 milioni di euro, le aziende e le seconde abitazioni di valore inferiore a 300.000 euro.

In conclusione, chi ha interesse e pazienza a ricostruire i fatti può riscontrare che non si è trattato di novità, ma di articolazione del principio «chi ha di più, deve dare di più», continuamente ripetuto negli ultimi anni. Piuttosto che cercare notizie di presunte incoerenze e contraddizioni su una specifica proposta sarebbe utile concentrarsi sull’obiettivo politico fondamentale perseguito dalla coalizione guidata da Bersani: l’attacco alle disuguaglianze, innanzitutto di opportunità.

L’Unità 20.01.13

"L’ultima maschera del Cav", di Michele Prospero

La destra è alle prese con la questione morale. Vuole raccogliere anch’essa la sfida lanciata dal Pd che, per ragioni politiche e non giustizialiste, ha escluso (rischiando qualcosa in termini di consenso) alcuni candidati dalle liste. Per licenziare liste senza macchie e schivare i prevedibili costi di immagine, il Pdl incarica (chi altri se no?) Berlusconi e Verdini di controllare l’onorabilità dei candidati. Il profilo etico-politico di tali supremi censori non è proprio sublime.
̀ E’ dunque scontato che tutti gli esclusi eccellenti (Dell’Utri, Papa, Milanese, Scajola, Cosentino) scalpitino all’unisono e chiedano a gran voce cosa mai gli autoproclamatisi guardiani della virtù abbiano meglio di loro. Insomma, un bel pasticcio questo duello sanguigno condotto in nome della morale e che vede in scena alcuni deputati condannati in primo grado, altri appena usciti dalle patrie galere, altri ancora salvati dalle Camere solo sul rotto della cuffia dalla richiesta d’arresto (per reati infamanti) che pendeva sulla loro povera testa. Quando l’etica di un partito è affidata alla valutazione insindacabile di capi che non sembrano proprio degli stinchi di santo si creano delle situazioni certo stravaganti.
Neppure la condanna penale, per un partito personale-padronale come il Pdl, è da ritenersi come un precedente per tutti uguale. Il capo, che pure è un inquisito permanente, un processato ad oltranza, con alle spalle sentenze già pronunciate e altre ormai in dirittura d’arrivo, è per definizione legibus solutus. Gli altri sodali, anche quelli della prima ora, se ostacolano il disperato disegno di resistere in vista di un pareggio, non di vincere che è impossibile, vadano pure alla malora con i loro imbarazzanti segreti. Il capo no, per lui, e solo in virtù dell’immenso denaro che lo circonda, la pena inflitta dai tribunali, non vale proprio nulla. Berlusconi percepisce che il denaro e i media hanno il magico effetto di liberare il suo corpo dorato dalle insidie infanganti (ma solo per gli altri) del diritto penale e di cancellare all’istante ogni colpa. Per questo, senza scomporsi troppo per le sue disavventure giudiziarie, egli assume gli abiti del capo immacolato che guida la più intransigente delle pulizie morali. Al riparo del gran fiume di denaro che lo circonda, il Cavaliere sa che persino le pene regolarmente inflitte scompaiono come bazzecole dinanzi al tribunale dell’opinione pubblica che rimane sempre incantata dinanzi alla immortale potenza dell’oro.
Quindi, politico pulito solo in virtù del denaro che garantisce un’amnistia perpetua, il Cavaliere intima agli amici caduti in disgrazia di farsi da parte. Per alcuni ha persino pensato, lui che è il banditore ambulante della necessità di un bipartitismo che faccia piazza pulita dei partitini, di offrire una sistemazione provvisoria in delle piccole liste inventate ad hoc (ne ha sfornato già una quindicina). Se il candidato sotto osservazione speciale mostra di possedere degli ingenti pacchetti di voti, quelli che possono fare la differenza in una delle Regioni in bilico, la ghigliottina preparata con il contributo di Verdini può attendere.
La malconcia livella della procura berlusconiana non giudica comminando dei rimedi equivalenti alle situazioni pendenti reputate come uguali. Ha molti occhi e tante orecchie e offre assoluzioni o sanzioni a seconda delle sfacciate convenienze del capo. Il conflitto tra politica e magistratura è una cosa seria con venature persino drammatiche nel ventennio trascorso. Ma, nel caso delle controverse candidature al vaglio del Pdl, le invasioni di campo, le alterazioni delle funzioni costituzionali, l’offuscamento della separazione dei poteri c’entrano ben poco.
Si tratta delle maldestre disavventure di potenti o di servitori di potenti che hanno personali guai con la giustizia e che per cercare di farla franca alzano un gran polverone per gridare al complotto delle toghe.
Il giustizialismo è una malattia del ventennio che con il suo schematismo oscura le ragioni della politica. Ma nelle amletiche angosce del Pdl su chi escludere dalle liste in nome della morale c’entra ben poco. Un Cavaliere che assolve e condanna i suoi seguaci, e lo fa a sua assoluta discrezione, è solo la nemesi di un politico ossessionato dalle manette che vorrebbe arrestare i magistrati e poi decide egli stesso di indossare la toga per ergersi ad inflessibile giudice del bene e del male. Berlusconi ha indossato sinora tutte le maschere possibili, quella del procuratore della morale ancora mancava.

l’Unità 21.01.13

"L'Italia del 2013, 3,5 milioni di senza lavoro", di Paolo Baroni

L’Italia, come un aereo in caduta libera, continua a perdere posti di lavoro. Tutte le previsioni per quest’anno, nonostante le attese di una ripresa dell’economia a partire da metà anno, segnano un ulteriore peggioramento: la disoccupazione «ufficiale» arriverà al 12%, e toccherà il 12,4 nel 2014 stima Confindustria. In realtà, calcolando i lavoratori che sono in cassa integrazione a zero ore da mesi e mesi e quelli che beneficiano della cassa in deroga, ultimo stadio degli ammortizzatori sociali, l’indice «reale» fa segnare almeno un punto in più. Si arriverà «al 13,6%», ha calcolato il Centro studi Confindustria. Mentre la Uil parla di mezzo milione di disoccupati in più quest’anno, dato che ci porterà a toccare la non certo invidiabile quota di 3,5 milioni di senza lavoro.

La fotografia scattata a fine 2012 dall’Inps è impietosa: la crisi economica continua a bruciare migliaia di posti di lavoro ogni giorno. Duemila al giorno, ha denunciato venerdì Angeletti della Uil. E la montagna delle ore totale di cassa integrazione, quasi un miliardo e cento milioni di ore (+12,1% rispetto al 2011), spalmate su circa due milioni di lavoratori, conferma a pieno tutta la drammaticità della situazione. L’anno passato sono state 6.191 (-8,5%) le aziende che hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali, in larga parte (55,6%) per effetto di crisi aziendali.

Il crollo del centro Italia La crisi del lavoro avanza. Ma mentre al Nord sembra perdere un poco velocità (col ricorso agli ammortizzatori che sale dell’8,1%, mentre in Piemonte cala dell’1,69%), al Sud cresce del 12,3% ed al Centro addirittura del +26%. Stando alle analisi dell’«Osservatorio Cig» della Cgil a pagare i costi della crisi sono soprattutto regioni come Umbria (+46%), Marche (+38,2) e Lazio (23,8%). In termini assoluti è sempre la Lombardia a guidare la classifica, con 238,3 milioni di ore (+7,4), seguita da Piemonte (143,1 milioni), Veneto (102,8) ed Emilia (92,5). Il Lazio però balza da 69,4 a 85,9 milioni di ore,leMarcheda27,6a38,2el’Umbria da 18,98 a 27,85 milioni di ore autorizzate, tra cassa ordinaria, cassa straordinaria ed in deroga.

A livello provinciale, in base ai dati elaborati dall’Ufficio studi Uil, i picchi di cassa si registrano a Bergamo (+34,1% a 33,6 milioni di ore), Cremona (+28,8%), Belluno (+56%), Imperia e Savona (+53%) e ancora a Livorno (+67,9), Ancona (+52,4%), Macerata (+51,6), Perugia (+50,5%), Foggia (+46,1%), Potenza (+64,5%, a 12,9 milioni), Palermo (+50,9) e Ragusa (+81,4). Ma soprattutto a Lucca (+118,9%, a quota 5,3 milioni di ore), Rieti (+75,7% a 1,99 milioni, Benevento (+116,6% a 7,6 milioni). Roma cresce «appena» del 18% ma sfonda i 50 milioni di ore arrivando a quota 53,3.

Commercio e costruzioni Ko La meccanica si conferma ancora il settore dove si è totalizzato il ricorso più alto allo strumento della cassa integrazione. Secondo la Cgil, infatti, questo comparto pesa per 349,7 milioni di ore, pari a 167.513 lavoratori coinvolti. Seguono il commercio con 169 milioni di ore (e 80.954 lavoratori coinvolti) e l’edilizia (107,2 milioni e 51.351 lavoratori). Male anche la chimica (+26%) e l’industria del tabacco (+62,2%), in «ripresa» tessile e pelle (-4%) pur mantenendo livelli molto alti di ricorso agli ammortizzatori.

«La crisi non ha toccato il punto più basso – spiega il rapporto della Cgil -. C’è l’emergenza occupazione in generale e in particolare quella giovanile, e vi sono situazioni industriali in sofferenza con centinaia di migliaia di lavoratori in Cig attualmente senza prospettiva». A colpire sono soprattutto i dati sulla cassa in deroga, ultimo stadio degli ammortizzatori e segnale inquietante per molte attività giunte ad una sorta di «stadio terminale».

Boom delle «deroghe» La «Cigd», l’anno passato, ha toccato quota 354,7 milioni di ore autorizzate (+10,7%), un aumento che interessa tutti i settori di attività e che però tocca le punte più alte nei servizi (+75,5%), nell’edilizia (+63,86%), nei trasporti (+28,3%), nell’alimentare (+26,54%) e nel settore del legno (+12,4%). Da solo il commercio (con 134,7 milioni di ore, +36,18%) cumula ben il 35% di tutte le ore autorizzate di cassa in deroga, seguito dalla meccanica (71,2 milioni, +15,3%). Tra le regioni in testa il Lazio (30,7 milioni di ore, +62,4%), Lombardia (57,2 milioni, +10,04%), Veneto (39,6 milioni, +31,4%) ed Emilia Romagna con 42,1 milioni ore (+10,33%). Il picco più alto (+80,2%) si è avuto però in Sicilia; a livello provinciale il record spetta a Rieti (+358%), mentre la maggiore flessione è quella di Catanzaro (-77,5%). Sono queste le zone più a rischio nei prossimi mesi. Mesi che per molti si annunciano molto difficili.

La stampa 21.01.13