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"Sgravi e congedi, è l'agenda delle donne per le donne", di Maria Silvia Sacchi

«L’Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia», hanno scritto sul «Corriere» Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. MILANO -Detassazioni per le attività di cura. Incentivi fiscali. Congedi di paternità obbligatori «significativi» (tre mesi?). Servizi per l’infanzia, le disabilità e la vecchiaia. Quote di genere a tutti i livelli della società. Un’organizzazione del lavoro meno rigida. Interventi sulla scuola e sui media per abbattere gli stereotipi. Tempo pieno nelle scuole, e non solo fino alle elementari. Modalità di selezione «neutre» per assunzioni e percorsi di carriera. Il tribunale delle donne.
Pur con qualche distinguo tecnico, si può sintetizzare in questi dieci punti l’agenda delle donne per aumentare il lavoro femminile. Un ventaglio di proposte che arrivano da centri studi come quello della Banca d’Italia; da associazioni come Fondazione Bellisario, Valore D, Progetto Donne e Futuro; da esperte come Chiara Saraceno, Paola Profeta e Susanna Stefani. E che coinvolgono sia la parte pubblica che le aziende. Perché per cambiare la cultura – dicono gli studi di Bankitalia coordinati da Magda Bianco – occorre agire su una combinazione di fattori. Nella discussione politica, però, per adesso, non se ne vede traccia.
Welfare. Non che qualcosa non si sia mosso in questi ultimi anni, «ma il cambiamento è lento e aggravato dalla crisi», dice Linda Laura Sabbadini, direttore dipartimento statistiche sociali dell’Istat. Per questo, nonostante il grande dibattito degli ultimi anni, continuiamo ad avere quella che ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, hanno ricordato essere «una perdita colossale per la nostra economia». Perché se le ragazze che escono brillantemente dalle scuole trovano poi solo posti precari; e quando entrano stabilmente nel mondo del lavoro devono affrontare una corsa a ostacoli per non riuscire ad avere gli stessi stipendi e le stesse possibilità di carriera degli uomini, finisce che al primo figlio, o di fronte ai genitori anziani da accudire, restano a casa. «È un vero e proprio spreco – dice Chiara Saraceno, sociologa tra le più note -. Le giovani oggi si presentano tutte sul mercato del lavoro e hanno aspettative che vanno sistematicamente deluse». Per questo bisogna capire su quali leve agire.
Ruoli. «La mancata condivisione del lavoro di cura all’interno delle coppie e la carenza di servizi pubblici sono alla base della compressione del tempo che le donne dedicano al lavoro retribuito e provocano sotto-occupazione, precarietà e percorsi di lavoro più frastagliati – spiega Sabbadini -. Le donne, attraverso il loro lavoro gratuito di cura, hanno salvato il Paese ma questa catena di solidarietà sta entrando in crisi e la generazione più colpita è, e sarà, quella delle nonne cinquanta-sessantenni, che lavoreranno sempre più a lungo per l’innalzamento dell’età pensionabile e allo stesso tempo devono accudire i nipoti e i genitori sempre più anziani e spesso non autosufficienti. È un ruolo che non potranno reggere da sole. Bisogna ridare alla cura la centralità che merita in ambito pubblico».
Fisco. Quando si parla di donne e lavoro, i grandi temi sono tre: il primo è entrare nel mondo del lavoro, il secondo «conciliarlo» con la famiglia, il terzo fare carriera. Per far fronte soprattutto al primo, ieri Alesina e Giavazzi hanno proposto di detassare il lavoro femminile. Una proposta che viene accolta per esempio da Alessandra Perrazzelli, presidente di Valore D, «anche se – dice – non può essere la madre di tutte le misure». Anche Paola Profeta, esperta di sistemi di Welfare dell’Università Bocconi, è favorevole a un intervento fiscale, ma soprattutto per detassare i costi della conciliazione: «Oggi il conflitto è tra quanto una donna guadagna lavorando fuori casa e ciò che spende per la cura», dice. La stessa linea di Saraceno.
Il tema in più con cui fare i conti in questo momento è quello di dove trovare le risorse: «Realisticamente parlando, questo è un anno in cui l’obiettivo è uscire dalla crisi», dice Susanna Stefani, esperta di governance societaria che a lungo si è spesa per l’introduzione delle quote di genere. «Bisognerebbe capire quali tra le tre coalizioni principali è disposto a spendersi per questo». Saraceno dice che il problema c’è, «ma questo non deve penalizzare le donne rispetto agli uomini. Soprattutto non si può continuare a pensare che welfare e istruzione siano solo una spesa: sono un investimento in risorse umane, nelle nuove generazioni».
Quote. Introdotte nel luglio 2011 ma vincolanti a partire dall’agosto 2012 le quote di genere sono il segno più importante di qualcosa che si è mosso e molto ci si attende dalla loro introduzione. Bisognerà prestare attenzione soprattutto alle società pubbliche dove il controllo sull’attuazione (e su un’attuazione buona) sarà più difficile. Da più parti si chiede che siano estese a tutta la società, a partire dalla politica.

Il Corriere della Sera 16.01.13

"Chi ha dimenticato l’Europa dei diritti", di Barbara Spinelli

Da lontano castello che era, affidato a guardiani poco visibili, l’Europa è divenuta in questi anni presenza più che mai tangibile. E più del previsto soverchiante. È entrata nel linguaggio di ciascuno, insediandosi imperiosa nelle nostre menti: sotto forma di incubo purtroppo, anziché di speranza. Chissà, forse il Nobel le è stato attribuito proprio per questo: perché davvero è nostra patria, anche se fatta nascere col forcipe, forza che coarta senza sostenere. Perché ci è diventata, come il dolore, in Rilke: luogo, campo, suolo, dimora, nostro cupo sempreverde. Forse era tanto più apprezzata quando era lontana dalle sue genti, quando era assente nel discorso pubblico e i popoli non la percepivano ancora come madre matrigna, ma madre pur sempre. Se c’è un vantaggio, nella crisi che sperimentiamo, è questo nostro entrare, obtorto collo, nel Castello fino a ieri così impenetrabile.
È un vantaggio perché finalmente possiamo discuterla, quest’Unione che d’un colpo irrompe nelle nostre vite e di continuo ci fa ripetere, come automi: «Ce lo dice l’Europa». Lo abbiamo visto in Grecia, Spagna, Francia; lo constatiamo in Italia, in Germania: non c’è elezione, ormai, dove il linguaggio dei politici non sia costretto a farsi europeo. In Italia lo dobbiamo alla fine del berlusconismo, alla biografia di Monti. Ma non siamo gli unici a vivere questa trasformazione, che tanti subiscono con risentimento. Il cambio di pelle non sembra far altro che impoverire le genti, e perfino le loro Costituzioni. Discutere l’Europa vuol dire non considerare fatale, indiscutibile, questo chiudersi di orizzonti.
Chi sente con dolore tale metamorfosi non ha tutti i torti, perché è vero che l’euro e i suoi custodi non sono affiancati da un potere politico egualmente comune, che raddrizzi squilibri e disuguaglianze fra nazioni e dentro le nazioni, che eviti la riduzione dei governi a comitati d’affari. Resta che l’Unione non è solo la moneta, come pretendono le agende dei partiti nazionali; né è solo una storia di conti da tenere in ordine, di debiti pubblici da abbattere con l’ascia fredda della Signora morte. Fin da ora essa è più ricca, vasta.
Ha un Parlamento dove ci si esercita a parlare europeo. È custode della democrazia pluralista, più che di un’ortodossia finanziaria. Ha strumenti come la Carta dei diritti fondamentali, approvata nel 2000 e divenuta pienamente vincolante nel 2009, quando entrò in vigore il Trattato di Lisbona.
Sono anni che Stefano Rodotà insiste su questa realtà, volutamente negletta, se non sprezzata, dai singoli governi. Ancora di recente, il 12 gennaio su Repubblica, lo ha ricordato, parlando del diritto degli omosessuali a unirsi e adottare figli: la Carta europea dei diritti ha lo stesso valore giuridico dei trattati, dei Fiscal compact, ed esiste per proteggere ogni minoranza etnica, religiosa; ogni stile di vita che non offenda la collettività. Corregge le indiscipline democratiche, non solo quelle contabili. È colpa dei politici nazionali se tale realtà è occultata; se solo i lacci economici sono l’obbligazione che ci lega. Se la lunga, complessa storia europea si riduce a un Decalogo finanziario.
Questo significa che l’Europa ci soverchia, sì, ma in maniera selettiva. Che il suo potere è troppo debole, non troppo forte. Che ancora deve nascere e imporsi come Stato di diritto, come garante sovranazionale della laicità, chiamato a proteggere i cittadini da interferenze di chiese e sette che si nutrono della fatiscenza dei vecchi Stati nazione. In Francia tutte le religioni, esclusa la buddista, si mobilitano compatte contro un disegno di legge sul matrimonio gay. È segno che gli Stati, meno sovrani, fronteggiano più faticosamente le ingerenze di lobby e chiese. Di qui l’importanza della Carta dei diritti, adottata non a caso nel mezzo della crisi.
L’Europa è un’impresa incompiuta ma non priva di forza, se solo volesse usarla e difendere un pluralismo gravemente danneggiato. Potrebbe farsi sentire sui matrimoni gay, sui nuovi modelli di famiglia: l’articolo 9 della Carta dei diritti non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Potrebbe obbligare a rispettare i diritti delle proprie minoranze etniche: in particolare i 10-12 milioni di rom e sinti che abitano l’Unione. Siamo in un’epoca di transizione, come ai tempi di Dante: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?». Nel maggio scorso l’Europa ha ordinato agli Stati di integrare meglio i rom, e predisposto fondi a questo scopo. Ben poco è stato fatto, disattesi sono gli articoli 15, 18, 52 della Carta, e i rom continuano a soffrire discriminazioni, soprusi, deportazioni forzate, nell’Occidente europeo e soprattutto in Est Europa.
La fine dell’impero sovietico non ha messo fine alle loro pene. Le ha enormemente acuite. In Slovacchia, Romania, Ungheria, i rom e i sinti sono trattati come reietti, man mano che dilaga la crisi, ed esposti a violenze crescenti. Risale all’inizio del 2013 un articolo di Zsolt Bayer, amico personale del Premier Viktor Orbán e fondatore con lui del partito Fidesz, che commentando una rissa di Capodanno scoppiata presso Budapest ha concluso che i rom «sono un’etnia inadatta a coesistere con le persone. Sono zingari che sfruttano i ‘progressi’ di un occidente idiotizzato. Sono animali e si comportano da animali. Animali che non dovrebbero avere il diritto di esistere. Una soluzione s’impone: immediata mente e quale che sia il metodo ». Il partito di governo non ha pronunciato una sola parola di condanna della soluzione finale proposta dall’amico Bayer.
Ma non solo in Est Europa i rom sono ritenuti liquidabili.
Indagini europee descrivono maltrattamenti anche in Italia, Francia. Nel nostro paese già
conosciamo la xenofobia della Lega: siamo i precursori di un fenomeno ormai continentale. Lo ha ricordato l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, in una lettera pastorale del settembre scorso. Chiedendosi se sapremo garantire diritti e dignità alla più numerosa minoranza europea ha detto: «Sento la vergogna di campi più o meno autorizzati che sono al di sotto della soglia di vivibilità, in cui crescono violenza e delinquenza». La «sempre più bassa aspettativa di vita dei Rom, in un Paese longevo come il nostro», è indice del loro stato di abbandono e povertà. Decerebrata, l’Europa dimentica perché decise di unirsi, dopo la guerra: lo fece perché non si ripetesse l’annientamento degli ebrei, dei Rom e Sinti, dei gay, dei malati di mente. L’Europa non può, senza perdersi, fare il muso duro con Atene e non con Budapest. Minacciare di cacciare l’una, non l’altra.
Il 2013 è stato proclamato Anno europeo dei cittadini, dunque dei diritti-doveri che comporta per ognuno l’acquisizione della cittadinanza europea, accanto a quella nazionale. Bruxelles ne è consapevole quando negozia l’adesione degli Stati, ponendo condizioni democratiche stringenti. Grecia, Spagna, Portogallo, e poi tutto l’Est Europa, entrarono nella Comunità quando si liberarono delle dittature. È il dopo-ingresso che non viene seguito, vigilato. Una volta dentro tutto diventa possibile: il ritorno dell’intolleranza, le Costituzioni democratiche offese, le chiese che reclamano nuovi poteri che non dovrebbero avere (sui corpi dei cittadini in primis: nascita, sesso, morte).
La Carta dei diritti, il trattato di Lisbona, i parametri del Fiscal compact: l’Europa è tutte queste cose insieme.
Solo così vien tolta centralità assoluta all’economia, e rimesso al centro quel che tocca a ogni costo salvare: lo Stato di diritto. Altrimenti non ci resta che l’Europa matrigna, e l’accidiosa rinuncia di cui parla Karl Popper: «Se la democrazia è distrutta, tutti i diritti sono distrutti. Anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati, essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione».

La Repubblica 16.01.13

Bersani: legalità e lavoro in cima al nostro programma

Janò e Giovino: sono queste due tappe che il segretario del PD Pier Luigi Bersani, ha fatto a Catanzaro per un tour elettorale in vista delle elezioni suppletive comunali che si svolgeranno in alcune sezioni della città nei prossimi giorni. Accompagnato dal candidato Sindaco del centro-sinistra Salvatore Scalzo, e da alcuni parlamentari, sotto una pioggia battente Bersani ha incontrato alcuni cittadini della frazione Janò, che alcuni anni fa hanno perso le case di una frana provocata da un’alluvione.

Un incontro molto particolare è stato quello che Bersani ha avuto con una famiglia di anziani che a Janò vive con i due figli disabili in una piccola casa collegata alla strada da un viottolo inaccessibile ai mezzi. Bersani ha percorso a piedi la strada che porta all’abitazione e si è fatto raccontare dalla signora la storia della sua famiglia. “Ci hanno abbandonati tutti”, ha detto tra le lacrime la donna. Bersani ha ascoltato in silenzio e, al momento del saluto, l’ha abbracciata dicendole: “Ci rivediamo presto”.

Durante la tappa Bersani ha parlato anche dell’attualità politica. “I temi della legalità e della moralità pubblica, insieme a quello del lavoro, sono in cima al nostro programma e non possono essere interpretati in chiave di fazione. Questi sono temi su cui devono unirsi le forze sane del Paese”, ha detto rispondendo ad una domanda in merito alle posizioni legalitarie della coalizione di Ingroia e dalle candidature di magistrati ed esponenti dell’antimafia proposte dagli ‘Arancioni’.

E sempre in risposta alle domande dei giornalisti rispetto al possibile patto di desistenza con la coalizione guidata da Ingroia ha aggiunto: “Esistono la politica e la matematica. Con questa legge elettorale in Lombardia, ad esempio, se non si sostiene Ambrosoli, si fa un piacere a Maroni. In Italia chi non sostiene il PD, soprattutto al Senato e in alcune regioni, fa un regalo a Berlusconi. Questa è matematica. Non facciamo nessun patto con posizioni politiche che vanno in diverse direzioni”, ha aggiunto: “il Pd e i progressisti reggono la sfida alla destra, a Berlusconi e alla Lega e questo è l’oggetto della campagna elettorale. C’è bisogno di una riflessione – ha concluso Bersani – e ciascuno deve prendersi le sue responsabilità. Qualcun altro può dire che da solo batte Berlusconi? Solo noi”.

www.partitodemocratico.it

Elezioni: Ghizzoni, ora governi solo chi riconosce valore di cultura e bellezza

Cultura è infrastruttura immateriale per rilanciare l’economia italiana
“Solo una coalizione in grado di riconoscere il valore del patrimonio culturale italiano come motore di crescita per il Paese e come traino economico può candidarsi a governare l’Italia in un contesto internazionale. – lo dichiara la deputata del Partito Democratico Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati e candidata in Emilia Romagna, rispondendo agli appelli di questi giorni provenienti da grandi e piccole associazioni come Legambiente, l’Aib (Associazioneitaliana biblioteche), l’Anai (Associazione nazionale archivistica italiana), l’Associazione Bianchi Bandinelli, il Mab (Musei Archivi biblioteche), Italia Nostra, Federculture e il Comitato Bellezza. – Il patrimonio culturale è l’elemento distintivo del nostro Paese e il futuro dell’Italia è legato alla cultura e le professioni che vi operano; riconoscerne l’importanza – spiega Ghizzoni – è il primo passo per tutelare, valorizzare e dare prospettive future a un settore fondante della nostra identità nazionale. Da presidente della Commissione Cultura il mio impegno è stato rivolto alla promozione della cultura, alla sua tutela, all’ampliamento della fruizione e al riconoscimento delle competenze dei professionisti che vi operano. Era solo un preludio: ci sono ancora enormi passi da compiere per favorire un reale rilancio del settore a livello nazionale e internazionale. Chi è chiamato alla guida del Paese deve invertire la tendenza dei governi precedenti per cominciare ad investire in termini economici e di risorse professionali. La cultura non è cascame da tagliare – conclude la Presidente Ghizzoni – ma l’infrastruttura immateriale per rilanciare il Paese: è il momento di riportarla al centro dell’agenda politica.”

"Nuove classi, scontro aperto sindacati-ministero", di Carlo Forte

È scontro aperto tra i sindacati e il ministero dell’istruzione sulla questione delle nuove classi di concorso. Le critiche delle organizzazioni sindacali si appuntano sul metodo e sul merito. Sul metodo, per la scelta di regolare le nuove classi di concorso con un semplice decreto ministeriale. E sul merito perché la scelta di ridurre fortemente il numero delle classi di concorso e di modificare i titoli di accesso preclude a un alto numero di docenti precari la possibilità di continuare a lavorare. É quanto è emerso nell’incontro che si è tenuto ieri a viale Trastevere tra i rappresentanti dei sindacati della scuola, Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams e dell’amministrazione scolastica. Incontro in cui le posizioni sono rimaste distanti e, quindi, le parti si sono date appuntamento a giovedì prossimo per discutere ancora. Quanto alle critiche di metodo, le rappresentanze sindacali contestano la scelta del ministro procedere alla riscrittura delle classi di concorso utilizzando la via del decreto ministeriale. E quindi bypassando tutte le consultazioni previste, invece, quando si sceglie la strada del regolamento. L’opzione adottata da viale Trastevere, infatti, riduce di molto i tempi della procedura. E ciò ha precluso alle associazioni professionali e ai sindacati di far sentire la loro voce anche in sede parlamentare. A differenza del decreto del Presidente della Repubblica, che ha un iter procedimentale che comprende anche l’acquisizione del parere delle commissioni parlamentari, il decreto ministeriale, infatti, viene emanato ad esito di un mero procedimento amministrativo. Che non comprende tutte queste fasi di consultazione. Secondo il ministero, però, la scelta sarebbe legittima. Perché l’adozione dello strumento del decreto del Presidente della Repubblica non sarebbe più necessaria. L’articolo 64 del decreto legge 112/2008, che lo prevedeva, vincolava tale scelta ad economie di spesa da raggiungere che, secondo il ministero dell’istruzione sarebbero già state raggiunte. Peraltro per effetto di legge ordinaria. E cioè con l’art.14 commi 17-21 del decreto legge 95/2012. Vale a dire, attraverso la ricollocazione dei docenti in esubero tramite passaggi di cattedra e di ruolo della durata di un anno ( utilizzazioni) disposte sulla base del possesso del mero titolo di studio anche senza abilitazione. E anche tramite la ricollocazione dei docenti inidonei nei ruoli del personale Ata. Pertanto l’amministrazione avrebbe pieno titolo ad agire con decreto, giovandosi della facoltà prevista dall’articolo 405 del decreto legislativo 297/94. Nel merito, invece, il nervo scoperto è rappresentato in primo luogo dalla sconvolgimento che avverrebbe all’interno delle graduatorie a esaurimento e nelle graduatoria di istituto. Ciò deriverebbe dal fatto che non tutti i docenti precari potrebbero continuare a vantare il diritto di insegnare nelle nuove classi di concorso. Perché queste ultime sarebbe state concepite per i nuovi titoli di accesso che saranno rilasciati quando la riforma del reclutamento andrà a regime

da ItaliaOggi 15.01.13

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“Classi di concorso. Il decreto frena”, di Claudio Tucci

Si cerca una mediazione. Sulla discussa questione del riordino delle classi di concorso delle superiori di primo e secondo – che da 122 passerebbero a 56 si veda «Sole 240re» di domenica – i vertici del ministero dell’Istruzione e i sindacati si rivedranno giovedì 17 gennaio. L’incontro di ieri durato circa cinque ore ha confermato le distanze tra le parti. Francesco Profumo vorrebbe andare avanti sulla strada del decreto ministeriale (mentre la legge 133 del 2008 prevede un Regolamento, che deve però passare per il Parlamento); mentre i sindacati hanno chiesto più tempo per la discussione, e soprattutto di non procedere con atti considerati “non urgenti” vista l’attuale fase di fine Legislatura e lo scioglimento delle Camere. Di qui la soluzione di compromesso trovata ieri, e cioè quella di rinviare tutto a dopodomani. «Si discuterà punto per punto tutti gli articoli del decreto e i suoi allegati», ha annunciato al termine del lungo confronto il capo dipartimento per l’Istruzione, Lucrezia Stellacci. Che ha, però, ribadito la necessità diprocedere alla razionalizzazione delle classi di concorso, considerato come ormai siano decollati i nuovi cicli di istruzione, stiano partendo i Tfa (i tirocini abilitanti all’insegnamento a medie e superiori) e sia stata rimessa in moto la macchina dei concorsi. Per questi motivi, ha aggiunto Stellaccí, «cí confronteremo, cercando di trovare i punti di contatto per andare avanti ed emanare il decreto. Fermo restando l’impegno del ministero a procedere ad eventuali correzioni, qualora dall’applicazione del provvedimento dovessero emergere criticità». Ma i sindacati ribadiscono il loro «no» a un provvedimento accelerato: «Invitiamo il ministro Profumo a fermarsi -ha detto il numero uno della Flc Cgil, Domenico Pantaleo – e lasciare il loro compito di riordinare le classi di concorso al nuovo Governo, che dovrà anche mettere a punto una nuovapolitica sul reclutamento ». Nel corso dell’incontro di ieri è stato comunicato ai sindacati dai vertici del ministero di Viale Trastevere anche come il provvedimento sui “Tfa speciali” (quelli cioè riservati agli aspiranti docenti con esperienza nella scuola) avrebbero ricevuto parere positivo, con alcune osservazioni, da parte del Consiglio di Stato. Quando arriverà la comunicazione ufficiale dal Cds, il provvedimento sui Tfa speciali sarà inviato subito alle commissioni parlamentari (che lo attendono) per il parere. E c’è quindi buona possibilità che venga varato definitivamente.

Il Sole 24 Ore 15.01.13

"Colpo di scena: il Miur farà slittare i Tfa speciali al 2014! E accelera sulle nuove classi di concorso", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Il rinvio di un anno dei tirocini abilitanti, riservati al personale con servizio alle spalle, è stato comunicato ai sindacati nel corso dell’atteso incontro del 14 gennaio: troppo rischioso attivarli ora, come era stato promesso. Entro fine mese ci sarà invece la firma del decreto che dimezza le nuove discipline, ma allarga il numero di materie che ogni docente può insegnare. Comunque la loro adozione avverrà solo nel 2014/15. Il confronto riprenderà tra due giorni.
Niente Tfa speciali, almeno per il 2014. Sì, invece, alle nuove classi di concorso, malgrado la ferma opposizione delle organizzazioni sindacali. Sono queste le notizie che giungono da viale Trastevere, al termine di un duro confronto tra l’amministrazione e i sindacati della scuola. Che le distanze fossero lontane si sapeva. Ma non così come è emerso.
Come mai si è arrivati a queste conclusioni? Facciamo un passo indietro. Sui tirocini abilitanti da aprire al personale con un periodo di servizio alle spalle, il Miur aveva preparato da tempo un regolamento che introduceva un’inedita richiesta di almeno tre supplenze annuali. Mentre i sindacati chiedevano di mantenere la tradizionale soglia dei 360 giorni. Un’ipotesi, quest’ultima che nelle ultime ore si stava facendo sempre più largo, a seguito dei rilievi mossi dagli organi istituzionali che hanno esaminato le modifiche al D.M. 249/10. Invece durante l’incontro fiume svolto al Ministero, terminato pochi minuti fa, è arrivata la doccia fredda. Sarebbe troppo complicato e rischioso, almeno in questo momento di passaggio politico, fare attivare questi corsi, con diverse decine di migliaia di supplenti ammessi d’ufficio e senza prove. Così, niente Tfa speciali. Almeno per tutto il 2013. Se ne riparlerà tra un anno.
Il Miur ha invece una fretta terribile di approvare le nuove classi di concorso. Sempre da indiscrezioni, sembra che il dimezzamento delle classi di concorso (da 122 a meno di 60) rimanga confermato. Come rimane confermata la nuova procedura: è stata infatti abbandonata del tutto la pista del nuovo regolamento, che in oltre tre anni ha portato al nulla di fatto; per puntare tutto, invece, sul decreto d’urgenza.
Un’operazione che, sempre secondo i piani ministeriali, porterebbe ad approvare le rinnovate classi di concorso già entro la fine di questo mese. Al massimo entro la prima decade di febbraio Appena in tempo, insomma, per anticipare il blocco derivante dall’avvio delle operazioni di rinnovo della legislatura.
Alle obiezioni dei sindacati, che temono uno stravolgimento unilaterale dell’assetto degli organici e della mobilità – a cui sono interessati centinaia di migliaia di docenti, tra quelli di ruolo e i precari – , i vertici dell’amministrazione hanno spiegato che si tratta di un punto su cui il ministro Profumo tiene tantissimo. E che intende portare a termine prima che lasci viale Trastevere.
A tal fine, il responsabile del Miur è stato rassicurato degli esperti che operano per il dicastero dell’Istruzione: la procedura d’urgenza, tramite decreto ministeriale, non comporterebbe alcuno “strappo” alle norme. Ma sarebbe anche prevista, per chi si intende di diritto, da un attento esame degli articoli del Testo Unico, il decreto legislativo 297/94, che regolano ancora il reclutamento dei docenti in Italia.
A proposito dei contenuti delle allargate classi di concorso, il Miur non ha ancora consegnato una bozza definitiva. E sino a quando la situazione rimarrà tale, la nostra testata giornalistica non intende pubblicare quelle provvisorie che circolano in questi giorni: ciò genererebbe tra i lettori confusione e timori, spesso infondati.
In ogni caso, comunque vada, una cosa è certa: l’adozione delle nuove classi di concorso non riguarderà l’anno scolastico prossimo (per il quale verranno quindi probabilmente confermate le cosiddette tabelle di confluenza). Del resto non ci sono nemmeno i tempi, visto che tra qualche giorno è prevista la pubblicazione del contratto sulla mobilità. Ma entrerebbero in vigore solo dal 2014/15.
Intanto, sindacati e amministrazione si sono dati appuntamento a breve: torneranno a vedersi tra quarantottore, mercoledì 16 gennaio. In quell’occasione i rappresentanti dei lavoratori tenteranno di far comprendere al Miur che l’introduzione delle nuove discipline comporterebbe seri problemi (e pasticci!) nella complessa gestione di organici, trasferimenti e supplenze. Un equilibrio che si regge su meccanismi delicati. Toccando i quali si rischia di creare pericolosi effetti. Ma le intenzioni degli alti dirigenti di viale Trastevere sono chiare: allargando le classi di concorso al massimo, si aumenterebbe le possibilità di collocare diverse migliaia di soprannumerari. E di risparmiare tanti soldi, poiché quelle cattedre non andrebbero ai supplenti ma a personale già pagato.
I sindacati lo sanno bene. Sanno che, come al solito, da diversi anni, la precedenza viene data ai risparmi. Ora, però, si vogliono giocare l’ultima carta: dopodomani chiederanno, se il Ministro dovesse continuare a puntare i piedi, di utilizzare i nuovi raggruppamenti di materie solo per la gestione dei concorsi.

La Tecnica della Scuola 15.01.13