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Elezioni: l'appello delle Associazioni, ripartire da cultura. Da Italia Nostra a Federculture, sostenitori Settis e Canfora

Cinque priorita’ e dieci obiettivi per guardare al futuro ”ripartendo dalla cultura”. Mentre il Fai lancia le primarie, arriva da un cartello di grandi associazioni culturali e ambientali il nuovo manifesto da far
sottoscrivere a partiti e candidati per portare al centro dell’azione di Governo e Parlamento, nella nuova legislatura, un settore da sempre bistrattato. Da Italia Nostra a Legambiente, da Federculture e Comitato Bellezza, da Associazione Bianchi Bandinelli a Mab (Musei Archivi biblioteche) Aib (Associazione italiana biblioteche) e Anai (Associazione nazionale archivistica italiana), grandi e piccole associazioni si
coalizzano per la riscossa della cultura. E l’appello ha gia’ raccolto adesioni di peso, da Salvatore Settis a Tullio De Mauro, da Luciano Canfora a Giuliano Montaldo e Tomaso Montanari. Mentre tra i candidati ha sottoscritto l’appello Manuela Ghizzoni (Pd), attuale presidente della commissione cultura della Camera. Ripartire dalla cultura, scrivono nel loro appello le associazioni (per aderire www.ripartiredallacultura.it ) ”significa creare le condizioni per una reale sussidiarieta’ fra Stato e autonomie locali, fra settore pubblico e terzo settore, fra investimento pubblico e intervento privato.
Guardare al futuro significa credere nel valore pubblico della cultura, nella sua capacita’ di produrre senso e comprensione del presente per l’avvio di un radicale disegno di modernizzazione del nostro Paese”.
Da qui le cinque proposte che suggeriscono al nuovo governo di ”puntare sulla centralita’ delle competenze; promuovere e riconoscere il lavoro giovanile nella cultura; investire sugli istituti culturali, sulla creativita’ e sull’innovazione; modernizzare la gestione dei beni culturali; avviare politiche fiscali a sostegno dell’attivita’ culturale”. Tra i dieci obiettivi da raggiungere, al primo posto c’e’ l’urgenza di riportare i finanziamenti per il settore ”ai livelli della media comunitaria in rapporto al Pil”.

Agenzia Ansa

"Perché il Nord si fida ancora di questi due?", di Giovanni Cocconi

Il Pd vince le elezioni ma la Lega conquista la Lombardia e la parte più ricca del paese. Uno scenario insidioso. Può accadere davvero? E dove può portare? Premessa: questo non è l’ennesimo articolo sulla questione settentrionale. Si parte semplicemente da una domanda: se in Lombardia dovesse vincere Roberto Maroni (in leggero vantaggio nei sondaggi) il Nord in mani leghiste quali scenari potrebbe aprire per il centrosinistra al governo? Naturalmente nel guscio della stessa domanda se ne nasconde un’altra, che suona più o meno così: com’è possibile che, dopo vent’anni, il Nord si affidi ancora a quei due, Berlusconi e Maroni? Come si spiega che, nonostante un bilancio quasi fallimentare, la regione più ricca del paese possa credere ancora nel Carroccio, anche se nella versione ripulita e corretta dell’ex ministro degli interni?
Il nuovo leader leghista ha cambiato la strategia del movimento: lo ha allontanato da Roma e ha rimesso al centro la questione fiscale, ancora più centrale nelle fasi di recessione. Ripescata l’idea della “macroregione del Nord” per ammorbidire i dissensi sull’alleanza col Pdl, promette l’abolizione dell’Irap e il 75 per cento delle tasse sul territorio. Dalla secessione all’autonomia fiscale. Meno ambizioso ma più insidioso.
«Partiamo dai numeri – spiega il politologo Paolo Feltrin, – Lombardia, Veneto e Sicilia finiranno quasi sicuramente al centrodestra. La partita decisiva, anche per l’alleanza con Monti, si giocherà in Campania. Per fortuna per il centrosinistra il Pdl è un partito già morto e probabilmente si sfascerà mentre la Lega sarà l’unica vera opposizione. Il Nord potrebbe diventare l’opposizione del governo». Con quali scenari? «Due possibili. L’ipersecessionismo: si potrebbe moltiplicare per cento la situazione drammatica della seconda metà degli anni Novanta, con gli assalti al campanile di San Marco e le adunate sul Po, con un passaggio dal simbolico al concreto visto che la crisi è molto più grave di quella degli anni Novanta. Però c’è anche un’altra possibilità: Maroni è stato ministro degli interni e questo potrebbe attenuare eventuali propositi secessionisti, anche perché al Pirellone dovrà negoziare con banche, multinazionali e poteri forti».
«La vittoria di Maroni al Pirellone apre uno scenario che depotenzia e rende complicata la vittoria nazionale – è l’opinione del sociologo Aldo Bonomi – una situazione più complicata di quella delle parole virulente di ieri. Quando la Lega parla di “euroregione del Nord” il discorso non è più populista ma inserisce una contraddizione in una visione europea altra, dove la Lombardia guarda a Monaco e a Lione, e non a Roma. Certo, il forzaleghismo non esercita più le passioni di un tempo, sia l’individualismo proprietario che il sindacalismo di territorio fanno i conti con la crisi, ma i livelli di tassazione rilanciano la questione fiscale e per Monti l’Imu sui capannoni vuoti è una bomba dal punto di vista elettorale. Poi, certo, ci sono elementi di innovazione nel tessuto produttivo del Nord che guardano alla green economy e alle nuove tecnologie ma sono ancora delle avanguardie».
Il sociologo e studioso del Carroccio Roberto Biorcio non è così convinto del trionfo forzaleghista in Lombardia. «Fino a pochi anni fa non ci sarebbe stata storia. Oggi Berlusconi e Maroni non sono più così “vergini” politicamente e, anche al Pirellone, Ambrosoli potrebbe farcela. Certo, in fasi di crisi economica, le regioni più ricche tendono ad avvertire meno il richiamo alla solidarietà nazionale. In questo senso la Lega “alla bavarese” o “alla catalana” del progetto di Maroni è più insidisosa di quella di Bossi, gli può permettere di sostenere che ai lombardi converrà trattare direttamente con l’Europa invece che passando da Roma: da soli spuntiamo condizioni migliori».
Anche il senatore del Pd e costituzionalista Stefano Ceccanti evoca il rischio di uno scenario spagnolo: «Il parlamento avrà una maggioranza di un certo colore politico, il Nord di un altro colore. Due maggioranze, nazionale e regionale, che sembrano collidere senza che ci sia un luogo istituzionale di raffreddamento come un senato delle regioni».
In realtà, l’attuale Carta costituzionale non lascia alcuno spazio a possibili iniziative leghiste. I referendum in materia economico-fiscale non sono consentiti. L’articolo 116, terzo comma (evocato da Maroni) consente l’allargamento dell’autonomia tipica delle regioni a statuto speciale anche ad altre ma richiede l’approvazione delle camere a maggioranza assoluta dei componenti. L’articolo 138, poi, apre alla possibilità di una revisione costituzionale su proposta di cinque regioni ma qui parliamo di tre possibili regioni a maggiorana forzaleghista, quattro al massimo con il Friuli. L’unico spazio per Maroni potrebbe essere quello di referendum regionali convocati negli stessi giorni in tutte le regioni del Nord.
Però, alla fine, la domanda è sempre quella del titolo: perché il Nord – dopo vent’anni – crede ancora a Berlusconi e Maroni? Per Feltrin «in tutti i paesi moderni esiste un confronto tra una sinistra moderna e una destra moderna, in Italia per molti aspetti ancora no, e in fondo siamo ancora alla dialettica politica di trent’anni fa tra comunisti e anticomunisti, magari aggiornata a pro-Cgil e anti-Cgil. Anche Monti non è riuscito a sciogliere questo a contraddizione».
Per Biorcio «l’aver trovato un nuovo colpevole della crisi in Monti porta voti a Pdl e Lega, ma non so se basterà loro per vincere al Nord. Certo, senza il Nord è difficile governare».

da Europa QUotidiano 15.01.13

«Grillo dica se riconosce l’antifascismo», di Toni Jop

«I casi sono due: o Grillo non coglie che antifascismo e democrazia sono la stessa cosa, oppure vuole solo guadagnare voti e quindi la sua scelta non è commendevole»: Carlo Smuraglia sue queste parole -, presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, è uno dei più tenaci pontieri che stanno cercando di traghettare nel prossimo futuro un Paese dalle mille anime ma solidale attorno ad alcuni principi fondanti per tutti. E l’antifascismo è, per diritto costituzionale tra l’altro, uno di questi principi. Il fatto è che il leader dei 5 Stelle si è in questi giorni meritato l’attenzione allarmata dei democratici italiani, e non solo, per un paio di scivoloni sventurati. Di cui il secondo «allestito» per sdrammatizzare il primo. In un video registrato davanti al Viminale, si vede e si sente Grillo argomentare con i ragazzi di Casa Pound. Qualcuno gli chiede se sia antifascista e lui risponde, pensandoci, «Non mi compete». E poi, offre ospitalità a quei ragazzi nel suo movimento, ché tanto afferma si fa fatica a distinguerli dai Cinque Stelle. Il giorno dopo, sempre Grillo, assediato dalla rabbia di molti dei suoi, tenta di correggere il tiro; precisa di non essere fascista e di non avere simpatie per il fascismo, e tuttavia non cancella il rifiuto dell’ombrello antifascista. Così è andata, male.
In quel rifiuto di Grillo, alla testa di un movimento che si presenta orgogliosamente non ideologico, si può leggere una interpretazione dell’antifascismo che sembra sconfinare nell’ideologismo, da qui quella presa di distanze. Forse.
«Allora sarà il caso di mettere sotto accusa la Costituzione, la nostra democrazia, la nostra quota di libertà. Perché la Costituzione è antifascista nella sua concezione, la democrazia è figlia della liberazione dal nazi-fascismo, la libertà relativa di cui godiamo ce l’hanno conquistata gli alleati, antifascisti, e i partigiani. Non si può non cogliere come la democrazia si sovrapponga nella nostra storia all’antifascismo, collimando perfettamente. Vede, il fatto è che non si può che essere antifascisti se si amano libertà e democrazia. Non se ne esce». Converrà fare i conti con una realtà indesiderata ma incontestabile: davanti alla platea nazionale, in tempo di elezioni, il capo assoluto di un grande movimento rigetta l’ombrello dell’antifascismo… «Purtroppo sì. Sta concorrendo per entrare in Parlamento qualcuno che pensa e dice così. Qualcuno che si pone con forza al di fuori di una concezione unitaria del nostro paese, al di là delle differenze ideologiche e programmatiche, appunto».
Un problema di memoria o, di nuovo, a dispetto delle migliori intenzioni, ideologico? «In questo Paese spesso si tenta di negare il fascismo come esperienza terribile. Questo avviene anche indirettamente, per esempio nei confronti di alcune festività che sembrano di rito solo a chi non ne condivide il ruolo identitario, unificante, non ideologico. Ricordiamo di quando si disse che del 25 Aprile si poteva fare a meno? Ecco che rendere indiscutibile il 25 Aprile significa essere d’accordo che l’atrocità dell’esperienza nazi-fascista non si ripeta. Ecco allora che rifiutare di riconoscersi nell’antifascismo appare una scelta, questa sì, ideologica».
Sotto questa luce, cosa si vede del leader dei Cinque Stelle?
«Non si riesce a definirlo compiutamente. Perché alcuni suoi richiami sono corretti, condivisibili. Ma conta lo sfondo su cui si manifestano. E quello sfondo racconta altro. Per esempio, si intravvede un preoccupante rifiuto della politica al pari di un contatto problematico con la democrazia ai cui principi non sembra ispirato quando risolve a colpi d’accetta i problemi interni alla sua parte. E’ sui “fondamentali” che appare debole e proprio questi contano più di una proposta programmatica».
Dobbiamo arrenderci alla frattura? Già Berlusconi alla domanda se si sentiva antifascista aveva risposto che aveva altro a cui pensare…
«Nemmeno il governo tecnico ha pronunciato le parole che avremmo voluto sentire. Un suo ministro ha provato a cancellare il 25 Aprile per motivi, giurava, economici. Quale cultura promuove una pulsione contabile di questo tipo?» Almeno non siamo soli: non c’è molta attenzione in Europa a quel che sta accadendo in Ungheria e in altre realtà dove razzismo, totalitarismo, antisemitismo cercano di riaffiorare e ci riescono… «Due cose. Nei prossimi giorni, come
Anpi pubblicheremo un manifesto che richiama tutti i competitori elettorali alla necessità di inaugurare un nuovo Parlamento senza pregiudicati ma ricco di etica , di buona politica e saldamente ancorato all’antifascismo. Per quanto riguarda l’Europa, e le sue disattenzioni, intendiamo promuovere incontri tra antifascisti. Una Europa unita e qualificata, finalmente autorevole nel confronto con banche e finanza, non può che passare da qui».

L’Unità 15.01.13

"Bersani: con Monti patto per ricostruire il Paese", di Maria Zegarelli

Messaggi rassicuranti alla Casa Bianca e ai mercati mondiali: Pier Luigi Bersani e Stefano Fassina a poco più di un mese dalle elezioni scelgono il primo il Washington Post e il secondo il Financial Time per dire che il Pd al governo sarebbe affidabile tanto quanto il professore della Bocconi che resta «interlocutore privilegiato». Assicurazioni anche sulle riforme, partire dal quelle del mercato del lavoro e delle pensioni, non farne tabula rasa ma «ritoccarle» sì.
Una scelta politica studiata a tavolino: parlare lo stesso giorno con due diverse interviste a osservatori molto attenti allo scenario politico italiano quali Barack Obama e i mercati finanziari, soprattutto ora che Silvio Berlusconi è tornato in scena e non intende avere un ruolo secondario. «I mercati non hanno nulla da temere, purché accettino la fine dei monopoli e delle posizioni dominati», spiega il leader del centrosinistra, aggiungendo che l’«austerità dei bilanci deve diventare una regola ma in combinazione a politiche di crescita. Noi confermiamo l’austerità ma va accompagnata da una intelligente politica di crescita. È una questione che le forze progressiste stanno discutendo, lo stesso Obama ha chiesto all’Europa che guardi in questa direzione». Stefano Fassina parla all’Europa e assicura: «Non rinegozieremo il fiscal compact o il pareggio di bilancio in Costituzione. Se agissimo unitaleralmente, danneggeremmo il progetto europeo. Noi vogliamo più spazio per una politica fiscale anticiclica, ma a livello europeo».
Il Pd punta a rassicurare le diplomazie internazionali ben sapendo quanto in considerazione sia tenuto il premier uscente e come una sua scesa in campo sia stata caldeggiata anche all’estero. Per questo il leader Pd spiega che in caso di vittoria del centrosinistra non ci sarà un taglio netto con le riforme Monti, «ne aggiungerei delle altre dice applicando o apportando dei correttivi alle sue riforme che, devo aggiungere, sono state condizionate da un parlamento la cui maggioranza era ancora nelle mani di Berlusconi».
Offrirebbe il Quirinale a Monti? chiede il giornalista. «Siamo aperti alla collaborazione la risposta-. Non allo scambio di favori, ma a un patto per le riforme e la ricostruzione del Paese». Il professore, che quando si reca negli studi di Porta a Porta, ospite di Vespa, ha letto l’intervista, dalla domanda sulla possibilità di un governo insieme a Vendola (e quindi al Pd) risponde: «Trovo questi temi interessanti ma prematuri». Aggiunge anche che punta a vincere, che non vuole fare la stampella di nessuno, che ascolterà Bersani e poi si vedrà. Ma al Nazareno notano il cambio dei toni, «da competitor, certo, ma rispettosi e non più aggressivi». E in politica si sa, sono le sfumature a contare.
Nella sua intervista il leader Pd parla dei primi atti che intende portare sul tavolo del governo, a partire da una legge sulla corruzione (tema a cui in Europa e negli States sono molto attenti, soprattutto per gli investimenti nel nostro Paese, ndr), a quella sui partiti fino al tema dei diritti civili dei lavoratori e delle coppie di fatto, etero e omosessuali, e alla cittadinanza per gli immigrati. «Legalità, moralità e diritti di cittadinanza sono la nostra missione», dice nel giorno in cui in Italia si torna a parlare del processo Ruby che vede coinvolto Berlusconi, delle liste con gli impresentabili attorno a cui il Pdl si sta annodando perché proprio alcuni impresentabili sono pacchi di voti sicuri e controllati in regioni come la Campania e la Sicilia. La stampa estera torna a parlarne con sgomento, preoccupazione, divertimento o sufficienza e il rischio è che la credibilità conquistata a fatica nell’ultimo anno vada di nuovo in soffitta. Non a caso l’intervistatore chiede proprio degli scontri tra Berlusconi e Monti. «Berlusconi risponde Bersani è stato il responsabile della caduta anticipata del governo Monti. E a Monti non è piaciuto neanche un po’. Noi abbiamo mantenuto la promessa di sostenere Monti fino all’ultimo, l’abbiamo mantenuta anche se non era facile. Così ora stiamo a guardare».
FRANCESCHINI-ORLANDO
Se il Pd resta a guardare lo scontro tra l’ex premier e quello uscente, tutta altra storia sul fronte elettorale. Ieri Dario Franceschini sulle pagine de l’Unità ha invitato l’ex pm Antonio Ingroia e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando a non presentare le proprie liste al Senato in Campania, Sicilia e Lombardia per non disperdere i voti del centrosinistra rischiano di aprire un’autostrada alla destra in Parlamento. Invito arrivato dopo che in realtà nei giorni scorsi c’erano stati già diversi contatti con Rivoluzione civile, su richiesta dello stesso Bersani, affinché si evitasse di frazionare il voto in quelle Regioni dove difficilmente gli arancioni potrebbero raggiungere l’8%.
Dura la reazione di Orlando: «Franceschini mi ha contattato questa mattina a nome del Pd e mi ha proposto un accordo di desistenza, cioè mi ha chiesto di non presentare le nostre liste in regioni chiave quali la Sicilia, la Campania e la Lombardia. Credo siano molto preoccupati per la continua crescita della nostra lista Rivoluzione civile». La risposta di Franceschini non si è fatta attendere: «Nessuna proposta di patto e nessuna desistenza. Ho fatto una semplice constatazione aritmetica più che politica: per come è fatta la legge elettorale al Senato, nelle regioni in bilico, come Lombardia, Sicilia e Campania, la presenza della Lista Ingroia rischia di far vincere la destra, rendendo il Senato ingovernabile». Secco Enrico Letta: «Nessuna trattativa, nessuna ambiguità». Sul punto Nichi Vendola fa sapere: «Non tocca a me decidere. Il leader della coalizione è Bersani», ma certo aprirebbe al dialogo.

L’Unità 15.01.13

"Destra e sinistra esistono ancora", di Anthony Giddens

Destra e sinistra sarebbero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale italiana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Ciononostante restano due concetti politici profondamente differenti e continuano ad avere un valore specifico anche nell’odierno mondo globalizzato.
La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occidente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatorismo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalismo, in una maggiore regolamentazione del mercato, nel liberalismo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben visibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A sinistra non c’è più l’utopia socialista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, come dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, peraltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.
Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’ambiente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi.
In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distinguono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura verso l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere, respingere le innovazioni, mantenere lo status quo. Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limitati. Ed è portatore di frequenti contraddizioni: vi sono partiti apertissimi quando si tratta di discutere di libero mercato, che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sul tema dell’immigrazione, senza comprendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aperto” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.
La discussione sul presunto superamento di concetti come “destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideologia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di prima, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana
governance
internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta.
Una migliore definizione del confronto politico odierno verterebbe allora su un termine diventato assai popo-lare, seppure utilizzato spesso a sproposito:
reformer.
Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi industrializzati sono fortemente indebitati. Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora sono state indicate e discusse due vie d’uscita da questa situazione: incoraggiare la crescita economica con investimenti pubblici, oppure puntare sul rigore, sui tagli alla spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una parola sull’austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio parere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’overdose e rischi di stare ancora peggio.
E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore europeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa sostenibile. Una ripresa in grado di preservare un
welfare state
che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzi i principali benefici della crescita sullo 0,1 per cento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito. Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere l’ambiente e la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dalla crisi e diventerà più competitivo semplicemente vendendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. Né continuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giovani d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i nostri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.
Come realizzare un’impresa così immane e complessa? Io continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. Lo stesso spirito di quella Terza Via a cui ho dedicato una parte dei miei studi teorici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un progressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico. La Terza Via va perciò adeguata ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato lascia intravedere, non ultima quella di una nuova rivoluzione industriale e tecnologica, che sarà necessaria perché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi sono quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studiosi la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rinsaldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uniti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno scenario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che “destra” e “sinistra” vogliano ancora dire qualcosa.

La Repubblica 15.1.13

"I malati della Ferriera, l'Ilva del Nord-Est", di Adriano Sofri

Luigi Pastore, è nato a Barletta, ha 57 anni, è perito agrario, lavora da operaio alla Ferriera di Trieste da 14 anni, e fino a 4 mesi fa. Perché 4 mesi fa ha scoperto di avere un linfoma di MalT, e quando lo incontro sta per finire un ciclo di chemio “pesantissima”, poi dovrà ripeterla ogni due mesi. “Ho pensato: viene il cancro proprio a me, che sono quello che rompe… Poi ho ripensato che attorno a me i miei amici andavano in pensione e dopo pochi mesi morivano. E guarda che si andava in pensione giovani, per l’esposizione all’amianto. In questi giorni di festa mi hanno telefonato due che lavorano con me: uno ha un tumore al cervello, uno allo stomaco”.

Sono venuto a Trieste spinto da una serie di motivi. È uscita, commissionata dalla Procura, una certificazione sulla diffusione dei tumori polmonari negli anni dal 1974 al 1994 fra i lavoratori della Ferriera: superiore del 50 per cento alla media fuori dalla fabbrica. 300 su 2.142. Una proporzione allarmante. Però è allarmante anche che dati simili vengano compilati (sui documenti Inail e Inps) oggi, e che si aspetti l’analisi epidemiologica che arrivi ai nostri giorni. E la Ferriera sta addosso a Trieste quanto e più dell’Ilva ai Tamburi tarantini.
È difficile capacitarsi di una città piena d’intelligenza e di competenze che abbia lasciato correre per tanto tempo, quando non abbia screditato chi denunciava. Un altro motivo mi ha spinto. A Taranto mi ero sentito ripetere tante volte: “Ci trattano così perché
stiamo qui, in fondo all’Italia: nel nord non avrebbe potuto succedere”. Non è vero. Sono equanimi, sfruttatori e inquinatori. Succede a Seveso, a Mantova, a Brescia, a Casale… Succede a Trieste.

La Ferriera, già Italsider, poi Pittini, poi Lucchini e Rubashov, poi delle banche, è oggi affidata a un commissario governativo, Piero Nardi. Racconta Pastore: “Ho lavorato in cokeria, altoforno, qualità, e da ultimo al parco ghisa. Il mio linfoma, guarda, non fumo da 15 anni, vita regolare, i dottori dicono che non hanno la prova ma il MalT non è da fumo, io penso alle diossine emesse alla qualità, sotto il camino 5. L’Inail mi ha riconosciuto la malattia professionale, prima la broncopatia, ora il linfoma. E non è facile, tutti badano all’economia. La loro economia: nessuno che pensi che la mia chemio costa 13 mila euro. Gli operai sono anche strani, hanno paura di farsi le visite per non scoprirsi malati. Io appena avuta la mia diagnosi ho fatto una specie di comunicato”.

Ogni posto così ha un matto fissato. Qui si chiama Maurizio Fogar, è l’animatore del Circolo Miani. È ascoltato dagli uni, inviso agli altri: “Un allarmista”, “Con lui non si può parlare: ripete sempre le stesse cose”. È vero, è una Cassandra, ripete da quindici anni che la Ferriera va chiusa, che sta lì solo per speculare e far ammalare, sospetta ovunque complicità o omissioni, deride “esperti” che scambiano il benzene col benzopirene. Solo che, alla luce dei fatti – la Ferriera ridotta da 2 mila a 450 dipendenti, e vicina a spegnersi, senza un serio piano di bonifica e conversione, la Sertubi fallita, l’allarme sulle malattie, soprattutto infantili – forse aveva ragione, con la sua fissazione.

A Trieste ha vissuto un medico (e scrittore) illustre e generoso, Renzo Tomatis, che diresse il Centro tumori di Lione – e vi morì nel 2007. Ricorda fiero Fogar: “Nella sua ultima uscita, era in pensione, parlò della salute a Trieste al Circolo Gerbec a Servola: ‘Siccome vedo in sala Maurizio Fogar, colgo l’occasione per scusarmi per il colpevole ed omissivo comportamento dei miei colleghi sul dramma della Ferriera in tutti questi anni…'”.

La differenza fra Taranto e Trieste sta nelle dimensioni: non delle città, che si somigliano e si assottigliano allo stesso modo precipitoso, ma delle fabbriche. L’Ilva ha 12 mila dipendenti, e quasi 20 mila con le ditte, la Ferriera 450, e un migliaio sì e no con le ditte. E poi la magistratura: a Taranto ha preso in mano il destino cittadino, a Trieste no. Quando le denunce hanno avuto un seguito, il reato perseguito era l'”imbrattamento”, passibile di una contravvenzione, come le scritte murali di Mario che ama Maria. (Nel 2010 furono bensì arrestati dirigenti della Ferriera Lucchini, e sequestrata una discarica abusiva di 360 mila tonnellate di rifiuti speciali e tossici, che interrano un vasto tratto di mare: ma l’iniziativa veniva dalla Procura di Grosseto).

Li trovo, Fogar e gli altri, davanti a un supermercato a ridosso della Ferriera, con le scatole da scarpe, chiedono di sottoscrivere un euro. In capo a tre giorni ne avranno raggranellati 800, buoni per le bollette più incombenti. Sono militanti inusuali, un medico, un’impiegata comunale, un operaio, un poliziotto, una maestra, un ufficiale marittimo. E Mario, ex postino, fuoruscito da due tumori, che andò a Roma a fare le selezioni da Bonolis e cadde alla domanda se Madonna avesse mai cantato in italiano: voleva dire no, disse sì, e tornò indietro, senza la vincita che avrebbe devoluto al Circolo.

Il Circolo sta in uno stanzone sul tetto, dal quale si domina – per così dire – la fabbrica, se ne fronteggiano fumi e vapori colossali, si spazza la polvere nera – “imbrattamento” – si guardano i bambini dell’asilo nido che giocano nel cortile. Si vedono anche i camini del cementificio e dell’inceneritore, tutti vicini, e il tratto di mare nel quale si vorrebbe piazzare un rigassificatore, a completare l’opera – ne ha scritto per Repubblica Paolo Rumiz. Fa freddo, le discussioni si fanno coi cappotti indosso, c’è un gran disordine di libri e ritagli, ma anche due piccoli acquari di pesci benvoluti. Fogar non smette mai di ricordare inesorabilmente date, episodi, dichiarazioni. La siderurgia è da tempo solo un pretesto, dice: l’acciaieria trasportata in Russia nel 2004, altoforno e cokeria servono solo a giustificare la Centrale di cogenerazione che utilizza i gas di risulta e, grazie alle agevolazioni “ecologiche”, vende l’energia elettrica a tre o quattro volte il prezzo ordinario, a spese del consumatore.

Una siderurgia che si morde la coda: esiste per produrre gas nocivi che siano impiegati a generare energia da vendere a tariffe maggiorate perché ha impiegato i gas nocivi. È l’affare che protrae l’esistenza della Ferriera, oltre a un altro regalo colossale, il privilegio di usare la banchina non solo per il carico e scarico di minerali, ghisa e coke, ma per terzi: un porto in concorrenza, la più conveniente, col vero porto, anche lui in piena crisi. Oltre che il serbatoio di voti, sempre più striminzito, ma ancora capace di far gola in una città in cui il lavoro agonizza.

Ma a questo punto la manovra politica è un esercizio di equilibrismo: promettere la continuazione della produzione e la sua cessazione, il lavoro e la salute, non insieme, ma spartiti, il lavoro agli uni e la salute agli altri, e peggio per tutti. A stare al ministro Clini – il quale ha dato un ultimatum di un mese per mettersi a norma, e se no dismissione: il mese è già passato – la Ferriera dovrebbe chiudere da un momento all’altro. (A proposito: Clini si specializzò in medicina del lavoro con una tesi sulla cokeria triestina).

Pastore: “Credi a me, a norma non c’è nemmeno un bullone. L’Italia ha bisogno di siderurgia, ma pulita. Questa è finita: e non è che la chiudano le istituzioni, come avrebbero dovuto, si spegne da sola, per esaurimento, e questa fine mi turba. Hanno raschiato il fondo del barile, e se ne vanno per non pagare le bonifiche. Non le farà nessuno. Io sono in malattia, ma sono tuttora Rsu, ho fatto il mio dovere. Ti faccio un esempio: si portavano le tute a casa, le mogli che le lavavano potevano ammalarsene. Ho ottenuto il lavaggio alla cokeria, poi agli altri reparti e alle ditte esterne. Non è vero che gli operai non segnalano le cose che non vanno.

Io non le segnalo a voce, e anche quando fu introdotto un modulo dall’azienda, in mano all’operaio restava solo uno scontrino, io facevo la copia della denuncia e la faxavo. Voglio rientrare per controllare che le cose siano a posto: col commissariamento vanno via le ditte, gli operai dovranno fare anche il loro lavoro, la fabbrica diventerà più pericolosa. Già, come diciamo noi, mettevano il fil di ferro, ora taglieranno corto”.

La Repubblica 14.01.13