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La prima volta

“Giovedì ‘prossimo, prima della presentazione delle liste, apriremo la campagna elettorale. Lo faremo a Roma nell’incontro con i giovani che votano per la prima volta alle elezioni politiche. Faremo in modo che nelle prossime settimane la campagna elettorale non sia fatta di politicismi o di cabaret, come si è visto largamente fin qui. Insieme a ragazzi e ragazze diremo chiaramente e concretamente in quale Italia vogliamo vivere nel futuro.

Prima di ogni altra cosa vogliamo o no un’Italia dove ci sia moralità pubblica, sobrietà e rigore della politica, cultura dei diritti? Cominceremo da questa domanda, ci prenderemo i nostri impegni precisi e chiederemo agli altri se e come intendano prendersi i loro impegni. Noi, nel primo giorno di governo, ad esempio, daremo cittadinanza ai figli degli immigrati, proporremo una legge sui partiti, sulla trasparenza degli atti pubblici, sulle incompatibilità; proporremo norme contro la corruzione come il falso in bilancio e l’autoriciclaggio. Prenderemo dunque le mosse dalla riscossa civica e morale. E ad ogni passo della campagna elettorale avanzeremo via via le nostre proposte sui problemi della vita reale degli italiani. Per l’Italia giusta.” Lo annuncia Pier Luigi Bersani candidato premier del centrosinistra.

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"Pdl in risalita. Ma il Pd è avanti di dodici punti", di Carlo Buttaroni

L’ultimo sondaggio di Tecnè per Sky Tg 24, effettuato all’indomani dell’intervista di Michele Santoro a Silvio Berlusconi, registra un incremento del Pdl e un contestuale calo dei consensi al Pd e alla lista Monti. Un effetto B, quindi, effettivamente c’è stato. Nel complesso la coalizione di centrosinistra è diminuita dello 0,8%, lo schieramento che fa riferimento a Monti dell’1,3% mentre Pdl e alleati sono cresciuti dell’1,6%. Nel complesso si accorciano le distanze tra il centrosinistra e il centrodestra ma i rapporti di forza rimangono sostanzialmente invariati, con quasi 12 punti percentuali che distanziano la coalizione di Bersani da quella di Berlusconi. Per il 42,5% degli intervistati sarà, comunque, la coalizione di centrosinistra a vincere le elezioni, mentre solo il 18,3% assegnerebbe, oggi, la «maglia rosa» a Berlusconi e il 17,4% a Monti. Insomma il tempo resta buono dalle parti del centrosinistra. Anche se tutto può ancora accadere e ciò che è interessante notare, nel sondaggio di Tecnè per Sky, è proprio come alcuni fatti influenzino, più di altri, gli orientamenti politici degli elettori.
Come tutti i fenomeni sociali, infatti, gli avvenimenti politici producono effetti che hanno un’intensità e una durata. Soprattutto quelli che trovano un’accelerazione nella comunicazione politica che tende a scendere in profondità.
La variazione misurata dal sondaggio (+1,6%) a favore del centrodestra è tanto o poco? La risposta a questa domanda dipende dall’unità di misura che si sceglie. Se la scala temporale è breve, l’oscillazione è indubbiamente indicativa di un fenomeno di grande intensità. Se si allunga la scala e l’unità di misura è in settimane, anziché in giorni, il fenomeno, molto probabilmente, tenderà a stabilizzarsi su valori diversi. Su quali valori, però, lo sapremo solo in seguito.
Bisogna tenere presente, però, che la variazione delle percentuali, in questo momento, non deriva dagli spostamenti da un partito all’altro o da una coalizione a un’altra, ma dai flussi da e per l’area dell’astensione e dell’incertezza. Gli elettori che più si muovono in quest’ambito sono prevalentemente poco informati, meno attenti alle vicende politiche quotidiane e meno influenzati da fatti specifici. Molti di loro probabilmente non hanno visto la trasmissione con Berlusconi e non hanno letto i giornali che hanno dato ampio spazio all’evento. Sono più sensibili al clima d’opinione generale. E nel mutamento del clima di questi giorni hanno avuto un ruolo gli elettori più attenti e i militanti di centrodestra, nei confronti dei quali la performance del leader del Pdl ha avuto sicuramente un effetto mobilitante.
Da quanto questi ultimi sapranno rendere favorevole il clima sociale intorno a Berlusconi dipende il punto di caduta finale in termini di consensi. Nel frattempo, però, altri fatti caratterizzeranno la campagna elettorale. Alcuni saranno meno importanti, altri lo saranno persino di più. Il monitoraggio quotidiano dell’opinione pubblica è particolarmente interessante proprio perché registra le oscillazioni in uno scenario in costante evoluzione.
IL VANTAGGIO DI BERSANI
In questo contesto bisogna anche tenere presente che la distribuzione dei pesi politici sul mercato elettorale non è ancora definitiva. Man mano che ci si avvicina alla data del voto è probabile assistere a un riequilibrio dell’articolazione dei consensi più vicina ai valori che tradizionalmente sono espressi nel nostro Paese. E il calo del centrosinistra sembra iscriversi proprio all’interno di questa dinamica. La coalizione guidata da Bersani per mesi ha fatto registrare un vantaggio molto ampio nei confronti del centrodestra. Ma ciò era determinato anche dalla crisi politica del centrodestra e dall’essere il centrosinistra l’unica vera offerta politica in campo. Oggi si registra una flessione in termini relativi perché la fase espansiva dei consensi ha fatto registrare un picco nei giorni delle primarie, mentre l’area d’incertezza e astensionista era rappresentata prevalentemente da elettori di centrodestra. Ora una parte di questi elettori sta rientrando nel mercato elettorale, assestando progressivamente i rapporti di forza tra i partiti su valori più simili a quelli registrati in altre elezioni, seppur con significative variazioni a favore del centrosinistra.
Ma proprio la lettura di queste dinamiche ripropone l’anomalia di un sistema politico che ancora non trova un punto di equilibrio. Si presenta apparentemente come una competizione tripolare tra una sinistra, un centro e una destra ma in realtà è un bipolarismo in apnea, subordinato alla «competizione nella competizione» tra Mario Monti e Silvio Berlusconi per la leadership del centrodestra. Da una parte il centrosinistra di Bersani rende fluida la sua offerta di governo, anche in virtù del primato di consensi che tutte le indagini gli attribuiscono da molti mesi a questa parte. Nel centrodestra (e nel centro) la scelta di un’opzione di governo, invece, lascia il posto al proposito di impedire che ci sia «un vincitore».
In questo complesso confronto le strategie comunicative richiamano indirettamente le parole di McLuhan. Per il grande sociologo canadese il messaggio non sta soltanto in ciò che si trasmette, ma anche in come si trasmette. E la comunicazione di questa fase pre-elettorale esalta la sopravvalutazione del mezzo, che finisce per rappresentare il messaggio stesso. Peraltro, l’evocazione di un possibile stallo di sistema suona anche come un avvertimento: votare potrebbe avere come effetto «nessun governo». Oppure, detto in altre parole, votare potrebbe servire soltanto a definire un equilibrio da spendersi, a tempo debito, nel futuro Parlamento. Cioè al di là del voto. Questa alterazione del paesaggio politico, dove si svolge la competizione elettorale, ha inevitabili conseguenze anche nell’area dell’incertezza e dell’astensione che, infatti, continua a rimanere insolitamente alta.
STRATEGIE COMUNICATIVE
Per quasi cinquant’anni la comunicazione politica ha avuto, in primo piano, gli orizzonti della società. Democrazia, lavoro, classi sociali, diritti, doveri, libertà di mercato, meriti, bisogni, solidarietà sono state parole alcune in sintonia, altre in conflitto che evocavano grandi matrici dell’immaginario collettivo, rappresentando le tensioni ideali del secolo scorso. Oggi di quelle parole non c’è che una vaga traccia. Ma sembrano eclissate anche le suggestioni e le promesse (per lo più irrealizzate e irrealizzabili) che hanno caratterizzato la comunicazione politica della seconda Repubblica. Al loro posto prevale l’ineluttabilità di un governo che forse non ci sarà. Lo show dell’«impatto zero» sugli assetti istituzionali ha preso il sopravvento. È naturale che, con questi paradigmi, il messaggio politico non abbia più bisogno di contenuti concettuali. Ci si può affidare solo a elementi extraverbali. Non contano gli argomenti, ma il modo in cui si è capaci di rendersi convincenti. Non quello che si dice, ma come si dice.
Ecco perché, in questa campagna elettorale, si usa un vocabolario di base, colloquiale, non ricercato, molto sfumato, che ha la sua metafora perfetta in una coalizione politica, quella di centrodestra, che ha un leader di riferimento ma molti candidati premier al suo interno. Anche le frasi sono ripetute spesso e più volte, perché la ripetitività è l’unico modo per memorizzarle senza perimetri definitivi. Soprattutto senza orizzonti.

L’Unità 14.01.13

«La battaglia è tra Bersani e il Cav Non un solo voto va sprecato», di Maria Zegarelli

«Noi dobbiamo dire agli italiani di non sciupare il voto. In Regioni come la Lombardia, il Veneto, la Campania e la Sicilia, dare un voto di protesta equivale a dare più forza alla destra». Dario Franceschini, capogruppo uscente del Pd alla Camera, guarda al concreto: puntare tutto sulle Regioni in bilico, dove lo stesso candidato premier Pier Luigi Bersani ha annunciato che intende mobilitare oltre centomila volontari, per raggiungere quella maggioranza che metterebbe il centrosinistra al riparo. «Poi, una volta superato il 51% dei seggi, resta ferma la nostra volontà di aprire il confronto con i moderati». Franceschini, Monti sembra aver moderato i toni contro il Pd. La legge come un’apertura in vista del dopo voto? «Non penso che dobbiamo fare una campagna elettorale guardando a cosa dicono Monti o gli altri. Noi abbiamo la responsabilità di indicare al Paese un programma, una strada e delle persone, poi saranno gli elettori a dire se avremo o no una maggioranza. E saranno sempre gli elettori a indicarci se ci saranno le condizioni per allargare la maggioranza alle forze moderate diverse da Silvio Berlusconi e la Lega». Però i numeri sono quelli. Al Senato, con il Pdl in rimonta, è dura per il centrosinistra.
«Con questa legge elettorale ci sono delle Regioni determinanti in cui si gioca la possibilità di avere la maggioranza in Senato. Quindi noi è lì che dobbiamo vincere ed è in quelle Regioni, più che in altre, che dobbiamo spiegare agli elettori che un voto di protesta dato a Grillo o ad altri rischia di far vincere la destra, è un fatto di aritmetica, non di politica. Per questo continuo a sperare che Ingroia e Orlando rinuncino a presentare la loro lista almeno in Campania, Sicilia e Lombardia». Casini oggi è tornato su un punto a lui molto caro: Bersani sarà premier soltanto se avrà la maggioranza in entrambe le Camere. È solo un gioco delle parti o si rischia davvero l’impasse su questo se il voto non vi dovesse premiare in Senato? «È un discorso un po’ arretrato. Casini, e soprattutto Monti, presentano questa area come un’area europea che fa riferimento al Ppe. Ben venga perché se in futuro la parte conservatrice del Paese fosse rappresentata da Monti e Casini e non da Berlusconi e la Lega, arebbe un passo avanti. Ma visto che si rifanno all’Europa, mi citino un Paese in cui il capo del governo non diventa il capo del partito più grande, quello che vince le elezioni. A nessuno viene in mente che il leader lo esprima il partito più piccolo anche se determinante per governare».
Altro ostacolo sul cammino dell’intesa arriva sempre da Casini: si dice assolutamente incompatibile con Vendola. «Questo argomento di Vendola fa soltanto sorridere. Noi abbiamo tagliato i ponti con le ali estreme inadatte alla cultura di governo: prima con i vari Ferrero e Diliberto, ora con Di Pietro e Ingroia. Vendola, inoltre, rappresenta un’area di sinistra di governo e utilizzarlo come uno spauracchio vuol dire essere a corto di argomenti. Che poi lo dica Casini, che ha governato con Storace, Bossi e la Santanché è singolare». Però da quello che dice un problema con Vendola c’è. Non si deve dialogare con Ingroia, come sostiene il vostro alleato, nel caso ci fosse bisogno di allargare al Senato?
«Io registro i toni usati da Ingroia e l’ineleganza di un passaggio così repentino da un’indagine delicatissima come la trattativa Stato-Mafia ai riflettori della politica. A Vendola voglio dire una cosa: noi dobbiamo puntare all’autosufficienza affinché l’allargamento sia semmai oggetto di una scelta politica e non di un’esigenza numerica». Berlusconi sembrava un leader ormai tramontato, invece torna e fa sentire tutto il suo potere. Sarà ancora una volta scontro tra Berlusconi e Pd?
«L’errore più grande non è tanto sottovalutare Berlusconi, le sue capacità comunicative e l’uso della televisione, anche se è uno schema logorato. L’errore più grande è pensare di avere la vittoria in tasca e mettersi a ragionare su cui occupa quale ruolo, chi fa il ministro e chi il sottosegretario. Non dimentichiamoci cosa è successo nel 2006 quando il centrosinistra sembrava for- tissimo e poi ha vinto per una manciata di voti. Bisogna spiegare agli elettori che con il Porcellum si vince con un voto in più e gli italiani devono decidere se questo Paese lo governa Bersani o Berlusconi».
L’astensionismo scende ma è ancora molto forte. Il voto utile è un argomento, ma cosa farà la differenza in questa campagna elettorale del centrosinistra? «La protesta e la delusione sono elementi comprensibili, hanno radici in scelte sbagliate, in comportamenti intollerabili in parte di alcuni gruppi dirigenti, ma il Pd, ha preso posizione mondo chiaro in fatto di moralità, trasparenza e rinnovamento. Quello che vogliamo dire agli elettori, però, è che in queste elezioni si fanno scelte di campo anche per il futuro del Paese. Noi vogliamo occuparci prima di tutto delle fasce più deboli, quelle che non ce la fanno ad aspettare qualche anno che la crisi passi perché non hanno più soldi per mangiare, per vestirsi, tanto meno per concedersi un giornale o un libro. La destra a quelle persone dà un altro messaggio: “arrangiatevi fino a quando non torna la crescita”. I programmi politici della destra e del centrosinistra hanno due filosofie diversissime su questo».
Lei parla di destra e sinistra. Monti dice, “Dio ce ne scampi”. Ma sono davvero superate queste categorie politiche? «Monti dovrebbe conoscere il mondo, non usi questi argomenti da propaganda di secondo livello. Quale è il Paese in cui non c’è l’alternativa tra destra e sinistra o, se vuole, tra progressisti e conservatori? Monti non può pensare che in Italia sia diverso solo perché c’è lui».
Un Monti così d’attacco, soprattutto con il Pd che lo ha sostenuto, lei se lo aspettava?
«Non mi sarei aspettato una sua scesa in campo per una parte ma soprattutto non mi sarei aspettato questa scelta così inelegante del suo nome sul simbolo, per il resto è evidente che in campagna elettorale i toni cambiano».
Il cambio di tono dell’altro giorno, più conciliante con il Pd, secondo molti di- pende dal fatto che i centristi, come i democratici, iniziano ad avere paura della forza di Berlusconi che cresce nei sondaggi.
«Farebbero male a non essere preoccu- pati perché è chiaro, come accade del resto in tutti i Paesi del mondo, che la battaglia sarà tra due contendenti: progressisti conservatori, cioè Bersani-Berlusconi. Poi, l’apertura a Monti-Casini può essere un’eventualità. La sfida non è a tre è a due».

L’Unità 14.01.13

"Wall Street: largo ai giovani costano meno", di Francesco Guerrera

C’è un bar, non lontano dalla borsa di New York, verso la punta sud di Manhattan, che i veterani della finanza americana chiamano «il cimitero di Wall Street». È il locale dove, per tradizione, chi viene licenziato dalle banche d’affari va a bere con ex-colleghi e rivali. Un martini o tre per dimenticare i fallimenti dei mesi precedenti e trovare il coraggio di sperare in un futuro migliore.

È un posto come tanti, con pannelli di legno sui muri, poltrone un po’ fané e birre abbastanza decenti. Un pub qualunque amato proprio perché ordinario, banale e poco appariscente. Anzi, nel patto di omertà che accomuna i lavoratori di Wall Street, nessuno può rivelarne il nome (e non sarò certo io ad interrompere la tradizione).

Sono stato lì di recente a «celebrare» il licenziamento di un amico e c’era qualcosa di strano tra gli avventori seduti al bancone aggrappati alle loro pinte: erano tutti più vecchi del solito.

Non me ne resi conto allora, ma quei quarantenni e cinquantenni senza lavoro erano parte di un cambiamento generazionale senza precedenti nella manovalanza della finanza americana.

Negli ultimi mesi, grandi banche d’affari quali la Goldman Sachs, la J.P. Morgan e la Morgan Stanley hanno annunciato centinaia di migliaia di licenziamenti. Fino a qui, niente di nuovo: l’industria bancaria americana è abituata a periodi bui in cui i posti di lavoro scompaiono come neve al sole.

La differenza questa volta è che a ricevere il benservito non sono i giovanotti di belle speranze ma gente con 15-20 anni di esperienza. Le banche lo hanno detto più o meno esplicitamente: stiamo tagliando il personale più costoso, quelli con decenni di salari enormi, pensioni e altri benefits. Senza nemmeno rimpiazzarli.

Morgan Stanley, per esempio, questa settimana ha detto che «lascerà andar via» – l’eufemismo preferito dagli americani quando si parla di licenziamenti – 1.600 persone. Ma allo stesso tempo ha annunciato che il numero di banchieri promossi a «managing director» – il rango più alto della sua gerarchia – sarà il più piccolo dal 2009.

E Goldman Sachs, che ha già licenziato 1.000 persone oltre al «solito» taglio annuale del 5 per cento dei dipendenti meno produttivi, ha fatto lo stesso. Il numero di promozioni al rango di «partners» – la posizione più elevata e redditizia che un banchiere può raggiungere a Goldman – è stato il più basso in più di un decennio.

Non solo. Le mie spie a Goldman mi dicono che i capi della banca hanno «incoraggiato» decine di partner più anziani ad andare in pensione quest’anno.

A cosa è dovuta questa trasformazione così repentina? I tempi, come cantava Bob Dylan nell’indimenticabile «Times They are a-changin», stanno cambiando.

Il determinismo darwiniano di Wall Street ha sempre dettato che fossero i più giovani ad essere licenziati, gli sbarbatelli con pochi anni di esperienza che non erano in grado di giocare allo stesso livello dei «pros» – i professionisti con i capelli grigi.

Con l’ironia un po’ macabra che è propria del mondo della finanza, gli abitanti del Sud di Manhattan avevano persino coniato un acronimo per spiegare il fenomeno: LIFO – «last in, first out». Chi entra per ultimo esce per primo.

L’idea, non sbagliata, era che i cicli da montagne russe della finanza – boom, crisi, ripresa boom, crisi ecc. – obbligavano le banche a tenere i «grandi produttori», i banchieri e operatori con Blackberry pieni di nomi di capitani di industria ed investitori. Pagarli per un paio di anni di vacche magre valeva la pena – ragionavano i manager di Wall Street – perché l’inevitabile ritorno del boom li avrebbe resi indispensabili.

Cosa fare, però, se il ritorno del boom non è più così inevitabile? Il trauma della crisi del 2008-2009 e la risposta di governi e autorità di settore ha cambiato in maniera fondamentale il gioco della finanza.

Con l’economia globale sull’orlo della recessione, regole sempre più dure sul capitale, ed un mondo delle imprese paralizzato dall’incertezza, l’imperativo per banche di tutto il mondo è controllare i costi perché non si sa bene quando le entrate ricominceranno ad aumentare.

«È possibile – mi ha detto il mio amico licenziato nel bar segreto – che questo non sia un ciclo ma un ribasso permanente nella crescita dell’industria finanziaria».

Se ha ragione – e come lui la pensano in molti – le banche non si possono permettere di pagare 5 milioni di dollari all’anno a uno che ha esperienza ma non è in grado di produrre entrate commensurate al salario. A quel punto, è meglio dire: «largo ai giovani», con l’importante chiosa, «perché costano meno».

Uno dei capi delle banche d’affari di Wall Street mi ha spiegato l’equazione. «Se riesco a pagare il 50 per cento di meno uno che fa 60-70 per cento del lavoro di un veterano che licenzio, risparmio soldi e riesco a sopravvivere».

Il rischio è ovvio e non solo per le banche ed i loro azionisti. Senza i capelli grigi, e l’esperienza di chi non è «al primo rodeo» come dicono in Texas, c’è il pericolo che la qualità del prodotto soffrirà».

In un’industria in cui il «prodotto» è, essenzialmente, il cervello di chi ci lavora, l’idea di avere un manipolo di giovani intelligenti ma ingenui nella stanza dei bottoni non è proprio ideale. Soprattutto quando sono responsabili per miliardi e miliardi di dollari di fondi d’investimento, risparmiatori e governi.

«Impareranno», mi ha detto un altro vecchio banchiere, che è andato in pensione quest’anno senza tanti rimpianti. «Alla fine, non è che noi veterani abbiamo proprio fatto un ottimo lavoro negli ultimi anni».

È certamente vero che l’industria finanziaria attrae plotoni e plotoni di giovani di altissima qualità intellettuale – gente «rubata» alla fisica, la scienza e le arti umanistiche per via dei salari giganteschi pagati da Wall Street.
E non c’è dubbio che i cosiddetti «pros» della finanza si siano comportati come un gruppo di incompetenti dilettanti nel boom prima della crisi.

Ma giocare con i soldi, soprattutto i soldi altrui, è giocare col fuoco e l’esperienza e i contatti qualcosa contano.
Facciamo, senz’altro, largo ai giovani ma non dimentichiamoci dove possiamo trovare i veterani, se ne avessimo bisogno: in un piccolo bar all’ombra della Borsa.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

La Stampa 14.01.13

Gotor: "Sostenere che destra e sinistra non esistono è tipico della destra"

«Non bisogna avere paura di Silvio Berlusconi. Bisogna avere rispetto per la persona e per il potere che ancora ha». Così come «non bisogna dare affatto per scontata la vittoria del centrosinistra alle prossime elezioni politiche». Mai banale Miguel Gotor, storico, capolista per i democratici in Umbria per il Senato, voluto in squadra dal segretario Pier Luigi Bersani. Paura no, ma grande preoccupazione sì.

Se l`aspettava questa rimonta del Cavaliere?

«La sua influenza permane ancora forte sia nelle reti di sua proprietà che alla Rai, ma Berlusconi ha anche grandi capacità di mobilitare il proprio elettorato. Questa idea della presunta rimonta risponde a un orizzonte di attesa da parte del mondo della comunicazione che deriva dal fatto che c`è il desiderio, implicito e esplicito, di riproporre lo schema del 2006: un`anatra zoppa costituita dalla coalizione di centrosinistra».

Però è un fatto che non intende mollare la presa e i sondaggi gli danno ragione.

«Il suo obiettivo è soprattutto quello di crearsi una propria pattuglia di parlamentari scelti da lui e di massima fiducia: questo è il motivo per cui ha fatto di tutto per non cambiare la legge elettorale e tenersi il Porcellum. Per continuare a tutelare i suoi interessi non aveva senso appaltare la sua creatura ad altri».

Quanto è dura la sfida per il centrosinistra al Senato stando così le cose?

«Io non appartengo alla categoria degli ottimisti a prescindere. Penso che ci sarà un successo ma richiederà un grande impegno da parte nostra, così come accade in tutte le democrazie occidentali. Il modo peggiore di affrontare questa battaglia è di pensare che la vittoria sia certa e il fatto che lo pensi la maggior parte dell`opinione pubblica rientra in quello schema del 2006, quando c`era la coalizione guidata da Prodi data per favorita e alla fine si scoprì un Berlusconi in piena rimonta. Il problema è che siamo un po` pigri e tendiamo a guardare il presente con le lenti del passato. Il Berlusconi del 2013 è giocoforza diverso da quello del 2006, del 2001 o del 1994, ma noi continuiamo a guardarlo come fosse sempre uguale a se stesso. Intorno a noi però l`Italia è cambiata».

E lei come lo vede il futuro sulla base di questo diverso presente?

«Prevedo una campagna elettorale combattuta, senza particolari differenze dalle campagne elettorali tedesche, francesi e americane: siamo tendenzialmente polarizzati anche se alla luce dei processi politici messi in atto a tutt`oggi vedo la coalizione di Bersani favorita».

Si riferisce alle primarie?

«Le primarie per la leadership sono state un primo processo di partecipazione democratica che ha permesso a milioni di italiani di scegliere il proprio candidato. Poi, ci sono state quelle per i parlamentari e questi sono i due fatti che costituiscono il cuore della proposta politica di Bersani: “siamo persone serie che fanno quello che dicono”. Il Pd, restando in vigore il Porcellum, ha fatto scegliere ai cittadini italiani, e non solo ai suoi iscritti, i propri parlamentari, nonostante il poco tempo a disposizione. Si è trattato di un`iniziativa civica che ci ha dato buona salute ma non per questo possiamo stare tranquilli».

Tanto che in questo schema il centro montiano sarà inevitabilmente l`ago della bilancia.

«Questo lo si dirà solo alla conta dei voti, certamente il tipo di legge elettorale rende possibile una maggioranza instabile al Senato, o quantomeno da formare. Ma al di là di questo aspetto c`è una riflessione dal punto di vista strategico che Bersani fa da quando è stato eletto segretario: il Pd ha il compito di essere il perno riformista di una coalizione di centrosinistra che deve rinunciare a ogni atteggiamento settario o pretesa di autosufficienza. Lo dice dal 2009 e non è colpa nostra se qualcuno se ne accorge solo ora: essendo consapevoli della gravità della crisi italiana, non solo economica ma anche etico-civile, sappiamo che è necessario un atteggiamento dialogante con tutte quelle forze di centro, moderate, di segno costituzionale ed europeista. Noi dobbiamo sconfiggere tutti i populismi, quelli vecchi di Berlusconi e della Lega; quelli nuovi, di Grillo e quelli giustizialisti alla Di Pietro e ora alla Ingroia. Non so se ce la faremo ma è l`obiettivo della nostra coalizione».

Monti è tornato sulla divisione tra destra e sinistra. Ha detto: «Dio ce ne scampi». Lei che ne pensa?

«Noi dobbiamo scampare dal trasformismo, dall’elitarismo e dalla presunzione che le carte in democrazia si distribuiscono per grazia ricevuta. Non funziona così. Destra, centro e sinistra sono categorie che esistono in tutte le realtà occidentali. Chi sostiene che non ci sono più, o non devono più esserci, sta facendo un discorso tipico della destra liberale. Negare la distinzione vuol dire confondere le idee, nasconderne le differenze, per mettere gli uni e gli altri nel mucchio del “tutti uguali”. Il riformismo non è una categoria neutra in quanto esistono riforme di destra e di sinistra, ma questo gli italiani lo sanno. La nostra è una proposta larga e generosa di carattere popolare e riformista incentrata sul lavoro e su una maggiore giustizia sociale e quanto più riuscirà ad affermarsi tanto più l`Italia intorno a Bersani riuscirà a riprendere forza civica e slancio economico. Questa è la nostra sfida».

L’Unità 13.01.13

Modena – Circolo Buon Pastore – Apertura campagna elettorale

SABATO 19 GENNAIO ORE 16,00
AL CIRCOLO BUON PASTORE
APERITIVO DI APERTURA DELLA CAMPAGNA ELETTORALE
CON MANUELA, MARIANGELA, IVANO E GIULIANO

Apriamo la campagna elettorale con

Manuela Ghizzoni
Mariangela Bastico
Ivano Miglioli
Giuliano Barbolini

per dire che noi siamo orgogliosi del lavoro fatto da chi in tanti anni in Parlamento ha espresso passione e competenza.
Grazie per il vostro impegno e con la necessaria chiarezza diciamo che noi non siamo uguali a tanti altri e che, grazie alla nostra assidua presenza in Aula e nelle Commissioni, siamo riusciti ad impedire o ridurre tante scelte inique e produrre non poche innovazioni legislative.

E adesso siamo pronti a governare il Paese,

“L’Italia ce la farà, anche se la situazione è pesante.
Il 2013 sarà l’anno più acuto della crisi sul versante sociale,
ma noi saremo positivi e metteremo il segno più dove c’è il segno meno.
Lo faremo senza raccontare favole, dicendo la verità e troveremo la nostra forza nel civismo.
Il tema della legalità in particolare è un campo di riforma attorno al quale costruiremo la nostra politica di governo” Pier Luigi Bersani

Bersani «Confronto in tv con Berlusconi? Se è lui il candidato premier», di Simone Collini

Annuncia l’ordine del giorno del suo primo Consiglio dei ministri in caso di vittoria e sfida Silvio Berlusconi a dire se è o no lui il candidato premier del centrodestra. Pier Luigi Bersani si prepara all’apertura della campagna elettorale, al teatro Ambra Jovinelli di Roma, giovedì, insieme a un gruppo di ragazzi che voterà per la prima volta, e prova a stanare il leader del Pdl sul nodo dell’alleanza con la Lega, che regge soltanto grazie a un escamotage ormai neanche più troppo mascherato.
Il segretario del Pd sa che per ottenere la maggioranza anche al Senato saranno determinanti le sfide di Lombardia e Veneto, dove il centrosinistra potrebbe non prendere il premio di maggioranza soltanto se regge l’accordo siglato tra Berlusconi e Roberto Maroni. Accordo che prevede l’indicazione del leader Pdl come capo della coalizione (è obbligatorio indicarlo al momento in cui si depositano simboli e apparentamenti) lasciando invece l’incognita su chi sia il candidato premier (la Lega punta su Giulio Tremonti). Così, nel giorno in cui Berlusconi fa sapere che vuole fare il confronto televisivo soltanto con Bersani, il segretario Pd fa filtrare che sarebbe ben felice di raccogliere la sfida, a patto che finiscano le ambiguità: «Il confronto tv si farà solo con i candidati premier. Ma chi è il candidato del premier del centrodestra? Ce lo dica Berlusconi. Oppure Maroni».
Con questa mossa, che va al di là della singola questione dei passaggi televisivi, Bersani vuole far venir fuori tutte le contraddizioni in cui si muovono Pdl e Lega, puntando a un indebolimento del fronte destro nelle regioni chiave del nord. I «soliti yes-man di Berlusconi», per dirla con Vannino Chiti, provano a ribaltare il discorso accusando il segretario Pd di temere un faccia a faccia televisivo con l’ex premier, ma la controffensiva non riesce. Il portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, cita il regolamento di Vigilanza Rai per sostenere che i confronti tv vanno fatti non tra candidati premier ma tra i capi delle coalizioni, e il portavoce di Bersani, Stefano Di Traglia, gli risponde che al di là degli «appigli regolamentari», rimane aperta la questione politica: «Se Berlusconi è il capo della coalizione, chi indica lui come candidato premier? Chi è il Mister X che Pdl e Lega indicherebbero al presidente della Repubblica?».
LA PRIMA VOLTA
Lanciato il sasso nello stagno del centrodestra, Bersani si prepara ora all’appuntamento di apertura della sua campagna elettorale, che sarà simbolicamente sotto il titolo «la prima volta».
Attorno a sé chiamerà giovani che a febbraio andranno al loro primo appuntamento con le urne. Il luogo scelto è il teatro Ambra Jovinelli, da dove praticamente partì la sua corsa verso Palazzo Chigi, visto che qui si è candidato segretario del Pd alle primarie del 2009 (lo Statuto del partito prevede che il segretario sia il candidato premier, anche se poi Bersani ha deciso di fare primarie aperte per la premiership). E, come anticipa in parte in una ventina di righe scritte di suo pugno, l’appuntamento di giovedì sarà all’insegna della prima volta anche perché illustrerà i temi all’ordine del giorno del primo Consiglio dei ministri che presiederà, in caso di vittoria, con una legge anticorruzione in cima alla lista. «Faremo in modo che nelle prossime settimane la campagna elettorale non sia fatta di politicismi o di cabaret, come si è visto largamente fin qui. Insieme a ragazzi e ragazze diremo chiaramente e concretamente in quale Italia vogliamo vivere nel futuro. Prima di ogni altra cosa vogliamo o no un’Italia dove ci sia moralità pubblica, sobrietà e rigore della politica, cultura dei diritti? Cominceremo da questa domanda, ci prenderemo i nostri impegni precisi e chiederemo agli altri se e come intendano prendersi i loro impegni. Noi, nel primo giorno di governo daremo cittadinanza ai figli degli immigrati, proporremo una legge sui partiti, sulla trasparenza degli atti pubblici, sulle incompatibilità; proporremo norme contro la corruzione come il falso in bilancio e l’autoriciclaggio. Prenderemo dunque le mosse dalla riscossa civica e morale».
LA LETTERA
Una serie di proposte le inserirà anche nella lettera che a breve spedirà agli elettori del centrosinistra delle regioni chiave per avere la maggioranza anche al Senato, e cioè Lombardia, Veneto, Sicilia e Campania. Bersani punta a ottenere col centrosinistra il 51% in entrambi i rami del Parlamento, anche se ha già chiarito che in ogni caso si aprirà al confronto con i moderati. Una linea che non è uguale a quella prospettata ieri da Mario Monti al convegno organizzato dai liberal Pd.
Il premier ha sì auspicato che, quale sia l’esito del voto, dopo ci sia una «collaborazione tra punti riformisti». Ma ha anche aggiunto che questi esistono «più o meno in tutti partiti». Bersani la pensa diversamente. Con il Pdl nessun accordo è possibile, per il leader del Pd. Che ieri, insieme a simbolo del partito e apparentamenti, ha fatto depositare al Viminale anche il programma della coalizione che contiene impegni vincolanti, a cominciare dal sostegno «in modo leale e per l’intero arco della legislatura» al premier scelto con le primarie e dall’obbligo di attenersi a quanto deciso con voto a maggioranza dai gruppi parlamentari».
Ora però nel centrosinistra si è aperto un caso riguardante il Centro democratico. Bruno Tabacci e Massimo Donadi si sono scontrati prima sull’eventualità di un accordo con Mpa (favorevole il primo, contrario il secondo) e poi sui nomi da inserire nelle liste. Che ieri sono state annunciate da Pino Bicchielli e Nello Formisano, ma Donadi ha fatto sapere che non saranno quelle definitive e ha annunciato per domani una conferenza stampa per denunciare gravi scorrettezze.

L’Unità 13.01.13

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Da Casini a Ingroia, a Vendola la piaga delle liste personali
I nomi dei leader di partito in bella mostra sui marchi Solo Bersani non lo fa
di Simone Collini

Casini l’aveva tolto, per poi rimetterlo dopo che il premier ha voluto il suo, e in bell’evidenza, nel simbolo della «Scelta civica con Monti per l’Italia». Quello di Berlusconi ovviamente c’è, l’inserimento del nome nel simbolo elettorale praticamente è un’invenzione sua, anche se le altre volte indicava il candidato premier della coalizione e invece questa è ridimensionato a «presidente» del Pdl. Quello di Ingroia va da lato a lato lungo tutto il simbolo, a troneggiare sopra quella specie di riproduzione del «Quarto Stato».
Grillo ha unito l’utile al dilettevole, avendo inserito nella parte inferiore del simbolo il nome sotto forma di indirizzo web del suo sito, nel quale si pubblicizzano libri e dvd suoi e di Casaleggio. Maroni, per star tranquillo, ha depositato venerdì un logo con scritto «Maroni presidente» e ieri un altro della Lega col nome suo e quello di Tremonti. Scritto così: TreMonti. C’è poi il nome di Fini nel simbolo di Fli, quello di Storace per la Destra, di Mastella per l’Udeur e anche il nome dell’imprenditore Samorì per i Moderati in rivoluzione. La lista non è finita perché anche nel centrosinistra non hanno rinunciato a mettere il nome nel simbolo elettorale Vendola (Sel) e Crocetta (Il Megafono, lista che corre per il Senato in Sicilia).
Con in mano la scheda elettorale, il 24 e 25 febbraio, si potrà fare l’appello. Nei simboli ci saranno i nomi di tutti i leader di partito. Mancherà praticamente soltanto quello di Bersani. Il segretario del Pd, da quando è stato eletto, ha detto che non avrebbe messo il suo nome nel simbolo del partito, bollando i «partiti personali» come pericolosi per la stabilità del sistema. Una linea che Bersani non ha mai messo in discussione, né quando ha vinto le primarie ed è stato scelto
come candidato premier del centrosinistra, né quando l’attuale presidente del Consiglio è «salito in politica» e ha sfoderato il simbolo «Con Monti per l’Italia», e neanche negli ultimi giorni quando più d’uno tra compagni di partito, sondaggisti ed esperti di comunicazione gli ha consigliato di inserire il suo nome nella parte bassa del simbolo Pd, com’era del resto con Veltroni candidato premier nel 2008.
Hanno fatto altre scelte gli altri. Casini a settembre aveva anche convocato a Chianciano l’ufficio politico per formalizzare la scelta: via il suo nome, a favore dell’inserimento nel simbolo della parola «Italia». Quello doveva essere, per il leader Udc, «un primo segno tangibile di questa nuova fase che si è aperta». Poi? Poi è successo che il 4 gennaio Monti ha convocato una conferenza stampa all’hotel Plaza per presentare il simbolo della «Scelta civica con Monti per l’Italia». Pochi minuti dopo che il premier ha tolto il drappo rosso dal treppiedi che reggeva la new entry politica, è comparsa sulle agenzie di stampa una nota firmata da tutti i segretari regionali dell’Udc in cui si chiedeva a Casini di rimettere il suo nome nel simbolo. E cosa doveva fare il leader centrista, se tutti i suoi dirigenti locali gli chiedevano questo sacrificio? E cosa doveva fare a quel punto anche Fini?
Non è stato facile prendere una decisione neanche per Maroni. Nel senso, non è stato facile vincere un congresso contro Bossi sostenendo la necessità di rompere con Berlusconi e poi scegliere di allearsi di nuovo con lui. E allora? Allora Maroni si è inventato di mettere nel simbolo della Lega anche il nome di Tremonti (giocando sul doppio senso con TreMonti, visto che c’erano) che per il Carroccio dovrebbe essere i candidato premier del centrodestra. Poi c’è stata la difficolta a mettere insieme nel simbolo della Lega Alberto da Giussano con spadone e sole delle Alpi e Padania e doppi nomi di persona e di lista (c’è anche il riferimento allla 3L tremontiana, Lista lavoro e libertà), ma questo è stato un problema del reparto grafico. Il reparto politico si deve essere comunque sentito con la coscienza a posto.

L’Unità 13.01.13