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"Detrazioni deboli? Colpa della destra", di Marco Causi

La riforma del catasto e la definizione della nuova Isee nella prossima legislatura potranno soddisfare le richieste dell’Unione europea. Sono due gli elementi di equità sull’Imu: il sistema di detrazioni, ancorato al numero di figli piuttosto che a indicatori di reddito, e l’inappropriatezza delle stime catastali, per le quali un appartamento nel centro storico di una città italiana vale in molti casi meno degli appartamenti di nuova edificazione nelle periferie metropolitane.

Su tutti e due questi elementi, segnalati da emendamenti non accolti del PD al decreto “Salva Italia”, interveniva positivamente la delega fiscale Ceriani, approvata dalla Camera ma poi sciaguratamente affossata al Senato dal Pdl: è stato il primo provvedimento a subire le conseguenze della decisione di Berlusconi di staccare la spina al governo Monti. Nella delega fiscale si avviava finalmente la riforma del catasto – attesa da oltre vent’anni – e si riconducevano le detrazioni all’indicatore di condizione socio economica delle famiglie (Isee). Il quale Isee, intanto, veniva rinnovato da Cecilia Guerra – arricchito nelle componenti patrimoniali e messo in sicurezza con un completo incrocio dei dati con l’Agenzia delle entrate – ed è oggi sul tavolo della Conferenza unificata.

Quindi, se oggi le detrazioni Imu non funzionano a dovere la responsabilità principale è di Berlusconi e del Pdl. Un poco di responsabilità ce l’hanno anche i partiti del centro che, nel “Salva Italia”, si impuntarono sulla detrazione rigida a livello nazionale legata al numero dei figli, non capendo che una vera politica fiscale a vantaggio delle famiglie passa per l’Isee, che tiene conto della numerosità della famiglia (non solo del numero dei figli) e di altri fattori reddituali e patrimoniali.

Ma il prossimo governo potrà porre rimedio: il programma del PD prevede la riforma del catasto, il completamento della procedura di approvazione del nuovo Isee, le nuove detrazioni Imu. Con cui sarà possibile esentare dal pagamento dell’Imu prima casa milioni e milioni di famiglie, tendenzialmente fino al 30/40 per cento, ponendo a copertura finanziaria aumenti a carico dei possessori di grandi patrimoni immobiliari.

Esattamente quello che l’Unione Europea ha chiesto ieri all’Italia in un rapporto dedicato alle politiche sociali e alla povertà: introdurre un fattore di progressività.

L’Unità 09.01.13

"Nell’inferno di Rosarno gli uomini sono tornati schiavi", di Giuseppe Salvaggiulo

Letti di terra nel dormitorio dove abitano mille lavoratori. Le tende sono fatte con pezzi di plastica, spago, cartoni e lastre di eternit. Gli africani dormono su letti di terra pressata pronti a trasformarsi in fango alla prima pioggia. Cucinano riso e ali di pollo in bidoni di risulta. I bagni sono due fosse a cielo aperto.
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima. È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività: un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto. Nel pieno della stagione lavorano trequattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino. Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente. Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante. Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro. Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta. Come calcestruzzo uno spago di fortuna. Cumuli di terra pressata alti venti centimetri sorreggono i precari giacigli, pronti a inondarli di fango alla prima pioggia. I bagni sono in fondo a destra: due fosse larghe un metro scavate per quaranta centimetri nella terra, a cielo aperto e senza riparo alcuno. Nella tenda più grande, dieci metri per cinque, si contano non meno di cento posti letto tra materassi rancidi e brandine. Un odore indicibile. Non ci sono acqua, fogna, elettricità; solo immondizia a fare da sipario.
«Una cosa incivile, vergognosa, uno schifo», urla Domenico Madafferi, sindaco di San Ferdinando che, sulla base di una relazione sui requisiti igienici «praticamente inesistenti» e sulla «situazione dannosa per la salute» di «baracche fatiscenti» e «dimore abusive senza le condizioni minime di vivibilità» che «potrebbero essere focolai di infezioni», ha scritto di suo pugno un’ordinanza di sgombero. «Un modo per mettere Regione e governo spalle al muro, dopo inutili riunioni, appelli e solleciti scritti – spiega -. Ma non è cambiato nulla, solo promesse». Così ieri ha scritto la lettera al prefetto con cui si appresta a eseguire lo sgombero. Un’eventualità drammatica, «perché il ricordo di tre anni fa sarà niente rispetto a quello che potrebbe accadere se arriviamo con le ruspe».
Eppure in questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico. Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro. Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi. La Regione aveva messo 55 mila euro per la gestione. La Provincia pagava la corrente elettrica. I sindaci Elisabetta Tripodi di Rosarno e Domenico Madafferi di San Ferdinando facevano il resto. Le associazioni di volontariato più diverse – cattoliche, laiche, evangeliche – si prodigavano per offrire assistenza, cibo, coperte grazie all’aiuto di migliaia di persone (altro che razzismo). La tendopoli si aggiungeva ai container installati nel febbraio 2011: 120 migranti in moduli da sei con cucinino e bagno in camera. Non solo si smantellavano gli ultimi ghetti, ma l’inedito «modello Rosarno» dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione Civile. E dunque, pur con numeri ancora insufficienti (400 posti, un terzo del necessario), in una terra dove lo stato di eccezione è permanente (qualche tempo fa i tre Comuni principali si ritrovarono contemporaneamente sciolti per mafia), aver messo tra parentesi l’emergenza pareva un miracolo. Invece a rivelarsi una fuggevole parentesi è stata proprio la normalità. Giugno 2012: finiti i soldi della Regione, la tendopoli viene chiusa e abbandonata, in attesa della nuova stagione agricola. In agosto i sindaci si rivolgono a Regione e governo: bisogna organizzarsi per tempo o tornerà il caos. Cosa che puntualmente accade: a fine ottobre, quando parte la raccolta dei mandarini, la tendopoli priva di gestore viene occupata e saturata dai migranti.
Nelle tende si sistemano in sei, ma non basta perché altri ne arrivano. I sindaci reclamano aiuto: non hanno soldi, strutture, personale per farcela. «Regione e governo latitano, il ministro Riccardi non risponde, solo la presidenza della Repubblica dà un segnale di attenzione comprando e mandando coperte, peraltro inadeguate», dice sconsolato il sindaco. In poche settimane anche la mensa diventa un maxi dormitorio. Non c’è più spazio e gli ultimi arrivati cominciano a costruire la favela contigua all’insediamento originario. Senza manutenzione, gli scarichi fognari non reggono a una popolazione quadruplicata, i container con i bagni diventano cloache inservibili, la cucina chiude, i cassonetti dei rifiuti esplodono. Basterebbero 50-70 mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera. Solo lo 0,000006% della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno.

La Stampa 09.01.13

Carceri, la figuraccia dell’Italia. Napolitano: “Condanna mortificante”, di Paola Fabi

La conferma, forse, fa più male della parola che bolla e boccia il sistema carcerario italiano: «inumano». Perché l’Italia, secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, viola i diritti dei detenuti riservando per loro un trattamento «degradante» e «inumano» appunto, tenendoli in celle di meno di 3 metri quadrati a testa in un sovraffollamento «strutturale e sistemico». Una situazione già nota (come dice il ministro Severino che si dichiara comunque «avvilita» per non essere riuscita a portare avanti il ddl del governo sulle misure alternative al carcere) e che i numerosi suicidi dei detenuti (due già dall’inizio del 2013) confermano. Ed è di poche settimane fa il clamoroso sciopero della fame e della sete del leader dei Radicali, Marco Pannella.
Una «mortificante conferma», secondo il capo dello stato Napolitano, «della perdurante incapacità del nostro stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena», e nello stesso tempo di una sollecitazione pressante da parte della Corte a imboccare una strada efficace per il superamento di tale ingiustificabile stato di cose». Ora toccherà al nuovo parlamento, vista l’incapacità di quello uscente (che «avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle camere, assumere decisioni, e purtroppo non l’ha fatto»), affrontare la questione con misure «rapide ed efficaci». Monito che Anna Finocchiaro fa proprio («toccherà al centrosinistra rendere più umane le condizioni dei penitenziari ») puntando il dito contro Pdl e Lega che hanno affossato il ddl del governo.
La seconda condanna dell’Italia (la prima è del 2009, sempre per sovraffollamento) arriva dopo la denuncia di sette carcerati (che dovranno anche essere risarciti) delle prigioni di Busto Arsizio e Piacenza che avevano protestato non solo per la mancanza di spazi vivibili in una cella condivisa ma anche la mancanza di acqua e illuminazione in alcuni periodi. Il problema della mancanza di spazio nelle celle, però, non riguarda solo i sette ricorrenti: la Corte europea ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti. L’Italia quindi ora dovrà dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti.

da Europa Quotidiano 09.01.13

Soddisfazione per le liste Pd al vaglio della Direzione nazionale

Importanti novità sono emerse dalla Direzione nazionale del Pd convocata per varare le liste dei candidati alle politiche di febbraio. Confermate le posizioni sicure dei quattro candidati Richetti, Guerra, Pini e Vaccari. Modena avrà altri due parlamentari modenesi scelti dal nazionale per il loro impegno su temi specifici: sono il carpigiano Edo Patriarca e la consigliera provinciale Cécile Kashetu Kyenge. Buona anche la posizione in cui è stata collocata la parlamentare uscente Manuela Ghizzoni (27esima, subito dopo il segretario provinciale del Pd Davide Baruffi), una posizione che le consentirà, se il risultato del Pd sarà buono, di confermare il suo impegno per la ricostruzione delle zone colpite dal sisma. Una squadra davvero folta, oltre le aspettative: anche il politologo modenese Carlo Galli è stato confermato in lista, mentre la vignolese Laura Garavini ha avuto l’ok dai coordinamenti Pd dei paesi che costituiscono il seggio Europa per una sua ricandidatura. “Quindi un Pd modenese che potrebbe risvegliarsi dopo le elezioni con la più folta pattuglia parlamentare di sempre”: è il commento del coordinatore provinciale della segreteria modenese Paolo Negro: «Il percorso per la formazione delle liste del Pd, iniziato col grande successo delle primarie del 29 e 30 dicembre, si è completato: dopo il vaglio della Direzione regionale di sabato scorso, c’è stata la decisione della Direzione nazionale. Come previsto dal regolamento, spetta infatti a quest’ultima completare le liste, su proposta del Segretario Bersani, integrando i nomi emersi dal territorio con altri – una quota pari al 10% – di carattere nazionale. Anche la quota nazionale delle liste che si è composta porta un segno molto positivo e innovativo: personalità della società civile, delle professioni e del lavoro, dell’impresa e dell’economia, della cultura e del volontariato; esponenti del cattolicesimo democratico e dell’impegno sociale e civile nel Paese: sono questi i segnali più forti che sono arrivati da Roma e che salutiamo con soddisfazione. Soddisfazione accresciuta da alcune conferme e da altrettante positive novità. Anzitutto la conferma che Matteo Richetti e Maria Cecilia Guerra, l’uomo e la donna più votati alle primarie modenesi, saranno nella testa di lista rispettivamente di Camera e Senato: il giusto riconoscimento per un territorio in cui la partecipazione alla primarie ha superato di alcuni punti la media regionale. Poi la conferma in quota pienamente eleggibile della giovane candidata Giuditta Pini, che ha saputo raccogliere la voglia di cambiamento espressa dalla nostra comunità e rappresenta un enorme messaggio alle nuove generazioni, e di Stefano Vaccari, la cui esperienza da amministratore e in particolare in tema di Protezione civile sul fronte del terremoto sarà un capitale importante da spendere al Senato. Infine le candidature di due democratici modenesi, Cécile Kashetu Kyenge ed Edoardo Patriarca, che si sono distinti per impegno e rappresentanza di istanze per il Pd cruciali quali l’immigrazione e le politiche attive di integrazione e cittadinanza da un lato, il terzo settore e l’impegno sociale del cattolicesimo democratico dall’altro. Si tratta di due candidature nazionali, scelte proprio per la valenza generale che è riconosciuta al loro impegno, ma che non possono che essere salutate positivamente perché rafforzano direttamente anche la rappresentanza modenese. Così come salutiamo positivamente decisioni non locali, ma che hanno importanti ricadute anche per il nostro territorio: la presenza confermata del politologo modenese Carlo Galli e la decisione de i Coordinamenti paese del Pd Belgio, Francia, Inghilterra, Lussemburgo e Germania della ricandidatura della vignolese Laura Garavini, deputata uscente del Pd e capogruppo nella Commissione Antimafia. Altrettanto positiva la notizia che Manuela Ghizzoni sarà nella nostra lista regionale per la Camera in posizione rafforzata, potenzialmente eleggibile: è, infatti, al numero 27 (immediatamente dopo, quindi, la posizione in lista per la Camera del segretario provinciale del Pd Davide Baruffi) e un buon risultato nelle urne del Pd potrebbe premiare ulteriormente il suo indubitabile impegno sui temi della cultura e della scuola da un lato, e in materia di emergenza e ricostruzione delle terre colpite dal sisma dall’altro. Da ultimo, dispiace non abbia trovato soluzione, almeno nei termini in cui noi l’avevamo posta, la questione uscita dalla Direzione provinciale del Pd: la candidatura di una personalità dell’Area nord avrebbe rafforzato ulteriormente la rappresentanza del cratere del sisma. Resta inteso che, per quanto riguarda il Pd, la questione della ricostruzione conserva intatta la sua valenza prioritaria, che potrà bene essere rappresentata dai candidati in campo – oggi con una potenzialità in più, stante la candidatura in buona posizione della Ghizzoni e l’irrobustimento della rosa modenese in lista –. Tutti i candidati in campo, infatti, si sono distinti in questi mesi proprio per un impegno diretto sulla vicenda del terremoto, a partire, come detto, dall’assessore provinciale alla Protezione civile, ora candidato al Senato, Stefano Vaccari. D’altra parte, la scelta del partito regionale in questo senso è chiara, a partire dalla decisione di inserire Claudio Broglia, il sindaco di Crevalcore, come testa di lista. Tutto questo quadro articolato è frutto anche del lavoro instancabile tessuto dal partito dell’Emilia-Romagna e dal suo segretario Stefano Bonaccini. Come nella legislatura che si va chiudendo, sarà l’insieme dei rappresentanti modenesi a tenere alta l’attenzione sul problema e a promuovere iniziative utili alla ricostruzione. Concludendo, il Pd modenese potrebbe risvegliarsi dopo le elezioni con la più folta pattuglia di parlamentari di sempre. E questa è la più solida garanzia rispetto alle priorità che siamo chiamati ad affrontare a partire dalla ricostruzione».

Ecco i curricula dei nuovi candidati modenesi del Pd:

Carlo Galli , nato a Modena nel 1950, dove risiede. E’ professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna. Studioso della storia del pensiero politico moderno e contemporaneo, ha pubblicato numerosi saggi. Direttore responsabile della rivista “Filosofia politica” edita da Il Mulino, collabora con diversi periodici culturali e politici. E’ anche presidente della Fondazione Gramsci dell’Emilia-Romagna e presidente del Consiglio editoriale della casa editrice Il Mulino di Bologna.

Edo Patriarca , 59 anni, residente a Carpi, da luglio 2012 presidente del Centro Nazionale per il volontariato e membro del Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Laureato in Chimica, ha insegnato all’Itis Da Vinci di Carpi. Nel ’95 è stato presidente del Consiglio comunale di Carpi. Dal ’97 al 2002 ha ricoperto la carica di co-presidente nazionale dell’Agesci, dal ’99 al 2006 portavoce del Forum nazionale del Terzo settore. Dal 2008 segretario del Comitato promotore delle Settimane sociali dei cattolici italiani.

Cécile Kashetu Kyenge , classe 1964, nata in Congo, è venuta in Italia per studiare all’Università prima di Roma e poi di Modena. Medico oculista, vive e lavora nel modenese. Prima consigliere di circoscrizione per i Ds, è poi stata eletta consigliere provinciale per il Pd. Fa parte della segreteria regionale del partito ed è responsabile del Forum immigrazione Pd dell’Emilia-Romagna. Coordinatrice nazionale della Rete Primo marzo.

Laura Garavini , classe 1966, è nata a Vignola dove vive ancora la famiglia. Emigrata in Germania, dove attualmente vive e lavora, si è distinta per l’impegno civile nella lotta contro le infiltrazioni di tipo mafioso. Nella passata legislatura è stata eletta parlamentare Pd nella circoscrizione Europa. Ha guidato il gruppo Pd della Commissione antimafia della Camera dei deputati.

"Tasse, l’equità che manca", di Massimo D'Antoni

Imu: lasciarla, toglierla o cambiarla? Economisti ed esperti, in modo unanime, ci ricordano che, rispetto alle imposte che gravano sul lavoro e sull’impresa, quelle sulla proprietà immobiliare risultano meno dannose per l’attività economica e per la crescita. Sono più semplici da amministrare e più difficili da evadere, e hanno pregi non indifferenti quanto ad equità, considerando che la distribuzione del patrimonio immobiliare è tale da renderle marcatamente progressive. Infine, la distribuzione per età della proprietà immobiliare determina, nel confronto con la tassazione del reddito o del consumo, una ripartizione del carico fiscale più favorevole ai giovani, e in generale a chi non può permettersi la proprietà della propria abitazione.
Detto questo, c’è modo e modo di disegnare un’imposta sulla proprietà. Quando a fine 2011 il governo Monti decise di anticipare l’applicazione dell’Imu e di estenderla alle abitazioni principali, non mancarono le obiezioni.
Molti commentatori e, in sede politica, lo stesso Partito democratico, rilevarono il rischio di un impatto pesante sulle famiglie a reddito più basso e sulle attività economiche, e proposero dei correttivi in direzione di una più marcata progressività.
Questa si sarebbe potuta ottenere aumentando le deduzioni in modo da esentare una maggiore quota di immobili di minor valore. Soprattutto, il Pd propose già allora di alleggerire l’Imu affiancandola con un’imposta sui «grandi» patrimoni immobiliari, a carattere personale (tale cioè da prendere in considerazione il patrimonio complessivo del contribuente e colpire solo ciò che eccede una soglia fissata); una proposta purtroppo respinta dal governo e dal centro-destra.
Il tema dell’equità dell’Imu sta tornando alla ribalta in questo avvio di campagna elettorale. Ha destato l’attenzione dei media un rapporto redatto a fine 2012 dalla Commissione europea.
Il rapporto fa il punto sugli effetti sociali della crisi nei Paesi dell’Unione e sulle politiche attuate per fronteggiarla, e ricorda come la tassazione immobiliare sia stata incrementata in molti Paesi, tra cui l’Italia, in linea con le raccomandazioni della Commissione stessa e dell’Ocse.
Il rapporto rileva come, in termini generali, la tassazione degli immobili possa contribuire a ridurre le diseguaglianze; tuttavia, con riferimento specifico all’Imu italiana (cui viene dedicato uno specifico box di commento), si sottolinea che l’effetto perequativo sarebbe più accentuato se, invece di utilizzare i valori catastali rivalutati in modo lineare, tali valori fossero allineati con quelli di mercato.
La maggiore equità deriverebbe dal fatto che le disparità esistenti tra valori catastali e valori effettivi sono tanto più accentuate quanto maggiore è il valore dell’immobile, per cui il mancato aggiornamento avvantaggia i contribuenti più abbienti.
Quella dell’aggiornamento delle stime catastali per renderle più aderenti agli effettivi valori di mercato è una necessità ben presente a tutti, governo Monti compreso. Non a caso tale aggiornamento era previsto nella delega fiscale.
Purtroppo, come sappiamo, l’approvazione della delega è stato impedito dalla fine anticipata della legislatura; c’è anzi chi attribuisce l’accelerazione della crisi proprio all’intenzione del Pdl di assicurarsi una campagna elettorale con le mani libere sulle questioni fiscali. Berlusconi propone ora di tornare alla situazione vigente prima del 2012, quella in cui tutte le «prime case» erano escluse dalla tassazione. Una soluzione non solo iniqua perché esenta allo stesso modo il piccolo appartamento in periferia e quello di pregio nel centro storico, ma fonte di difficoltà per i Comuni, che si troverebbero a finanziare i propri servizi potendosi rivalere soltanto sulle seconde case o gli immobili commerciali; una situazione squilibrata e lontana da quanto sarebbe richiesto da un corretto rapporto fiscale, in cui c’è corrispondenza tra percettori di benefici (i residenti) e contribuenti. Chiudiamo con un’annotazione sul citato rapporto della Commissione: i giornali riferiscono oggi solo quanto contenuto nella mezza pagina dedicata all’Imu, ma il rapporto è importante soprattutto perché, per la prima volta, guarda al consolidamento fiscale in atto nell’Unione europea con un’attenzione prevalente al loro impatto sociale. Cioè il grande assente dalle raccomandazioni e dall’azione di governo degli ultimi anni.

L’Unità 09.01.13

"Il fisco nell'urna", di Massimo Giannini

Plasmati da quasi vent’anni di berlusconismo, tra demagogia fiscale e idolatria dell’anti-Stato, gli italiani si sono abituati a votare con il portafoglio in mano. È fatale che anche questa campagna elettorale sia dunque dominata dalla battaglia sulle tasse. Siamo il Paese dove il «total tax rate» raggiunge il 68,8% (contro il 65,8 della Francia e il 48,2 della Germania), la pressione fiscale raggiunge il 45,3% (contro il 31,4% del 1980) e dove su 41,5 milioni di contribuenti solo lo 0,9% dichiara più di 100 mila euro l’anno.
Viviamo il tempo di ferro della crisi globale e del «rigore necessario». L’economia non produce più ricchezza. C’è molta spesa da tagliare, e poco reddito da redistribuire. La pecora di Olof Palme è ormai tosata fino all’osso per molti, mentre resta intonsa per il famoso 1 per cento evocato dalle proteste di «Occupy Wall Strett». È naturale che gli schieramenti in lotta si combattano sul campo minato del fisco, dell’equità e della progressività del prelievo, delle ricette contro l’evasione. Gli italiani sono provati, e chiedono chiarezza ai partiti: il salasso sugli immobili ha prosciugato i bilanci delle famiglie e azzerato le tredicesime dei lavoratori.
Ma il sonno della ragione genera i soliti mostri. C’è una miscela di isterie propagandistiche e di fumisterie ideologiche, che sta trasformando il voto politico in un dissennato referendum sull’Imu. Non stupisce che ad aprire il fronte sia stato Berlusconi, capace di ripetere all’infinito lo schema collaudato. Nel 2001 vinse promettendo «meno tasse per tutti», nel 2008 rivinse promettendo «l’eliminazione dell’Ici», oggi prova a rivincere promettendo «l’abolizione dell’Imu al primo Consiglio dei ministri». Il genere è sempre lo stesso: marketing politico (irresponsabile perché irrealizzabile) e imbroglio economico (con i suoi ultimi due governi la pressione fiscale è aumentata di 4 punti).
Meno ovvio è che persino la celebrata «sobrietà» di Monti svanisca, di fronte alla conclamata falsità del Cavaliere. È difficile spiegare ai contribuenti per quale ragione, dopo aver varato e difeso per un anno un’imposta sugli immobili che colpisce la prima casa con scarso rispetto per i principi di progressività dell’imposta (come ora certifica anche la Commissione Europea), diventi ora possibile «modificarla in più punti». È ancora più difficile far capire agli elettori per quale motivo, dopo aver negato per mesi che vi fosse una palese asimmetria nella triade «rigore-crescita-equità», diventi ora prioritaria la lotta allo «spread sociale». Il passaggio da tecnico a politico, per il Professore, è stato esiziale. Un po’ più di coscienza, prima, sarebbe stata doverosa. E un po’ più di coerenza, adesso, sarebbe opportuna.
Ancora meno ovvio, in prossimità di un voto che potrebbe riportare i progressisti al governo del Paese, è che la sinistra riscopra i suoi vizi più antichi, i suoi anacronismi più triti, i suoi ideologismi più logori. Nichi Vendola è troppo intelligente per non capire che l’anatema contro i «ricchi» da mandare al diavolo, prima ancora che un drammatico autolesionismo, è un tragico errore. Figlio di una cultura che un tempo avremmo definito, con il dovuto rispetto, «catto-comunista». La cosiddetta «borghesia produttiva» ha gravi responsabilità, anche in questa crisi: l’Italia resta il Paese dei capitali in fuga (scudati da Tremonti e tassati da Monti con un obolo poco più che simbolico) e degli imprenditori che denunciano al Fisco 18.170 euro l’anno (contro i 19.819 dei lavoratori dipendenti).
Ma la difesa di chi ha poco o niente non diventa più efficace solo perché si minaccia il fuoco della Geena a chi ha molto o tutto. Senza distinguere tra chi ha accumulato patrimoni nella legalità, e chi li ha ottenuti e occultati con la frode. Le maledizioni bibliche o le riedizioni della cara vecchia «lotta di classe», oltre a «épater les bourgeois», inchiodano l’intera sinistra a una visione eternamente manichea del mondo, e a una dimensione irriducibilmente minoritaria della rappresentanza.
Non dovrebbe esserci neanche bisogno di ricordare il precedente funesto dello slogan di Rifondazione del 2007 (quell’«anche i ricchi piangano» che fece scoppiare un putiferio) per far capire al leader di Sel che questo armamentario ideologico non serve a raggiungere lo scopo. E fa male soprattutto a chi lo usa, perché offre un formidabile strumento di offesa all’avversario. Sortite come quelle di Vendola consentono a Berlusconi di agitare il solito drappo rosso di fronte agli elettori spaventati. A urlare che i soliti comunisti «vogliono colpire le famiglie benestanti». A denunciare che i soliti pauperisti della sinistra alimentano «l’odio e l’invidia sociale». Propaganda bugiarda: nessuno può ragionevolmente invidiare uno stile di vita come quello del Cavaliere e del suo «milieu». Ma Berlusconi, di questa propaganda, si nutre e si rafforza.
Indignarsi per l’ingiustizia sociale che ormai dilaga anche in Italia è giusto e doveroso. Lo ha detto persino Napolitano nei suoi auguri di Capodanno a reti unificate. Ma gridare «i super-ricchi vadano all’inferno» è un’invettiva gratuita, inutile e dannosa. Senza cedere di un millimetro alla radicalità dei suoi valori di uguaglianza, di solidarismo e di diritti, una vera sinistra di governo deve saper finalmente includere, e non più escludere. Meno che mai in base al censo o alle categorie di appartenenza. Le ingiustizie distributive non vanno sanate con la criminalizzazione dei ceti più abbienti, ma con la razionalizzazione dei carichi tributari e la lotta senza quartiere all’evasione fiscale. A questo servono le tasse, come sa chiunque abbia letto la Costituzione, o una «predica inutile» di Einaudi.
Qui non è in gioco una «tattica del fischio» verso i moderati, né una malcelata «intelligenza con il nemico» centrista. È in gioco il governo del Paese. Vendola deve dire qual è il suo disegno. Non può fare con Bersani quello che Lafontaine fece con Schroeder, dimettendosi dopo un anno da ministro delle Finanze e accusando il premier di essere un «cancelliere di cachemire». L’Italia non è la Germania. Dopo ben due sgambetti di Bertinotti ai governi di Prodi, questa volta non sono ammesse ambiguità politiche o riserve mentali. Con il fisco nell’urna, servono soluzioni pratiche, non discriminazioni ideologiche. Bersani ha risposto nel migliore dei modi alla «narrazione» incendiaria di Vendola: «I super ricchi stiano qui, e paghino quel che c’è da pagare». Non si dovrebbe aggiungere altro, in una sana democrazia occidentale.

La Repubblica 09.01.13

"Agenda Monti e progressismo ipocrita", di Marco Meloni

L’ultima settimana ha portato, con la fine dell’esperienza del governo Monti, più chiarezza sull’offerta politica per l’Italia del 2013. Il Partito Democratico, nelle settimane della telenovela sul coinvolgimento diretto di Monti e della riapparizione grottesca di Berlusconi, è andato avanti speditamente sulla strada segnata dall’impegno degli elettori per le primarie. Questo è il nostro percorso. A partire dalla nostra identità, possiamo ora confrontarci sul nuovo scenario – a partire dall’Agenda Monti e dalla candidatura del professore alla premiership – da una posizione di forza.
La priorità di Monti, con il suo coinvolgimento in politica, sembra essere principalmente la messa in sicurezza dell’azione di governo dell’ultimo anno, con alcune conseguenze sia sul breve che sul medio periodo.
Nel breve periodo guardiamo alla scadenza elettorale, alle alleanze e al metodo di governo, ma soprattutto è da salutare con interesse il tentativo di far diventare maggioritari nell’elettorato italiano numerosi orientamenti resi – per usare un eufemismo – sfocati dal berlusconismo: la bussola europeista, i valori costituzionali, la legalità, la dignità e la partecipazione delle donne, l’impegno contro la corruzione e le mafie, il rilancio del tessuto industriale, le liberalizzazioni. Su questi auspici di fondo, vi è un terreno comune tra la coalizione che si raccoglie attorno a Monti e il pensiero elaborato in questi anni dal Partito Democratico e – vale la pena di rammentarlo – portato avanti su tutti questi temi attraverso un costante impegno parlamentare, sia durante il governo Berlusconi che nella “strana maggioranza” del governo Monti. Allo stesso tempo, sulla modalità con cui intendiamo realizzare questi auspici, al di là delle parole, e sull’idea di società che vogliamo costruire attraverso le nostre azioni, potranno formarsi nei prossimi anni un moderno centrosinistra – attorno al Partito Democratico – e il nucleo di una parte conservatrice che fa riferimento al Partito Popolare Europeo. Alla base di questa dialettica è fondamentale che i partiti politici, come auspicano Mario Monti e Sylvie Goulard nel loro “La democrazia in Europa” (Rizzoli, 2012), affrontino “a viso aperto i nazionalisti e i populisti, smontando le loro argomentazioni xenofobe e contrastando i loro vaneggiamenti in tema di economia”.
Tutto ciò annulla le differenze tra le parti in gioco nella prossima scelta elettorale? No. A mio avviso, le rende invece molto chiare, proprio quando andiamo nel dettaglio. L’Agenda Monti è stata salutata per l’importanza che conferisce ai temi dell’educazione e dell’istruzione: “La scuola e l’università sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali”. L’attenzione su questi aspetti sarebbe il segno dell’adesione al “vero progressismo”, quella visione centrista radicale che si concentra sul superamento delle disuguaglianze senza indebolire la crescita economica, portata avanti in un articolo-manifesto dell’Economist, “True Progressivism”, che lo stesso Monti ha citato nella sua conferenza stampa e che qui abbiamo discusso qualche tempo fa. Finalmente la politica italiana votata alla crescita economica e sociale potrà partire dalla premessa “education, education, education”? Dobbiamo fare di istruzione e welfare il principale terreno di confronto della campagna elettorale. Certo: sì agli impegni europei, no ai populismi. Ma il nostro welfare, che regge la nostra coesione sociale e il nostro modello di sviluppo, si rilanciano e divengono strumenti per una crescita dell’economia e del benessere complessivo della società italiana riformandoli profondamente, rendendoli “sostenibili” e moderni, o destrutturandoli definitivamente? Questo sarà il tratto fondamentale di distinzione tra il centrosinistra e il centro montiamo.
Se parliamo di istruzione e di welfare, se cerchiamo di immaginare il futuro dell’Italia e delle capacità degli italiani, l’Agenda Monti ci pare carente per due motivi principali.
In primo luogo, nell’Agenda Monti manca un’autocritica. Sarebbe necessaria da parte di chi ha appoggiato la riforma Gelmini (la tomba di “autonomia” e “responsabilità”, due valori rivendicati dall’Agenda) e da parte di chi, soprattutto, nel recente passato non ha portato l’azione di governo all’altezza delle parole, visto che fin dalle dichiarazioni programmatiche del 17 novembre 2011 si sottolinea la centralità di “valorizzazione del capitale umano” e di “accrescimento dei livelli di istruzione della forza lavoro”. Nell’Agenda si aggiunge che “serve rompere uno schema culturale per cui il valore dello studio e della ricerca e il significato della professione di insegnante sono stati mortificati”. I fatti non sono stati all’altezza né di questi auspici né degli impegni presi dal governo nel Programma Nazionale di Riforma, che facevano intendere un’inversione di tendenza rispetto al governo Berlusconi. Il governo Monti non ha avuto né la capacità né la volontà di scommettere sull’università come base per la società, sull’istruzione come laboratorio di cittadinanza e non solo luogo dell’acquisizione di competenze tecniche. Penso alla recente e agghiacciante vicenda del finanziamento ordinario nella Legge di Stabilità; penso all’intervento del PD sulla possibilità per gli atenei di aumentare le tasse universitarie; penso ai fondi sul diritto allo studio, all’azione troppo timida sulla vicenda Erasmus e su tutti quegli aspetti di mobilità e circolazione su cui Monti ha insistito nei suoi discorsi e nei suoi scritti, ma non nell’azione di governo. Se non si prendono sul serio questi fallimenti, è lecito parlare di falsa coscienza.
In secondo luogo, l’Agenda Monti accentua il suo peccato di vaghezza proprio laddove è necessario il coraggio di prendere una posizione. Un esempio riguarda le tasse universitarie e i fondi sul diritto allo studio. L’orientamento del Partito Democratico su questi aspetti (è necessario diminuire le tasse universitarie a fronte di un investimento massiccio in diritto allo studio) non è basato sull’ideologia e non è basato sul conservatorismo. Si fonda sull’analisi comparativa dell’istruzione e della ricerca rispetto ad altri aspetti della spesa pubblica (come mostra il Rapporto Giarda), sull’analisi comparativa della tassazione in Europa, sulle esigenze espresse dalla Strategia2020 (che, come per la lotta alla corruzione, mostra un volto differente su ciò che ci “chiede” l’Europa e sugli impegni comuni, ben più importante per combattere i nazionalismi della vacua evocazione della “moderazione”), su un’idea di produttività e innovazione che si discosti con forza dal berlusconiano “non serve la laurea per fare le scarpe”.
Azzardiamo una conclusione provvisoria: la visione dell’Agenda Monti sull’università e la ricerca rischia di finire nella categoria che Michael Lind ha definito “progressismo ipocrita”. Il “progressismo ipocrita” è la strategia in cui, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, si dice che le disuguaglianze sono importanti e, subito dopo, si sostiene che il maggiore ostacolo alla mobilità sociale sono i sindacati degli insegnanti. Il Partito Democratico, grazie al confronto con studenti, ricercatori e docenti, proporrà un programma molto diverso per istruzione, università e ricerca.
Perché solo con una vera svolta rispetto agli ultimi governi, nelle parole e soprattutto nei fatti, possiamo ridare efficienza allo Stato, dignità all’istruzione e costruire le basi per una crescita nel nome del “vero progressismo”, che sappia rifiutare tanto le favole quanto l’ipocrisia.

da www.partitodemocratico.it