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"Tasse e politica l'America resta divisa", di Francesco Guerrera

Il nostro problema», dice lo splendido Daniel Day-Lewis nel «Lincoln» di Steven Spielberg, «è l’incapacità a comunicare l’uno con l’altro». Il presidente americano si riferiva al dialogo tra sordi tra repubblicani e democratici sulla questione della schiavitù nel 19° secolo ma la frase funziona ancora nel 21° secolo. Anzi è lo slogan perfetto per descrivere gli interminabili negoziati tra gli stessi due partiti sul «burrone fiscale», la combinazione di tagli di spesa e aumenti di tasse che negli ultimi mesi ha paralizzato Washington e messo a rischio la ripresa dell’economia americana.

Dopo aver portato gli Usa sull’orlo del «fiscal cliff», il precipizio fiscale, la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso hanno trovato un accordo poco prima della fine del 2012, pieno di compromessi, mezze misure e decisioni rimandate.

Le imposte sui redditi verranno aumentate per la prima volta in vent’anni ma solo per i più ricchi: chi guadagna $ 400.000 l’anno, o coppie che insieme guadagnano $ 450.000; le stesse persone pagheranno tasse più alte sulle plusvalenze, dal 15% attuale al 20% che era in voga all’epoca di Clinton, mentre le tasse di successione saliranno dal 35% al 40% per eredità superiori ai 5 milioni di dollari.

Per quello che riguarda le riduzioni di spesa, invece, 110 miliardi di dollari di tagli già decisi sono stati rimandati di due mesi perché non c’era accordo sul come procedere.

Tutto qui? Dopo settimane e settimane di logorroici dibattiti e accuse incrociate all’altro partito di non volere «mettere ordine nella casa fiscale degli Usa»? Il patto di capodanno evita il crollo nel burrone economico ed il ritorno della recessione ma non risolve nessuno dei problemi fiscali e di deficit che gli Usa si portano dietro ormai da anni.

E le incertezze non sono solo economiche. L’America che si è specchiata nei litigi dei partiti sul «fiscal cliff», si è trovata divisa, irritabile e polarizzata – un Paese non sereno e poco sicuro di sé che guarda con ansia al futuro.

«Come mai è così difficile trovare un accordo?» mi ha chiesto la settimana scorsa un vecchio lobbista di Washington, uno che di battaglie politiche ne ha viste e vissute eppure non riusciva a capire il nulla di fatto sul «fiscal cliff».

La realtà è che gli Stati Uniti si trovano in un momento particolare della loro storia. I due partiti condividono il potere (i democratici hanno la Casa Bianca e il Senato, i repubblicani la Casa dei Rappresentanti) ma sono nettamente distanziati sul piano ideologico e politico.

Entrambi sono stati messi sotto pressione da ali estreme: il «Tea Party» di Sarah Palin per i Repubblicani e la sinistra dei ragazzi di «Occupy» per i Democratici. Il risultato è un divario ideologico che i tradizionali giochi di potere di Washington non riescono a colmare.

Come mi ha detto un veterano dell’amministrazione di Bill Clinton l’altro giorno, «Washington non funziona più perché i due partiti sono stati costretti ad uscire da Washington».

Le discrepanze sul burrone fiscale sono solo un sintomo di un malessere ben più profondo: l’America è spaccata a metà – dal punto di vista economico, politico e sociale. La sperequazione tra ricchi e poveri è ai livelli più alti del dopoguerra e le difficoltà degli ultimi anni – il crollo del mercato immobiliare e gli altissimi livelli di disoccupazione – hanno esacerbato la divisione tra gli «haves» e gli «have nots», «chi ha» e «chi non ha».

Il welfare state, una delle pietre angolari della società americana ed uno strumento importante di ridistribuzione economica, è sull’orlo della bancarotta per motivi demografici – troppi vecchi che si prendono la pensione e le medicine a poco prezzo e non abbastanza giovani per pagare i conti – e politici: la riluttanza storica di Washington ad aumentare le tasse.

L’accordo sul «fiscal cliff» doveva essere l’inizio della soluzione ed invece è diventato l’ultimo problema. Le divisioni politiche e la litigiosità del sistema di governo Usa hanno fatto sì che nessuna delle questioni strutturali del debito pubblico e welfare state verrà affrontata.

Vi dò un esempio. Nel 1965, il debito pubblico degli Usa era pari al 38 per cento del prodotto interno lordo. Oggi è al 74 per cento. Tra un decennio sarà un insostenibile 90 per cento e arriverà al 247 per cento tra trent’anni. Nessun Paese può vivere con questi numeri, figuriamoci l’economia più grande del pianeta.

Ma il patto tra la Casa Bianca ed i repubblicani non fa assolutamente nulla per ridurre quei numeri spaventosi perché rifiuta di far fronte alla scelta fondamentale, e difficilissima, che è di fronte agli Stati Uniti: ridurre le dimensioni del welfare state, tagliando servizi, o aumentare le tasse in maniera decisiva per pagarne le bollette.

Nessuno dei due ingredienti è nella ricetta utilizzata dal vice-presidente Joe Biden e i leader repubblicani per il patto di capodanno. Ed è per questo che l’accordo è rachitico. Un patto piccolo piccolo che permette di dire a Barack Obama e alla leadership repubblicana che l’intesa è stata trovata ma i cui effetti saranno effimeri, come i fuochi d’artificio di capodanno.

Dov’è Lincoln quando ne abbiamo bisogno?

* È il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

La Stampa 02.01.13

Messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Un augurio affettuoso a tutti voi, uomini e donne d’Italia, che vivete e operate in patria e all’estero, e in particolare a quanti servono da lontano la nazione, in suo nome anche rischiando la vita, come nelle missioni di pace in tormentate aree di crisi. Mi rivolgo a voi questa sera nello stesso spirito del mio primo messaggio di fine anno, nel 2006, e di tutti quelli che l’hanno seguito. Cercherò cioè ancora una volta di interpretare ed esprimere sentimenti e valori condivisi, esigenze e bisogni che riflettono l’interesse generale del paese. Guardando sempre all’unità nazionale come bene primario da tutelare e consolidare.In questo spirito ho operato finora, secondo il ruolo attribuito dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. Anche e ancor più in questo momento, alla vigilia di importanti elezioni politiche, non verranno da me giudizi e orientamenti di parte, e neppure programmi per il governo del paese, per la soluzione dei suoi problemi, che spetta alle forze politiche e ai candidati prospettare agli elettori.
Muoverò piuttosto dal bisogno che avverto di una considerazione più attenta e partecipe della realtà del paese, e di una visione di quel che vorremmo esso diventasse nei prossimi anni.

Parlo innanzitutto di una realtà sociale duramente segnata dalle conseguenze della crisi con cui da quattro anni ci si confronta su scala mondiale, in Europa e in particolar modo in Italia. Da noi la crisi generale, ancora nel 2012, si è tradotta in crisi di aziende medie e grandi (e talvolta, dell’economia di un’intera regione, come ho constatato da vicino in Sardegna), si è tradotta in cancellazione di piccole imprese e di posti di lavoro, in aumento della Cassa Integrazione e della disoccupazione, in ulteriore aggravamento della difficoltà a trovare lavoro per chi l’ha perduto e per i giovani che lo cercano. Per effetto di tutto ciò, e per il peso delle imposte da pagare, per l’aumento del costo di beni primari e servizi essenziali, “è aumentata l’incidenza della povertà tra le famiglie” – ci dice l’Istituto Nazionale di Statistica – specie “quelle in cui convivono più generazioni…. Complessivamente sono quasi due milioni i minori che vivono in famiglie relativamente povere, il 70 per cento dei quali è residente al Sud”.Ricevo d’altronde lettere da persone che mi dicono dell’impossibilità di vivere con una pensione minima dell’INPS, o del calvario della vana ricerca di un lavoro se ci si ritrova disoccupato a 40 anni.

Ma al di là delle situazioni più pesanti e dei casi estremi, dobbiamo parlare non più di “disagio sociale”, ma come in altri momenti storici, di una vera e propria “questione sociale” da porre al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica. E prima ancora di indicare risposte, come tocca fare a quanti ne hanno la responsabilità, è una questione sociale, e sono situazioni gravi di persone e di famiglie, che bisogna sentire nel profondo della nostra coscienza e di cui ci si deve fare e mostrare umanamente partecipi. La politica, soprattutto, non può affermare il suo ruolo se le manca questo sentimento, questa capacità di condivisione umana e morale. Ciò non significa, naturalmente, ignorare le condizioni obbiettive e i limiti in cui si può agire – oggi, in Italia e nel quadro europeo e mondiale – per superare fenomeni che stanno corrodendo la coesione sociale.

Scelte di governo dettate dalla necessità di ridurre il nostro massiccio debito pubblico obbligano i cittadini a sacrifici, per una parte di essi certamente pesanti, e inevitabilmente contribuiscono a provocare recessione. Ma nessuno può negare quella necessità : è toccato anche a me ribadirlo molte volte. Guai se non si fosse compiuto lo sforzo che abbiamo in tempi recenti più decisamente affrontato : pagare gli interessi sul nostro debito pubblico ci costa attualmente – attenzione a questa cifra – più di 85 miliardi di euro all’anno, e se questo enorme costo potrà nel 2013 e nel 2014 non aumentare ma diminuire, è grazie alla volontà seria dimostrata di portare in pareggio il rapporto tra entrate e spese dello Stato, e di abbattere decisamente l’indebitamento. C’è stato cioè un ritorno di fiducia nell’Italia, hanno avuto successo le nuove emissioni di Buoni del Tesoro, si è ridotto il famoso “spread” che da qualche anno è entrato nelle nostre preoccupazioni quotidiane.

E’ dunque entro questi limiti che si può agire per affrontare le situazioni sociali più gravi. Lo si può e lo si deve fare distribuendo meglio, subito, i pesi dello sforzo di risanamento indispensabile, definendo in modo meno indiscriminato e automatico sia gli inasprimenti fiscali sia i tagli alla spesa pubblica, che va, in ogni settore e con rigore, liberata da sprechi e razionalizzata. Decisivo è, nello stesso tempo e più in prospettiva, far ripartire l’economia e l’occupazione non solo nel Centro-Nord ma anche nel Mezzogiorno ; cosa – quest’ultima – di cui poco ci si fa carico e perfino poco si parla nei confronti e negl’impegni per il governo del paese.Uscire dalla recessione, rilanciare l’economia, è possibile per noi solo insieme con l’Europa, portando in sede europea una più forte spinta e credibili proposte per una maggiore integrazione, corresponsabilità e solidarietà nel portare avanti politiche capaci di promuovere realmente, su basi sostenibili, sviluppo, lavoro, giustizia sociale. L’Italia non è un paese che possa fare, nel concerto europeo, da passivo esecutore ; è tra i paesi che hanno fondato e costruito l’Europa unita, e ha titoli e responsabilità per essere protagonista di un futuro di integrazione e democrazia federale, che è condizione per contare ancora, tutti insieme, nel mondo che è cambiato e che cambia.Guardiamo dunque a questa prospettiva. Sta per iniziare un anno ancora carico di difficoltà. Non ci nascondiamo la durezza delle prove da affrontare, ma abbiamo forti ragioni di fiducia negli italiani e nell’Italia. Più di un anno fa dissi a Rimini : si è nel passato parlato troppo poco “il linguaggio della verità”. Ma avere e dare fiducia “non significa alimentare illusioni, minimizzare o sdrammatizzare” i dati più critici della realtà : si recupera fiducia “guardandovi con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno”.

Ebbene, penso che una maturazione in questo senso ci sia stata, specialmente tra i giovani. Sono loro che hanno più motivi per essere aspramente polemici, nel prendere atto realisticamente di pesanti errori e ritardi, scelte sbagliate e riforme mancate, fino all’insorgere di quel groviglio ed intreccio di nodi irrisolti che pesa sull’avvenire delle giovani generazioni. I giovani hanno dunque ragioni da vendere nei confronti dei partiti e dei governi per vicende degli ultimi decenni, anche se da un lato sarebbe consigliabile non fare di tutte le erbe un fascio e se dall’altro si dovrebbero chiamare in causa responsabilità delle classi dirigenti nel loro complesso e non solo dei soggetti politici.

E che dire poi dell’indignazione che suscitano la corruzione in tante sfere della vita pubblica e della società, una perfino spudorata evasione fiscale o il persistere di privilegi e di abusi – nella gestione di ruoli politici ed incarichi pubblici – cui solo di recente si sta ponendo freno anche attraverso controlli sull’esercizio delle autonomie regionali e locali?Importante è che soprattutto tra i giovani si manifesti, insieme con la polemica e l’indignazione, la voglia di reagire, la volontà di partecipare a un moto di cambiamento e di aprirsi delle strade. Perché in fondo quel che si chiede è che si offrano ai giovani delle opportunità, ponendo fine alla vecchia pratica delle promesse o delle offerte per canali personalistici e clientelari. E opportunità bisogna offrire a quanti hanno consapevolezza e voglia di camminare con le loro gambe : bisogna offrirle soprattutto attraverso politiche pubbliche di istruzione e formazione rispondenti alle tendenze e alle esigenze di un più avanzato sviluppo economico e civile.
Prospettare una visione per il futuro delle giovani generazioni e del paese è importante fin da ora, senza limitarsi ad attendere che nella seconda metà del 2013 inizi una ripresa della crescita in Italia e adoperandosi perché si concretizzi e s’irrobustisca.
Ritengo si debba puntare a una visione innanzitutto unitaria, che abbracci l’intero paese, contando sulla capacità di tutte le forze valide del Mezzogiorno di liberarsi dalla tendenza all’assistenzialismo, dai particolarismi e dall’inefficienza di cui è rimasta assurdamente vittima la gestione dei fondi europei.
Più in generale, una rinnovata visione dello sviluppo economico non può eludere il problema del crescere delle diseguaglianze sociali. Si riconosce ormai, ben oltre vecchi confini ideologici, che esso è divenuto fattore di crisi e ostacolo alla crescita proprio nelle economie avanzate. Porre in primo piano quel problema diventa sempre più decisivo.
Nello stesso tempo, in momenti impegnativi di scelta come quello della imminente competizione elettorale è giusto guardare all’Italia che vorremmo nella pienezza dei suoi valori civili e culturali. E quindi come paese solidale che sappia aver cura dei soggetti più deboli, garantendoli dal timore della malattia e dell’isolamento, che sappia accogliere chi arriva in Italia per cercare protezione da profugo o lavoro da immigrato e offrendo l’apporto di nuove risorse umane per il nostro sviluppo. Paese, quindi, l’Italia, da far crescere aperto e inclusivo : già un anno fa, avevamo 420 mila minori extracomunitari nati in Italia – è concepibile che, dopo essere cresciuti ed essersi formati qui, restino stranieri in Italia? E’ concepibile che profughi cui è stato riconosciuto l’asilo vengano abbandonati nelle condizioni che un grande giornale internazionale ha giorni fa – amaramente per noi – documentato e denunciato?

Ripresa e rilancio dell’economia e avanzamento civile del paese non possono separarsi. Abbiamo norme e forze dello Stato seriamente dedicate alla lotta contro la criminalità organizzata, piaga gravissima non solo nel Mezzogiorno : ma occorre portare a fondo questo impegno facendo leva sull’apporto vigoroso di energie della società civile per spazzare via ogni connivenza e passività.Stiamo facendo, si deve dirlo, passi avanti nel campo dei rapporti e dei diritti civili. Così con la legge che ha sancito l’equiparazione tra i figli nati all’interno e al di fuori del matrimonio, e segnalato esigenze di ulteriore adeguamento del diritto di famiglia. O con le nuove normative di questi anni per contrastare persecuzioni e violenze contro le donne. Ho appena firmato la legge di ratifica della convenzione internazionale rivolta anche a combattere la violenza domestica: ma è impressionante, e richiede ancora ben altro, lo stillicidio di barbare uccisioni di donne nel nostro paese.

Più che mai dato persistente di inciviltà da sradicare in Italia rimane la realtà angosciosa delle carceri, essendo persino mancata l’adozione finale di una legge che avrebbe potuto almeno alleviarla. Saluto, tuttavia, con compiacimento il fatto che per iniziativa della Commissione parlamentare istituita in Senato si stia procedendo alla chiusura – cominciando dalla Sicilia – degli Ospedali psichiatrici giudiziari, autentico orrore indegno di un paese appena civile.

Ponte decisivo tra sviluppo economico e avanzamento civile è la valorizzazione, in tutti i suoi aspetti – a partire dal patrimonio naturale ed artistico – della risorsa cultura di cui è singolarmente ricca l’Italia. E’ stato un tema su cui mi sono costantemente speso in questi anni. Apprezzo i buoni propositi che ora si manifestano a questo riguardo, ma non dimentico le sordità e le difficoltà in cui mi sono imbattuto in questi anni a tutti i livelli. C’è qui un punto non secondario della riflessione e del cambiamento da portare avanti.Vorrei tornare, ma non ne ho il tempo – e quindi li richiamo solo per memoria – anche su altri motivi di mio costante impegno durante il settennato. La sicurezza sui luoghi di lavoro, come parte di una strategia di valorizzazione del lavoro, che è condizione anche per il successo di intese volte a elevare la produttività e competitività del nostro sistema economico. O il ruolo del capitale umano di cui disponiamo, e le sue potenzialità su cui ho insistito guardando soprattutto a risorse scarsamente impiegate o non messe in condizione di esprimersi pienamente. E ancora una volta cito l’esempio di ricercatori, in particolare donne e di giovane età, che hanno dato di recente prove straordinarie in centri di ricerca europei come il CERN di Ginevra o l’ESTEC dell’Aja o, con scarsi mezzi e molte difficoltà burocratiche, in Istituti di ricerca nazionali. E qui non posso non rivolgere un pensiero commosso e riconoscente alla grande figura di Rita Levi Montalcini, che tanto ha rappresentato per la causa della scienza, dell’affermazione delle donne, della libertà e della democrazia.

In conclusione, mi auguro che molte questioni da me toccate e soprattutto il senso di un’attenzione consapevole e non formale alle realtà e alle attese sociali e civili del paese, trovino posto nella competizione elettorale. Mi attendo che ci sia senso del limite e della misura nei confronti e nelle polemiche, evitando contrapposizioni distruttive e reciproche invettive. In special modo su tematiche cruciali ancora eluse in questa legislatura – riforme dell’ordinamento costituzionale, riforma della giustizia – non si può dimenticare che saranno necessari nel nuovo Parlamento sforzi convergenti, contributi responsabili alla ricerca di intese, come in tutti i paesi democratici quando si tratti di ridefinire regole e assetti istituzionali.
Non si è, con mio grave rammarico, saputo o voluto riformare la legge elettorale ; per i partiti, per tutte le formazioni politiche, la prova d’appello è ora quella della qualità delle liste. Sono certo che gli elettori ne terranno il massimo conto.

Al loro giudizio si presenteranno anche nuove offerte, di liste e raggruppamenti che si vanno definendo. L’afflusso, attraverso tutti i canali, preesistenti e nuovi, di energie finora non rivoltesi all’impegno politico può risultare vitale per rinnovare e arricchire la nostra democrazia, dare prestigio e incisività alla rappresentanza parlamentare. Il voto del 24-25 febbraio interverrà a indicare quali posizioni siano maggiormente condivise e debbano guidare il governo che si formerà e otterrà la fiducia delle Camere.
Il senatore Monti ha compiuto una libera scelta di iniziativa programmatica e di impegno politico. Egli non poteva candidarsi al Parlamento, facendone già parte come senatore a vita. Poteva, e l’ha fatto – non è il primo caso nella nostra storia recente – patrocinare, dopo aver presieduto un governo tecnico, una nuova entità politico-elettorale, che prenderà parte alla competizione al pari degli altri schieramenti. D’altronde non c’è nel nostro ordinamento costituzionale l’elezione diretta del primo ministro, del capo del governo.

Il Presidente del Consiglio dimissionario è tenuto – secondo una prassi consolidata – ad assicurare entro limiti ben definiti la gestione degli affari correnti, e ad attuare leggi e deleghe già approvate dal Parlamento, nel solco delle scelte sancite con la fiducia dalle diverse forze politiche che sostenevano il suo governo. Il Ministro dell’Interno garantirà con assoluta imparzialità il corretto svolgimento del procedimento elettorale.
Le elezioni parlamentari sono per eccellenza il momento della politica. Un grande intellettuale e studioso italiano del Novecento, Benedetto Croce, disse, all’indomani della caduta del fascismo : “Senza politica, nessun proposito, per nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione”. E ancor prima aveva scritto, guardando all’ormai vicina rinascita della democrazia : “i partiti politici in avvenire si combatteranno a viso scoperto e lealmente… e nel bene dell’Italia troveranno di volta in volta il limite oltre il quale non deve spingersi la loro discordia”. L’insegnamento è anche oggi ben chiaro : il rifiuto o il disprezzo della politica non porta da nessuna parte, è pura negatività e sterilità. La politica non deve però ridursi a conflitto cieco o mera contesa per il potere, senza rispetto per il bene comune e senza qualità morale.

Con queste parole, mi congedo da voi. Ho per ormai quasi sette anni assolto il mio compito – credo di poterlo dire – con scrupolo, dedizione e rigore. Ringrazio dal profondo del cuore tutte le italiane e gli italiani, di ogni generazione, di ogni regione, e di ogni tendenza politica, che mi hanno fatto sentire il loro affetto e il loro sostegno.
A voi tutti, buon 2013!

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Grazie

Ringrazio le donne e gli uomini che hanno votato alle primarie, chi ha partecipato alla realizzazione di questo meraviglioso esercizio democratico, chi in questi pochi giorni di campagna elettorale mi ha sostenuto, chi ha creduto di sentirsi rappresentato dalla mia candidatura, chi ha fatto domande per avere piena consapevolezza di compiere la giusta scelta con il proprio voto.
Ringrazio il Partito Democratico per avermi dato l’occasione di rappresentare i miei concittadini in Parlamento, di aver riconosciuto in me il valore per ricoprire l’incarico di capogruppo in Commissione Cultura, Scienza e Istruzione alla Camera e di avermi sostenuto nell’elezione a Presidente.
Tornerò a svolgere il lavoro di ricercatrice universitaria con passione ed entusiasmo, e con la consapevolezza di aver fatto quanto possibile per restituire all’università italiana, alla ricerca e all’istruzione la dignità che meritano.
Tornerò a Carpi e dai miei concittadini, dopo aver combattuto perché i nostri territori colpiti dal sisma del maggio scorso non fossero lasciati soli da un governo che troppo spesso non è stato in grado di capire il valore di quanto è schiantato insieme al terremoto.
Continuerò, da cittadina ed elettrice, a compiere ogni sforzo perché la politica viva di trasparenza e democrazia.

Montalcini: Ghizzoni, miglior tributo è portare avanti il suo impegno

“Oggi l’Italia perde una donna e una scienziata straordinaria, la sua vita resterà un esempio per le generazioni future – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, scienza e istruzione della Camera dei Deputati, alla notizia della morta di Rita Levi Montalcini – Montalcini ha saputo coniugare l’amore per la medicina, la passione civile e una profonda umanità. Sono molti i motivi per cui il nostro Paese dovrà esserle grato – spiega Ghizzoni – e non solo scientifici, ma anche morali e sociali. La sua vita è un esempio di coraggio: ha visto l’orrore del nazifascismo e le leggi razziali, ma la sua tenacia l’ha portata a divenire una scienziata di rilievo mondiale, una paladina del diritto all’istruzione, in particolare per le giovani donne- una senatrice attenta e impegnata nella difesa della democrazia. Il miglior tributo che l’Italia potrà darle è – conclude la presidente Ghizzoni – sostenere la ricerca scientifica e garantire l’accesso all’istruzione superiore anche per i giovani di talento e senza mezzi, sempre con l’impegno di portare avanti i valori della democrazia e della moralità nelle istituzioni.”

“Morta per stupro”, di Claudia Fusani

Armati di candele, pennarelli e cartelli hanno marciato sull’India in un silenzio che spacca le orecchie e le coscienze. Davanti a un governo incapace e sordo e a una polizia che ieri ha avuto l’ordine di non usare gas, bastoni e idranti. Hanno marciato uniti, da New Delhi a Bangalore, da Kolkota a Mumbay fino a Chennai e poi urlato tutti insieme: «La tua battaglia è ora la battaglia dell’India», «Vogliamo giustizia e la vogliamo subito». Decine di migliaia di ragazze e ragazzi mescolati in una sfida che sanno essere non di genere ma di civiltà e democrazia; donne e uomini, a volte in file separate, ma fianco a fianco: sono loro la nuova borghesia (300 milioni su una popolazione di un miliardo e 200 mila) cresciuta in vent’anni di straordinario progresso economico, sono loro che ieri sera hanno risposto all’appello. Una veglia oceanica e pacifica che continuerà fino funerali della studentessa di 23 anni stuprata da una branco di sei ragazzi la sera del 16 dicembre e morta in un ospedale specializzato di Singapore dove era stata trasportata mercoledì nell’estremo tentativo di salvarla. La storia di Nirbhaya così la chiamano i giornali è già un pezzo di storia di questo paese. «La tua morte scuote le nostre coscienze», «India, ultima chiamata», «Se non ci svegliamo ora non lo facciamo più», hanno scritto i ragazzi sui cartelli.
«VERGOGNA NAZIONALE»
Se non ora, quando? Quando dire basta a una «vergogna nazionale» con numeri da brivido? Eccoli: 24 mila casi di stupro denunciati nel 2011 (dieci volte di più rispetto al 1971), di cui 568 solo a Delhi; una donna uccisa ogni ora per impossessarsi della sua dote (dati Ufficio Nazionale Indiano); negli ultimi trent’anni, 12 milioni di bambine sottoposte ad aborto selettivo per evitare la nascita di femmine; il 10,6% delle vittime di stupro con meno di 14 anni; il 94% di chi subisce violenza conosce il suo carnefice. E poi la cronaca degli ultimi tre giorni: una ragazza stuprata tre giorni fa proprio a Delhi; un’altra che s’è tolta la vita in Punjab perché quando è andata a denunciare la violenza la polizia le ha consigliato di sposare chi aveva abusato di lei. Le veglie indiane dicono basta a tutto questo.
«Light a candle in her memory», accendi una candela per ricordarla, è stato fin da ieri mattina il passaparola sui social network, megafoni e anche registi della protesta. Distese di candele poco dopo il tramonto nelle grandi città simbolo della nuova India, al parco Jantar Mantar di New Delhi, al Freedom Park di Bangalore, alla Juhu Beach di Mumbay e al memoriale di Gandhi a Lucknow, capitale di Uttar Pradesh. Il governo di Sonia Gandhi, capo del partito del Congresso che ha la maggioranza in parlamento, ha avuto paura. Tanta. Paura nelle scorse settimane quando ha represso le manifestazioni pacifiche all’India Gate, il distretto politico della capitale, che invece andavano ascoltate. Paura ieri mattina quando è partita la chiamata sui social network e sulle tv all news. Ha vietato i prati e i viali intorno a India Gate (in serata aperti di nuovo). Ha chiuso molte stazioni della metropolitana. Ha sbagliato di nuovo. E sembrano arrivare troppo tardi le parole di Sonia: «Vi assicuro che abbiamo sentito la vostra voce. Questa morte non sarà vana. La figlia dell’India avrà giustizia». In queste due settimane lei, il primo ministro Singh e la maggior parte del parlamento sono rimasti passivi, incapaci pare di comunicare con la parte più giovane del paese dove vivono 800 milioni di under 30, pronti solo ad ordinare alla polizia di caricare i manifestanti che avevano bloccato la capitale. Quando ieri Shiela Diksheet, capo del governo di Dehli, parlamentare e nota attivista femminista, è andata tra i manifestanti a Jantar Mantar per mettersi dalla parte delle ragioni della protesta, è stata cacciata: «Giù le mani da questa figlia dell’India. No a speculazioni politiche su questa morte».
Il paese che per primo nel 1966 ha mandato al potere una donna che si chiamava Indira Gandhi, si scopre essere il meno sicuro per le donne e tra i più misogini. «Vogliamo camminare nelle strade senza dover abbassare lo sguardo» dicono le ragazze con le candele accese. «Vogliamo pene più severe e tribunali speciali per questo tipo di reati». Adesso il governo parla di commissioni d’inchiesta, di pubblicare online le liste degli violentatori già noti, di usare poliziotte per i reati dove le vittime sono donne e bambine. Il 2 gennaio la polizia presenterà un atto di accusa lungo mille pagine contro i sei arrestati, ora accusati di omicidio. Rischiano la pena di morte. Sono originari di uno slum, il Ravi Dass Camp, a sud di Delhi. La gente ora grida «hang them», impiccateli. È una rabbia che non si può fermare. Un fallimento prima di tutto politico.
L’Unità 30.12.12

Bersani: “Monti sbaglia, lo sfido”, di Goffredo De Marchis

Una sfida aperta a Monti, che coinvolge anche i collaboratori e i ministri del premier, ma punta al “bersaglio grosso”, ossia al Professore. Pier Luigi Bersani non nasconde più l`irritazione per le prime mosse della lista di centro e avviala campagna elettorale attaccando. «Non mi aspettavo uno scenario simile, non possiamo affidarci di nuovo a leader solitari. Monti deve dirci con chi sta, quali scelte intende fare, cosa pensa sui diritti civili. Non bastano un`agenda e un simbolo».
A questo punto solo Giorgio Napolitano resta una figura di riferimento. E il Pd spera che i suoi numerosi richiami «alla correttezza istituzionale» vengano ancora ascoltati. «Questa roba del centro nasce nel chiuso di una stanza… È una cosa che parte già vecchia, che ricorda riti superati». L`offensiva coincide con le primarie per la scelta dei parlamentari di questo week end. Possono servire a marcare la differenza: da una parte il vertice segreto in un convento, dall`altra la partecipazione in strada. «Così si combatte il degrado della politica», dice il segretario. L`idea di un incontro con i moderati non è stata affatto abbandonata. Il timore però di «una lista che sta nel mezzo» e si dichiara alternativa al Pd come al Pdl lascia immaginare scenari inquietanti per Bersani. «Restiamo aperti a una collaborazione con il centro, ma deve essere chiaro che la destra è fuori da qualsiasi iniziativa di governo». Invece i passi iniziali della lista di Monti richiamano alcune fasi di una stagione da cancellare. Il personalismo travolge tutto: regole,fair play, stile. Questo è il pericolo. «Io vedo il rischio che ci si affidi ancora a criteri che hanno già portato al fallimento». La sfida viene presa alla larga, ma il messaggio è chiaro come il destinatario: il premier. «Monti adesso deve separare le funzioni dello stato dall`attività politica del suo partito». Il Pd mette nel mirino il ministro Annam aria Cancellieri, il risanatore Enrico Bondi e Federico Toniato, il principale collaboratore del premier. Sono loro la prova di come il Professore affronti «il piano della correttezza istituzionale un tanto al chilo», «di una clamorosa caduta di stile», di «una sbavatura delle regole».
Parole pesanti che in qualche modo Bersani ha fatto arrivare alle orecchie del presidente del consiglio. L`avvertimento colpisce prima di tutto il ministro dell`Interno, fino a ieri mattina candidata sicura del centro montiano, naturalmente con un ruolo da capolista. La Cancellieri aveva già accettato, ma è stata fermata dai rilievi del Pd. Il titolare del Viminale gestisce la fase del voto è una figura fondamentale nei giorni delle elezioni: può un prefetto scelto per il suo profilo tecnico buttarsi nella mischia all`improvviso? È una “minacciosa” domanda che ha fatto breccia nei palazzi delle istituzioni. Nel tardo pomeriggio infatti il ministero risolve il problema con un passo indietro: «La possibile candidatura della Cancellieri è una notizia priva di ogni fondamento».
Nella «confusione istituzionale» alcuni punti fermi vanno preservati. E se è vero che il tecnico Dini, come Monti ricorda spesso, si fece politico fondando un partito, il ministro dell`Interno di quel governo, Giovanni Coronas, non abbracciò nessuna lista. La Cancellieri dunque non è “candidablle”. E il responsabile del governo per la spending review e commissario della sanità del Lazio Bondi è chiamato, secondo i democratici, a distinguere le sue funzioni. Quella istituzionale, che lo rende in sostanza un “ragioniere generale dello stato aggiunto”, e la nuova veste di “tagliatore di teste” e “consulente” di un partito nel molo più politico che ci sia: la formazione delle liste. Che nella vecchia Dc, non a caso, veniva affidata alla direzione ovvero al bilancino delle correnti e nel Pci al politicizzato Ufficio Quadri.
«L`impressione è che Monti non comprenda, o fa finta, la ferita istituzionale, il vulnus di certi comportamenti». Anche la presenza di Toniato al convento appare «sconveniente». L'”ombra” di Monti infatti non è un giovane assistente personale del premier, ricordano al Pd, ricopre la carica di vice segretario generale di palazzo Chigi. È un funzionario dello Stato e ora gestisce la nascita di una formazione politica.
Non sono attacchi pubblici. Bersani ci tiene a marcare la differenza con Berlusconi e la sua deriva populista che oggi prende di mira il premier. Ma il «primo partito del Paese» vuole sapere da Monti dove intende portare la sua scialuppa. «Per il cambiamento, tutte le forze democratiche, liberali e moderate devono sentirsi impegnate a una fase costituente. Solo cosi si affronta la situazione difficile del paese. Si può affrontare solo se le forze progressiste e di centro possono collaborare». Dunque il segretario non ha cambiato opinione: «Non si governa con il 51 per cento».
Ma il centro si muove nella stessa direzione? È questo che vogliono «Fini e Casini, il vecchio che si mette sotto l`ombrello del Professore»? Per saperlo, per snidare tutto quello che si agita sotto l`insegna dell`Agenda del premier, Bersani ha deciso di abbandonare il fioretto.
La Repubblica 30.12.12

“Agenda errori e omissioni”, di Guglielmo Epifani

Si parla molto dell’Agenda Monti. L’interesse è legato alla scelta del premier di stare in campo attivamente nella vita politica, dopo l’esperienza compiuta alla guida del governo.
I primi giudizi espressi sono in realtà molto vari, parlando del merito dei punti programmatici del documento. Colpisce ad esempio la durezza delle critiche di Giavazzi e Alesina che criticano l’eccesso di statalismo e il permanere di un peso troppo grande del perimetro della spesa pubblica, il che impedirebbe una sostanziale riduzione della pressione fiscale. La destra berlusconiana accentua sulla stessa falsariga i propri giudizi, attaccando la propensione fiscale dell’Agenda e l’introduzione della patrimoniale, oltreché lamentando l’assenza di più forti politiche di sostegno alla domanda e ai consumi. Altri osservatori sono più prudenti, apprezzando questo o quel contenuto del documento e la serietà della prova di governo messa in campo in condizioni difficilissime, e quindi collegando il giudizio su ciò che è stato fatto con le intenzioni che vengono espresse. Molto seriamente il giornale di Confindustria mette a confronto le proposte su tutti i temi che provengono dai tre schieramenti più grandi che si preparano alle elezioni, e quindi le proposte del Pd (i dieci punti di Bersani) e quelle del Pdl, oltre naturalmente i contenuti dell’Agenda.
Da sinistra le critiche cambiano di segno e riguardano sia problemi rilevanti di metodo, il rapporto tra la costruzione dell’Agenda, fortemente elitario, e il bisogno di ascolto del Paese reale, sia singoli contenuti, sia soprattutto quello che manca, con in testa la questione del Mezzogiorno, quella dei diritti, quella democratica. Tutto questo conferma una prima rilevante affermazione, relativa al carattere di parte del documento. Al di là di ciò su cui si può convenire e quello su cui è necessario dissentire, la proposta dell’Agenda di per sé segna l’identità e la definizione di uno schieramento che si confronta con altre e spesso più complete e mature ipotesi di programmi e piattaforme di governo. Punto, questo, che in democrazia è assolutamente necessario per dare un completo e responsabile diritto-dovere di decisione al corpo elettorale, con l’inevitabile corollario che l’esito del voto segnerà in misura grande anche la legittimazione dei programmi di governo in competizione. Quello che sui mezzi di informazione viene vissuto come un duello tra leaders e schieramenti in realtà è insieme una competizione tra programmi di governo. L’acredine con cui il centrodestra attacca i contenuti dell’Agenda è onestamente imbarazzante. In un sol colpo ci si dimentica dei guasti prodotti dai governi Berlusconi in questi lunghi anni, del modo assurdo con cui è stata affrontata una crisi di queste proporzioni, del punto di non ritorno a cui il Paese era stato portato. E ovviamente si trasferiscono responsabilità ed errori sugli altri, laGermania, l’Europa, l’euro, i poteri forti e le banche, riproponendo in chiave stancamente populistica tutto il carnet delle promesse fiscali immaginabili. Non c’è latitanza di memoria possibile in grado di colmare lo scarto tra quello che oggi si dice e quello che è stato fatto, né l’uso di apparizioni televisive il più spregiudicato possibile. C’è un hic Rhodus anche naturalmente per Berlusconi e la sua propaganda.
Detto questo, l’Agenda presenta grandi e troppe omissioni su temi di primaria importanza, e in molti casi appare deludente. Manca ad esempio una proposta forte per superare il divario tra le aree del Paese, manca in temi di diritti di cittadinanza il riconoscimento del diritto per i figli di migranti nati in Italia, manca in generale una scelta chiara sui diritti civili. Su altri aspetti, come sulla scuola e la formazione, sulla ricerca e la sanità, il testo propone titoli ancora generici, e in materia di produttività e politiche di sostegno alle imprese e agli investimenti scelte che sono al di sotto della pesantezza della situazione, come nel caso della inoccupazione dei giovani e della tutela per chi perde il lavoro.
In materia di politiche del lavoro si ripropongono ricette già formulate, e inattuate, proprio perché troppo rigide, mentre sulla contrattazione si insiste a intervenire direttamente invece di favorire una responsabile e libera ricerca di soluzioni tra le parti sociali, rimuovendo quanto fatto dal governo Berlusconi, e trovando una soluzione al tema della verifica della rappresentanza e della democrazia sindacale. Un’Agenda, per quanto ci sia molto di giornalistico in questa espressione, è per definizione anche un terreno di confronto. Bene quindi che ci sia, meglio ancora se chi la propone si apre al confronto con i tanti punti di vista che sono in campo, spesso da più tempo e con argomenti che non andrebbero etichettati ma solo rispettati quando mossi da preoccupazioni vere e volontà di arrestare il decadimento del Paese partendo dal valore primario della coesione sociale.
L’Unità 30.12.12